sabato 28 febbraio 2009

Così va in frantumi anche il santino della Betancourt

Nessuno di noi è in grado di dire come si comporterebbe se, per le proprie idee, finisse imprigionato, sequestrato, torturato. Siamo esseri umani, abbiamo i nostri limiti e le nostre miserie e tuttavia ha ragione Jean Maspero, che è stato uno degli editori francesi più rivoluzionari e più libertari del secolo scorso, a scrivere nella propria autobiografia, Le api e le vespe, che il punto non è questo, la vigliaccheria e/o l’eroismo non si misurano dopo, ma prima. «Cedere non toglie niente all’eroismo di chi vi si abbandona. I veri, i soli vigliacchi sono quelli che hanno vissuto la loro vita in modo da non dovere mai trovarsi nella situazione di essere torturati», ovvero umiliati, offesi, ridotti in catene.
È per questo che il ritratto negativo di Ingrid Betancourt che emerge dal libro Out of captivity scritto da alcuni suoi compagni di prigionia, sposta di poco il giudizio di cui sopra. Per Keith Stansell, Thomas Howes e Marc Gonsalves che per cinque anni divisero con lei lo stesso orrore, Ingrid si rivela «una donna molto dura», arrogante, pronta a sottrarre il cibo e ad accaparrarsi il miglior giaciglio, «la padrona del gulag», una che «ha tirato scemi anche i guerriglieri» e, allo stesso tempo, una il cui modo di comportarsi nei confronti dei propri compagni di sventura era peggiore di quello usato «dagli aguzzini».
C’è di più. Secondo i tre marine americani detenuti assieme alla Betancourt dai guerriglieri delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ci fu anche da parte sua il tentativo di convincere quest’ultimi che non si trattava di militari, ma di «agenti della Cia», il modo più rapido forse di spedirli davanti a un plotone d’esecuzione. È una «spiata» che tuttavia un altro compagno di sventura, e di tentata fuga, il suo connazionale Luis Eladio Perez, nega, aggiungendo di non averla mai vista durante l’intera cattività, sei anni e sei mesi, «piangere o lamentarsi».
E va anche detto che suona un po’ stridente questo j’accuse da parte di soldati di professione, abituati cioè al rischio, allenati psicologicamente e fisicamente alle privazioni e alle pressioni psicologiche, nei confronti di una signora borghese, candidata alle presidenziali del proprio Paese, privata dall’oggi al domani di qualsiasi riferimento a lei noto e a lei caro.
Il punto dunque, è un altro e vale la pena ragionarci sopra senza iattanza, ma con sensibilità. È l’immagine-santino che nel tempo aveva finito con il prendere il posto della realtà, era l’idea di un premio Nobel per la pace che con la pace aveva poco a che vedere, era la trasformazione di una che stava pagando per le proprie idee in una sorta di agiografia laica, di Maria Goretti della politica, tenera, dolce, pronta al sacrificio e naturalmente al perdono. Mentre la Betancourt era tutt’altra cosa, come la prigionia stessa ha dimostrato, testarda, volitiva, pronta a cercare di scappare ogni volta che le si apriva uno spiraglio, pronta a far valere il suo status di prigioniero politico per eccellenza, decisa a mantenersi distante dagli altri reclusi perché questo era l’unico modo per meglio difendere la propria unicità, e pronta anche a patteggiare con i propri carcerieri se questo le permetteva di tirare avanti, di erodere un po’ dell’altrui potere.
A forza di andare dietro a immagini consolatorie, politicamente corrette, buone per definizione, quelle che poi servono nei talkshow al presentatore di turno per definire il mascalzone di turno «una bella persona», abbiamo dimenticato che siamo impasti di bene e di male, condizionati dalla storia e dalle contingenze, forti e deboli a seconda di tante e tali cose di cui abbiamo perso il conto, e che si ripresentano nel momento delle scelte difficili, delle decisioni estreme. In quello che è il Guerra e pace del Novecento, il romanzo Vita e destino di Vassilij Grossman, riflessione amara e bruciante sul male, l’autore si interroga sulla «remissività» della natura umana nei tragici anni Trenta e Quaranta di quel secolo, la remissività figlia della violenza dei totalitarismi, quando «per sopravvivere, l’istinto scende a patti con la coscienza» e «tutto, ogni cosa, generava un’obbedienza succube: la disperazione come la speranza». E non sorprende che il russo Grossman, uno che da vivo non ebbe nemmeno la gioia di vedere pubblicato quel libro, inviso al Cremlino perché «pericoloso», la pensasse come il francese Maspero citato all’inizio: «Riflettiamoci tutti, ma in primo luogo quanti pretendono di insegnare come si dovrebbe reagire in condizioni che, per un caso fortunato, costoro - insulsi maestri - non hanno conosciuto». È anche per questo che il santino Betancourt va in frantumi, i ritratti e le interviste giulebbose, il non chiedere mai quanta animalità occorra per non soccombere, ma far sempre finta che sia il Bene a trionfare di per sé e la salvezza, le acque del mar Rosso si aprano davanti alla pacatezza, alla modestia, al ragionamento.
Avendo derubricato il male a Male assoluto, fatichiamo a capire quella che Hanna Harendt aveva definito la «banalità del male», parente stretta della «banalità del bene», una sorta di ottusità delle coscienze, che per inerzia scivola ora da una parte ora dall’altra e ci può far diventare vittime o carnefici e spesso albergare l’anima dei primi nel corpo dei secondi. Preferiamo insistere sull’effetto consolatorio, sulla strategia dei buoni sentimenti e ovviamente non riusciamo più a capire perché Caino possa aver ammazzato Abele, né perché l’angelo Betancourt si sia potuta comportare, se necessario, da carogna.
di Stenio Solinas

Trentaquattro anni fa l'assassinio di Mantakas inaugurava gli anni di piombo

Il 28 febbraio 1975 l'assassinio dello studente greco Mikis Mantakas, ad opera di un plotone comunista, apriva la serie delle uccisioni da arma da fuoco. L'omicidio avveniva all'ingresso della sezione romana Prati del Msi, tra via Ottaviano e Piazza Risorgimento. Occasione dell'apertura della stagione del piombo era il processo che si stava tenendo nel vicino tribunale di Piazzale Clodio ai tre responsabili identificati della strage di Primavalle in cui, ventuno mesi prima, erano arsi vivi Virgilio e Stefano Mattei, 22 e 8 anni. I giovani missini e i comunisti si erano contesi l'aula del tribunale e i secondi avevano avuto ripetutamente la peggio. Quella mattina si presentarono armati e iniziarono a fare fuoco, senza successo, già nel piazzale. Le forze dell'ordine impedirono l'accesso al palazzo di giustizia e i missini ripiegarono nella sezione Prati. A metà mattinata si verificò un assalto comunista alla sezione; chi si trovava dentro uscì per respingerlo. Fu allora che gli assalitori si aprirono a ventaglio e alcuni di loro fecero fuoco. Mikis Mantakas, 21 anni, iscritto al Fuan, fu colpito alla testa e morì poco dopo. Gli stragisti di Primavalle frattanto vennero trattati con i guanti bianchi dal tribunale, se la cavarono con una condanna risibile e vergognosa di “omicidio preterintenzionale”. Uno di loro, Achille Lollo, rifugiatosi in Brasile dove opera nel clan di Lula, non ha perso occasione successivamente di mostrare che genere di personaggio abietto sia. Ma questa è un'altra storia. Pensiamo invece a ricordare il giovane greco venuto a morire a Roma per la civiltà. Alalà!

mercoledì 25 febbraio 2009

Beffa futurista: Il trans P.D. vuol farsi suora

L’ultima beffa «Fasciofuturista», arriva dai Castelli. Sarà che è carnevale, sarà che sono tempi di identità politiche incerte, sta di fatto che quelli di Casapound hanno pensato bene di diffondere un comunicato tarocco, inoculando nella rete dei media una di quelle storie un po’ splatter che di solito suscitano la famelica curiosità dei programmi di intrattenimento leggero: «Un rappresentante di ceramiche di 45 anni, le sue iniziali sono P.D., ha confessato al parroco la sua omosessualità e il desiderio di diventare donna e farsi suora». Meraviglioso, intrigante, morboso al punto giusto, tutti pronti a interpellare il sociologo e il sessuologo. Peccato che non fosse vero nulla.
Così, le tre agenzie che ieri hanno abboccato all’amo (una incredibilmente anche dopo la smentita!), hanno fatto la gioia dei concorrenti che hanno mangiato la foglia. E l’Adn Kronos si è tolta la soddisfazione di svelare l’arcano: «A Carnevale ogni scherzo vale. Una burla, ben riuscita, è quella che ha messo a punto Casapound che ha tratto in inganno anche qualche organo d’informazione». Dobbiamo confessarvi che incredibilmente noi lo avevamo capito. Non perché siamo particolarmente scaltri, ma perché conosciamo bene lo spirito goliardico degli animatori della rete Casapound, il gusto per la truffa mediatica, l’azione spettacolare: a volte ironica, a volte vagamente squadristica, sempre irriverente e trasgressiva.
E ovviamente il nostro smagatissimo capocronaca - uno che la goliardia della destra la conosce bene - aveva sentito puzza di bruciato, quando aveva letto la spiegazione fornita da Massimo Carletti, portavoce dei casapoundisti dei Castelli: «P.D. ha scelto il mese mariano proprio per la profonda fede che lo contraddistingue in un panorama nichilista povero di virtù e avaro di ideali. Lui - continuava ispirato Carletti - ha molte virtù e un forte ideale cristiano che proprio la Chiesa vorrebbe negare. Come tornerà dal Paese europeo dove effettuerà l’intervento, espletate le pratiche anagrafiche e burocratiche del caso, P.D. non dovrà subire alcun ostracismo che lo ostacoli nel suo sogno: entrare in convento». Ennò, era troppo.
Ed infatti, alle 17.27, Carletti spiega a Omniroma l’intento sarcastico della beffa: «Non pensavamo che la vicenda di P.D. suscitasse tanto clamore - rivela il portavoce di Casapound -, eppure la vicenda era già sotto gli occhi di tutti, almeno da sabato, quando alla fiera di Roma P.D. ha maturato la sua scelta: passare dalla parte della Chiesa, senza se e senza ma». I fasciofuturisti attaccavano: «Non sappiamo se la scelta è maturata per una questione di espiazione di peccati del passato, di sincera e assoluta fede, oppure per l’opportunismo di accomodarsi e affiancarsi alla struttura ecclesiale, che trova sempre un posto per tutti. P.D. per noi. Partito Democratico per tutti gli altri. Il partito che cambia pelle ogni due settimane ha scelto la fede. Scelta confermata anche nel nome del nuovo segretario: quel Franceschini che fa tanto ordine monastico».
Così sarà il caso di compilare un piccolo inventario delle scorribande satiriche-e-non all’attivo dei seguaci della testuggine corazzata (il simbolo delle Case d’Italia) per capire cosa si nasconda dietro questa strategia comunicativa: la prima che ha fatto il giro delle televisioni è stata la devastazione della Casa del Grande Fratello. Non attacco simbolico, ma demolizione pezzo a pezzo, con tanto di documentazione video su You Tube. L’assalto, giustificato con la condanna del consumismo televisivo, trovò una ammiratrice insospettabile in Daniela Santanchè, che invitata a dissociarsi ad Annozero gridò: «Sono meglio i ragazzi di Casapound che assaltano la casa, dei clienti del Billionaire!» (Essendo il locale in questione di sua proprietà, l’affermazione aveva un certo costo). Il secondo atto clamoroso fu l’affissione di un manifesto con una foto di avanguardisti del Ventennio in armi, associato, per voluto contrasto, allo slogan para-pubblicitario, «Sostieni la squadra del cuore». Seguì anche la materializzazione della squadraccia, con tanto di camion d’epoca e lancio di volantini, per le vie di Roma. I Casapoundisti furono meno felpati quando dopo una trasmissione di Chi l’ha visto? sui fatti di piazza Navona (che ha onor del vero non li diffamava affatto) assaltarono - anche qui non metaforicamente - i girelli di via Teulada, introducendosi nella fortezza della Rai (la Sciarelli era già fuori, altrimenti chissà che incontro).
Sempre i ragazzi del Blocco studentesco si schierarono armi in pugno a piazza Navona, durante i giorni dell’Onda, ma stavolta non era uno scherzo. E per il trentennale di Acca Larenzia sfilarono con dei tamburi colorati bianchi e rossi che erano una copia esatta (anche questo lo capirono in pochi) di quelli della Hitlerjugend immortalati da Leni Riefensthal. A Casapound è di casa Graziano Cecchini, il fasciofuturista per eccellenza che tinse di rosso la fontana di Trevi (per criticare la Roma veltroniana), scaricò palle colorate su piazza di Spagna, oscurò Castel Sant’Angelo.
Sempre lì raccoglie successi l’unico vero monologhista di area, «il Paolini nero» Miro Renzaglia: militante duro negli anni di piombo, apprezzato performer gaberiano oggi. Nella casa madre di via Napoleone III, a Roma, l’atrio colorato con il Pantheon degli artisti, dei politici e dei pensatori di riferimento (mica quello di An con Pavarotti e Mogol) ha incantato, a sorpresa, persino Giampiero Mughini: «Beh, c’è Evola, c’è Brasillach, io mi sento a casaaaa!». E molti pensarono a uno scherzo quando si diffuse la notizia che l’ospite di un convegno era l’ex brigatista Valerio Morucci. Invece era vero, «Vengo da nemico», esordì, e la sera si chiuse fra applausi scroscianti. Se cerchi un filo conduttore, in tutto questo, lo trovi nello slogan preferito: «Non conformarti». Casapound non ha avuto successi elettorali (per ora), ma nel cadeverificio della politica virtuale, è riuscita a ritagliarsi uno spazio.
di Luca Telese

lunedì 23 febbraio 2009

Donna Assunta: Fini non sta bene mentalmente

Donna Assunta Almirante è inviperita e nelle sue mire ci sta Gianfranco Fini, ex delfino di Giorgio Almirante. Come è noto, Fini ha detto che non tutti gli stranieri sono criminali. In linea di logica comprensibile, ma vallo a dire a chi ha subito danni da extracomunitari ubriachi e contro legge. Dice donna Assunta: “ha ragione Il Giornale, Fini è ormai maturo per dirigere il Partito Democratico. Parla da comunista, fa il comunista, forse riuscirebbe a risollevare o ad affossare definitivamente quel partito. Certo è che parla da uomo di sinistra tradendo il suo elettorato”. Ma non basta: “io mi chiedo per quale ragione oggi Fini non cambi Paese, se ne vada. Forse non sta bene mentalmente, ha bisogno di cure, è in confusione, non lo so. Mi chiedo se direbbe le stesse cose se un bel giorno quattro ubriachi rumeni gli stuprassero la figlia. Mio marito si rivolta nella tomba a sentire lui e certi altri politici, anzi sta di testa basso e si tappa le orecchie per l’orrore”. Poi analizza il fenomeno emigrazione: “ Fini e chi ragiona come lui sbaglia. I nostri emigrati quando andarono all’estero soffrirono, furono trattati anche male, ma rispettavano le leggi. Questi se ne infischiano, e per giunta quando gli dai lavoro, neppure lo sanno fare”.
Donna Assunta è irrefrenabile: “nonostante Fini, pronto ormai alla bandiera rossa, noi in Italia non abbiamo lavoro e sicurezza per i nostri e dobbiamo pensare agli altri, ora basta. In Italia non devono entrare stranieri, ne abbiamo piene la tasche”.
Le ronde? Sono contrarie alla idea di solidarietà: “duole dirlo, ma sono necessarie davanti ad una giustizia debole. Abbiamo seri problemi di sicurezza, questa è la verità e siamo stanchi. L’Italia non doveva entrare nella Europa Unita e nella zona Euro, che ci ha uccisi. Ora Fini fa il comunista, bene se lo prendano volentieri, al posto di Franceschini. La cosa è certa, ingrato, mio marito, oggi si rivolta nella tomba e si tappa le orecchie per non ascoltare le sue assurdità. Vuole fare carriera, non mi meraviglio, gli piacciono le opportunità. Da tempo accusa un giorno la Chiesa, poi difende gli ebrei, poi i comunisti. Bene, se lo prendano per intero”.

sabato 21 febbraio 2009

La leadership del Pd al laico e antifascista Fini

Il copyright, lo confesso, non è del tutto mio, ma io ci metto il know-how, che è poi quello che serve e che conta nel tempo dell’I Care e dello Yes, we can... E quindi, e insomma, Why not Gianfranco Fini al posto di Walter Veltroni? L’idea me l’hanno data il professor Roberto Zavaglia, che è uno dei migliori analisti di politica internazionale in circolazione, e Andrea Marcenaro, ovvero il re dei corsivisti italiani, l’uno a voce, a cena, l’altro per iscritto, sul suo giornale, Il foglio, ma quella che per loro è una boutade, può anche divenire, come avrebbe detto Ciriaco De Mita, «un ragionamendo politico». Seguitemi. Si sa che Fini è stato fascista nella stessa logica con cui è divenuto antifascista. È un professionista della politica, ovvero un contenitore vuoto disponibile a riempirsi del liquido ritenuto in quel momento più potabile. La Destra oggi soffre di un problema di sovrappopolamento: ce n’è troppa, con troppi leader più o meno in competition e tuttavia con un capo incontrastato qual è Berlusconi. A lungo Fini si è immaginato come suo delfino, ma la scienza medica è contro di lui. È dell’altro giorno la notizia di un vaccino che, stando a dei ricercatori statunitensi, porterebbe l’età media oltre il secolo di vita... Fra trent’anni, insomma, avremo ancora Silvio premier e Gianfranco in lista d’attesa... È una strada chiusa.
A Sinistra invece c’è il caos e la strada è aperta. Un po’ perché le sconfitte elettorali hanno sempre molti padri, un po’ perché quella generazione di cinquantenni è alla frutta, usurata dal suo continuo fondarsi e rifondarsi, dall’eccesso di sigle con cui si è nel tempo ribattezzata, dalla smania fratricida che l’ha pervasa, un pugnalarsi freneticamente alle spalle... È un caos umano, nel senso di leadership, ma anche politico, in quanto che cosa sia la Sinistra, che cosa sia di sinistra, nessuno lo sa più. La confusione è talmente grande sotto quel cielo che alle ultime elezioni regionali si è giocata la carta di un sardo-capitalista, Renato Soru, e su Repubblica l’intellettuale di riferimento Michele Serra si è riscoperto un teorico del Law and Order: ronde, vigilantes, magari qualche sana impiccagione preventiva ai lampioni del centro e della periferia... La deriva, dunque, è evidente, quella di una Sinistra che in mancanza d’altro scimmiotta la Destra, butta via Il Capitale e insegue i capitalisti. Chi dunque meglio di Gianfranco Fini la può rimettere in carreggiata, ridargli quell’anima sociale e solidale che è andata perduta fra l’acquisto di una barca nel Salento, una banca in Lombardia e tre camere a Manhattan?
Fini, per fare solo qualche esempio, si è dichiarato favorevole al diritto di voto per gli immigrati, difende la laicità dello Stato e l’autonomia dell’individuo, è per le coppie di fatto ed è un critico severo del cesarismo, sia vero sia presunto, ha inaugurato la sua chat-on-line e ha già fatto sapere che il Festival di Sanremo non gli piace. In una parola, e insieme moderno e antico, elitario e popolare e non è forse questo il modo migliore per incarnare oggi la Sinistra? Il linguaggio, poi. Diciamoci la verità, la «lingua di legno» di Veltroni&C si è da tempo fatta insopportabile, un ritualismo bugiardo e fumoso dietro il quale si nasconde la totale mancanza di contenuti.
Fini, invece, pur senza dire niente lo dice bene, e questo è se non altro un passo avanti sulla strada della chiarezza. Non siete convinti? Va bene, mettiamo giù allora il carico da novanta della telegenia. Si sa che il Cavaliere nero vince anche per questo e certo se gli opponi i borborigmi di Prodi, l’espressione patibolare di Fassino, il doppio mento di Veltroni, dove vuoi andare? Qui invece c'è un ancor piacente cinquantenne, un po’ stagionato ma sempre abbronzato, fresco papà, sub esperto. Vuoi mettere? Con lui sì che si riequilibra la partita, basta con le melensaggini piccolo-borghesi di pullman, caminetti, biciclette, mezze-calzette... Ma, dice qualcuno, ci sarebbe anche la carta Bersani... Dico, scherziamo? Bersani è di Piacenza, Fini è di Bologna, dialetto per dialetto meglio la dotta e la grassa Bologna che la irrimediabilmente provinciale Piacenza. Poi Bersani è calvo e non ha alcuna intenzione di ricorrere al trapianto, laddove Fini i capelli ce l’ha ancora e quindi non ha bisogno di procurarseli artificialmente. Infine, Bersani vuol dire D’Alema e allora siamo da capo a dodici, si ritorna alla celebre invettiva morettiana: «Con questi leader non vinceremo mai»...
E l’antico fascismo finiano, diranno i duri e puri, gli inguaribili, gli immarcescibili? Be’, il Duce all’inizio era socialista, che c’è di male a sperimentare il percorso inverso? Del resto, se Veltroni non è mai stato comunista, nemmeno da piccolo, se Violante dice da grande di vergognarsene, Fini almeno può affermare con orgoglio che questo tipo di abiura non ha bisogno di farla, lui comunista non è mai stato. Quanto al «nero» peccato originale, si è già cosparso più volte il capo di cenere, e per la verità non solo quello... Da qualunque parte la si guardi, la candidatura di Fini alla guida dei Pd è perfetta. È una figura istituzionale, e stato ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, e un paladino della Costituzione, è alto come Obama... Si può fare, insomma, Yes, we can.
di Stenio Solinas

Nel pantheon di An non c’è posto per Almirante

Nel tempo a cavallo fra la Seconda e la Terza Repubblica, quello in cui i partiti si sono abituati a riscrivere velocemente le proprie identità, un nuovo manifesto politico, o un nuovo pantheon di padri spirituali, innescano facilmente la polemica, se non addirittura - come in questo caso - il giallo. È successo ieri, che, intorno all’ultimo documento congressuale di Alleanza nazionale, quello preparato in vista del cosiddetto «congressino», quello chiamato a decidere lo scioglimento del partito nel Popolo della Libertà, si accendesse la fiamma della polemica, non tanto per i nomi nuovi, ma per uno che manca: quello di Giorgio Almirante.
È bastato, infatti, che nel pomeriggio di ieri le agenzie iniziassero a battere l’elenco di nomi che il gruppo di lavoro chiamato a stendere il documento aveva messo insieme, perché si accendessero delle reazioni. La prima, quella di donna Assunta Almirante (ovviamente), simbolicamente più importante, dato il rapporto di suo marito con la storia di An. Ma poi anche citazioni, correzioni di tiro, persino qualche diniego. I fatti, in breve sono questi. Al fianco del documento, c’è una lista di nomi una An’s list in cui saltano subito all’occhio molte new entry. Nomi del tutto fuori dalla politica, come quelli dei due padri della letteratura italiana, Dante Alighieri e Alessandro Manzoni.
Nomi di intellettuali antifascisti come Piero Gobetti e Pietro Calamandrei; ex comandanti partigiani, poi fondatori dell’industria di Stato, come Enrico Mattei. E poi anche divagazioni nel costume, nella musica che portano i nuovi costituenti del Pdl a inserire fra i loro miti e riferimenti Mogol e Lucio Battisti, ma anche un cantante lirico come Luciano Pavarotti. I nomi dei politici, citati nel documento, invece sono quattro, di cui tre viventi: Pinuccio Tatarella, indicato come precursore del nuovo partito unico, Helmut Kohl, l’ex cancelliere tedesco, nume tutelare del popolarismo europeo, e poi i due fondatori, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi.
Curioso, che al cronista in cerca di un timbro di paternità, gli uomini del gruppo di lavoro diano risposte elusive. «Io nel pantheon non ho proprio messo mano - spiega Angelo Mellone giovane intellettuale di centrodestra, uno dei principali estensori -, per questo rivolgetevi agli altri». E anche Gennaro Sangiuliano, altro storico estensore di documenti del partito, anche lui giovane, (ha iniziato con le tesi per il congresso di Bologna del 2003), pur avendo sopportato il grosso del lavoro di coordinamento, declina responsabilità: «Quei nomi sono usciti fuori da un lavoro di brain storming collettivo, io tutt’al più ho messo i punti e le virgole». E sicuramente Mellone e Sangiuliano sono due che volano alto, si occupano dei grandi problemi, ma chiunque poteva intuire, che la presenza o l’assenza di un nome come quello di Giorgio Almirante, proprio in uno dei più delicati momenti di passaggio identitario, avrebbe acceso le polveri.
Gli altri curatori dei testi congressuali sono Alex Voglino, un quadro alemanniano come Luigi Di Gregorio, e un solido giornalista politico come Salvatore Dama (attualmente in forza a Libero). Ma quei nomi, si scopre scavando più in là, sono stati davvero frutto di una mediazione collettiva, per esempio Mattei è stato voluto da La Russa così come Gobetti è entrato nella selezione in quanto discepolo di un altro nome come Giuseppe Prezzolini.
Il tempo della politica mordi e fuggi, dell’immagine, della velocità televisiva, determina anche questi inconvenienti. I nomi cambiano, le identità si trasformano, gli apparati intellettuali vengono imbracati in nuovi dispositivi identitari, che hanno bisogno della forza delle icone per arrivare altrettanto velocemente a destinazione. Tant’è vero che lo stesso problema si è creato anche a sinistra, dove si discusse per anni dei pellegrinaggi di Walter Veltroni sulla tomba di un cattolico come Dossetti. A guardarle male sono appropriazioni identitarie, ad essere benevoli sono movimenti di assestamento, quasi tellurici.Il grande paradosso che resta, quando si dileguano le nubi del giallo, è che tutti i nuovi padri, che i partiti dell’era mediatica si scelgono, sono cresciuti fuori dalle case politiche che adesso li accolgono nei loro templi. Forse, al fianco di nuovi lucenti pantheon, bisognerà creare dei musei, in cui raccogliere anche le reliquie neglette di coloro che vengono dismessi, per far posto ai nuovi idoli.
di Luca Telese

giovedì 19 febbraio 2009

Manifesto del futurismo: “Le Figarò” 20 Febbraio 1909

1-Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.

2-Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

3-La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.

4-Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità

5-Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

6-Bisogna che il poeta si prodichi con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.

7-Non vi è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.

8-Noi siamo sul patrimonio estremo dei secoli! poichè abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.

9-Noi vogliamo glorificare la guerra-sola igene del mondo-il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore

10-Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria

11-Noi canteremo le locomotive dall’ampio petto, il volo scivolante degli areoplani. E’ dall’Italia che lanciamo questo manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo

FUTURISMO: L'IDEA CHE DIVENTA AZIONE

ZANG TUMB TUMB - TRIBUTO A MARINETTI

Contro Venezia passatista

MANIFESTO DEL PARTITO FUTURISTA

1.Il partito politico futurista che noi fondiamo oggi vuole un’Italia libera forte, non più sottomessa al suo grande Passato, al forestiero troppo amato e ai preti troppo tollerati: una Italia fuori tutela, assolutamente padrona di tutte le sue energie e tesa verso il suo grande avvenire.
2.L’Italia, unico sovrano. Nazionalismo rivoluzionario per la libertà, il benessere, il miglioramento fisico e intellettuale, la forza, il progresso, la grandezza e l’orgoglio di tutto il popolo italiano.
3.Educazione patriottica del proletariato. Lotta contro l’analfabetismo. Viabilità. Costruzione di nuove strade e ferrovie. Scuole laiche elementari obbligatorie con sanzioni penali. Abolizione di molte Università inutili e dell’insegnamento classico. Insegnamento tecnico obbligatorio nelle officine. Ginnastica obbligatoria con sanzioni penali. Educazione all’aria aperta,sportiva e militare, scuole di coraggio e d’Italianità.
4.Trasformazione del Parlamento mediante un’equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti al Governo del Paese. Il limite minimo di età per la deputazione sarà ridotto a 22 anni. Un minimo di deputati avvocati (sempre opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi). Un parlamento sgombro di rammolliti e di canaglie. Abolizione del Senato. Se questo Parlamento razionale e pratico non dà buoni risultati, lo aboliremo per giungere ad un Governo tecnico senza parlamento, un Governo composto di 20 tecnici eletti mediante suffragio universale. Rimpiazzeremo il Senato con una Assemblea di controllo composta di 20 giovani non ancora trentenni eletti mediante suffragio universale. Invece di un Parlamento di oratori incompetenti e di dotti invalidi, moderato da un Senato di moribondi, avremo un governo di 20 tecnici eccitato da una assemblea di giovani non ancora trentenni. Partecipazione eguale di tutti i cittadini italiani al Governo. Suffragio universale uguale e diretto a tutti i cittadini uomini e donne. Scrutinio di lista a larga base. Rappresentanza proporzionale.
5. Sostituire all’attuale anticlericalismo rettorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgombrare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra adatta ove morire lentamente. Il nostro anticlericalismo intransigentissimo e integrale, costituisce la base del nostro programma politico, non ammette mezzi termini né transazioni, esige nettamente l’espulsione. Il nostro anticlericalismo vuole liberare l’Italia dalle chiese, dai preti, dai frati, dalle monache, dalle madonne, dai ceri e dalle campane. Unica religione, l’Italia di domani. Per lei noi ci battiamo e forse morremo senza curarci delle forme di governo destinate necessariamente a seguire il medioevo teocratico e religioso nella sua fatale caduta.
6.Abolizione dell’autorizzazione maritale. Divorzio facile. Svalutazione graduale del matrimonio per l’avvento graduale del libero amore e del figlio di Stato.
7.Mantenere l’esercito e la marina in efficienza fino allo smembramento dell’impero austro- ungarico. Poi, diminuire gli effettivi al minimo, preparando invece numerosissimi quadri di ufficiali con rapide istruzioni. Esempio: duecentomila uomini con sessantamila ufficiali, la cui istruzione può essere suddivisa in quattro corsi trimestrali ogni anno. Educazione militare e sportiva nelle scuole. Preparazione di una completa mobilitazione industriale (armi e munizioni) da realizzarsi in caso di guerra contemporaneamente alla mobilitazione militare. Tutti pronti, con la minore spesa, per una eventuale guerra o una eventuale rivoluzione.
Bisogna portare la nostra guerra alla sua vittoria totale, cioè allo smembramento dell’impero austro-ungarico, e alla sicurezza dei nostri naturali confini di terra e dì mare, senza di che non potremmo avere le mani libere per sgombrare, pulire, rinnovare e ingigantire l’Italia.
Abolire il patriottismo commemorativo, la monumentomania e ogni ingerenza passatista dello Stato nell’arte.
8.Preparazione della futura socializzazione delle terre con un vasto demanio mediante la proprietà delle Opere Pie, degli Enti Pubblici e con la espropriazione di tutte le terre incolte e mal coltivate. Energica tassazione dei beni ereditari e limitazione di gradi successori.
Sistema tributario fondato sulla imposta diretta e progressiva con accertamento integrale. Libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione, di stampa. Trasformazione ed epurazione della Polizia. Abolizione della Polizia politica. Abolizione dell’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine.Giustizia gratuita e giudice elettivo. I minimi salari elevati in rapporto alle necessità della esistenza. Massimo legale di 8 ore di lavoro. Parificazione ad eguale lavoro delle mercedi femminili con le mercedi maschili. Leggi eque nel contratto di lavoro individuale e collettivo. Trasformazione della Beneficenza in assistenza e previdenza sociale. Pensioni operaie.
Sequestro dei due terzi di tutte le sostanze guadagnate con forniture di guerra.
9.Costituzione di un patrimonio agrario dei combattenti. Occorre acquistare una determinata quantità della proprietà terriera d’Italia pagandola a prezzi da fissarsi con criteri speciali, e darla, con le debite cautele e riserve ai combattenti, o, in caso di loro soccombenza, alle famiglie superstiti.Al pagamento delle terre così acquistate deve provvedere la nazione intera, senza distinzione di classe, ma con distinzione progressiva di posizione finanziaria, con elargizioni volontarie e con imposte.
Il pagamento delle terre occorrenti potrebbe estinguersi entro cinquant’anni dallo spossessamento, in modo che il contributo della Nazione, sotto forma di elargizioni o di imposta, sarebbe minimo. Rientrino, se ve ne sono, nel patrimonio agrario dei combattenti, le terre espropriate per debito d’imposta.Tutti i lavoratori manuali che avranno prestato servizio militare nelle zone delle operazioni dovranno essere inscritti per cura dello Stato nella “Cassa Nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai” a far data dal primo giorno del loro effettivo servizio. Lo Stato dovrà pagare i contributi annuali per tutta la durata della guerra. L’iscrizione dei militari combattenti alla “Cassa Nazionale” avverrà d’ufficio, sarà posta a carico dello Stato per tutto il periodo corrispondente al servizio militare, e produrrà un onere continuativo a carico degli interessati per tutto il resto della loro vita.
L’assegno congiunto alla concessione di medaglie al valor militare sarà triplicato. - Il limite di età stabilito nei corsi sarà prolungato per i reduci della zona delle operazioni di un tempo equivalente alla durata della guerra. - Ai reduci della zona delle operazioni, quando ottengano un pubblico impiego, saranno computati il servizio militare e le campagne agli effetti dell’anzianità e della pensione, provvedendo lo Stato, quando ne sia il caso, ai versamenti alla Cassa Pensioni per il tempo passato dal militare sotto le armi.- Per dieci anni dopo la guerra le amministrazioni dovranno alternare concorsi liberi con concorsi esclusivamente riservati ai reduci della zona delle operazioni ed ai mutilati di guerra fisicamente suscettibili del servizio richiesto.
10. Industrializzazione e modernizzazione delle città morte che vivono tuttora del loro passato. Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria del forestiero.
Sviluppo della marina mercantile e della navigazione fluviale. Canalizzazione delle acque e bonifiche delle terre malariche. Mettere in valore tutte le forze e le ricchezze del paese. Frenare l’emigrazione. Nazionalizzare e utilizzare tutte le acque e tutte le miniere. Concederne lo sfruttamento a enti pubblici locali. Agevolazioni all’industria e all’agricoltura cooperative. Difesa dei consumatori.
11.Riforma radicale della Burocrazia divenuta oggi fine a sé stessa e Stato nello Stato. Sviluppare per questo le autonomie regionali e comunali. Decentramento regionale delle attribuzioni amministrative e relativi controlli. Per fare di ogni amministrazione uno strumento agile e pratico, diminuire di due terzi gli impiegati raddoppiando gli stipendi dei Capi-servizio e rendendo difficili ma non teorici i concorsi. Dare ai Capi-servizio la responsabilità diretta e il conseguente obbligo di alleggerire e semplificare tutto. Abolire l’immonda anzianità, in tutte le amministrazioni, nella carriera diplomatica e in tutti i rami della vita nazionale. Premiazione diretta dell’ingegno pratico e semplificatore negli impieghi. Svalutazione dei diplomi accademici e incoraggiamento con premi della iniziativa commerciale e industriale. Principio elettivo nelle cariche maggiori. Organizzazione semplificata a tipo industriale nei rami esecutivi.
Il partito politico futurista che noi fondiamo oggi, e che organizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal movimento artistico futurista. Questo continuerà nella sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano. Il movimento artistico futurista, avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta sensibilità del popolo. Rimane perciò una avanguardia spesso incompresa e spesso osteggiata dalla maggioranza che non può intendere le sue scoperte stupefacenti, la brutalità delle sue espressioni polemiche e gli slanci temerari delle sue intuizioni.
Il partito politico futurista invece intuisce i bisogni presenti e interpreta esattamente la coscienza di tutta la razza nel suo igienico slancio rivoluzionario. Potranno aderire al partito politico futurista tutti gli italiani, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, anche se negati a qualsiasi concetto artistico e letterario.Questo programma politico segna la nascita del partito politico futurista invocato da tutti gli italiani che si battono oggi per una più giovane Italia liberata dal peso del passato e dallo straniero.Sosterremo questo programma politico con la violenza e il coraggio futurista che hanno caratterizzato sin qui il nostro movimento nei teatri e nelle piazze. Tutti sanno in Italia e all’estero ciò che noi intendiamo per violenza e coraggio.

Quarto d'ora di poesia della X Mas

Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini criticomani lambicchi di ventosi pessimismi
Guasto al motore fermarsi fra Italiani ma voi voi ventenni sietegli ormai famosi renitenti alla leva dell'Ideale e tengo a dirvi che spesso si tentò assolvervi accusando l'opprimente pedantismo di carta bollata burocrazie divieti censure formalismi meschinerie e passatismi torturatori con cui impantanarono il ritmo bollente adamantino del vostro volontariato sorgivo amezzo il campo di battaglia
Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all'infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti e perciò avanti autocarri
Urbanismi officine banche e campi arati andate a scuola aquesti solenni professori di sociologia formiche termiti api castori
Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono d'ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia fuori tempo spazio
I cimiteri dei grandi Italiani slacciano i loro muretti agresti nella viltà dello scirocco e danno iraconde scintille crepitano impazienze di polveriera senza dubbio esploderanno esplodono morti unghiuti dunque autocarri avanti
Voi pontieristi frenatori del passo calcolato voi becchini cocciuti nello sforzo di seppellire primavere entusiaste di gloria ditemi siete soddisfatti d'aver potuto cacciare in fondo fondo al vostro letamaio ideologico la fragile e deliziosa Italia ferita che non muore
Autocarri avanti e tu non distrarti raggomitola il tuo corpo ardito a brandelli che la rapidità crudele vuol sbalestrarti in cielo prima del tempo
Scoppia un cimitero di grandi Italiani e chiama Fermatevi fermatevi volantisti italiani aveva bisogno di tritolo ve lo regaliamo noi ve lo regaliamo noi noi ottimo tritolo estratto dal midollo dello scheletro
E sia quel che sia la parola ossa si sposi colla parola possa con la rima vetusta frusti le froge dell'Avvenire accese dai biondeggianti fieni di un primato
Ci siamo finalmente e si scende in terra quasi santa
Beatitudine scabrosa di colline inferocite sparano
Vibra a lunghe corde tese che i proiettili strimpellano la voluttuosa prima linea di combattimento ed è una tuonante cattedrale coricata a implorare Gesù con schianti di petti lacerati
Saremo siamo le inginocchiate mitragliatrici a canne palpitanti dipreghiere Bacio ribaciare le armi chiodate di mille mille mille cuori tutti traforati dal veemente oblio eterno

Noi dobbiamo costruire le glorie del presente e del domani

"Il Governo che ho l’onore di presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la burocrazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tutto deve procedere con la massima rapidità. Se tutti procederemo con questo ritmo di forza e di volontà e di allegrezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in parte superata. Io sono lieto di vedere il risveglio anche di questa Roma che offre lo spettacolo di officine come questa. Io affermo che Roma può diventare centro industriale. I romani devono essere i primi a disdegnare di vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costruire le glorie del presente e del domani. Noi siamo la generazione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione di domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori e non dei parassiti." Benito MUSSOLINI

mercoledì 18 febbraio 2009

lunedì 16 febbraio 2009

100Futurismo - rivoluzione


Provate a immaginare:

«Cantiamo la bellezza del contratto sociale, l’ebbrezza delle primarie sotto arditi gazebo, la follia maestosa dei question time».

Brividi.

Ma ve lo raffigurate, seriamente, un futurismo liberale?
Ve lo immaginate il paludoso mercanteggiare delle aule sorde e grigie elevato al rango di “bella idea per cui si muore”?
Non scherziamo. Il futurismo è rivoluzionario o non è. Il futurismo, per dirla con Mario Verdone, è una battaglia che «assume significato di “contestazione globale”, che tocca la vita privata e pubblica, la famiglia e la scuola, la poesia e persino la filosofia e la scienza, in un messaggio destinato a tutta l’umanità».
Se non tutti i rivoluzionari sono stati futuristi, è comunque indubbio che tutti i futuristi sono necessariamente dei rivoluzionari. Lo dicono i loro versi, i loro proclami, le loro azioni. Lo dice, soprattutto, la storia.

Le due rivoluzioni del ‘900, quelle che secondo Brasillach sarebbero state destinate ad essere confuse fra loro agli occhi dei posteri, hanno in effetti avuto rapporti più che episodici con il futurismo. E se Vladimir Majakovskij sarà rivoluzionario e bolscevico della prima ora, in casa nostra fascismo e futurismo viaggeranno su binari talmente ravvicinati da sovrapporsi spesso e volentieri.
Su quest’ultimo tema, soprattutto in questi giorni, troppo e male è stato scritto. «Per chi abbia senso delle connessioni storiche - diceva Benedetto Croce - l’origine ideale del fascismo si trova nel futurismo». Il “senso delle connessioni storiche”. Ovvero uno sguardo globale sul passato che riesca a far proprio un ampio respiro tale da abbracciare gli elementari nessi di causa-effetto al di là degli episodi, delle eccezioni, delle contingenze. Riguardo al programma sansepolcrista, presentato a Milano il 23 marzo 1919 alla presenza dello stesso Marinetti, il futurista Volt diceva che fosse «sostanzialmente identico al programma del partito politico futurista. Forse le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E’ lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti». Mussolini, che pure aveva avuto un percorso umano, intellettuale e politico assai poco artistico, impregnato di battaglie partitiche e sociali, di letture di Marx, Nietzsche, Sorel e Le Bon, non poteva che affascinare Marinetti e sodali per il suo vitalismo, la sua ansia di rinnovamento, la sua stessa fisicità. E’ poi noto che già nel maggio 1920 i rapporti tra futuristi e fascisti si raffredderanno, con momenti di critica reciproca anche molto aspra.
Su questo allontanamento - temporaneo, contingente e presto riassorbito - la critica in malafede ha molto insistito al fine di “recuperare” il futurismo a cause del tutto “passatiste”. Ciò che sfugge, in realtà, è che quando Marinetti (o, se è per questo, D’Annunzio) critica Mussolini lo fa all’interno di una dialettica che è già comunque antiliberale. Si tratta, per i futuristi, di rimproverare ai Fasci un’adesione troppo tiepida, o magari un tradimento, di una causa rivoluzionaria che rimane comunque in antitesi netta con l’attuale pensiero dominante. E’, insomma, una gara di radicalità del tutto interna a un campo politico-culturale ben definito.

La frattura, del resto, verrà presto ricomposta. Il ribelle e filosovietico Mario Carli si ritroverà cantore del “fascismo intransigente”, mentre dalle colonne di “Futurismo” - poi “Sant’Elia”, infine divenuta “Artecrazia” - Mino Somenzi condurrà, sotto la diretta ispirazione dello stesso Marinetti, la sua battaglia per fare del futurismo l’arte unica e ufficiale del regime. Quanto allo stesso fondatore del movimento artistico, basti ricordare il suo impegno come volontario nella guerra d’Etiopia e persino, a sessantasei anni, nella spedizione in Russia che forse risulterà fatale per sua stessa salute, tanto da causargli poco dopo la morte per arresto cardiaco. I suoi ultimi versi saranno per la X Mas.
Abbiamo detto Russia. Anche da quelle parti il futurismo aveva fatto non pochi danni a tutto il vecchiume zarista-conservatore. La rivoluzione, in questo caso, nasceva con contorni ideologici ben più definiti, anche se Drieu poteva ipotizzare un’influenza nietzscheana e già post-marxista nell’attivismo e nel volontarismo leninista. Sia come sia, nella Rivoluzione d’Ottobre l’impronta del materialismo storico risultava in definitiva dominante su ogni altra connotazione culturale. Il panorama culturale della nuova Russia, tuttavia, risultava inizialmente assai vivace. Fra i più attivi agitatori di pensiero si distingueva su tutti Vladimir Majakovskij, animo inquieto e spirito ribelle sin da giovanissimo. Nel 1912, l’artista georgiano aveva firmato insieme a Burljuk, Kamenskij, Kruchonych, Chlebnikov il manifesto del cubofuturismo, marinettianamente intitolato “Schiaffo al gusto del pubblico”. Nella Russia post-rivoluzionaria, Majakovskij si fa da subito intellettuale militante dalle colonne della Gazeta futuristov e dell’Iskusstvo Kommuny. Lavorando per la Rosta (l’Agenzia telegrafica russa) scrive in due anni e mezzo tremila manifesti e seimila didascalie. Fonda il Lef (Fronte di sinistra dell’arte) che pubblica con l’omonima rivista quattro numeri nel 1923, due nel ‘24 e uno nel ‘25. La sua azione metapolitica cerca di coniugare libertarismo e intransigenza. Il nemico, come sempre, sono i vecchi parassiti passatisti che come al solito pullulano negli anfratti meno illuminati di ogni rivoluzione. A costoro, il poeta di Bagdadi rivolge il suo avvertimento.

A voi,
pittori,
ingrassati come cavalli,divorante e annitrente decoro di Russia
che, intanati nel fondo degli studi,
tinteggiate all’antica con sangue di drago
fiorellini e corpi

A voi,
che, nascosti da foglie di mistica,
solcate di rughe le vostre fronti,
piccoli futuristipiccoli immaginisti,
piccoli acmeisti
impigliati in un ragnatelo di rime [...]

A voi,
danzatori, suonatori di pifferoche vi date apertamente
o peccate di soppiatto,
immaginando l’avvenire
come un’enorme razione accademica.

A voi dico
io,
geniale o non geniale,
che ho tralasciato le bagattelle
e lavoro alla Rosta,
a voi dico,
prima che vi scaccino con il calcio dei fucili:
smettetela!

Per il grigiore che da lì a poco sarebbe divenuto il marchio di fabbrica del modello sovietico, Majakovskij esprime tutto il suo disprezzo:

Io come un lupo
Divorerei il burocratismo.
Per i mandati non ho alcun rispetto
Vadano con le madri
A tutti i diavoli tutte le carte.

Le spinte libertarie e le innovazioni culturali cominciavano tuttavia ad essere mal digerite nella Russia già in odore di “realismo socialista” zdanoviano. Majakovskij viene man mano escluso dall’ufficialità culturale sovietica. Il 3 gennaio 1930 aderisce al Rapp, l’Associazione russa scrittori proletari, dichiarando pubblicamente la propria fedeltà al partito. Il 14 aprile dello stesso anno si spara al cuore, uccidendosi. Il cuore della rivoluzione, del resto, aveva già smesso di pulsare da tempo.

Di Adriano Scianca (http://www.mirorenzaglia.org/)

Da 'automobile' a 'pubblicità', manuale per veri marinettiani

Marinetti aveva una specie di venerazione per il numero 11. Il Manifesto, che si compone di 11 punti, è datato 11 febbraio 1909, benché sia stato pubblicato il 20. Ecco dunque 11 parole chiave del futurismo, fra le tante che si potrebbero scegliere in un movimento che si proponeva di rivoluzionare l’universo.

AUTOMOBILE Il futurismo l’ha eletta a emblema della modernità. La sua bellezza non teme confronti, nemmeno con la Vittoria di Samotracia, la cui armonia passatista è superata da un «cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo». La tecnologia ha imposto un’estetica nuova: è cambiata la percezione della realtà. La macchina, come una nuova divinità, guida l’uomo a esplorare l’ignoto. Non a caso il Manifesto ha come preambolo il racconto di un incidente automobilistico di Marinetti: finito in un fosso, inizia la sua immersione simbolica nell’avventura dell’avanguardia.

CINEMA «Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano». Non c’è mezzo migliore per costruire immagini mai viste e stimolare un linguaggio espressivo inedito. Il cinema è lo «strumento ideale di una nuova arte immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti». Peccato non poter vedere Marinetti e Balla nelle vesti di attori. Un film - oggi perduto - lo girarono anche loro, nel 1916. Si intitolava «Vita futurista» ed era un collage di episodi. Accontentiamoci dei loro titoli e lavoriamo di fantasia: «Balla s’innamora di una seggiola e ne nasce un panchetto», «Come dorme un futurista», «Discussione fra un piede, un martello e un ombrello» ecc.

CUCINA Basta con la pastasciutta, colpevole di ingenerare «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo», trasformando l’italiano in «cubico massiccio impiombato». Al bando anche forchetta e coltello: fondamentale invece sarà assaggiare i nuovi sapori accompagnandoli con musiche, poesie e profumi. Quanto alle portate, un pranzo che si rispetti dovrà annoverare «antipasti intuitivi», «brodi solari» e l’immancabile «Carneplastico»: un cilindro di carne di vitello ripieno di undici qualità di verdura, sostenuto da tre sfere di carne di pollo e da un anello di salsiccia, e coronato da uno strato di miele. (Per una volta, meglio stare dalla parte della tradizione).

DONNA Il futurismo, che ha proclamato il «disprezzo della donna», ha auspicato per primo la completa emancipazione femminile. Suffragio universale, parità salariale e giuridica, libero amore: roba da fare impallidire suffragette e femministe ante litteram. Tuttavia Marinetti passa ancora per retrogrado misogino. La sua colpa? Aver deriso le languide e patetiche creature dei romanzetti d’appendice e proposto l’immagine volitiva di una donna libera dai pregiudizi e dai luoghi comuni. Con buona pace degli stereotipi della donna fatale e dell’angelo del focolare.

GUERRA Fanno bene molti docenti liceali a liquidare il «futurismo» con la - oggi - deprecabile equazione: «Guerra sola igiene del mondo»? È vero, per Marinetti e i suoi il bellicismo fu una costante della visione del mondo: prima per la Libia, poi per la Grande Guerra il loro interventismo fu aggressivo e incondizionato. Ma molti intellettuali europei furono presi dall’utopia di un conflitto che avrebbe prodotto un’epoca nuova. La guerra futurista, inoltre, non era fatta solo di cannoni e bombardamenti, era soprattutto quella - metapolitica ed estetica - che doveva trasformare la vita e l’arte grazie a un conflitto permanente e a un impegno totale e vitalistico.

LETTERATURA Distruzione della sintassi, immaginazione senza fili, parole in libertà. Il futurismo ha il merito di avere rinnovato la letteratura italiana, ferma ai classicismi carducciani e alle raffinatezze dannunziane. E la letteratura futurista non fu soltanto enunciazione di intenti. Il codice di Perelà, l’allegorico e geniale romanzo di Palazzeschi, è ancora noto e amato. Molto meno le poesie visive di Govoni, le suggestioni erotiche dei versi di Armando Mazza, la prosa lirica di Mario Carli, la fantascienza e l’onirico di Corra e Buzzi, senza contare Mafarka il futurista e Gli indomabili di Marinetti. La critica artistica ha aggiustato da decenni il tiro su Boccioni e compagni; quella letteraria ancora non lo ha fatto, ma lo dovrà fare.

LIBRO Caratteri diversi, numeri, parole disposte in verticale, diagonale, perfino lettere umanizzate: addio vecchio libro, grigio oggetto di pallide tirature ottocentesche. L’high tech della scrittura futurista coincide con la massima tecnologia tipografica: uno spettacolo fatto di copertine e pagine colorate, dove può accadere di tutto. Anche trovarsi tra le mani volumi imbullonati (Depero futurista) o litografati su latta, come le due mitiche «lito-latte», sogni proibiti di una legione di collezionisti, cultori delle invenzioni futuriste.

MODA Balla scrive che «Si pensa e si agisce come si veste», plateale sconfessione del vecchio «L’abito non fa il monaco». Dunque, colori violenti, stoffe fosforescenti, cappelli asimmetrici, ma sempre tenendo presente una necessità imposta dai tempi: la comodità. Ernesto Thayaht propone un abbigliamento economico e semplicissimo contro l’affettata eleganza dei salotti: è lui l’inventore della tuta, non adibita solo al lavoro e richiesta dai ritmi frenetici delle metropoli.

MUSICA Anche accademie e conservatori vanno archiviati. Come il verso in letteratura, la musica ha la sua gabbia nella quadratura. Da distruggere. Si trovino nuovi accordi e nuovi timbri: Luigi Russolo decreta la fine dei suoni armonici: spazio a rumori, ululati, rombi, stropiccii, gorgoglii, sibili e ronzii. I concerti dei suoi «intonarumori» finiscono sotto cumuli di ortaggi, ma Stravinskij si entusiasma e dalla ricerca futurista nasceranno anche sperimentazioni più recenti, come quelle di Edgar Varèse e John Cage.

PUBBLICITÀ Marinetti intuì che l’arte, al pari dell’industria e del commercio, necessita della réclame per diffondere le proprie creazioni. Il futurismo non avrebbe avuto la forza dirompente che ebbe senza volantini, manifesti, serate, tourneé: il sofisticato battage indispensabile per coinvolgere i livelli più diversi della società. Nel mercato si sfonda sfruttando le potenzialità dei sistemi di comunicazione. Marinetti - in compagnia dell’amato-odiato d’Annunzio - è stato il primo a capirlo.

VELOCITÀ In un mondo in cui si è diffuso il motore, in cui proliferano treni sempre più rapidi, nascono ponti, tunnel e stazioni radiotelegrafiche, la velocità permette all’uomo di sentirsi simile a un dio, invincibile e immortale. Il futurismo suggella la nascita di un nuovo mito estetico e morale: la velocità brucia le distanze, accelera le sensazioni, apre prospettive psichiche e mentali rivoluzionarie all’uomo del nuovo secolo. Che non vive più la pacifica e ripetitiva esistenza del passato, ma è integrato nell’era della tecnologia.
Di Giordano Bruno Guerri (http://www.ilgiornale.it)

domenica 15 febbraio 2009

Il cristianesimo è vulnerabile, ma le misericordine tengono botta

Tutti hanno criticato lo spettacolo indecente della politica che si avventa sul dramma Englaro e specula sulla morte di una donna. Lasciate che io esprima un’opinione totalmente discorde: ho visto la politica finalmente pronunciarsi su temi concreti, alti ed essenziali che riguardano la vita e la morte. Ma come, critichiamo la politica ridotta a teatrino e interessi personali, condanniamo giustamente la politica occupata solo a gestire il potere, a dividersi gli utili e a scannarsi per le poltrone, e una volta che entra la dimensione etica, religiosa, civile, drammatica dell’esistenza umana, ci indigniamo? Non fraintendete, non sto auspicando l’appalto pubblico dei sentimenti privati, la politicizzazione della morte, l’uso elettorale di aborti, eutanasie, malattie e tragedie. Io sto dicendo che la politica sale di livello, ad altezza d’uomo, quando smette di dividersi su interessi di bottega e affronta quel che ormai si chiama da Foucault in poi, la biopolitica.
Finite le ideologie, non possiamo dividere la politica solo su basi giudiziarie o su conflitti malavitosi tra affaristi; la politica assume contenuti e concretezza quando si occupa del diritto alla vita e alla morte, di religione civile e di etica, di famiglia e coppie, di aborto e di eutanasia, di droga e di violenza ai minori, alle donne, nei quartieri. Sul tema specifico sollevato dal caso Eluana, lasciate che io esprima un’idea non condivisa né dai guelfi né dai ghibellini. Penso che ogni evento significativo della vita investa una dimensione personale e una comunitaria. E non si può sopprimere una o l’altra; esiste una tensione dialettica inevitabile, a volte drammatica, tra la sfera pubblica e la sfera privata.
Io credo che a livello personale, davanti all’agonia infinita di una vita, davanti alla sua perdita irreversibile di coscienza e di dignità, possa insorgere una scelta, che forse è una tentazione, non cristiana, ma umana, molto umana, di non prolungare l’esistenza. Una scelta del genere può avere pure un significato alto, che chiamerò stoico, nobilmente pagano: non insistere a difendere la sopravvivenza a ogni costo ma riconoscere una soglia di dignità, di accettabilità e di stanchezza. La capisco, la rispetto, non mi sento di chiamare assassino chi lo pensa, se lo pensa sulla propria vita o su una vita a lui strettamente intrecciata, di cui per una sorte eccezionale e drammatica, esercita supplenza di sovranità. In quel caso estremo capisco che decida di interrompere la vita, di non accanirsi a difenderne il prolungamento. Ma si assume tutta la responsabilità dell’atto. Una giustizia vera ma animata da pietas, saprà condannare l’atto, ma se sono vere tutte le circostanze addotte, saprà pure sospendere sine die l’esecuzione della pena. Credo infatti che passando dalla dimensione privata e personale alla dimensione comunitaria, pubblica, sia essa sul piano sanitario che sul piano giudiziario, ma anche sul piano legislativo, la salvaguardia della vita, e il soccorso, sia il dovere primo e assoluto. Non perché la legge ti espropria della sovranità sulla tua vita, ma perché una vera comunità ha il dovere di soccorrere una vita, assisterla e prolungarla, fino a che ci sarà un pur flebile alito di vita e di speranza.
E’ contraddittoria, schizofrenica questa divaricazione tra il personale e il comunitario? Può darsi ma non vedo soluzione migliore o alternativa dal punto di vista umano e civile, sul piano della vita o dei valori. E’ il punto di mediazione più alto tra i diritti sacrosanti della vita e il diritto sacrosanto alla vita, tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra pubblico e privato. La comunità ti vuole vivo, e difende la tua vita, persino da te stesso; ma alla fine sei tu, morente o tu famigliare del morente che ne fai le veci, a decidere, e ad assumerti la responsabilità suprema. Nel caso Englaro, il padre avrebbe dovuto assumersi lui la responsabilità della decisione finale, senza fare di sua figlia una testimonial di una lunga campagna pro eutanasia. E un giudice giusto e misericordioso avrebbe dovuto condannarlo e insieme sospendere la pena, per sancire la condanna della comunità di fronte a un atto che ha spento una vita; ma il rispetto, l’umana pietà, verso chi ha compiuto questo gesto disperato nella convinzione suprema di tutelare la dignità di quella vita e risparmiarle l’eventuale sofferenza.
Il governo, da parte, sua, ha fatto bene a pronunciarsi dalla parte della vita; può aver sbagliato procedura, ma non ha sbagliato scelta di fondo. E poi sappiamo bene che si usano questi casi limite, drammatici, per allargare poi l’interruzione di vita, come l’interruzione di gravidanza, ben oltre i casi straordinari come Eluana. Quel che si può rimproverare all’iniziativa del governo è solo il ritardo; una legge come quella andava proposta al Parlamento e varata molto prima. Ma per non dividere i propri schieramenti né la destra né la sinistra avevano finora osato prendere posizione; l’errore però non è essersi pronunciati, ma averlo fatto troppo tardi. Il cinismo era in quel silenzio, non nell’assumersi la responsabilità di pronunciarsi. Perciò a me non è parso un imbarbarimento quella disputa, se non in alcuni toni; ma un innalzamento della politica all’altezza della vita e dei suoi limiti. Se la politica è il luogo che regola il con-vivere, è giusto che affronti le decisioni che riguardano la vita insieme, fino alla morte. Perché la politica non è tecnica o pura gestione, ma dovrebbe essere il luogo in cui si mediano e si rappresentano valori e interessi, bisogni e sentimenti. E’ la sua umanità.
Di Marcello Veneziani (www.ilfoglio.it)

Sono state sconfitte la ragione e la legge naturale

Lo storico Roberto de Mattei, allievo di Augusto del Noce e presidente dell’associazione Lepanto, dice al Foglio di sentirsi per molti versi in sintonia con la constatazione di una vulnerabilità del cristianesimo: “E’ vero che non si sono sentite, nei giorni appena trascorsi, omelie forti ma il prevalere di appelli ‘donabbondieschi’. Più che di vulnerabilità del cristianesimo o della chiesa cattolica, parlerei tuttavia di debolezza degli uomini che li rappresentano”. Va tenuta presente, quindi, “la distinzione tra una religione e un’istituzione che sfidano i secoli, e gli esseri umani sottoposti alle pressioni del tempo, che spesso sono vittime di queste pressioni”.
Le radici dell’indebolimento, secondo Roberto de Mattei, affondano “in una perdita della fede e in uno smarrimento della ragione. Mi spiego. Se parlo della fine della vita, dell’eutanasia, della morte cerebrale, non parlo di questioni che dividono i credenti dai non credenti, ma che semmai dividono le persone di retta ragione dagli irragionevoli. Credere che Eluana fosse una persona viva e non morta da diciassette anni, e che sia morta soltanto dopo che le sono stati tolti acqua e cibo, è un dato oggettivo di ragione. Dire questo non può dividere cattolici e non cattolici”. Ma “il problema sollevato dalla morte di Eluana Englaro non è tanto l’accanimento dimostrato da quello che io chiamo il partito della morte, quanto la debolezza del partito della vita. Ci sono certamente stati, a diversi livelli, molte voci coraggiose e molti interventi. Dalle persone più semplici fino al presidente del Consiglio, non sono mancati gesti forti, che invece sono venuti meno proprio da parte degli uomini del mondo delle istituzioni cattoliche, alle quali fa riferimento il direttore del Foglio”.
Il problema è allora “la debolezza di cattolici e laici di fronte al partito della morte”. Quali sono le cause profonde di questa debolezza? De Mattei risponde che “anche in questo caso bisogna fare una distinzione. Per i credenti, i cattolici – e mi riferisco anche alle gerarchie ecclesiastiche – a mio avviso esiste un problema di perdita della fede. Molti cattolici, e tra questi metto alcuni nostri vescovi, dimostrano poca fede. Di fronte al ‘caso Englaro’, che va affrontato con la ragione, il valore aggiunto del cattolico nasce dalla forza della sua fede. La quale gli dice che esistono valori realmente non negoziabili: non è un’affermazione rituale, è la realtà dell’insegnamento dei martiri, dei confessori della fede, dei padri della chiesa che nel corso della storia si sono detti cristiani, costasse quel che costasse. Questo atteggiamento che deve portare il cristiano a proclamare la ‘verità intera’ si è indebolito perché è indebolita la fede”. E poi c’è lo smarrimento della ragione, che riguarda tutti, anche i non credenti: “Non si riconosce più quella legge naturale che vale per tutti, credenti e non credenti, e nella quale sono radicati i diritti inviolabili, primo tra tutti il diritto alla vita. La legge è naturale perché è legge razionale, nasce dalla natura ragionevole dell’uomo, da una giusta concezione della persona umana. Il caso di Eluana è il tipico caso nel quale sono state sconfitte la ragione e la legge naturale”.
Di fronte a quello che stava accadendo alla Quiete di Udine “il ruolo dei cattolici non doveva essere quello di ‘mediare’ tra opposti schieramenti, di sdrammatizzare, di cercare di attenuare la gravità del problema. Per questo parlo di scarsa fede. La fede doveva spingere i cattolici a entrare nel dibattito, che è razionale non religioso, con più coraggio e radicalità. Ma gli alti vertici della chiesa ragionano come politici, non come gli apostoli e i confessori. E abbiamo avuto la sorpresa di vedere laici, non credenti, ragionare meglio di tanti cattolici e dimostrare più coraggio. I cattolici dovrebbero ringraziare i laici che hanno dato in questa occasione una lezione di coerenza intellettuale”.

sabato 14 febbraio 2009

Il progetto di Soru: copia - incolla la tesi di laurea

Difficile immaginare che Renato Soru, il Bill Gates di Sanluri, non sia in grado di fare un semplice copia-incolla con un computer. Pc o MacIntosh, è semplicissimo: basta poco, checcevò? Infatti, prendi il suo programma elettorale e ci trovi cose già viste, già dette, già scritte.
La prova? Pagina 49, capitolo «Industria, artigianato e servizi», si legge: «Lo scenario economico che attende l’avvio dei lavori del nuovo governo regionale è connotato da una crisi che sta interessando l’intera economia mondiale». Perbacco, l’identico pensiero espresso dalla Provincia autonoma di Trento nel documento datato 27 novembre 2008: «Lo scenario economico che attende l’avvio dei lavori del nuovo Governo provinciale è connotato da una crisi finanziaria che sta interessando l’intera economia mondiale». Da segnalare l’accortezza dello staff di Soru: almeno hanno sostituito «governo provinciale» con «governo regionale».
La classe non è acqua. E a proposito di acqua: capitolo «Acqua bene comune», pagina 38, si legge: «Al problema della scarsità delle risorse si associa, inoltre, un comportamento sociale ed economico poco attento alle pratiche di risparmio». Come dargli torto? Sarà mica il solo a pensarla così, no? Infatti sul tavolo di Soru dev’essere finita quella vecchia relazione del IV congresso nazionale del Po, tenutosi nel novembre 2007 a Piacenza. Incappato nella bella considerazione di pagina 18, («a un problema d’origine fisica e naturale, la scarsità delle precipitazioni, si associano comportamenti sociali ed economici poco attenti alle pratiche di risparmio»), deve aver esultato. Magnifico! E via col copia-incolla.
Altro tema forte: la lotta agli sprechi. Renato Soru scrive che attuerà il progetto Alimentis per recuperare le eccedenze alimentari rimaste invendute. E spiega: «È un modello che concepisce tale recupero come un servizio: per chi li produce, per i consumatori, in questo caso i bisognosi attraverso gli enti di assistenza; per le istituzioni pubbliche (Comuni, province, regioni, Asl), per le società di smaltimento rifiuti che ne conseguono benefici indiretti, sociali e ambientali, vedendo diminuire il flusso di rifiuti in discarica e migliorando l’assistenza alle persone svantaggiate». Da sottoscrivere in pieno, questa tesi. Tesi? Sì. Come quella discussa nel 2004-2005 da Alice Prioli, alla facoltà di chimica industriale di Rimini. Titolo: «Il progetto last minute waste». Ebbene, al capitolo 2, pagina 16 si legge: il progetto «viene concepito come fornitura di un servizio: per chi li produce (involontariamente e accidentalmente), cioè le imprese commerciali, per chi li consuma, i bisognosi attraverso gli enti di assistenza, per le istituzioni pubbliche (comuni, province, regioni, aziende sanitarie locali) e le società di smaltimento rifiuti, che ne conseguono benefici indiretti, sociali ed ambientali: diminuisce infatti il flusso di rifiuti in discarica e migliora l’assistenza alle persone svantaggiate». E vai con la carta carbone.
L’assessorato della Sanità butta giù nel 2007 un piano regionale dei servizi sanitari. Scrivono che «In Sardegna è mancata una vera e propria politica del personale... L’allocazione del personale fra i diversi servizi e sul territorio è stata definita sulla base di valutazioni soggettive spesso non coerenti con il reale fabbisogno di assistenza». E Soru che scrive? Pagina 92: «In Sardegna è mancata una vera e propria politica del personale. L’allocazione delle risorse e del personale fra i diversi servizi e sul territorio... veniva definita sulla base di valutazioni soggettive, spesso non coerenti con il reale fabbisogno di assistenza». La politica del trasferello.

Lo Stato non può obbligare il cittadino a farsi curare

Adesso che si è conclusa la vicenda umana di Eluana Englaro, il Parlamento varerà una legge sul testamento biologico. Non vorrei che nelle more del provvedimento, in questo clima esagitato, saltasse un fondamentale diritto, costituzionalmente garantito, dei cittadini che, a differenza della Englaro, sono nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. La Costituzione all’articolo 32 recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». È quindi del tutto fuorviante quanto ha affermato Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, a "Porta a porta", e cioè che il diritto del malato si limiterebbe alla scelta della cura. Io posso rifiutare qualsiasi cura. Se vado in ospedale e mi diagnosticano un tumore posso uscire e andarmene per i fatti miei. E se i medici cercassero di trattenermi sarebbero responsabili di sequestro di persona («La libertà personale è inviolabile» art. 13 Cost.). Non esiste nessun obbligo in caso di malato cosciente di somministrargli cibo e acqua se non li vuole, perché non esiste nessun obbligo di alimentarsi. Tanto più se si pretende di farlo inserendomi un tubo nella pancia. Quando Pannella fa lo sciopero della fame e della sete non interviene nessun medico o polizia per impedirglielo. Affermare il contrario e cioè che il malato cosciente ha l’obbligo di farsi curare o alimentare significa consegnare il cittadino allo Stato o alle equipe mediche togliendogli la libertà su scelte privatissime (che è l’esatto contrario di quanto sostiene Berlusconi).Richiamo queste cose che dovrebbero essere elementari perché in questi giorni ho visto fare strame di ogni principio dello stato di diritto, democratico e liberale. Il decreto e il disegno di legge del governo sul caso Englaro sarebbe stato incostituzionale se avesse preteso - come pretendeva - di annullare una sentenza definitiva della Cassazione, passata in giudicato. Perché il governo si sarebbe costituito come quarto grado di giudizio, violando il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato (sarebbe come se i magistrati pretendessero di emanare una legge). Se passasse questa aberrante concezione domani il governo non convinto, poniamo, delle motivazioni della sentenza che ha condannato la Franzoni potrebbe annullarla o sospenderla mandando libera la donna...La Procura di Udine aveva iniziato un’inchiesta sulla base di esposti che la invitavano a verificare la reale volontà della Englaro. A questi esposti la Procura di Udine, se proprio voleva essere gentile, avrebbe potuto rispondere allegando la sentenza della Cassazione che su quella volontà si era già pronunciata. Perché in diritto vale il principio "ne bis in idem": lo stesso fatto non può essere giudicato due volte.In questi giorni l’Italia ha dato un desolante spettacolo di sè. Destra e sinistra hanno inscenato indecorose gazzarre trincerandosi entrambe dietro un improbabile, ipocrita amore per la Englaro.Non si può amare una persona in astratto. Credo alle brave suorine che l’hanno custodita per tanti anni, non posso credere a Maurizio Gasparri o a chi per lui.Sotto le finestre dove agonizzava la Englaro si sono radunati, appropriandosene, gruppi di cattolici e gruppi di laici, schiamazzanti, bercianti, slogananti, senza nessun rispetto, senza nessuna misericordia per la donna e i suoi familiari.Si è voluto dividere il Paese fra i "difensori della vita" e "i cupi partigiani della morte". Ai primi non è venuto il dubbio, perlomeno il dubbio, che invece che il diritto alla vita stavano difendendo il diritto alla tortura? Perché Eluana Englaro è stata torturata per diciassette anni. Non era sufficente»?Un’ultima considerazione. «Nel Medioevo le agonie erano molto dolorose ma molto brevi, due o tre giorni al massimo» scrive Philippe Ariès in "Storie della morte in Occidente". La medicina tecnologia avrà anche allungato la vita ma al prezzo, molto spesso, di inutili, atroci, lunghissime agonie. Che possono durare anche diciassette anni.

Di Massimo Fini (www.massimofini.it)

giovedì 12 febbraio 2009

L’Occidente tramonta, Oswald Spengler no

Sono passati solo pochi anni, eppure nessuno si ricorda più delle azzardate profezie di Francis Fukuyama, un professore di Harvard che nel 1992 predisse addirittura la “fine della storia”. Allo stesso modo, ci si è rapidamente scordati di un altro politologo statunitense, Samuel Huntington, che poco più di dieci anni fa teorizzava lo “scontro delle civiltà”, fortunatamente sbagliando pronostico.
Due o tre lustri sono stati dunque sufficienti a liquidare senza rimpianti gli ultimi tentativi di cogliere un senso della storia che andasse al di là del semplice resoconto dei fatti per approdare alla visione di un più ampio orizzonte.
Ecco perché fa un certo effetto assistere all’ennesima riedizione di un classico come Il tramonto dell’Occidente (traduzione di J. Evola riveduta da Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone e Furio Jesi, Longanesi, 2008, pagg. 1520 + LXIV, euro 50,00) di Oswald Spengler (1880-1936). A novant’anni dalla sua pubblicazione, infatti, questo capolavoro mantiene intatta la sua straordinaria freschezza e inaspettata attualità; non sono bastate due guerre mondiali e lo sterminato dopoguerra per rendere superato quello che viene salutato come un “classico”, oltre che come un best-seller, a partire dal momento della sua pubblicazione.
Tutt’altro che pessimista, come venne erroneamente giudicata, l’opera più celebre del filosofo tedesco era stata concepita in vista di una allora non improbabile vittoria tedesca, e, come recita il sottotitolo, ambiva a tracciare i Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, indagando il significato della storia universale. Il tramonto dell’Occidente – anche se in Italia è sempre apparso in un volume unico – si divide in due parti: nella prima, intitolata “Forma e Realtà”, vengono introdotti tutti gli elementi della sua concezione del mondo e della storia, mentre la seconda, “Prospettive della storia universale”, non è solo, come il titolo lascerebbe supporre, un’appendice esemplificativa, ma offre originali osservazioni anche in chiave etnologica, derivate in parte dall’amicizia con quel grandissimo studioso che fu Leo Frobenius.
I maestri riconosciuti da Spengler sono, comunque, Goethe e Nietzsche, accanto a Eraclito, cui Spengler dedicò la propria tesi di laurea e che indubbiamente informa il suo stile, scintillante ed ermetico allo stesso tempo. Scrisse a questo proposito Thomas Mann: «Il tramonto rivela una potenza, una forza di volontà straordinaria: pieno di dottrina, ricco di scorci storici, costituisce un romanzo intellettuale del più alto interesse», che peraltro non gli impedì di mettere repentinamente il libro da parte, «per non essere costretto ad ammirare ciò che fa male e ciò che uccide».
Già, perché Spengler fu a torto ritenuto un precursore di Hitler, nonostante il fatto che il suo pensiero, evidentemente, fosse troppo complesso per essere ridotto a una qualsiasi ideologia politica. Del resto, lo stesso Cancelliere, impegnato a costruire il Reich millenario, aveva dichiarato di non essere affatto un seguace di Spengler e ovviamente di non credere al “Tramonto dell’Occidente”.
Nelle linee essenziali, la sua visione del mondo può essere ridotta all’idea che la storia non è lineare ma ciclica, e le civiltà sono paragonabili a organismi viventi, ossia vivono un ciclo di nascita, sviluppo e morte, stadi che si riflettono in ogni manifestazione, dalla politica all’architettura, dalle lettere alla matematica, dalla religione alla musica. La prima distinzione fatta dal filosofo è sulla diversità tra mondo meccanico, dominato dal principio della causalità, e il mondo organico, a cui appartengono appunto le civiltà umane, segnato da un imprevedibile destino. Ogni cultura ha una fase iniziale di crescita, lo slancio creatore chiamato Civiltà (Kultur) che inevitabilmente, arrivata al termine, diventa Civilizzazione (Zivilisation), cioè l’organizzazione materiale in cui declina ogni ideale eroico e ogni profonda spiritualità. La nostra epoca è proprio questa, e la consapevolezza di vivere in una fase di decadenza può essere utile a non crearsi false illusioni per vivere consapevolmente il nostro destino, sapendo che a ogni tramonto non può che seguire un’altra aurora.
Quanto resta di attuale, oggi, delle scintillanti teorie di Spengler, che amava descrivere la sua opera «una filosofia contro i professori di filosofia»? Per Stefano Zecchi, cui si deve molta della recente fortuna di Spengler in Italia, e che, oltre alla cura della prima edizione parziale dei frammenti autobiografici Eis Eautòn, ha introdotto le ultime due edizioni italiane del Tramonto dell’Occidente, «la concezione della storia di Spengler deve essere innanzitutto interpretata come una strenua e appassionata difesa dell’azione creativa dell’uomo, della necessità dell’agire nell’epoca in cui si sono spartite il mondo due ideologie apparentemente nemiche, quella trionfalistica del progresso e quella del nichilismo e dell’inarrestabile decadenza».
Oswald Spengler, per Marcello Veneziani, curatore qualche anno fa di una stimolante antologia di Scritti e pensieri edita da SugarCo, è soprattutto «un profeta che può aver mancato le sue profezie, ma ha allo stesso tempo saputo intuire, presagire e interpretare lo spirito dell’epoca e il clima di un secolo particolare, attraversato dalle convulsioni e dalle fibrillazioni che accompagnano il tramonto di un’epoca. Resta infine la sua idea classica di destino, e dell’impossibilità di sottrarsi all’ineluttabile, restando fedeli a se stessi come nell’esempio citato da Spengler ne L’uomo e la tecnica, della sentinella di Pompei che morì con l’eruzione del Vesuvio perché nessuno l’aveva sciolto dal compito assegnatogli».
Franco Cardini ha invece ricordato recentemente la tragica plausibilità di Spengler, visionario lungimirante e soprattutto “cattivo maestro”, bollato come irrazionalista e antiscientifico, le cui pagine, però, risultano oggi insospettabilmente attuali e fruttuose; secondo il professore fiorentino, oggi, «mentre sorgono nuove sintesi tra la “civiltà occidentale” e altre forme di cultura, s’impone una rimeditazione delle opere del grande inattuale».
Secondo Giano Accame, Spengler «continua a esser letto proprio perché l’attualità cresce. Il tramonto dell’Occidente è reso ancor più evidente dal risorgere dell’Oriente, della Cina e dell’India, nuove grandi potenze, mentre cala vistosamente il prestigio del dollaro statunitense. La previsione del cesarismo come correttivo al potere del denaro si è realizzata in gran parte d’Europa nella prima metà del Novecento ed è poi fallita nel 1945. Ma il fallimento di quel tipo di soluzione non ha certo eliminato il problema, che continua anzi ad aggravarsi, come io stesso ho cercato di dimostrare in un libro, Il potere del denaro svuota le democrazie (edito da Settimo Sigillo). La “guerra del sangue contro l’oro” ha appena chiuso a suo tempo un primo capitolo, come ha lucidamente compreso Ezra Pound».

Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola

Ha riscoperto la Tradizione, evocandone miti, archetipi, simboli, riti, itinerari iniziatici, scenari metapolitici: eppure, agli inizi degli anni Venti, era un pensatore e un artista "rivoluzionario", uno tra gli alfieri del "nuovo", un militante dell'avanguardia più estrema, il Dadaismo.
In molti suoi saggi, l'eredità della cultura pagana, quello "stile" e addirittura quel "lessico" sono proposti come valori a tutti coloro che, tra le rovine del mondo moderno, intendano comportarsi da uomini e fondare un nuovo ordine etico e politico: ma c'è chi si è consacrato alla più intransigente milizia cristiana dopo essere stato "folgorato" dalle sue pagine dedicate al Medioevo del Sacro Romano Impero, della Cavalleria, del Ghibellinismo.
L'hanno definito "Barone nero", "maestro occulto" della Destra reazionaria, addirittura, negli anni dell'immediato dopoguerra e poi in quelli "di piombo", ispiratore della più radicale contestazione antisistema, in poche parole un inquietante, pericoloso "fascista": e tuttavia, negli anni del Regime, l'ufficialità "littoria" lo guardava con sospetto e negli ambienti del vecchio MSI la sua lezione, ha trovato forse più aspri detrattori che convinti seguaci. C'è chi ha cominciato a sventolare la bandiera dell'Europa, superando la miopia del chiuso patriottismo nazionalista, grazie a lui: eppure i suoi itinerari "orientalistici" erano tutt'altro che "eurocentrici".
Aureolato di mistero, aristocratico, lontano dal chiasso della quotidianità, dal cicaleccio della politica, dai compromessi dell'industria culturale, pareva vivere in una sorte di "turris eburnea", in quella casa romana dove tanti giovani andavano a trovarlo, ma sui "beat", sugli "hippies", sulla "contestazione giovanile", sui "tic" e i "tabù" dell'Occidente seppe fare riflessioni acute, lungimiranti ed ancor oggi attualissime.
Molti lo hanno definito "cattivo maestro", ma molti altri pensano che abbia avuto, piuttosto, dei "cattivi allievi", come ha più volte sottolineato Gianfranco de Turris, che da una vita è impegnato nella definizione del composito profilo intellettuale di Evola e che per le Edizioni Mediterranee ha curato la riproposta, con attenti apparati critici, della sua opera. Certo, Julius Evola, nato a Roma il 19 maggio 1898 da una famiglia siciliana di nobili origini, benestante e cattolica, e qui morto l'11 giugno 1974, è stato ed è segno di contraddizione. Insomma, non tutti i nodi sono stati sciolti e un vago alone sulfureo gli sta ancora sospeso sulla testa. "Et per cause" vista la sua problematicità di pensatore anticonformista, antiaccademico, poliedrico, eterodosso, difficilmente classificabile.
E tuttavia, se già negli tra le due guerre lo "scandaloso" Evola riceveva tributi di stima da Adriano Tilgher, Benedetto Croce e Gottfried Benn e negli anni Ottanta studiosi come Renzo De Felice, Massimo Cacciari, Giorgio Galli, Emilio Servadio mettevano in risalto il suo ruolo e il suo rango nell'"interventismo culturale" del Novecento, oggi il dibattito si arricchisce di nuove voci. Mentre cadono vecchi pregiudizi. Ma anche la cultura più rigorosamente accademica e "scientifica" mostra interesse per le sue opere? E tra non molto potremo trovare il suo nome tra le pagine di qualche manuale di Storia delle dottrine politiche in uso nelle Università? Che nei confronti del "Barone nero" stiano maturando attenzioni, lo attesta Gian Franco Lami, docente di Filosofia Politica all'Università di Roma "La Sapienza", in un'intervista rilasciata a Marco Iacona, in cui, con dovizia di buoni argomenti, si evidenziano, insieme alle antiche ragioni della "diffidenza", quelle attuali della "apertura", per quanto non facile, dato che Evola non si è limitato a teorizzare nel chiuso della sua biblioteca, ma ha scelto le più audaci e scomode "contaminazioni" con la storia e con la politica ("Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola", prefazione di Gianfranco de Turris, Controcorrente, pp.430, euro 30). E questo è un punto che riteniamo importante, anzi cruciale: il confronto, al limite lo scontro, con una variegata esperienza intellettuale che non si è mai negata alla testimonianza. L'esoterista Evola, lo studioso del Graal, il cercatore lungo i più ardui e complessi itinerari sapienziali, ha anche vissuto "pericolosamente": giorni ed opere, per citare un celebre titolo di Georges Dumezil, corrispondono alle "venture" e alle "sventure" di un "guerriero". Ed è con questi contrassegni - contemplazione e azione - che, evocato da quaranta lettori illustri (Accame, Bonvecchio, Zecchi, Buttafuoco, Cardini, Veneziani, Risé, de Benoist, Mola, Sgalambro, Freschi, Germinario…), emerge da queste pagine di testimonianza e ricognizione, chiamandoci al dibattito.