martedì 24 marzo 2009

E se fosse più facile tornare missini nel Pdl che essere se stessi dentro An?

E se fosse più facile tornare missini nel Pdl che essere se stessi dentro An? Con Alleanza nazionale si scioglie in queste ore un equivoco durato quasi quindici anni. L’equivoco di un partito nato per mutazione liberaldemocristiana nel 1995 e accompagnato adesso al fine vita nel Pdl in un tumultuoso sfoggio di orgoglio identitario. Con un tocco di semplificazione paradossale si può dire che, se al congresso di Fiuggi i finiani avevano portato dentro un nuovo contenitore l’apparato missino deprivandolo del contenuto ideale ereditato dai Romualdi, dagli Erra o dagli Almirante, ora che An si disperde invece nel mare grande del berlusconismo finisce per aggrapparsi con tenacia all’albero maestro del proprio archetipo missino.
Non è un salto all’indietro, anche perché già alla metà degli anni Ottanta si poteva dare per acquisito il processo di “derattizzazione” postfascista – la formula non è neutrale ma evoca l’autorappresentazione goliardica dei missini come topi di fogna. Allora cos’è? E’ un processo che chiama in causa una classe dirigente maturata in una durevole esperienza di potere, e che non ha più bisogno di edulcorare se stessa (per convenienza o pavore) nel momento in cui entra a far parte di un partito unitario affiliato, sì, al Ppe, ma venato di populismo e consegnato in partenza all’egemonia berlusconiana. Non è casuale che nell’ultimo miglio di strada l’esigua nomenclatura di ex dc (come Publio Fiori e Gustavo Selva) o di paleoconservatori (Domenico Fisichella) si sia via via allontanata dal partito dei finiani. I quali non hanno mai transennato le uscite di sicurezza e cercano semmai di recuperare i transfughi Mussolini e Storace.
A dimostrazione che nel momento di criticità la destra italiana ricorre allo sguardo retrospettivo. La meccanica è agevolata da due circostanze: una recente affermazione delle idee riconducibili alla destra sociale (capitalismo temperato, decisionismo statuale, centralità del sacro) e la non rinviabilità dei conti da fare col berlusconismo. La prima circostanza induce al rimescolamento virtuoso delle obbedienze nel Pdl, attrae i bismarckiani Sacconi e Tremonti e semmai obbliga gli ex missini a reimpadronirsi di temi e tratti storicamente di destra altrimenti destinati a decorare le altrui casacche. La seconda circostanza impone ai finiani di rielaborare il berlusconismo portando nel Pdl tutto ciò che Berlusconi non è o non ha.
Per esempio la cultura della cosa pubblica come luogo aperto al confronto con la sinistra nazionale (se mai si deciderà a rinascere) ma chiuso a ogni tentazione proprietaria espressa a suon di denari. Quel senso dello Stato (maiuscolo) che gli esuli in patria della prima generazione missina hanno voluto trasmettere ai loro discendenti mentre ne democratizzavano l’avvenire. Anche l’auspicata sintesi di capitale e lavoro è una dote del corporativismo missino e lo è non meno dell’eticità attribuita alle istituzioni pubbliche o della combinazione tra il principio di selezione delle élite, la preferenza nazionale e il patriottismo delle regole. Tutto questo va sotto la definizione di organicismo, una riserva di energia trattenuta dentro An e nuovamente liberabile nel Pdl.
di Alessandro Giuli

Accame: da Repubblica Sociale a Ppe? Un atto di realismo

Giano Accame ha un record unico tra i "giovani di Salò": si arruolò la mattina del 25 aprile 1945 "la sera ero già in galera. Non ho mai fatto il 'miles gloriosus' anche per questo. Avevo 16 anni". Alle spalle Accame ha una carriera prestigiosa di intellettuale apprezzato e stimato anche a sinistra. Più volte ha duramente criticato Gianfranco Fini per le sue scelte e posizioni.
Oggi esprime un giudizio diverso, mentre segue An sciogliersi nel Pdl e presentarsi per l'adesione al Ppe. "Quello di Fini è un lucido e crudo atto di realismo politico", dice Accame all'ANSA. Accame ha un percorso molto particolare nella destra. Fu tra i relatori al convegno sulla "Guerra rivoluzionaria", nel '65, che getto' le base teoriche della strategia della tensione, dirigente missino fino al '68, tra i piu' stretti collaboratori di Randolfo Pacciardi, padre del presidenzialismo italiano, redattore delle più importante riviste della destra, direttore per molto tempo de 'Il secolo d'Italià. Durissima fu la sua critica a Fini che parlava del fascismo come 'male assoluto' ("quello non sa un cazzo ma lo dice benissimo", commentò). Oggi però guarda all'andare in cantina della Fiamma come di un necessario fatto imposto dai tempi. "Fini ha fatto bene a de-ideologizzare il partito, a sgravarlo del peso della sua storia.
Una scelta necessaria. Fini non brilla sempre per eccesso di eleganza ma per crudo realismo. Ha capito per tempo che l'era delle ideologie appartiene al passato. La fedeltà a queste ultime appartiene alla bottega del passato e, nella seconda metà del secolo scorso, pagava ed era un valore, oggi non più". Accame è molto attento al versante culturale di questa ennesima e decisiva svolta. Ci sarà una emarginazione, quanto meno culturale, per una certa cultura dopo l'abbandono della Fiamma? "Io ho cercato per tanto tempo le ragioni della mia scelta fatta a Salò. Ho trovato una risposta preparando una serie di ritratti di grandi intellettuali scomodi della destra. Ebbene come non accorgersi che il più grande filosofo del Novecento è Haidegger, dove collocare Ezra Pound, Gentile, Pirandello, Marconi, Miscima, Marinetti. Hanno espresso il meglio del Novecento. Come mai emarginarli se sono ormai pubblicati dai più grandi editori, anche di sinistra in Italia? Forse l'unico che paga ancora un ostracismo è Julius Evola ma arriva da chi non lo ha letto".
Fini ha quindi fatto la cosa giusta? "Perché rivolgersi ad un 10-15% degli elettori quando ci si può rivolgere ad una platea molto più alta e a cavallo del 50%? Oggi le ideologie, quelle che hanno dominato il Novecento e che sono state il patrimonio della seconda metà del seconda metà del secolo scorso, pesano molto di meno. Fini ha tolto il peso che gravava ancora su An. Un peso che invece ancora blocca e paralizza la sinistra". Qual è l'esigenza più importante da salvaguardare nella unione con Fi? "La saldatura tra visioni e posizioni nazionali, religiose e sociali. E' la base di questa nuova realtà che ora vuole una sintesi, non una miscela. C'é ad esempio dopo Auschwitz e Hiroshima il bellicismo non può più essere concepibile ma serve un vero contrasto alla guerra". Qual è il rischio maggiore? "La deitelogizzazione può portare ad un eccesso di pragmatismo e quindi anche, in una ulteriore degenerazione che scade nell'affarismo. E' un rischio che va sempre tenuto da conto". Accame comunque colloca questa svolta nell'orizzonte del superamento delle ideologie, "oltre la destra, oltre la sinistra - dice ricordando lo slogan sempre caro alla destra sociale dell'Msi - il vero ambito in cui si muove questa fusione é quello della deteilogizzazione, una scelta che è positiva ma che impone nuove analisi, nuovi modi di essere, nuove sfide. La globalizzazione non è stata quel fenomeno negativo che oggi si tende a raffigurare".

venerdì 20 marzo 2009

La destra non chiude, rinasce

Quella della «destra che chiude», la scritta vespista di Porta a porta, proprio non è piaciuta a Giorgia Meloni e Gianni Alemanno. La destra che chiude. Alleanza nazionale che rilancia. La destra che segna il passo. Un nuovo inizio. Il partito degli italiani. Il taccuino, sfogliato dai primi refoli primaverili, si riempie di appunti, impressioni, immagini. Certo, vai a capire se quelli che, era il 1946, s’incaricarono di fare il Movimento sociale avrebbero mai potuto pensare che i vinti, anzi i nipoti dei vinti, aperti alla modernità sfolgorante della meccanica anglosassone e maggioritaria del consenso, si sarebbero fatti partito al potere. E qualche volta, partito di potere.
Da dieci giorni i quotidiani sono pieni zeppi di inchieste sulla destra che cambia, articoli sulla destra che si scioglie, inchieste video su destre ed estreme destre, foto di manifesti (arriveranno) che se la prendono col presunto traditore di turno, filologie, inchieste sulla pancia del partito che «borbotta o non borbotta?», fino al paradosso degli appelli metrosexual e similnostalgici dei nemici di un tempo, da Piero Sansonetti a Peppino Caldarola, che quasi invocano i postfascisti di «aprirsi e non perdersi», così citiamo Almirante e tutti sono felici, perché era tanto bello fare politica di scontri e conflitti.
Anche a questo, ha notato giustamente Filippo Rossi su Ffwebmagazine e Michele Brambilla su questo giornale, siamo costretti ad assistere: non solo alla solita processione di cariatidi identitarie che vengono tirate fuori dalla naftalina ogniqualvolta bisogna segnare, ma pure alla lacrimuccia versata ben bene sulla fiamma che si spegne senza spegnersi. Che poi il punto sta tutto là: Alleanza nazionale e Forza Italia si uniscono in un solo partito. Detto in politologicamente corretto: trasformano in partito quello che, neppure un anno fa, è stato il cartello elettorale che ha vinto le elezioni, proprio nel giorno in cui, siamo al 27 marzo, il destino e la memoria lunga del marketing calano l’asso del quindicennale della prima, grande, rivoluzionaria vittoria berlusconiana. Marciare per non marcire, perbacco.
Per gli elettori della destra, si sa, il Pdl era scritto nell’ordine delle cose. I più colti o memorandi addirittura ne collocano l’embrione nella «costituente di destra» prefigurata da Giorgio Almirante al procedere degli anni Settanta, altri accostano a Pinuccio Tatarella le tante pagine che Millennio dedicava all’«oltre al Polo», persino una traccia nel dna della destra sociale fatta di liste civiche, ambientalismo trasversale e «scioglimento di tutti i fasci», Nuova destra ed elaborazione di riviste come Area o Charta Minuta, saranno materiale da batteria storiografica eppure esiste, nel torrente minoritario a cui affluiscono le culture di destra fino al 1994, una specie di volontà di uscire dal recinto del «sangue dei vinti» e rimettere in moto la vocazione modernizzante e maggioritaria della destra italiana, forgiata nelle trincee del Novecento e postmoderna di politiche e immaginario.
Pietrangelo Buttafuoco, che è navigato osservatore di questo mondo, definisce «matrimonio consumato in fretta» quello tra coloro che fra poco saranno ex berluscones ed ex post-post-fascisti, e però noi aggiungiamo che le nozze si celebrano dopo quindici anni di un fidanzamento che, come tutte le relazioni, ha avuto alti e bassi, promesse d’amore e terzo, auguri e figli maschi, e momenti di crisi nel suo etimo profondo di krisis, passaggio, trasformazione.
Scriveva Moller van der Bruck che il vero «conservatore» è colui che costruisce o immagina cose che vanno la pena di essere conservate. Come quando, fatto un trasloco, si buttano via le cose inutili e gli orpelli superflui. C’è chi può stupirsi, assieme a noi che ci stupiamo del livello per nulla ottimo e abbondante della qualità del dibattito culturale e politico sviluppato attorno ad An e al Pdl, che dalle parti di An gli attentissimi sismografi del gossip abbiano rilevato pochi borborigmi, preludi a reali mal di pancia. C’è stato l’addio di Adriana Poli Bortone, ma è faccenda legata a equilibri salentini.
Sabato, forse, alla nuova Fiera di Roma, finita la colonna sonora, spento il video di tributo al passato, ci saranno Menia o Viespoli a picchiettare i muscoli della destra rilassata, ma non si andrà oltre, qualcuno lo deve pur fare, la classica mozione degli affetti (e non degli effetti, «dati cause pretesti» diceva il Guccini che a destra qualcuno fa ancora impazzire, accanto a Battiato, Vasco e De André: quelli, gli effetti e i cantautori, non li discute nessuno). C’è Gennaro Malgieri che ha espresso perplessità, ma fa bene che qualcuno punti i piedi, aiuta a non consumare con troppa velocità le forme della politica. Ci sono gli irriducibili di Facebook, e come no, che si divertono a fare i pierini da tastiera, ma Bruno Tiozzo, una sorta di Captain Harlock della destra sul web, ha rintuzzato senza perdite gli attacchi. Per qualche militante o intellettuale che paventa la «annessione» di An a Fi, ci sono Piero Ignazi o Aldo Schiavone che pensano l’opposto.
È il libero gioco delle prospettive. Forse è questa la ragione: se un partito è un corpo politico, possiamo dire che nel 1995, a Fiuggi, dal Msi ad An è stato il momento della pancia e del cuore, il congresso del 2009, da An al Pdl, è il congresso della testa e del cervello. Passione contro ragione. Salto nel fuoco contro elaborazione. L’immaginario della destra è già a posto, ha modernizzato quando doveva, ha affiancato quando poteva la Mitbestimmung alla Carta del Carnaro, il mitomodernismo al futurismo, Goldrake a Berto Ricci, Tremonti a Bottai, il Tibet all’Irlanda, il realismo politico a Jünger, le comunità giovanili alle comunità militanti, compresa qualche scivolata cafoncella puntualmente fotografata da Dagospia. Senza berlusconizzarsi, come obiettano i maligni, perché nel frattempo anche Berlusconi è cambiato, lui e i suoi, alcuni dei quali sono diventati più tradizionalisti di Alfredo Mantovano.
E la classe dirigente della destra, uno per uno, Alemanno e Gasparri, Urso e Bocchino, La Russa e Matteoli e così via, con Fini che li osserva dalla sua postazione istituzionale, vanno a braccetto con le destre modernizzatrici di mezzo continente, con Sarkozy e anche col Cameron che non si vergogna di issare la bandiera dei diritti civili e dell’ambientalismo. Con grave scorno dei passatisti, che vorrebbero una destra impaurita dalla modernità. Si ricorderà qualcuno dell’ammonimento di Ezra Pound sul valore degli uomini e delle idee che portano sulle spalle, chi vivrà vedrà. Non c’è troppo conflitto, fatte salve le fisiologiche punzecchiature e l’immancabile disputa sugli assetti organizzativi, perché non siamo più nel 1994, quando Forza Italia nasceva sul video e Alleanza nazionale si faceva sul territorio.
E infatti, esaminata qualche ricostruzione dei congressi provinciali con cui la classe dirigente di Alleanza nazionale ha decretato - o confermato che è lo stesso - il percorso di confluenza nel Pdl, concluso qualche giro di telefonate, la sensazione è quella di un rapido momento di transizione governato dall’attesa piuttosto che dalla suspense, dalla curiosità piuttosto che dall’emozione, dal senso di necessità storica e del «come se fosse già» più che da quello di una rottura rivoluzionaria. Analizzando brevemente le ragioni di questo stato di quiete, qualche motivo salta agli occhi con grande immediatezza. Dell’assenza di confronto sulla leadership si è scritto tantissimo, ma è vero: An intera riconosce la leadership di Berlusconi, ragiona piuttosto sull’assestamento di equilibri tra personalità carismatiche, e questo disinnesca possibili fonti di tensione congressuale. Se un partito è costruito per durare come una diga d’acciaio nel fluire del tempo, c’è tempo e non c’è fretta.
Della maggiore omogeneità programmatica tra An e Fi s’è detto meno, ma è altrettanto evidente che il liberismo e il culto del thatcherismo hanno abbandonato i berlusconiani, e la socialità della destra s’è aperta al valore dell’impresa e della competizione. Un siparietto non felice come il seminario del 1996 di San Martino al Cimino, quando Lucio Colletti e Marcello Pera vennero a dare lezioni di liberalismo a quelli di An, che comprensibilmente insorsero, è oggi un ricordo sbiadito. Il moderatismo, poi, è sparito fortunatamente dal vocabolario di tutti, e alligna semmai dalle parti dell’Udc. Del pluralismo culturale non c’è da preoccuparsi, c’è una bella polifonia di fondazioni, da Magna Carta a Fare Futuro, da Free a Nuova Italia a Italia protagonista, settimanali come il Domenicale, sofisticati aggregatori web, collane editoriali, fanzine, postazioni su Facebook, fortini di trasgressione culturale come il nuovo Secolo d’Italia.
Gli elettori di An, ancora, a parte la comprensibile voglia di marcare la propria identità anche nel traghettamento del nuovo partito, hanno raggiunto una maggiore omogeneità con quelli di Fi, lo dicono i sondaggi e lo mostra la traiettoria di progressiva omologazione di agende politiche e percezioni delle gerarchie di problemi che oggi, molto più che in passato, accomuna la cosiddetta «base» di An e Forza Italia in una destra securitaria che accosta ai classici temi dell’ordine quelli dei diritti individuali e della sicurezza sociale. Restano, per combattere sul terreno sano dell’egemonia politica e culturale, i temi di una destra contemporanea, il senso civico, l’etica repubblicana, la giustizia sociale, la sobrietà, la responsabilità istituzionale, l’identità nazionale da costruire assieme a un’Italia da rifondare nel suo senso di appartenenza. Ma, pensano i militanti, c’è tempo: nel frattempo, si apra il sipario del nuovo spettacolo politico.
di Angelo Mellone

Intervista sul fascismo

Ci sono dei libri di storia (pochissimi) a cui capita di diventare essi stessi un fatto storico. È il caso di Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, pubblicato da Laterza nel 1975. Il grande merito di De Felice - con la biografia di Mussolini, in realtà una storia del regime fascista - fu basare i suoi studi sui documenti e non su pregiudiziali ideologico/politiche, pro o contro. Se i primi tre tomi avevano soltanto disturbato la storiografia di sinistra, allora dominante, il quarto ebbe un effetto dinamitardo: le quasi mille pagine di Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936 uscirono nel dicembre del 1974 e la loro tesi di fondo provocò polemiche a non finire. Vi si sosteneva, e vi si dimostrava, che il regime godette per un lungo periodo di una straordinaria partecipazione popolare. Oggi è un dato acquisito (malvolentieri) anche dalla storiografia di puro stampo antifascista, però allora De Felice venne addirittura accusato di filofascismo. Anche per questo volle pubblicare, in un’agile intervista accessibile a tutti, la sintesi del suo pensiero.
L’idea era stata di Vito Laterza, e ottenne un enorme successo di vendite, inusitato per un volume del genere. L’intervistatore fu l’americano Michael Arthur Ledeen, allievo di George Mosse, in quel tempo giovane visiting professor alla «Sapienza» di Roma e poi diventato un leader dei neoconservatori statunitensi. De Felice, nella prima parte del libro, spiega la distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento; il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l’idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta». E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». È fondamentale anche l’individuazione dell’elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata».
Di più: De Felice sostenne, per la prima volta, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un’affermazione inaccettabile, e forse aveva ragione Ledeen quando, vent’anni dopo, spiegò l’origine politica di quella reazione furibonda: il predominio culturale del Pci stava cominciando a indebolirsi, e il partito si sentiva minacciato nella sua egemonia da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L’unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu un uomo coraggioso e onesto come Giorgio Amendola.
Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel ’74 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel ’76 da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano. Nonostante questa e altre aperture, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che - quasi vent’anni dopo - l’Msi si autodissolse a Fiuggi e che fra pochi giorni il suo erede, Alleanza Nazionale, si fonderà nel liberale Popolo delle Libertà.
di Giordano Bruno Guerri

giovedì 19 marzo 2009

Una nuova Alleanza da Jünger al pop

Alleanza nazionale che tra due giorni non ci sarà più, diventerà Popolo della Libertà in sposalizio con Forza Italia e come in ogni matrimonio porterà in dote un suo patrimonio. Di quello immobile – fatto di ricchi edifici, appartamenti e proprietà sparsi per l’Italia – i contraenti se la risolveranno dal notaio. Di quello impalpabile, invece, quello dell’immaginario fatto di libri, film, musica e tendenze, se ne può fare una conta perché è materia culturale già bene esposta al sole. Una materia già condivisa. A partire dal linguaggio esplicito dell’atto fondativo di questa stagione politica prossima a quagliare: il discorso del predellino. L’estemporanea pensata di Silvio Berlusconi del 22 novembre del 2007, infatti, quella che dà avvio al Pdl, sempre che i segni siano rivelatori non accade a caso. Comincia da piazza San Babila a Milano, luogo simbolo della patria identitaria della destra, ma nel costringere col suo happening il ritroso Gianfranco Fini a capitolare verso più opportune nozze, il Cavaliere adotta un tipico stilema caro al sentimento dei militanti già sambabilini: qualcosa a metà tra il situazionismo e il futurismo.
Con slancio marinettiano Berlusconi supera a destra lo stesso Fini e assorbe quegli umori dada e quelle monellerie goliardiche che, di fatto, lo fanno sentire padrone di casa perfino nel luogo più antitetico alla casa liberale: il festival di Atrjeu, la kermesse romana di tarda estate organizzata ogni anno da Giorgia Meloni all’insegna de “La storia infinita”, il best seller di Michael Ende, il romanzo che segna l’emancipazione rispetto ad un altro mito ormai archiviato dalla destra pre-predellino: “Il Signore degli Anelli” di Tolkien. Quello, appunto, dei Campi Hobbit. Come dire: un’era fa. An non ha elaborato un progetto sulla cultura popolare di massa ma una certa sintonia col sentimento diffuso degli italiani le riesce in virtù di veri e propri protagonisti pop. Appena archiviata la stella di Daniela Santanchè, An ritrova in Renata Polverini, leader dell’Ugl, un’altra icona dell’universo femminile. Tutto però è pop.
Accanto a quella che fu la tivù di Cristiano Malgioglio poi, o la simpatia di Lando Buzzanca e quella di Lino Banfi, trionfa lo sdoganamento luciferino di Ignazio La Russa fatto da Rosario Fiorello. Per la prima volta un post-missino diventa tormentone: “Di-gi-a-mo-lo!”. Il popolo di An post-predellino adotta ancora quali beniamini gli attori del Bagaglino e le belle labbra di Elisabetta Canalis (additata quale “militante”). Dall’Olimpo dello sport, per esempio, dopo Nino Benvenuti, i portatori di dote esaltano oggi Gianluigi Buffon (avvistato con celtica), quindi Rino Gattuso (emblema del celodurismo meridionale), Fabio Capello e – infine – il campione di rugby Andrea Lo Cicero. Tutti ben ritratti da Michele De Feudis, tra i più bravi cercatori di tendenza nel mondo della militanza di destra. E se tutto questo appropriarsi genera un’inedita familiarità coi segni e coi simboli della contemporaneità, per la prima volta il mondo di An esce dal tunnel esistenziale: mai più esuli in patria.
Due morti fatti martiri, Fabrizio Quattrocchi, ucciso dagli islamisti in Iraq, e Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso in una maledetta giornata di sport, rinnovano oltre il triste rituale della guerra civile e degli anni di piombo il labaro dei Cuori Neri. Ma tutto è pop. Al prezzo di un frizzante frullato dove con Marco Masini che canta “E’ un paese l’Italia? (sostituendo nelle hit d’appropriazione indebita anche “Povera Patria” di Franco Battiato), convivono il Dalai Lama e la rinnovata estetica romantica: quella di Fight Club per esempio, sia in pellicola che nel libro di Chuck Palhaniuk. Il partito di via della Scrofa in tema di professori e letterati è certamente debole. Fatta eccezione per un navigato professionista dell’organizzazione culturale qual è Umberto Croppi, oggi assessore a Roma, e per un altro impavido assessore quale Carlo Sburlati (solitario in terra ostile con il suo Premio Acqui, bistrattato rispetto al sontuoso Grinzane), An è ancora un posto d’improvvisazione.
Accanto all’instancabile attivismo di un Maurizio Gasparri che ingaggia potenti battaglie contro il cinema dei salotti (ha appena organizzato una visione aperta al pubblico di “Katyn” il film di Andrzej Waida praticamente censurato per manifesta indifferenza della società intellettuale) e contro la Rai delle terrazze (si ricordi la fatica di portare in video la fiction su Perlasca, quella sulle Foibe e quella, mai riuscita, sul delitto Calabresi), An può contare su ffweb, il magazine in rete di Filippo Rossi legato direttamente a Gianfranco Fini e allo storico Alessandro Campi (dove, a fianco di Angelo Mellone, crescono i nuovi talenti quali Diletta Cherra, Antonio Rapisarda e Federico Brusadelli). Sul tavolo del patto matrimoniale c’è anche un giornale. E’ il Secolo d’Italia e se già il quotidiano diretto da Flavia Perina è direttamente coinvolto nella confezione dei numeri congressuali per l’uno e per l’altro contraente, c’è da ricordare quanto importante sia stata l’attenta regia di Luciano Lanna nel veicolare arredi e corredi della novità post-predellino.
Lanna è l’autore di Fascisti Immaginari (scritto con Filippo Rossi, edizioni Vallecchi, trentamila copie) ed è dalle pagine del Secolo, infatti, rimbalzate sugli altri giornali, che la destra di An ha aggiornato il proprio album. Basta dunque con lo stucchevole richiamo ad Antonio Gramsci e a Pierpaolo Pasolini, piuttosto si sollecita una rilettura di Luciano Bianciardi e di John Fante che, dentro An, rappresenta l’America che piace. Accanto a Paolo Borsellino, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, An colloca nel proprio bagaglio Roberto Saviano. L’uno e l’altro molto amati: per una militanza esplicita del primo e per un’affinità elettiva il secondo (con coraggio – specie a mettersi contro la fauna politically correct, vendicativi peggio dei casalesi – Saviano rivendicò il diritto di salutare in Giorgio Almirante un esempio, per non dire delle letture: Ezra Pound con cui l’autore di Gomorra chiuse una splendida puntata tivù con Enrico Mentana e poi Ernst Jünger). Certo, An non ha più la sofisticata attrezzeria intellettuale su cui poteva fare affidamento la destra degli Ugo Spirito, dei Volpe e degli Ettore Paratore, tanto per scandalizzare con i nomi più ingombranti, non ha la potenza espressiva di una realtà eccentrica quale Casapound (il centro sociale romano di Gianluca Iannone), ma questa è la stagione del matrimonio consumato in fretta. E non con fiero occhio e svelto passo, ma con mezzo tacco. Fuori dal predellino.
di Pietrangelo Buttafuoco

An? Almirante capì tutto Silvio è già il capo della destra

La foto con dedica è quella inconfondibile del Caudillo: A nuestro queridisimo amigo Giulio Caradonna, Francisco Franco. «Ho studiato all'università di Santander. La città presa dalle nostre camicie nere» ricorda lui. Ovviamente, fermacarte con profilo del Duce: «Ora mi hanno proposto l'acquisto di un bel ritratto futurista di Mussolini, ecco le foto. Bello no? Credo lo prenderò». C'è anche un autografo di padre Pio, che ringrazia Giuseppina Caradonna, la madre, per le 50 mila lire versate alla Casa sollievo della sofferenza. E il ritratto del padre Giuseppe a cavallo, con camicia e stendardo neri.
«Papà è stato il vero antagonista di Di Vittorio, non quel barone smidollato vestito di bianco, che non è mai esistito. Quanti errori nella fiction tv! Mio padre non aveva latifondi, ma uno stabilimento vinicolo, che gli fu bruciato. E poi lo scontro non era per le terre; era politico. Giuseppe Caradonna fondò la cavalleria pugliese per difendere le masserie assediate dai sovversivi. E fu tra gli artefici della marcia su Roma», qui ricordata dallo schizzo di una squadra fascista su un camion 18 BL. «Quando, dopo la guerra, mio padre fu arrestato, Di Vittorio non disse una parola contro di lui. Del resto era un ardente patriota. Non è vero che fu chiamato alle armi per punizione: era un sindacalista rivoluzionario interventista, prima di partire aveva baciato il Tricolore sulla piazza di Cerignola. Papà uscì di prigione con l'amnistia Togliatti. Nasceva l'Msi...». Giulio Caradonna, classe 1927, otto legislature, oltre trent'anni in Parlamento, è la memoria più antica della storia che si chiude definitivamente sabato prossimo. «An rappresenta una fase transitoria. In fondo inutile, visto che già Almirante aveva inventato la Destra nazionale, per superare il revanscismo fascista. Per fortuna ora avremo il Pdl: il grande partito di destra che mancava all'Italia. Da tempo anche per l'elettorato di An il capo è Berlusconi. Un vero uomo di destra trova un riferimento naturale nel Cavaliere, non certo in Fini, eterno agnostico, che non ha mai compreso sino in fondo il ruolo politico-culturale dei missini».
«L'Msi fu una grande operazione di Michelini e Almirante, che ereditarono il fascismo anticattolico, antisemita e antiborghese di Salò e ne fecero una forza conservatrice, filoisraeliana e filoatlantica. Questo uno come La Russa l'ha ben chiaro. Di quella generazione è il migliore, grazie alla scuola del padre, figura di primo piano nella politica e nella finanza. Anche Gasparri l'ha capito: pure lui viene da un'ottima famiglia, di alti ufficiali dell'Arma. Alemanno invece non l'ha capito mai. Me lo ricordo ragazzo: grande coraggio fisico, poca intelligenza politica. Lo rivedo con la kefiah in testa, guidare i nostri giovani sinistrorsi e filoarabi: gente che imbrattò di vernice rosso sangue l'ambasciata israeliana, che tentò di bloccare il corteo di Nixon. Rautiano di ferro, ne sposò la figlia ma lo mollò per Fini. Ora mi dicono si sia ravveduto. Vedremo come farà il sindaco di Roma». Storace? «Bravo ragazzo. Sinistrorso pure lui. Ma dove vuole che vada il suo partitino?». Fini? «Stava a metà strada. Agnostico, appunto. Non ho mai avuto un gran rapporto con lui. In vista delle elezioni del '94, feci un'intervista per dire: dopo De Lorenzo e Miceli basta reclutare uomini dei servizi, se no tireranno fuori la storia che siamo collusi. Lui annunciò la mia esclusione dalle liste in tv».
Matteoli? «Brav'uomo. Ma non conosce neppure la storia della sua terra. Quando gli suggerii di erigere un monumento a Montefiori, l'ebreo livornese che dà il nome al primo quartiere moderno di Gerusalemme, mi rispose: "E chi è?". A proposito: io entrai con la kippah nel museo dell'Olocausto già nel '73; e senza bisogno di abiure». Urso? «Bravino. Ma l'intelligenza più lucida è una donna: Angiola Tatarella, la moglie di Pinuccio. Lui era accorto, ma sopravvalutato. La vera mente era lei. Purtroppo la destra resta maschilista; altrimenti accanto a Berlusconi avremmo Angiola». Sulla scrivania, tra Alcyone di D'Annunzio e il Cammino di Josemaria Escrivà da Balaguer, Caradonna ha il saggio di Orazio Tognozzi Licio Gelli e i giorni della linea gotica. «Gelli era una bravissima persona. Sono stato con lui nella P2, e per questo fui sospeso dal Msi, perseguitato da inchieste di partito, ma poi riammesso. Perché da Gelli mi aveva mandato Almirante: "Vedi un po' di parlare con questo signore, perché senza il suo assenso i soldi ai partiti non arrivano". La missione ebbe successo, e Gelli aiutò Almirante».
Guardi che donna Assunta ci trascina in tribunale. «So quel che dico. Giorgio mi espresse la sua eterna gratitudine. Non è vera invece quell'altra diceria, secondo cui guidai con Almirante la squadra che assalì l'università di Roma nel '68». E i leggendari pugili di Caradonna? «Fondai una scuola di pugilato, mia grande passione. Ma quel giorno i pugili restarono in palestra. Io arrivai tardi, quando già i nostri erano stati respinti, ed essendo claudicante dovetti riparare con loro nella facoltà di giurisprudenza. Ma la causa era sacrosanta. I ragazzi di destra non dovevano mischiarsi con i rossi. Già allora sul '68 si intravedeva l'ombra della Cia». La Cia? «Chi c'era dietro la scuola di Francoforte? Chi dietro la rivolta francese che mise in ginocchio de Gaulle? Il '68 fu un anno torbido. Per fortuna, la destra vigilava».

venerdì 13 marzo 2009

Il «Viaggio civile e sentimentale» nel Mezzogiorno

Dopo valanghe di istigazioni a liberare il Sud dagli incantesimi per adeguarlo alla nordica modernità, all’etica protestante e weberiana, lasciate che qualcuno vi insinui il dubbio opposto: che la risorsa segreta del Sud sia reincantarsi, sulle tracce di Pitagora e delle Sirene, di Vico e del pensiero forte del Meridione, il Sud arcaico e poderoso delle origini, greco e dionisiaco, venato d’Oriente e venuto dalla terra, dal mare; perfino il Sud magico e superstizioso esplorato da Ernesto De Martino...
L’ardimento della scommessa, il suo lato più impervio ma anche più creativo, è pensarlo con gli occhi del presente, tradurlo nella sensibilità di oggi, correlarlo alla tecnologia di cui disponiamo. Il fascino del Sud passa dalla sua forza di seduzione, nel suo significato letterale di condurre a sé. Il Sud ha bisogno del suo racconto per ritrovare anima e corpo. «Ti invito al viaggio in quel paese che ti somiglia tanto» (Sgalambro-Battiato).
Ma da dove ti viene questo libro sul Sud? È un elogio dell’arretratezza, un leghismo capovolto, una forma rifratta di autobiografismo, un tardivo amore di coccodrillo per le origini tradite, come per risarcirsi dalla lontananza? Non ha più senso questa geoletteratura di sapore etnico, dicono: il Sud è un’astrazione. E poi non sai che al Sud si legge poco, che i lettori sono del Nord; e non sai che difendere il Sud è una battaglia di retroguardia, perché il meglio del Sud è già emigrato, anche solo mentalmente, comunque non sta più con la testa a mezzogiorno? Vuoi fare il romantico terrone, ti vuoi atteggiare con civetteria a «laudator temporis acti», è solo un vezzo, una volta perdute le altre appartenenze ideali, ideologiche, politiche e magari famigliari? Un rigurgito etnico espresso in differita, un debole, languido razzismo biologico che si sfoga in letteratura? Ma no, non è così o forse è così come dite voi, ma tutto quel che dite in blocco, senza escludere niente...
Quanto alla gente, c’è Sud nei tre quarti del pianeta e nei tre quarti del nostro paese; il Sud esporta umanità; il resto si divide tra Nord, Centro e altrove...
Parlando del Sud so di parlare a ogni uomo; perfino chi non è del Sud vede nel Sud il suo luogo di riposo, di ricarica, di vacanza. C’è una forza di gravità o di attrazione che spinge verso sud anche chi non è nato al Sud; c’è sempre un famigliare, un’origine, un ricordo, un richiamo che ti porta a scendere. Secondo Predrag Matvejevic, negli uomini del Nord c’è qualcosa che li spinge a sud, non solo «l’aspirazione a un sole più caldo e a una luce più forte», ma qualcosa come una «fede nel Sud… indipendentemente dal luogo di nascita o di residenza». Per lui il Sud come il Mediterraneo «non si eredita ma si consegue». Non è solo memoria ma anche Destino.
Più il pianeta si ritira nei piani alti, più la globalizzazione coincide con la settentrionalizzazione del mondo, più il Sud diventa il luogo della vita autentica, il vivaio dell’umanità, il pozzo profondo che disseta le nostre radici. Il Sud è il luogo della nascita: chi scende al Sud viene alla luce. Il movimento è verso il Nord; al Sud riposa l’essere.
Percorro la via del Sud, partendo dal suo punto più estremo, Capo Leuca. È un pomeriggio estivo della mitica controra; un solleone maestoso, noetico, avvolge tutto il paesaggio e non concede riparo neanche dietro le lenti scure.
Al Sud d’estate il mondo è sfacciato, pubblico, vistoso e non c’è ombra che possa cancellarlo. Inoltrandosi poi nel Tavoliere non ci sono nemmeno alibi montani, il sole comanda nel paesaggio come un sovrano assoluto e non c’è scampo. C’è una luce bianca, abbagliante, ma in autostrada la legge obbliga le auto a viaggiare con i fari accesi, sempre. Notte e giorno, estate e inverno.
È una regola di Bruxelles, piovosa e grigia, una legge imposta dall’Europa buia anche di giorno all’Europa mediterranea, luminosa e bianca anche di notte. (...) Cos’è questa accettazione passiva di una Legge contronatura, questo antico fatalismo asservito alla Modernità assurda e astratta della Norma Europea? Abbiamo o no coscienza della terra in cui viviamo? Il discorso vale per ogni Sud, non solo in Italia; vale per la Grecia e la Provenza, per la Costa do Sol e l’Andalusia...
Capisco il rimprovero ai meridionali di non usare le cinture di sicurezza con la scusa del caldo e magari il complesso del cafone emancipato, che non sopporta di farsi legare perché gli ricorda la sua servitù passata (i ca’fune erano appunto legati con una fune al collo). Ma l’obbligo della luce è cecità ideologica. (...)
L’uomo del Sud esiste. Leonardo Sciascia, da meridionale con l’aggravante di essere siciliano, negava l’esistenza di un tipo umano meridionale, l’«homo terronicus», per dirla in termini di antropologia ironica. «L’uomo del Sud e cioè un tipo umano riconoscibile, catalogabile e giudicabile in quanto uomo del Sud, non esiste» scriveva. Secondo Sciascia il clima, le lunghe estati, la siccità e gli scirocchi non riescono a spiegare le condizioni del Meridione, sono solo alibi. (...) Invece io credo che l’uomo del Sud esista. E credo che ci sia anche una vaga ma vera parentela tra tutti i Sud. Non fraintendetemi, non credo che esista una razza meridionale o un’etnia sudista; peraltro al Sud siamo così diversi tra pugliesi e calabresi, tra entroterroni e rivieraschi, perfino tra napoletani e irpini o tra salentini e dauni. I siciliani, poi, sono davvero un popolo a sé. Penso invece che vi sia un carattere, una sensibilità meridionale, un’impronta culturale e sentimentale viva. Essere del Sud è un’indole, a volte un’indolenza. Certo non sono passati invano gli spagnoli ma neanche i precedenti, a cominciare dai greci. Non sono passate invano le dominazioni francesi, longobarde, saracene. Ma hanno contato quanto la frutta, la campagna, il mare, il paesaggio, il clima, la vita all’aria aperta, la carnagione, la mediterraneità più marcata, lo struscio e la sanguigna teatralità.
di Marcello Veneziani

martedì 10 marzo 2009

Ma Marinetti se ne infischia del Corriere

Filippo Tommaso Marinetti definì il Corriere della Sera «Centrale severa del Grigio e del Conservato Sempre». Non aveva tutti i torti, se pensiamo che il quotidiano milanese concesse pochissima attenzione alla nascita e allo sviluppo di un movimento che - cresciuto proprio a Milano - stava conquistando rapidamente l’attenzione della stampa internazionale.
Sfogliando le annate del Corriere diretto da Albertini, si scopre che Boccioni viene ignorato e che non si dà notizia della pubblicazione dei Manifesti, mentre vengono riportate con compiacimento le cronache, fiorite da commenti indignati o canzonatori, di zuffe e colluttazioni. Nel 1910, viene riservato molto spazio al processo per oltraggio al pudore subito da Marinetti per il suo Mafarka, ma con un taglio decisamente poco equo: un trafiletto fitto di recriminazioni sull’assoluzione, contro un compiaciuto articolo di commento alla condanna decisa in Corte d’appello... Oltre a questo, quasi nulla. Del resto, Marinetti era convinto che «Tutto ciò che viene immediatamente applaudito, certo non è superiore alla media delle intelligenze ed è quindi cosa mediocre, banale, rivomitata o troppo ben digerita».
A distanza di cento anni, pure il Corriere della Sera ha dovuto dedicare pagine e pagine al futurismo, riconoscendone l’importanza e l’interesse: anche grazie alle celebrazioni che hanno indotto il pubblico - poco educato dalla scuola (e dai giornali) - a conoscerlo e a apprezzarne i meriti. Ma Filippo Tommaso, che teorizzava «la voluttà di essere fischiati», avrebbe apprezzato di più l’articolo di Pier Luigi Battista uscito ieri proprio sul Corriere, dove Battista - che del quotidiano è vicedirettore particolarmente addetto alle pagine culturali - si chiede se «è così inopportuno e riprovevole affermare che il Futurismo, chissà, è stata una boiata pazzesca».
Certo, Battista riconosce che dobbiamo inorgoglirci per le opere di Boccioni, Carrà e Balla, per le intuizioni di Sant’Elia e per la creatività futurista che ha inciso in ogni campo delle attività umane. Però sospetta che il movimento abbia raggiunto le «vette un po’ macchiettistiche del fanfarone italiano, petto in fuori e testa calda». E anche se fosse? Il servigio che il futurismo ha reso all’Italia è stato appunto di essere un movimento nato e cresciuto in Italia, e che per un certo periodo ha riportato all’avanguardia - dopo secoli - la nostra cultura, che è fatta anche e necessariamente del nostro modo di essere. Non a caso l’italianismo era uno dei vanti di Marinetti, proprio quell’italianismo petto in fuori che non è uno dei difetti peggiori del nostro popolo: il quale deve vedersela ancora, nonostante il futurismo, con un guasto maggiore, la «genia degli avvocati e dei professori», come sosteneva Marinetti.Il quale non piace affatto a Battista, che lo liquida come una macchietta intenta a seduzioni sbrigative e a coiti veloci. Eppure non ci vuole tanto a considerare che - senza Marinetti - probabilmente Boccioni sarebbe rimasto un pittore sconosciuto e che l’Italia non avrebbe avuto la primogenitura di tutte le avanguardie del Novecento. No, Zang Tumb Tumb per Battista è una «puerile filastrocca», e chi sa cosa ne penserebbe Giuseppe Ungaretti, che dal parolismo - insieme a tanti altri poeti - ricevette la spinta a sciogliere il rigore del verso.
Chissà, forse ha ancora ragione Marinetti quando accusava il Corriere di «opposizione mediocrista». Di certo ripeterebbe, beato: «Ringrazio gli organizzatori di codesta fischiata, che altamente mi onora».
(di Giordano Bruno Guerri)

lunedì 9 marzo 2009

Quei due eroi arcitaliani "alla Céline": Compie cinquant’anni “La Grande Guerra”, un film che ci riconciliava col ’15-18

Sì, La Grande Guerra compie cinquant’anni. Uno dei film più noti della commedia all’italiana sceneggiato da Age, Scarpelli, Luciano Vincenzoni e Mario Monicelli che ne fu anche il regista, ha già mezzo secolo di vita. Più o meno come la bambola Barbie e la rivoluzione cubana. E della prima e della seconda questo film sembra aver rubato quel qualcosa che tanto somiglia al perenne bisogno di far parlare di se stesso. Come si trattasse di un evento che ha segnato nell’immaginario la storia recente della nostra vita e che ci accompagna dai tempi in cui l’Italia era una nazione piena di indefinibile speranza e di ottimismo. Proprio così. Si trattò di una pellicola che per molti versi sorprese pure gli stessi autori (fu Leone d’oro alla XX Mostra del cinema di Venezia ex aequo con Il Generale della Rovere, tratto da un romanzo di Indro Montanelli e girato da Roberto Rossellini, e candidato all’Oscar pochi mesi dopo) e che fu apprezzata ma anche criticata ancor prima che uscisse nelle sale. Il perché è ovvio ed è presto detto. Si trattava di una commedia, dunque apparentemente di una presa in giro del nostro ’15- 18, vale a dire di un evento complessivamente sacro, e che più che sacro era stato negli anni Venti e Trenta quando la Grande Guerra era stata vista come un presupposto per l’instaurazione di un nuovo corso ideale, militare e politico. Adesso però gli artefici del progetto affidavano le parti di protagonisti a due tipi strampalati (Oreste Jacovacci e Giovanni Busacca interpretati da Alberto Sordi e Vittorio Gassman), che rappresentavano il non plus ultra dell’italianità individualista e furbarola quella appunto che l’italica commedia amava da tempo prendere di petto con ispirata cattiveria. Da un lato il sacro e dall’altro il profano. Da una parte i fucili e dall’altra la capacità secolare di tirare a campare, nonostante tutto e malgrado le difficoltà. Da un lato ancora le fondamenta luminose della nazione – il suo esercito e la sue vittorie decisive – dall’altro l’abilità scannata degli italiani pronti a scansare pericoli e fatiche quando ciò è possibile, a trasformare il lutto in farsa e a svignarsela allo scrosciare del minimo, anzi impercettibile, pericolo. Sembravano, anzi erano, due mondi pienamente incompatibili. La commedia inoltre era resa più cattiva dal fatto che i protagonisti fossero un milanese e un romano, cioè due comuni rappresentati dell’intera Penisola, dal Nord padano al Sud mediterraneo, l’uno (il milanese) furbo, vagamente bakuniniano, e risoluto, l’altro (il romano), furbo e fifone. In una parola sola: affatto italiani. L’ambientazione, poi, era fra le più scomode: le trincee della Grande Guerra, il periodo grossomodo fra Caporetto e Vittorio Veneto. E tanto bastava. A rivederla adesso però la pellicola, a riascoltare le registrazioni delle interviste rilasciate dai protagonisti dentro e fuori scena e soprattutto a rileggere quel libro che uscì ancora nel ’59 curato da Franco Calderoni per i tipi della Cappelli editrice, dal titolo La Grande Guerra e uscito anche per documentare le polemiche che scoppiarono già nei primi mesi del ’59 al solo annuncio dell’inizio delle riprese, l’impressione che ne viene fuori è un’altra, perché il difetto su cui poter discutere non è tanto il valore dei nostri soldati, quanto tutto ciò che si era costruito attorno all’ennesimo italico “ismo”. Insomma quel film di cinquanta anni anni fa era nato per sostituire alla retorica dei grandi uomini “senza macchia e senza paura” (retorica da anni Trenta), quella più mite e neo-realista degli eroi – forse pure antieroi – per caso (tipica dell’italico dopoguerra e anche, intendiamoci, di una certa sinistra). Nel frattempo – è appena il caso di dirlo – una intera generazione di italiani, con tutti i suoi gusti, i suoi disgusti, i suoi valori, i suoi antivalori e le tante sue esperienze, era passata sotto i ponti della nuova democrazia e si cominciavano a vedere le differenze. Ma procediamo con ordine. In quegli anni ’50, in Italia come altrove, nessuno avrebbe mai messo in discussione il probabile successo di un film sulla guerra… Il produttore Dino De Laurentiiis aveva così cominciato a fiutare un affare d’oro appena dietro l’angolo di casa, e aveva finito per parlarne a Mario Monicelli – fra i registi più rappresentativi e di successo del periodo – che peraltro (vedi il caso) sulla prima guerra mondiale aveva già letto una sceneggiatura scritta di Luciano Vincenzoni dal titolo “Due eroi?”. Vincenzoni era quel che si diceva un appassionato conoscitore della letteratura di guerra, il suo libro cult era Viaggio al termine della notte di Céline, ed era stato a sua volta folgorato dal point of view kubrickiano nella pellicola Orizzonti di gloria. Così dunque si era formato il trio vincente che avrebbe provveduto a metter in piedi lo scheletro del film (anche se, in realtà, ai tre molto presto si sarebbero aggiunti come nuovi sceneggiatori Age e Scarpelli). A costituire le fonti letterarie sarebbero state invece le opere di Emilio Lussu (Un anno sull’altipiano), Carlo Salsa (Trincee), Bacchelli (La città degli amanti) e poi ancora di De Amicis, Comisso, Barbusse e altri ancora fino a Guy de Maupassant. Giungiamo così all’inizio del 1959, al sorgere del dibattito. Il produttore Dino De Laurentiis diffonde subito la notizia sulla nascita del progetto Grande Guerra, un film tragicomico con due big come Alberto Sordi e Vittorio Gassman, ma immediatamente scoppiano polemiche a non finire che nessuno poteva attendersi. Sulla stampa (in particolare su tre quotidiani nazionali: La Stampa di Torino, Il Mattino di Napoli e Il Giorno), senza avere in mano alcunché di certo intenta un processo alle intenzioni su un qualcosa (un film appunto) che non esiste ancora. Il problema? La trama potrebbe offendere l’esercito italiano e la patria intera… ancora per molti versi due veri e propri tabù… Ma il produttore non ci sta, anzi. Replica, scrive, spiega, difende la sua creatura allo stato nascente… e soprattutto contrattacca. Fra botte, risposte, proteste degli stati maggiori dell’esercito e interventi sulla stampa, trascorre un mese intero, fino a quando, febbraio 1959, il dibattito si istituzionalizza. Il Msi, preccupato da alcune voci che circolano sui giornali, presenta un’interrogazione parlamentare. Si vuol sapere insomma se il presidente del consiglio e il ministro della Difesa «non intendano assicurare il Parlamento che ogni partecipazione e impiego delle forze armate italiane in film di produzione italiana, o non, sarà accordato soltanto qualora tale partecipazione e impiego abbia il fine di esaltare il valore della nazione – così come avviene in tutti i paesi per i film ivi prodotti… se, in base a tale principio non intendano dare assicurazione al Parlamento che nel film La Grande Guerra, della ditta De Laurentiis, di prossima lavorazione, la partecipazione delle forze armate, sarà accordata solo se trattasi di film che glorifica il soldato italiano e il prestigio nazionale…». E così via discutendo. Basta così? No perché chi di politica ferisce di politica perisce…. Ed è a questo punto che il combattivo produttore chiede un colloquio proprio con l’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti. Passano i giorni, è ormai primavera inoltrata quando il futuro “Belzebù” degli anni Settanta, il quale – avendo letto attentamente tutta la sceneggiatura – non trova il film per nulla scandaloso, e si pronuncia in modo del tutto positivo. Il lavoro, dunque, può andare avanti e la polemica è opportuno che, com’è nata, d’improvviso muoia. Punto e a capo.Spenti i fuochi delle inutili, roventi polemiche, è abbastanza semplice trarre una morale sia da questa storia sia dalla pellicola che resta – nonostante qualche momento un po’ morto e l’andatura un po’ episodica – davvero un gran bel prodotto sia da un punto di vista squisitamente tecnico che da un punto di vista narrativo. Quel film, La Grande Guerra, era semplicemente la storia di due eroi all’italiana che vengono fatti prigionieri dal nemico austriaco ma riescono a morire – senz’altro a modo loro e realisticamente – da veri eori, malgrado la paura. La loro morte sarà infatti indispensabile affinché il nostro esercito prosegua nella lotta contro il nemico. In fondo i soldati interpretati da Sordi e Gassman, benché furbastri, sono due veri eroi perché predestinati fin dall’inizio all’utile sacrificio. A quello più importante. Il punto nodale del film va dunque ricercato altrove e non nella negazione dell’eroismo né nella sottovalutazione delle forse armate come si temeva in quella fine di anni Cinquanta. Nel copione c’è infatti una battuta molto bella recitata dal soldato Alberto Sordi, al momento di prendere in braccio un bambino: «Beato lui che è del 1916 così non farà mai guerre…». Ecco in questa affermazione che come sappiamo si rivelerà falsa si può trovare buona parte della verità del film di Vincenzoni e Monicelli. Una pellicola che non si fa beffe né della patria né della guerra, né degli eroi, ma forse solo di una cultura che aveva fatto della prima, della seconda e dei terzi un oggetto di culto; l’altra faccia, per molti aspetti nobile, di molte generazioni indotte ad adorare se stesse e i figli migliori attraverso i propri simboli, attraverso le gesta eclatanti e gli annunci verbosi. In due parole: in qualche modo si facevano i conti con il fascismo. D’altronde, a pochi mesi dagli anni ’60 i tempi stavano mutando. C’era stata la restituzione del corpo del Duce a Predappio, da lì a qualche mese i missini avrebbero sostenuto un governo. E poteva provare a voltare pagine e raccontare una vera storia condivisa come quella della Grande Guerra. Ed è forse giusto dire che anche l’eclettica commedia monicelliana – quella del piangi-e-ridi – ci stava aiutando a riflettere. Alla fine della storia, Giovanni Busacca fa all’ufficiale austriaco: «E alora... senti un po’, visto che parli cusì... mi te disi proprio un bel gnènt!! Hai capito?!? Facia de merda!!! ». E il romano Oreste Jacovacci: «Aoh, ma questi qua sparano davvero...». E il film si conclude con la vittoria dell’esercito italiano e con il grottesco commento di un sergente che dice: «E quei due fannulloni se la saranno scampata anche stavolta...». È davvero l’eroismo arcitaliano, disincantato, scanzonato ma maledettamente autentico.
Di Marco Iacona (Il Secolo d'Italia)

sabato 7 marzo 2009

Io, espulso dagli ayatollah perché "non gradito alla Rivoluzione"

Il giorno in cui il governo iraniano mi ha convocato negli uffici di polizia della Valiase Avenue e dopo un’amabile e un po’ ripetitiva conversazione-interrogatorio sulle ragioni della mia presenza mi ha fatto capire che quest’ultima non era più gradita e mi ha imbarcato sul primo aereo utile, sono andato in un museo che si chiama Covo dello spionaggio americano. È all’interno dell’edificio lungo e basso di mattoni rossi che ospita il quartier generale dei Guardiani della Rivoluzione, ed è aperto solo nelle ricorrenze patriottiche, quale appunto il Trentennale della fondazione della Repubblica islamica. All’ingresso c’è una statua della Libertà con le sbarre di una prigione al posto del cuore, e dentro è un susseguirsi di sale-giochi per grandi. Ci sono i manichini di cera degli agenti della Cia intenti in una riunione «diplomatica», il modellino in metallo del lanciamissili Vincennes che nel 1988 tirò giù un aereo di linea iraniano, 290 le vittime civili, radio-ricetrasmittenti, apparecchiature elettroniche per registrare, macchine per cifrare e decodificare i messaggi, la stanza dei documenti falsi, i resti dei dossier segretissimi triturati dallo speciale congegno addetto a questo compito, tazebao con slogan antiamericani, ancora manichini nelle vesti di martiri e kamikaze islamici.
Il giovane pasdaran, studente in medicina, che mi accompagnava spiegava tutto con dovizia di particolari, ma io ero un po’ sulle spine: il passaporto giaceva sequestrato negli uffici della polizia, all’ingresso del museo avevano fatto un fotocopia della mia fotocopia ed erano rimasti perplessi quando gli avevo spiegato che no, l’originale non era in albergo, ma appunto su una scrivania nella Valiase Avenue per problemi di visto... C’erano stati conciliaboli, telefonate e, insomma, ogni volta che mi veniva aperta la porta di qualche stanza segreta blindata, mi aspettavo sempre che qualcuno mi ci chiudesse dentro all’improvviso... «E il Museo dei Martiri dov’è ?» ho chiesto a un certo punto. Lo studente mi ha sorriso tutto contento e mi ha preso per il braccio: «È dall’altro lato della strada, proprio all’angolo. L’accompagno». Tornati all’aperto e riguadagnata l’uscita, mi sono fermato un momento a guardare i muri esterni dello stabile coperti di altri murales patriottici, altre statue della Libertà con questa volta la morte dipinta sul volto, altri slogan e c’era una feroce ironia della Storia nel pensare che questo è tutto ciò che resta di quella che fu un tempo l’ambasciata degli Stati Uniti...
Il Covo dello spionaggio americano, lo Shohada, ovvero il Museo dei Martiri che lo fronteggia di sbieco con le sue teche piene di uniformi, lettere, oggetti personali e facsimili in plastica degli arti persi in guerra, il mio visto turistico ritenuto una congiura politica, sono un buon compendio di questi primi trent’anni della Rivoluzione islamica, ma anche di ciò che la precedette: i Cinquanta del governo nazionalista di Mossadeq, che voleva nazionalizzare il petrolio, e del colpo di Stato con cui la Cia, proprio da quelle stanze descritte prima, lo fece fuori; l’americanismo spinto della scià, che arrivò a estendere l’immunità diplomatica a tutti i 50mila membri della comunità statunitense presente allora in Iran; l’ossessione per i complotti anti-iraniani dentro e fuori il Paese che trasforma ogni critica in tradimento... Eppure, è difficile non scambiare un giovane iraniano per un occidentale, gli stessi jeans, le stesse scarpe, le medesime T-shirt, e Los Angeles è stata ribattezzata Teherangeles per il numero di espatriati che ospita, la città è piena di antenne con cui si prende la Cnn, la Bbc, la Nitv, National Iranian Televison, appunto, la Melli, tv vicina all’ex premier Rafsanjani, di internet e di film americani ed europei in dvd. Per quanto nei giorni del Trentennale le città si siano riempite di bandiere, striscioni, manifesti e manifestazioni, essi non ce la fanno a eguagliare per numero le insegne pubblicitarie e i cartelloni che rimandano a marchi di moda, di auto, brand di lusso e di consumo... Il messaggio conciliatorio del neo-presidente Obama («aprite il vostro pugno e troverete una mano tesa») e il «Welcome» con cui il presidente Ahmadinejad ha replicato, sia pure accompagnato dai rituali distinguo sulla necessità di scuse per il pregresso atteggiamento Usa, indicano che, forse, qualcosa sta cambiando, più in sintonia con l’opinione media di un popolo straordinariamente giovane che vuole trovare la propria strada verso la modernità.
«Il problema sono i mullah» mi aveva detto Hasan, mia guida e interprete a Isfahan. Hasan è curdo, ha sposato una curda che fa la dentista ad Amsterdam, ha un figlio, vive sei mesi in Iran e sei mesi in Olanda. «Questa non è la mia patria, e del resto noi curdi una patria non ce l’abbiamo, però è il mio Paese, e non me la sento di andare via definitivamente» dice. I curdi non velano le donne e non sono strettamente osservanti sui divieti. «È whisky di contrabbando, viene dalla Turchia» mi ha detto dopo cena a casa sua offrendomelo con orgoglio. Il sapore era terribile, ma dopo una settimana senza alcol avrei bevuto anche la brillantina Linetti... «Mullah e bazarì alleati, è per questo che non funziona nulla. Si spartiscono il potere e il commercio e difendono le loro posizioni» mi ha detto ancora. «Non c’è capitalismo moderno, non si investe e si sfruttano le rendite del petrolio. Se vuoi capire l’Iran devi girare per i bazar e devi andare a Qom».
Da Teheran Qom dista un paio d’ore, da Isfahan tre volte tanto. In Iran ci sono 250 ayatollah e circa 200mila mullah, e arrivando a Qom la prima impressione è che siano tutti lì. Cinquecento moschee, le massime scuole teologiche del Paese, misticismo, fervore religioso, fede militante, chador neri delle donne e turbanti bianchi degli studenti delle madrase, un continuo pellegrinaggio alla Hazzat-E Masumeh, la moschea dall’aggraziata cupola d’oro della splendente Fatima, sorella dell’ottavo Imam Reza... Se il mullah è il clero sciita (la differenza con i sunniti sta anche in questo, nell’esistenza cioè di un apparato ecclesiastico), Qom è il Vaticano, un Vaticano senza Papa, ed è qui in fondo la chiave di volta dell’intera costruzione politica di Khomeini, la sua forza e la sua debolezza. In pratica, egli mise in piedi una costituzione «a modello carismatico», secondo la definizione del sociologo Renzo Guolo, autore del miglior libro in materia, La via dell’Imam (Laterza ed.). In essa, il suo carisma, appunto, codificato nel ruolo di Guida, ovvero di autorità assoluta, permetteva il coesistere di una doppia legittimità istituzionale: quella del presidente della Repubblica e del Parlamento, eletti dal popolo; quella del Consiglio dei Guardiani, di nomina religiosa ed esercitante una funzione di supervisione dell’attività politica, e dell’Assemblea degli Esperti, sorta di Concilio incaricato di scegliere la guida qualora quest’ultima manchi del carisma sufficiente per essere accettata dal popolo. Prima di morire Khomeini designò il suo successore, l’attuale Guida Khamenei, ma nel farlo non adottò un criterio religioso, non scelse cioè il «perfetto» teologo, ma promosse invece il proprio delfino politico. Ciò ha, di fatto, politicizzato il clero, ma ha anche alimentato la resistenza di quella parte più squisitamente religiosa, quietista, favorevole a una reale separazione dei poteri. Il risultato è da vent’anni a questa parte una continua frizione-scontro e un continuo rimescolarsi delle parti in causa.
Al bazar di Isfahan, una sera, vado a vedere un incontro di Zurkhané, letteralmente «casa della forza». Ne parla già Ferdousi nel Libro dei re, è di origine pre-islamica, incarna lo sport nazionale. In realtà è un rito, una sorta di arte di vivere... Nella sala, sormontata da un cupola, c’è una piccola arena ottagonale, intorno nicchie e balconate per il pubblico. Un arbitro dentro una specie di chiosco decorato di fiori di plastica, bandiere, ritratti dell’Imam Alì, ritma gli esercizi con un tamburo, li accompagna recitando versi, fa suonare la campana che ne decreta l’inizio e la fine. La gerarchia dei lottatori, T-shirt variamente ricamata, pantaloncini corti, piedi nudi, è in funzione della loro esperienza e delle loro qualità: il novizio, il debuttante, il pahalevan, ovvero il campione. Prima degli incontri veri e propri, gli atleti maneggiano al ritmo del tamburo pesi da 40 chili che sembrano mazze da baseball, danno prova di atletismo ginnico: flessioni, contorsioni, figure... Applausi, canti, preghiere accompagnano le esibizioni e il danzare frenetico dei dervisci atleti al centro del ring. Alla fine ci sono gli incontri di lotta veri e propri in cui si deve mettere l’avversario spalle a terra. «È un wrestling religioso» dico al mio accompagnatore. «Il wrestling americano da noi è popolarissimo» mi risponde. «Solo che loro mimano soltanto la forza, noi anche la fede. La differenza è tutta qui». Non solo nello zurkhané...
(di Stenio Solinas)

venerdì 6 marzo 2009

Il laboratorio etnico di Paestum: la città plebea

Aggirarsi tra i templi di Paestum non vuol dire fare del banale turismo. Significa toccare con gli occhi un capolavoro di antropologia culturale romana. L’identificazione tra Roma e l’Italia fu totale nel momento in cui la Repubblica, rompendo i ristretti confini originari, chiamò tutte le stirpi italiche a partecipare da protagoniste al disegno imperiale. A Paestum si capiscono bene le dinamiche che portarono i Romani a fondersi di nuovo prima con i Latini e poi con tutti gli Italici. Ma perché di nuovo? Perché queste genti non erano relitti etnici tra loro estranei e disposti a casaccio lungo la nostra penisola, ma agglomerati umani eredi in linea retta delle migrazioni indoeuropee. Rivoli di un unico fiume, che in ondate successive e fino al 1200 a.C., avevano popolato l’Europa meridionale.

A Paestum si è avuto l’incontro tra i Greci, quelli provenienti da Sibari che nel VI secolo fondarono la città dandole il nome di Posidonia, i Lucani, stirpe sannita che si impadronì di Paestum alla fine del V secolo chiamandola Paistom, e i Romani, che, dopo una guerra vittoriosa, occuparono la città un secolo dopo, la popolarono di migliaia di coloni, ne fecero un porto importante e la elevarono allo status di colonia latina, dotata di speciali diritti. Tra questi diritti, uno dei più rilevanti era quello che concerneva la libertà di contrarre legittimo matrimonio con donne romane: cosa sino ad allora proibita a chiunque non fosse di sangue latino.

Paestum, che è stata dunque prima greca, poi lucana e infine romana, è un esempio di come i sostrati razziali protostorici - ceppi villanoviani indigeni, contraddistinti dall’uso delle urne cinerarie - si fusero diluendosi facilmente nelle popolazioni dominanti calate da nord, soprattutto gruppi di guerrieri sanniti, oppure con genti osche, apule, picene e persino etrusche, che erano stanziate sul litorale tirrenico nella zona di Cuma. E, alla fine, con i Latini insediati nel Cilento come coloni e con gli stessi Romani. Questo ricompattamento etnico della diaspora indoeuropea sul nostro suolo è visibile con estrema chiarezza proprio a Paestum, tanto nella conformazione sociale, innestata su aristocrazie guerriere popolari, quanto nel pantheon religioso, che contava, accanto a figure maschili sovrane - l’Apollo greco, riconfermato nella fase lucana e in quella romana - anche figure femminili di straordinario significato. Il tutto, all’insegna della continuità e mai della rottura, a testimonianza del fatto che si trattava di popoli consanguinei.

A Paestum abbiamo, in questo senso, esempi eloquenti. A cominciare dalla statua marmorea di Hera, risalente alla fine del V secolo e proveniente dall’Heraion, edificio sacro eretto sulla sinistra del Sele a poca distanza dall’area urbana di Paestum. Rappresenta la dea assisa in trono in postura ieratica, recante in mano il melograno (simbolo di fertilità) e oggetti votivi (gioielli, profumi, vasi nuziali), che rimandano al ruolo sociale femminile di custode della stirpe, in quanto genitrice e padrona delle ricchezze domestiche. Si ha, in questo caso, il tratteggio di una femminilità pienamente nordica e regale - simile all’Atena o alla Minerva classiche -, molto lontana da quelle grossolane celebrazioni della fertilità femminile (vulve gigantesche, ventri spropositati) che erano tipiche della società indigena neolitica, di tipo “pelasgico”, legata alla Grande Madre. Questa Hera ci parla di un primordiale che non è solo bios, ma anche legge, non è natura cieca, ma ordine.

Un altro reperto emerso dal grande sito archeologico di Paestum è una tomba, detta “dello sciamano”, contenente i resti di uno strano personaggio il cui corredo funerario consiste solo di quattro fibule a chiudere la veste, secondo l’uso delle sepolture femminili. La figura silenica scolpita in bassorilievo sul coperchio tombale ci conferma trattarsi di un individuo di ruolo sacerdotale, uno sciamano appunto, personaggio dionisiaco del tutto congruo all’ambiente indoeuropeo e per nulla in contrasto con società gerarchiche e guerriere, come a volte si sostiene. Questo ci mostra, una volta di più, che i valori della femminilità legati alla catena ereditaria e quelli della gerarchia guerriera convivevano a medesimo titolo, come aspetti della società legata all’eroe e alla madre. Mosaici pavimentali con motivi geometrici a svastica, rinvenuti in case di Paestum, piatti con iscrizioni dionisiache, statuette di Hera Ilizia partoriente, si affiancano a stele dedicatorie a Giove (in greco, ma anche in osco) e a documenti virili, come i fregi d’armi o la bellissima corazza anatomica rinvenuta in una tomba a camera. Questo ci testimonia la convivenza a Paestum, sotto l’egida di Hera - divinità associata alla Venere Troiana, progenitrice di tutti i Latini -, di valori marziali e sciamanico-visionari, nella tipica associazione indoeuropea tra maschile e femminile.

Ma la caratteristica sociale di Paestum, sancita dalla legislazione romana, fu quella di essere città “plebea”. Il che non significa schiavile, ma popolare. Come si sa, a Roma esisteva anche un’aristocrazia plebea, e il termine non rimanda a condizioni di subalternità di classe, ma piuttosto a differenziazione di rango. Paestum romana fu “plebea” in quanto comunitaria e non oligarchica, una società retta dal blocco storico costituito dalla nobilitas nata dalla fusione dei vertici della plebe latina con le antiche aristocrazie dominatrici nella fase lucana. Ne è prova la statua bronzea del Marsia ritrovata nel Foro di Paestum: si tratta di un simbolo della libertas, copia dell’originale eretto a Roma nei pressi del Fico Ruminale, con ai piedi i ceppi infranti, a indicare l’evento storico dell’ottenimento, nel 351 a.C., del rango di censore da parte del primo plebeo romano, Marcio Rutilio. Evento che aprì le porte del consolato ai plebei e che fu antefatto della legge del 90 a.C., che estendeva la cittadinanza agli alleati latini di Roma, e infine a quella di Augusto, che la allargò all’intero popolo italico, dalle Alpi alla Sicilia. Il laboratorio etnico di Paestum consiste dunque nell’aver amalgamato stirpi italiche sul primo tronco ellenico locale e nell’aver fatto emergere un nuovo tipo d’élite comunitaria. Questa situazione, che riflette quella delle “guerre sociali” romane, permette di parlare di una gerarchia popolare. Una selezione dei migliori, tratti dall’intero bacino comunitario, costituito da un insieme di etnie italiche sorelle: Etruschi, Lucani, Osci, Latini, Romani.
Simboli di questo equilibrio sono il cittadino libero rappresentato dal Marsia e la Mater Matuta venerata nel “Tempio italico” quale divinità dell’eredità di sangue legata al primo mattino, cioè alle radici originarie. A Paestum noi guardiamo con emozione le imponenti rovine dei templi di Cerere e di Nettuno, percorriamo il Foro, ammiriamo l’anfiteatro, le porte, le fontane, i santuari, gli splendidi affreschi tombali. Ma non dimentichiamo che tutto questo fu creato da uomini in carne ed ossa, in ogni epoca risoluti a difendere la loro tradizione, la loro cultura e la loro identità di stirpe.

di Luca Leonello Rimbotti
(http://www.mirorenzaglia.org/)

Il comunismo sopravvive nelle coscienze borghesi

"In termini commerciali non si può certo dire che la cultura sta male". Pietrangelo Buttafuoco snocciola un po' di dati, racconta di un’inchiesta che sta portando avanti per Panorama e, con entusiasmo, enumera i dati di una cultura che, in piena crisi ha fatto segnare incassi su tutti fronti.
Ma, se va davvero tutto bene, perché fior fiore di intellettuali gridano alla morte della cultura?
"Perché, evidentemente, non si sentono bene con loro stessi. Laddove c’è la possibilità di organizzare un’offerta culturale, i risultati si vedono. Me ne rendo conto con la mia terra: la Sicilia potrebbe diventare ancora più forte nell’ambito di un’offerta di servizio sfruttando la capacità culturale legata alla propria identità e alla propria storia. Proprio in questi giorni in cui Baricco ha scatenato il dibattito sui fondi ai teatri, si sono registrate 150mila presenze nella stagione dell’Istituto nazionale del dramma antico. Al Nord è lo stesso. Non dimentichiamo i ripetuti successi incassati da festival come quello di Mantova."
Quindi: niente crisi della cultura?
"Di morte della cultura possiamo parlare solo quando ci troviamo davanti all’aspetto conformistico e appecoronamento che non si preoccupa mai di fare una ricerca critica e stanare l’originalità e la genialità. E proprio alla genialità dovremmo dare un po’ di più spazio proprio quest’anno che corre il centenario del Futurismo. Bisogna favorire e fortificare il genio nella creazione, nell’invenzione e nella ricerca."
L’anno scorso si è celebrato il quarantennale del ’68. La sinistra ha sfoggiato una certa nostalgia di quel modo di fare cultura. Eppure a una certa fetta di italiani non dice più nulla.
"Non dice più nulla. Però il ’68 è l’ideologia della gerontocrazia italiana. In Italia il potere non ha mai avuto un radicamento spirituale: la baggianata della Resistenza e della Costituzione non può costituire seriamente una nervatura di identità, ma la ha determinata il Sessantotto attraverso sfumature cosmopolite, fascinazioni edonistiche, sollazzi e ricreazioni che partecipavano allo Spirito del tempo. Proprio questa ideologia regge, ancora oggi, le sorti di un Paese tutto sommato periferico come l’Italia che non fa altro che scimmiottare quello che, altrove, è solo una moda culturale."
Ma cos’è questo benedetto Sessantotto?
"Quello del ’68 è un tabù stupido e ridicolo. Non solo ha determinato lo sfascio dello stile e della capacità morale della elite, ma ha anche distrutto la conoscenza e la gnoseologia. La sola cosa che ci ricorderà il ’68 è stata la guerra al nozionismo: una ridicola guerra alla poesia a memoria! Tutti sappiamo che, se solo togli una virgola al Padre nostro, può cambiare l’intero senso della preghiera. E', però, un atteggiamento e uno schema che appartiene a una tribù residuale, inutile e perduta della vecchia, vecchissima elite italiana."
Da anni la sinistra ha una sorta di predominio sulla cultura. Per quale motivo?
"E continuerà ad averlo ancora. In Italia, sicuramente. Potrà esserci ancora per cent’anni Berlusconi e il berlusconismo, ma il fonte battesimale della legittimità sociale sarà sempre nelle mani della sinistra."
Colpa della Destra o degli italiani in genere?
"Beh, gli italiani hanno un istinto conformista dal momento che hanno sempre dovuto lottare fra due anime, entrambe romantiche e irrequiete. C’è però da dire che la sinistra ha saputo interpretare lo spirito guelfo degli italiani, quest’idea di sentirsi confortati all’interno di una chiesa. Per esempio, il berlusconismo è più una deriva anarchica sia in termini di lavori sia in termini di estetica. Quando poi si tratta di andare a fare le cose sul serio – di andare cioè a dare un imput di sigillo sulle cose – il rutto di sinistra prevale sempre e comunque. Basti pensare a quella che è la sua rappresentazione più efficace: nel modello televisivo è sempre un’anima di sinistra a dettare legge. In Rai c’è il Fabio Fazio è il santo totale di omologazione e conformismo che fa sentire bene le persone, le accomoda e le accoglie."
Quanto ha a che fare la perdita del Sacro con questa crisi di valori?
"Tantissimo. Proprio in questo, la destra fa il lavoro sporco della sinistra. Se quest’ultima lavora sulla propria aspirazione sovversiva, quello che invece sovverte veramente è uno schema egemonico-politico di destra dove il Sacro viene, di volta in volta, sempre più allontanato o circoscritto a una sorta di parodia. Tutte quelle espressioni forti e potenti delle identità culturali vengono – appunto – confinate in una sorta di parodia."
Un esempio?
"L’ultima parodia è stata coniare il termine 'radici giudaico-cristiane', neologismo che né Friedrich Nietzsche né Karl Marx né Hegel né, tanto meno, Tomaso d’Aquino avrebbero mai formulato. Nessuno tra i giganti dell’identità europea l’aveva mai immaginato: l’unica, vera storia che ci riguarda e ci identifica è quella greco-romana. Sia il cattolicesimo sia l’islam si affermano – ognuno nella propria area geografica – grazie al radicamento nella cultura greca."
A fronte di questa grave perdita possiamo parlare di morte della cultura occidentale?
"C’è la morte della spiritualità: è una cosa diversa. In termini commerciali, invece, è tutta vita allegra: gli unici a sorridere sono gli editori e i manager intellettuali. Diverso per quanto riguarda il radicamento spirituale. Se, nel 2009, si mettono mille persone in una chiesa ad ascoltare la predica di Mastro Eckhart non capiscono nulla. Nel XII secolo lo avrebbero capito perfettamente."
La caduta del muro di Berlino, invece, significa per molti la fine di questa egemonia culturale da parte della sinistra. Insomma, un’apertura al nuovo, una sorta di rinascita. Ha davvero questo significato?
"In realtà non credo che l’89 possa dire anche qualcosa all’Occidente. Quella del comunismo è una storia che si è infiltrata nella nostra stessa identità. Non riusciremo mai ad avere la consapevolezza di quello che è stato il comunismo. In questo prevale la straordinaria capacità di mobilitazione intellettuale e culturale del comunismo stesso che è riuscito a sopravvivere alla sua stessa morte transimulandosi nelle coscienze della borghesia occidentale. I 100 milioni di perseguitati in settant’anni di comunismo in Unione sovietica resteranno, nell’eternità, un dettaglio di cui nessuno si dovrà preoccupare. Il fatto che ne stiamo parlando ora sappiamo che cade nel discorso e fra cinque minuti sarà già dimenticata."
Si può quindi parlare di globalizzazione culturale?
"No. Tutto il contrario. Le sorprese dello spirito sono sempre in agguato. Il fatto stesso che gli indiani siano riusciti ad acquistare la Jaguar e la Rover, i due marchi dei loro ex colonizzatori, dimostra che non solo lo spirito soffia dove vuole, ma organizza anche delle sorprese inaspettate. E, quindi, quell’aberrante sogno utopistico del mondo ridotto a uno – così come lo immaginava Francis Fukuyama o qualsiasi altro stratega del Pentagono americano – non avrà mai compimento . Nel mondo ci saranno sempre angoli in cui aprire un McDonald’s correrà il serio rischio di trovarsi deserto."

Assunta Almirante: su "L'Europeo" invenzioni e bugie

"Invenzioni vere e proprie, bugie grandi come il firmamento". Assunta Almirante non ci sta e in una dichiarazione all'ADNKRONOS dice di non credere alle parole che 'L'Europeo' in edicola domani attribuisce al marito Giorgio. Innanzi tutto un discorso di metodo, vale a dire i dubbi sulla richiesta al giornalista Daniele Protti di spegnere il registratore prima di parlare del futuro a medio lungo termine del Msi: "ho vissuto 44 anni con Giorgio - dice donna Assunta- e non era uomo da fare confidenze e oltre tutto aveva pochi amici intimi e nemmeno parlamentari". Quindi il discorso sui contenuti: "per prima cosa questo non e' il suo linguaggio, non usava parolacce. E poi non poteva parlare cosi' del suo partito, lui che lo amava piu' della sua famiglia, che pure amava tantissimo, lui che aveva visto morire della gente per il partito. Era, questo si', per un'apertura generale e infatti dall'Msi fece la destra nazionale". La conclusioni di donna Assunta Almirante non ammettono repliche: "Non si possono tirare fuori queste cose, ho la certezza matematica che Giorgio non abbia pronunciato queste parole. Invenzioni vere e proprie, bugie grandi come il firmamento. Devono stare molto attenti, altrimenti parlo io".

mercoledì 4 marzo 2009

E Papa Pacelli ordinò: salvate gli ebrei nel monastero

Pacelli "ordinò" ai conventi romani di accogliere gli ebrei perseguitati dai nazisti. Il Vaticano lo ha sempre sostenuto. Ora c'è anche un documento che - ha annunciato ieri la Radio Vaticana - uscito dagli archivi di una congregazione religiosa romana, lo attesta "nero su bianco". Nel suo genere, quasi un colpo di scena. L'ennesimo su uno dei più discussi pontefici del secolo passato, accusato di essere stato in "silenzio" di fronte alle deportazioni degli ebrei romani, secondo una tesi lanciata in una rappresentazione teatrale del 1963, "Il Vicario", circa 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tesi sempre respinta dalle autorità pontificie, unitamente a organizzazioni ebraiche internazionali e, persino, da figure come Golda Meier, la prima donna premier dello Stato di Israele.
La pubblicazione di questo nuovo documento servirà a sgomberare definitivamente le ombre su Pio XII anche in vista dell pellegrinaggio papale in Terra Santa? Oltretevere ci sperano vivamente. E non è un caso che la notizia sia stata diffusa dalla Radio Vaticana. La lettera è datata novembre 1943 e fa parte del "Memoriale delle religiose agostiniane del monastero dei Santissimi quattro coronati di Roma". "Il Santo Padre - vi si legge - vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati". In calce alla lettera c'è un elenco di 24 ebrei segnalati alle suore per essere ospitati nel convento "per aderire - si sottolinea nell'appunto - al desiderio del Sommo Pontefice".
E' "una rara testimonianza", ha commentato all'emittente pontificia padre Peter Gumpel, gesuita e autorevole storico, relatore per la causa di beatificazione di Pio XII. Lettere analoghe - assicura il religioso - furono fatte recapitare dalla Curia vaticana in tanti altri monasteri dentro e fuori Roma, con l'intento di salvare il maggior numero possibile di vite umane, a partire dagli ebrei. "Si tratta di un documento che io stesso ho ottenuto dalle suore agostiniane - rileva padre Gumpel - un documento scritto, per questo importante. Non è l'unica testimonianza che abbiamo in tal senso. Ci sono numerose testimonianze orali, non solo di suore, sacerdoti, ma pure di altri, ma mancano spesso dichiarazioni contemporanee scritte e questo ha dato occasioni ad alcuni - che continuano ad attaccare Pio XII - di contestare e di dire che 'non ci sono documenti che lui abbia mai fatto qualche cosa durante la retata degli ebrei romani il 16 ottobre 1942'. Questa è una totale falsità. L'unica cosa da rilevare è che in tempi di persecuzioni e in situazioni come allora si vivevano a Roma, una persona prudente non metteva molte cose 'nero su bianco', perché c'era il pericolo che queste cadessero nelle mani dei nemici e poi si prendessero misure ancora più ostili verso la Chiesa cattolica".
"L'opera di salvataggio di Pio XII, attestata d'altronde anche da molte fonti ebraiche stesse - prosegue il postulatore - fu fatta attraverso messaggeri personali e sacerdoti, che venivano inviati a varie istituzioni e case cattoliche qui, a Roma, università, seminari, parrocchie, conventi di suore, case di religiosi, sempre con il messaggio: 'Aprite le vostre porte a tutti i perseguitati dai nazisti', ciò che valeva in primo luogo, naturalmente, per gli ebrei".
"Esistono altri due documenti scritti - rivela ancora il gesuita - ; uno fu inviato al vescovo di Assisi, monsignor Nicolini, che lo fece vedere al suo collaboratore, il reverendo Brugnazzi; tutti e due furono poi decorati dallo Yad Vashem come 'giusti tra i gentili'. Qui a Roma abbiamo invece ormai questo documento della cronaca delle suore agostiniane di clausura. Ripeto: è un'ulteriore conferma che può essere utile nei confronti di coloro che persistentemente vogliono denigrare Pio XII e con ciò attaccare la Chiesa cattolica".
Un documento, dunque, che potrà accelerare anche la causa di canonizzazione di papa Pacelli? "Spero di sì - risponde padre Gumpel - la causa di canonizzazione di Pio XII ha avuto l'ultimo verdetto in data 9 maggio 2007, in cui 13 tra cardinali e vescovi che costituiscono il tribunale più alto della congregazione delle Cause dei santi, all'unanimità si sono pronunciati positivamente a favore delle virtù di papa Pio XII. Attendiamo tutt'ora la firma del decreto da parte di Sua Santità Benedetto XVI".

L'egemonia della sinistra e la schiavitù psicologica della destra

La cultura e' di destra o di sinistra? Quale delle due parti politiche ne detiene l'egemonia? Su questi interrogativi in questi giorni e' nuovamente esplosa la polemica tra gli intellettuali appartenenti alle diverse aree ideologiche. ''La sinistra ha ancora l'egemonia sulla cultura e ce l'ha a maggior ragione quando al governo c'e' la destra'', afferma all'ADNKRONOS il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco intervenendo nel dibattito.
''Quelli di sinistra sono stati piu' furbi, piu' attrezzati, piu' professionali. La destra ha visto frantumarsi i sogni della cultura teo-con, la grande tradizione cristiana risulta sempre piu' marginale e minoritaria, in questo panorama i cosiddetti canali dell'egemonia restano solo quelli a sinistra - spiega Buttafuoco - prova ne sia che tutto cio' che contribuisce a formare l'opinione pubblica, come le grandi industrie, la Rai a perfino le tv di Berlusconi, fino ai giornali o all'editoria e' inequivocabilmente legato sempre a quello che resta il grande carrozzone che una volta definivamo veltroniano. E a maggior ragione lo restera' ancora''.
''Sono dell'idea - continua lo scrittore - che l'incarico fa la competenza. L'italia e' un paese per vecchi. Se pensiamo che alla commissione di vigilanza Rai hanno dovuto, con tutto il rispetto, affidarsi ad una figura veneranda, non avevano a disposizione nessun giovani. La maggior parte dei direttori di giornali e' gente che sicuramente non lascera' il passo ai giovani se non fra venti anni quando questi giovani ne avranno cinquanta. Il ricambio non ci sara' mai. Mentre invece la sinistra in questo, nel potere dell'immaginario della fascinazione mantiene forte quell'egemonia perche' innanzitutto ha ridotto in una sorta di schiavitu' psicologica la destra, ma anche il mondo della finanza e dell'industria. L'Italia e' un paese di periferia, dove tutto arriva in ritardo, aggiornare e sistemare il bagaglio culturale di questa nazione e' una fatica improba''.

Soru il pescecane democratico che ha divorato «l’Unità»

Fondato da un sardo, affondato da un sardo. Chiedo subito scusa a giornalisti e impiegati dell’Unità per il gioco di parole sulla drammatica parabola del loro giornale, ma il lungo percorso da Gramsci a Soru, primo e ultimo a guidare l’impresa, curiosamente entrambi isolani, spiega benissimo il senso dei tempi, dei modi, delle persone passate sotto la gloriosa testata. Purtroppo, la profonda differenza tra i due sardi sta deflagrando con effetti atomici proprio in queste ore. Se Gramsci aveva fondato l’Unità sulla spinta di grandissimi ideali, Soru la sta affossando sulla spinta dei personalissimi interessi di bottega. Per la verità, anch’egli quando la comprò fu presentato come una specie di nobilissimo missionario, pronto a mettersi una mano sul cuore e una sul portafoglio per salvare la gloria di un giornale storico. Le voci malevole che lo davano soltanto in cerca di consenso, di una pratica macchinetta elettorale per la corsa alla presidenza della Sardegna e addirittura dell’intero Pd, all’epoca furono zittite come basse insinuazioni. Ma a conti fatti, i dubbi stanno a zero. Soru getta la maschera: battuto impietosamente in Sardegna «dal figlio del commercialista di Berlusconi» (ItaliaOggi), non ha nemmeno aspettato di riassorbire le estese tumefazioni. Perché non si dica che Soru, l’imprenditore illuminato, ha preso l’Unità solo per biechi fini elettorali, eccolo presentare all’indomani della personale bancata questo piano di sviluppo: riduzione stipendi del 40 per cento, taglio dell’inserto satirico Emme (un delitto: è molto divertente, ndr), nuovi prepensionamenti (l’organico è di 80 giornalisti e 40 impiegati), chiusura di redazioni locali, riduzione delle pagine, sforbiciata sui compensi dei collaboratori. Ovviamente, i lavoratori hanno un’ampia possibilità di scelta: o accettano questo piano, oppure il padrone porta i libri in tribunale per chiudere. Prendere o lasciare. E per fortuna Soru è un imprenditore democratico, illuminato, progressista. Pensa se era solo un padrone.
Certo, sui numeri c’è poco da discutere. Nonostante le copie siano in aumento (punte giornaliere a 65mila), l’Unità ha disperato bisogno di denaro. Servirebbero subito 6 milioni di nuovo capitale. Ma l’impellenza della situazione non sembra impensierire l’Illuminato. Di tirare fuori quei soldi non se ne parla neppure. Si taglia brutalmente. O si chiude. Per questo banalissimo motivo, da oggi l’Unità è in sciopero. I lavoratori non sembrano aver pienamente compreso la manovra di rilancio del padrone. Intravedono lo spettro di un solo rilancio: dalla finestra.
A dure spese di una storica testata, si chiarisce almeno un punto fondamentale della nostra storia contemporanea: finalmente è tutto chiaro su Renato Soru. Chi è, cosa pensa, come fa. Fino alla memorabile tramvata, nemmeno un mese fa, sulla stessa Unità viene dipinto come una specie d’Arcangelo, lontanissimo per pensieri e opere dall’industriale cinico e spietato dell’iconografia italiana. Ma gli basta perdere. A urne ancora calde, stacca subito il telefono e abbassa le tapparelle. Come il ragazzino che ha perso due mani di Subbuteo, non vuole più parlare con nessuno. Uno sportivone. Che cosa poi mediti nell’astioso dopo-elezione è adesso chiaro a tutti quanti. Il gioco è finito male, il giocattolo gli sta un po’ sull’anima. L’Unità è una scocciatura. Si comincia con un altro gioco: il gioco della simpatica macelleria. È vero, lo fanno in tanti: ma gli altri sono padroni, lui è l’Illuminato. Non s’era detto così?
Fatalmente, riecheggiano sull’intera vicenda le parole pronunciate prima, e sottolineo prima, da Giovanni Valentini nell’intervista al nostro Francesco Cramer. Caso mai non fosse noto, Valentini è ex direttore dell’Espresso, nonché vice di Repubblica, nonchè infine direttore editoriale di Tiscali, l’azienda di Soru: per dire cioè che non è Emilio Fede. Eppure, dopo aver lavorato con e per Soru, Valentini così lo definisce: «È un piccolo padroncino sardo col solo obiettivo di fare denaro. Nulla di male, ma almeno non si spacci per uomo di sinistra. È iracondo, porta il dissenso a un passo dallo scontro fisico. L’ho visto maltrattare i suoi dipendenti in modo imbarazzante. Imbarazzante! Se lui è di sinistra, io - pugliese - sono austroungarico. Chi è Soru? È un pescecane travestito da spigola».
Ora il pescecane s’è tolto il costume da spigola e mostra le fauci al suo giornale. Sembrano lontanissimi, di un’altra epoca e di un altro pianeta, i tempi in cui dipingevano le sue giacche di velluto come inequivocabile segno di umanità. Tornano d’attualità tutti gli avvertimenti inascoltati. Giampaolo Pansa: «Soru è una vera, strepitosa carogna. Cattivo, scostante, autoritario, diffidente, con quell’accento da Brigata Sassari che fa tremare». Gavino Sanna, il pubblicitario che l’ha lasciato per incompatibilità ambientale: «In campagna elettorale Soru non porta la cravatta, ma un padrone vestito da servo è una vigliaccata verso la povera gente».
A questa letteratura pregressa, si aggiungono i commenti delle ultime ore. Giuliano Ferrara, solidale con i colleghi dell’Unità: «Neanche i cani rognosi subiscono simile trattamento». E Stefano Menichini, direttore di Europa, giornale della Margherita: «Soru? Devastante, irresponsabile, isterico».Per evidenti motivi, non è possibile conoscere l’opinione di Gramsci. Ma basta leggere le sue “Lettere dal carcere”, per avanzare un’ipotesi.