giovedì 25 giugno 2009

COSA FATTA CAPO HA


"Una generazione passa, un'altra viene e la terra vive sempre"
Ecclesiaste, 1. 4
30.000 volte grazie!

lunedì 22 giugno 2009

È morta Luce, l’ultima figlia di Marinetti

È scomparsa l’altro ieri, proprio in questo 2009 che vedeva il centenario del Futurismo. L’anno che le avrebbe reso giustizia di tanto lavoro per la rivalutazione del movimento fondato dal padre, Filippo Tommaso Marinetti. Delle tre figlie di Marinetti, Luce era la più piccola. E, negli ultimi anni di vita del poeta, mentre la più grande, Vittoria, scriveva sotto dettatura gli ultimi libri, lei era sempre vicina a quell’anziano papà che la chiamava la «mia piccola infermierina». Marinetti morì nel dicembre del 1944 e alla moglie Benedetta e poi alle tre figlie (Vittoria, Ala e Luce) toccò il compito di «difenderlo», nel primo dopoguerra, dagli attacchi di una critica becera e politicizzata. Luce, molto proiettata verso l’estero, lo fece con grande verve e passione per tutta la vita. Mi ricordo una sua intervista del 1987 per un programma su Channel Four di Londra, cui partecipai anch’io. S’intitolava «Vita futurista», per la regia di Lutz Becker. Luce vi raccontava con grande intensità emotiva dettagli apparentemente insignificanti del padre, dettagli che però ne facevano cogliere la dimensione umana. Lo stesso fece in tante conferenze accorate, senza mai una declamazione. Insomma una grande divulgatrice culturale, proprio perché difendere e far conoscere il Futurismo che, si voglia o no, fu la più grande avanguardia italiana del XX secolo, fu, appunto, «fare cultura», in un panorama culturale afflitto dalle censure ideologiche. Ci piace concludere ricordandola con le parole di Benedetta che la presentò al mondo, piccolissima, nella dedicatoria del suo libro Astra ed il sottomarino: «Marinetti ti offro Astra... È nata carica d’anima, tutte le ansie, le vibrazioni, le gioie, i presentimenti, le certezze vi sono disegnate... Da tre anni, quest’opera è compiuta, ed è stata, tu lo sai, una parentesi più pesante nei miei giorni ed è nata la nostra Luce. Luce oggi è vittoriosa nel sorriso blu, nei suoi canti, nei biondi giochi al sole con Vittoria, ardente, e Ala, veloce».

domenica 21 giugno 2009

Dov’è la Vittoria

"Siam pro-o-nti alla morte l’Italia chiamò”. “Sì!”. E’ proprio dopo l’ultima nota dell’Inno italiano, quando l’enfasi tocca il punto di vetta, che ogni camerata aggiunge l’avverbio affermativo: “Sì!” (i germanizzanti spesso si concedono al suo posto un “Sieg Heil!” mal tollerato dai puristi) e a quel punto scatta invariabilmente il saluto fascista. Raramente, negli anni dell’onorata militanza dentro le catacombe nere, è capitato di vederne uno così plastico e svettante come quello di Michela Vittoria Brambilla, colta assieme al padre nella posa mussoliniana durante una festa dell’Arma a Lecco. Il suo braccio destro abbandona il cuore al momento giusto e si slancia verso l’alto con uno scatto altero e gioioso.
Avercene avute di militanti capaci di tenere così ordinate le falangi della mano destra e teso, ma non rigido, l’epicondilo. Quanta invidiabile spontaneità. Quasi meglio di Gianfranco Fini nelle foto di repertorio. Invidiabile poiché anche ai neofascisti è toccata l’usura del tempo e con questa la mancata educazione alla postura che era stata parte irrinunciabile nella grammatica del Ventennio. Oggi, come in anni recenti, non è difficile immortalare file catacombali riunite in circostanze solenni – cortei, rassegne, omaggi ai camerati caduti – e cristallizzate in saluti sgangherati. Per esempio c’è quello col braccio quasi a novanta gradi rispetto alla spalla e il palmo aperto a salutare l’asfalto. Un po’ come i barbari nazionalsocialisti mirabilmente irrisi da Adriano Celentano, in un filmetto dal titolo “Zio Adolfo in arte Führer”, quando nei panni di Hitler sporge l’arto in avanti per sincerarsi se abbia cominciato a piovigginare e subito i tetragoni in camicia bruna imitano il gesto scambiandolo per l’invenzione di un saluto virilissimo.
C’è poi quello con la mano divaricata come un polipo in azione. Altri ancora, sempre tendenza hitleriana, salutano col braccio rattrappito sopra il fianco e la destra all’altezza dell’orecchio, in una posa che vorrebbe essere impettita ed è soltanto mollemente sifilitica. Dopotutto non c’è da rammaricarsi che siffatti saluti vengano vietati dalla legge. Anche perché non sono saluti romani, come vorrebbero alcuni salutanti e come denunciano numerosi i sinceri democratici antifascisti. Il saluto romano è un altro mondo, è un saluto mai contratto o ingessato, con la mano lievemente aperta in un gesto effusivo di rassicurazione che emana calma potenza, marzialità tranquilla, pacifica sacralità. Se Brambilla e gli altri vogliono farsene un’idea esemplare, vadano sulla piazza del Campidoglio e osservino la statua equestre di Marco Aurelio (una copia, l’originale è dentro il museo attiguo): quello dell’imperatore è un vero saluto romano e non c’è alcuna Costituzione a vietarlo.
(di Alessandro Giuli)

giovedì 18 giugno 2009

La scuola per i “martiri” di Mussolini

Il libro di Tomas Carini riapre un capitolo cancellato nella storia e nella demonologia del fascismo: il legame tra cultura e militanza, idee e azione, anzi il misticismo dell’azione che animò il fascismo più fideista.
La sua ricerca è per me un ritorno a temi, autori e passioni della mia giovane età. Tante letture, vari scritti e infine La rivoluzione conservatrice in Italia, che scrissi quando non avevo trent’anni e pubblicai nel 1987. Ritrovo in queste pagine gli autori di quegli anni, la passione per quella cultura della prima metà del Novecento, l’interesse trasgressivo e curioso, senza pregiudizi o bende ideologiche agli occhi, verso la proibita esperienza del fascismo che teologicamente qualcuno vorrebbe definire «il male assoluto».
Di assoluto si respira molto nelle pagine della Scuola di Mistica fascista e del suo principale animatore Niccolò Giani, che all’assoluto trapiantato nella storia credeva con tutta l’anima e la buona fede di un militante disposto a pagare quella professione di idee sulla propria pelle, come poi coerentemente fece. Fede assoluta, ma il male lo fecero solo a se stessi, alla propria vita che sacrificarono nel nome dell’idea e della purezza di un sogno.
Mi appassionai verso i vent’anni alla Scuola di Mistica fascista, pur ritenendo evolianamente incongruo l’accostamento tra una dimensione sacra, legata al trascendente, come è la mistica, e la dimensione storica, ideologica e politica del fascismo. Vi scrissi anche un saggio, quando avevo poco più di vent’anni, che leggeva la scuola di Giani, Pallotta e Arnaldo Mussolini come il tentativo di realizzare «un fascismo ad alta tensione», per una casta di eroi missionari, quasi l’aristocrazia del fascismo, come diceva lo stesso Mussolini.
Carini ricostruisce con ricchezza di riferimenti il suo percorso culturale prima che politico, spirituale prima che militante. Compresi i suoi deliri, come quello antisemita, esploso dopo il ’38, e l’invasamento per la guerra come ordalia, giudizio di Dio, prova suprema della verità nella storia. «Ogni rivoluzione - aveva detto Mussolini ai capi della Scuola di Mistica fascista - ha tre momenti. Si comincia con la Mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione». Non a caso Mussolini concederà alla Scuola la sede del suo originario Covo di Milano, dove nacque il fascismo, quasi a significare che la Scuola custodiva l’essenza originaria del fascismo, la purezza delle origini, la Mistica prima che diventasse politica e amministrazione... Furono soprattutto i cattolici a insorgere contro la definizione di mistica applicata al fascismo. «Un po’ di modestia, di grazia, e di proprietà - scrisse l’“Avvenire d’Italia”. - La mistica ai santi e i problemi stradali ai galantuomini...». Anche “Civiltà cattolica”, “Vita e Pensiero” e l’“Osservatore Romano” criticarono l’idolatria della mistica applicata alla sfera politica, condannandola come una forma di irrazionalismo. E lo stesso Evola, che pure aveva tenuto alcuni incontri alla Scuola di Mistica fascista, apprezzandone l’opera e lo spirito, aveva perplessità sulla sua denominazione. Arnaldo Mussolini, come molti esponenti della Scuola, era cattolico e credente e cercò di risolvere la questione dicendo che in effetti la mistica si addice al divino, ma a parte le parole «è lo spirito che vale». Non era un tentativo di sottrarre alla fede religiosa i suoi percorsi per versarli nella storia, ma di irrompere nella vita politica e nel materialismo corrente con uno spirito religioso.
Chi pensa che la Scuola di Mistica sia stata una specie di covo dei fanatici, dei pasdaran del fascismo, deve però ricredersi. Come raccontò anche Ruggero Zangrandi si svolsero dibattiti spregiudicati nella Scuola, riflessioni critiche tutt’altro che devozionali; e analoghe considerazioni fece lo storico americano Michael Arthur Ledeen. C’era nella Scuola di Mistica il tentativo di sottrarre lo spiritualismo all’idealismo accademico e pedante, riportandolo nella vita e nell’azione, cercando disperatamente di fondare una religione civile che desse fondamento e anima al fascismo.
E c’era la polemica con Gentile e Croce, e con la filosofia come professione. Ma c’era anche la fronda verso il fascismo pomposo e conformista, da parata e da carriera, svuotato di passione e rivolto a una meccanica ripetizione di rituali e di parole separate dal loro contenuto. C’era poi il sogno di una rivoluzione ulteriore interna al fascismo, che premiasse i più giovani, i meno carrieristi, i più arditi e ardenti nella loro fede politica. Una specie di superfascismo da non intendersi come un fascismo più estremo e più cruento ma più ascetico ed elitario, quasi templare, antiborghese; più radicale nel senso di più legato alle radici rispetto ai caduchi frutti della propaganda di partito.
I suoi più attivi partecipanti furono ragazzi, ventenni, più vari professori e qualche reduce della marcia e della Grande Guerra. Ma sarebbero anche da rivedere i nomi dei tanti intellettuali e studiosi che si prestarono a tenere lezioni e corsi alla Scuola di Mistica fascista. Ce n’erano pure di insospettabili. Opportunamente, Carini si sofferma sulle figure di Papini ed Evola che, con diverse sensibilità, tentarono comunque una fondazione spirituale della politica, un loro metafascismo spirituale, cristiano-eroico nel primo caso, esoterico-pagano nel secondo. E giustamente accosta la fine di Giani, e di Pallotta, a quella di Berto Ricci, italiano di carattere che seppe coltivare fedeltà ed eresia: forse non Giani, come spiega Carini, ma molti di loro cercarono la morte quasi per inverare nei cieli il loro fascismo impossibile in terra. Furono loro i prototipi sfortunati dell’uomo nuovo che sognava la rivoluzione fascista, in questo accomunata a tutte le grandi rivoluzioni del suo secolo che inseguivano appunto il mondo nuovo e l’ordine nuovo, attraverso la nascita di una nuova umanità. Sogno impossibile e pericoloso.
Il culto della morte eroica sul campo, se non si riesce a fare la rivoluzione, si ricongiunge all’arditismo delle origini e poi al crepuscolo di Salò; quella passione eroica e lugubre per il tramonto, quell’eroica voluttà del sangue versato per la causa, dannunzianesimo estremo, prosciugato di retorica e lanciato nel sogno antico della mors triumphalis. La Scuola di Mistica fascista non fu il fascismo rivoluzionario e nemmeno il fascismo reazionario, perché non cercò la sua verità a destra o a sinistra. Ma in alto, nel volo d’Icaro di una mistica improvvidamente affidata alla storia, alla politica, al culto del Capo. Ma quel che è di Dio non può essere di Cesare.
(di Marcello Veneziani)

Veneziani: Fini? La sua è una destra marziana

Veneziani, queste elezioni come hanno cambiato la geografia interna del Pdl?
Io non credo che sia cambiata, nel senso che ho l’impressione che non ci sia una vera e propria geografia di questo partito. C’è una forte leadership e poi c’è qualche conato di divergenza al suo interno.
Devono fischiare le orecchie al presidente della Camera?
Sì, come quello che rappresenta Fini. Ma non mi pare di intravedere un diverso equilibrio di rapporti. L’unico vero fatto eclatante è lo scioglimento della realtà di Alleanza Nazionale all’interno del Pdl.
Bè, anche il successo del Carroccio è un fatto eclatante di questa tornata elettorale.
La Lega ha un potere contrattuale diverso che nasce da una forte presenza identitaria e territoriale. Sicuramente avrà maggiore peso, ma lo avrà anche perché fino a poco tempo fa Berlusconi aveva tre interlocutori con cui trattare che erano Casini, Fini e Bossi. Ora che uno è stato incorporato e l’altro è andato via, Bossi è rimasto l’unico soggetto alternativo all’interno del centrodestra.
Fini sembra smarcarsi sempre di più non solo dalle posizioni del Pdl ma anche da quelle di Alleanza Nazionale. Che tipo di elettorato rappresenta oggi?
Il target di Fini, l’homo finianus, per dirla in termini antropologici non esiste, per lo meno nel centro destra. Perché in realtà quasi tutte le posizioni assunte negli ultimi tempi non sono riconducibili all’interno del centro destra. Combaciano con un certo tipo di elettorato che guarda con simpatia alle posizioni del presidente della Camera ma che non lo voterebbe mai.
Quindi chi lo sostiene?
Ho l’impressione che siano ancora i suoi vecchi elettori, male informati sulle sue attuali posizioni e sui suoi cambiamenti. Rassicurati ancora dal suo tono di voce, dalla sua provenienza, da alcune ovvietà che oggettivamente dice quando interviene. Diciamo che per un equivoco è ancora attaccato al suo vecchio elettorato ma non ha fatto ancora alcun passo in avanti.
E se andasse verso una destra europea?
Io credo che non ci sia niente di simile a livello europeo. Penso a Sarkozy che è il simbolo vincente della destra, ma rappresenta uno schieramento che fa ancora riferimento alla propria tradizione civile, politica o religiosa. Oppure come in Inghilterra, dove ci sono movimenti che provengono da una cultura conservatrice. Non mi pare che in Europa esista niente di simile alla destra astrale che rappresenta Fini, una destra che viene da Marte.
Alla fine su Marte non ci sono andati i fascisti di Corrado Guzzanti ma i finiani di Alleanza nazionale.
Sì, appunto. Questa destra non ha nessun legame reale con i desideri e la sensibilità di un elettorato moderato. L’unica agibilità di questa missione può essere quella di un ruolo arbitrale, di garanzia. Giocare una partita per un ruolo terzo.
Fa il praticantato da presidente della Repubblica?
Sì, fa quello, oppure sta giocando una partita che non è più politicamente inserita nel sistema bipolare. Fa un po’ come Casini, con la differenza che Casini è fedele al suo tessuto di origine ma infedele a Berlusconi. Fini fa l’inverso. Continua il rapporto con Berlusconi ma ha buttato a mare il suo legame con la destra, con qualunque destra, tradizionale, nostalgica, moderna, conservatrice o garantista.
La destra non esiste più, quindi. E tutte le correnti ruspanti della destra sociale che fine hanno fatto?
E’ una cosa sorprendente. C’è stata una sorta di evaporazione di queste correnti. Storace non ha portato via nulla, Alemanno è su posizioni molto vicine a quelle di Fini. Non mi pare di intravedere posizioni di destra sociale in nessun soggetto interno al Pdl. E’ impressionante come una componente cospicua della destra italiana non sia rappresentata e non emerga da nessuna parte.
E la nuova generazione del Pdl?
Ci sono individualità promettenti ma non c’è una rete, un contesto. Non vedo una nuova classe politica giovanile. E i riferimenti culturali? Molti, a destra, sono stati messi in naftalina. E altri sono approdati nel pantheon del Pdl.Alcuni sono stati salvati ed è un fatto positivo. L’uso congressuale e comiziale di pensatori e filosofi era una cosa che faceva male. Non tanto alla politica quanto agli autori stessi. I pantheon secondo me non hanno alcun valore. Sono invenzioni dei giornali che di fatto non influenzano le scelte politiche.

mercoledì 17 giugno 2009

Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa

Il nome di Karl Rahner è un passaggio obbligato per chi voglia entrare nel cuore del dibattito intraecclesiale dei nostri giorni. Come perito conciliare del cardinale Franz König il gesuita tedesco svolse, dietro le quinte, un ruolo cruciale nel Vaticano II, fino a essere definito dall’allora decano della Gregoriana, Juan Alfaro, “il massimo ispiratore del Concilio”. Di certo ha dominato il postconcilio come conferenziere di grido e scrittore dalla alluvionale produzione, pronto a intervenire disinvoltamente su tutti i problemi del momento: i suoi titoli sono oltre quattromila, le sue opere, tradotte e diffuse in tutto il mondo, continuano a esercitare una larga influenza sul mondo cattolico contemporaneo.
Sembra giunta però l’ora di “uscire da Rahner”, come implicitamente auspicato da Benedetto XVI nell’ormai storico discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulle “ermeneutiche” del Concilio Vaticano II. Lo “spirito del Concilio” a cui si richiamano gli ermeneuti della “discontinuità” ha infatti la sua fonte nel Geist in Welt di Rahner, quello “Spirito nel mondo” che è il titolo del suo primo importante libro, pubblicato nel 1939. Se in questo volume Rahner delinea la sua concezione filosofica della conoscenza, nel successivo, “Uditori della parola” (Hörer des Wortes), pubblicato nel 1941, espone la sua visione propriamente teologica. Le tesi di questi due libri e dei successivi, già lucidamente criticate dal padre Cornelio Fabro (“La svolta antropologica di Karl Rahner”, 1974), sono ora oggetto di un importante volume, a cura di padre Serafino M. Lanzetta, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Firenze nel novembre 2007, con la partecipazione di eccellenti studiosi, provenienti da diverse parti del mondo: Ignacio Andereggen, Alessandro Apollonio, Giovanni Cavalcoli, Peter M. Fehlner, Joaquín Ferrer Arellano, Brunero Gherardini, Manfred Hauke, Antonio Livi, H. Christian Schmidbaur, Paolo M. Siano, (“Karl Rahner. Un’analisi critica. Le figure, le opere e la recensione. Teologia di Karl Rahner, 1904-1984”. Cantagalli).
Oggetto della scienza teologica, per Rahner, non è Dio, di cui non può essere dimostrata l’esistenza, ma l’uomo, che costituisce l’unica esperienza di cui abbiamo l’immediata certezza. Non si può dunque parlare di Dio al di fuori del processo conoscitivo dell’uomo. Dio, più precisamente, esiste “autocomunicandosi” all’uomo che lo interpella. Rahner afferma che nessuna risposta va al di là dell’orizzonte che la domanda ha già precedentemente delimitato. L’orizzonte di Dio è misurato dall’uomo che, delimitando nella sua domanda la risposta divina, diviene la misura stessa della Rivelazione di Dio. Rahner non dice che l’uomo è necessario a Dio perché Dio possa esistere, ma poiché senza l’uomo Dio non può essere conosciuto, la conoscenza umana diviene la chiave di quella che egli definisce la “svolta antropologica” della teologia. Rahner si richiama spesso a san Tommaso d’Aquino, ma di fatto riduce la metafisica ad antropologia e la antropologia a gnoseologia ed ermeneutica.La “teologia trascendentale” di Rahner appare, in questa prospettiva, come uno spregiudicato tentativo di liberarsi della tradizionale metafisica tomista, in nome dello stesso san Tommaso. Ciò naturalmente può avvenire solo a condizione di falsificare il pensiero dell’Aquinate. Fabro non esita a definire Rahner “deformator thomisticus radicalis”, a tutti i livelli: dei testi, dei contesti e dei principi. L’esito è un “trasbordo” dal realismo metafisico di Tommaso all’immanentismo di Kant, di Hegel e soprattutto di Heidegger, acclamato dal gesuita tedesco come il suo “unico maestro”.
Rahner accetta il punto di partenza cartesiano dell’io come auto-coscienza. L’uomo, spogliato della sua corporeità, è innanzitutto coscienza, puro spirito, immerso nel mondo. Come per Cartesio e per Hegel, anche per Rahner è il conoscere che fonda l’essere, ma la conoscenza ha il suo fondamento nella libertà, perché “nella misura in cui un essere diventa libero, nella medesima misura esso è conoscente”. La coscienza coincide con la volontà dell’uomo e la volontà dell’uomo è l’attuarsi dell’Io. L’Io a sua volta non è sottomesso a nulla che lo possa condizionare, perché il suo fondamento sta proprio nella sua incondizionatezza e dunque nell’assenza di ogni oggettiva limitazione esterna.La conseguenza della riduzione dell’uomo ad auto-coscienza è la dissoluzione della morale. La libertà prevale sulla conoscenza perché, come afferma Heidegger, dietro il cogito cartesiano irrompe la libertà. L’uomo è coscienza che si auto-conosce e libertà che si auto-realizza. Per Rahner, come per il suo maestro, l’uomo conosce e vive il vero facendosi libero. Il valore morale dell’azione non ha una radice oggettiva, ma è fondato sulla libertà del soggetto.
Forzando il n. 16 della “Lumen Gentium”, in cui si parla della possibilità di salvezza di coloro che “non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio”, Rahner afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i “cristiani anonimi”, i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti “accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo”. Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria “esperienza trascendentale” tanto più ha fede. Questo, osserva giustamente il padre Andereggen, significa che ha più fede un individuo che si sia psicanalizzato freudianamente durante dieci anni, piuttosto che un religioso che preghi (p. 35).Il cardinale Franz König, uomo di punta del progressismo conciliare, fu il grande “sdoganatore” di Rahner, in odore di eresia fino agli anni Sessanta.
Tra i numerosi e illustri discepoli del gesuita, bisogna ricordare l’ex presidente della Conferenza episcopale tedesca Karl Lehmann e, in Italia, il cardinale Carlo Maria Martini. Le ultime interviste-confessioni di Martini, con Georg Sporschill (“Conversazioni notturne a Gerusalemme”, Mondadori) e con don Luigi Verzé (“Siamo tutti nella stessa barca”, Edizioni San Raffaele), sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la “morale debole”. Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica. Lo stesso Martini, istituì a Milano una “cattedra dei non credenti”, per ascoltare il loro contributo alla salvezza del mondo. Il successore di san Carlo Borromeo, rinunciava così al compito di portare Cristo a chi non crede, per affidare ad atei dichiarati come Umberto Eco la missione di “evangelizzare” i fedeli della diocesi ambrosiana.
Non è eccessivo affermare che Rahner è il padre del relativismo teologico contemporaneo. A confermarlo è la sua più intima confidente, Luise Rinser, che l’11 maggio 1965 gli scriveva: “Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che sei un relativista. Da quando ho imparato a pensare come te non oso affermare nulla con sicurezza” (“Gratwanderung”, Kösel). Qualche anno dopo la stessa Rinser avrebbe solidarizzato con i terroristi Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Rahner, da parte sua, il 16 marzo 1984, poco prima di morire, scrisse una lettera in difesa della teologia della liberazione che chiamava i cattolici alle armi in America Latina.
La lettura del libro curato dal padre Lanzetta conferma nell’idea che Karl Rahner, per lo spregiudicato uso delle sue indubbie capacità intellettuali, fu soprattutto un grande avventuriero della teologia. Il giovane Ratzinger subì il fascino della sua personalità, ma intravide presto le conseguenze devastanti del suo pensiero e, sotto un certo aspetto, dedicò tutta la sua successiva opera intellettuale a confutarne le tesi. Oggi il nome di Rahner rappresenta la bandiera teologica di chi si oppone al pensiero antirelativista di Benedetto XVI-Ratzinger. L’analisi critica merita di essere portata fino in fondo.
(di Roberto De Mattei)

Comunque vada avrà perso Ahmadinejad

Per quanto Ahmadinejad abbia vinto le elezioni - e anche ammesso che le abbia vinte regolarmente, addirittura prendendo più voti del suo sfidante nella città natale di quest’ultimo, Khameneh - è lui il grande sconfitto della politica iraniana. Lo è perché ha trasformato il settantenne Mir Hossein Moussavi, uno che era stato ripescato dal retrobottega dei leader in disuso, dove per vent’anni era rimasto chiuso a fare il pittore astrattista, in antagonista coraggioso e, paradossalmente carismatico, il carisma che deriva da chi ti appoggia e non dal fatto di essere tu la guida.
Lo è perché ha coagulato contro il suo nome una protesta come da un trentennio, cioè dalla nascita della Repubblica islamica, non accadeva di vedere, di gran lunga superiore a quella studentesca di dieci anni fa, elitaria e quindi più facilmente, pur se sanguinosamente, schiacciabile.Lo è perché in un sistema che ha sempre identificato il suo presidente come il rappresentante del consenso popolare, per la prima volta si è trovato a constatare che una gran parte di popolo iraniano lo giudica in termini talmente negativi da rischiare la vita pur di farglielo sapere.
Lo è perché dei tre elementi che dalla fondazione della Repubblica hanno garantito, anche nel loro salire e scendere, la legittimità a governare, e cioè il consenso, il benessere interno, la minaccia esterna, i primi due, che erano sotto la sua diretta responsabilità, non sono stati mantenuti. L’economia va male (il tasso di disoccupazione è del 25 per cento, ma raddoppia per la fascia d’età giovanile, l’inflazione ufficiale è del 13 per cento, quella reale del 25), la fiducia in chi ti governa non c’è più. Resta in piedi, teoricamente, il terzo, quello che permise all’Iran di sopravvivere alla guerra scatenatagli contro dall’Irak, quello che ha a lungo avvelenato i rapporti con gli Stati Uniti, quello che, ancora dieci anni fa, fece alla fine muro contro la rivolta degli studenti allorché il pressante, e semplicistico, invito da oltreoceano a ribellarsi, venne strumentalizzato come tradimento verso la patria. Sotto questo punto di vista ha ragione l’analista di politica estera del Financial Times, Gideon Rachman, a dire che l’unica cosa che l’Occidente può fare, al di là di un «retorico appoggio», è «guardare, attendere, sperare».
Dice ancora Rachman che dal 1979 a oggi, la lezione cruciale della lunga ondata di democratizzazione avutasi nel mondo sta nel fatto che alla sua base ci sono quasi interamente ragioni interne, nazionali. È vero che nel 1989 il «non intervento» di Mosca, sugli sconvolgimenti in atto nell’Est Europa, o, all’opposto, l’«ingerenza» di Washington nel favorire la dipartita di Marcos nelle Filippine, accreditano anche un’altra lettura, ma, come egli sostiene, si trattava in entrambi i casi di scelte relative a «regimi clientelari», legati a una sorta di filo doppio all’«alleato di riferimento». L’Iran è un’altra cosa e lo ha ampiamente dimostrato.Nella vittoria-sconfitta di Ahmadinejad c’è un errore di valutazione da parte di Khamenei, la «guida suprema», il vero dominus della politica iraniana. Fino a poco prima della campagna elettorale, si dava per sicura la candidatura di Khatami come sfidante del presidente uscente, e molto probabile la sua vittoria. Non tanto perché, in una fuorviante lettura tipicamente occidentale, si trattava del candidato più liberale, il più consono, insomma, ai nostri gusti, quanto perché la fallimentare politica economica di Ahmadinejad gli aveva messo contro il potere dei bazarì e il suoi appoggiarsi ai «guardiani della rivoluzione» alienato le simpatie dei mullah. Si è così cercato di indebolire Khatami illudendo altre candidature interne al suo fronte, cosa di cui lo stesso Khatami ha preso atto ritirandosi dalla competizione, ma non per questo mettendosi di traverso a chi ne prendeva il posto. L’appoggio di Rafsanjani, ex presidente e figura di spicco dei conservatori, ha fatto il resto e intorno a una candidatura debole, persino riluttante, per nulla anti-sistema, si è ritrovata una massa di manovra formidabile e per certi versi più libera di agire per interposta persona di quanto non lo sarebbe stato in maniera diretta.
Nella vittoria-sconfitta di Ahmadinejad c’è anche una incomprensione della nazione che già era stato chiamato a governare. Il 70 per cento degli iraniani ha meno di trent’anni, metà del corpo elettorale, quasi trenta milioni, è fra i quindici e i ventotto, oltre il 60 per cento degli studenti è femmina. A ogni elezione il corpo elettorale ringiovanisce e smonta qualche pezzetto di Repubblica islamica, facendo del Paese un laboratorio in continua trasformazione. La sua ipotesi radical-movimentista fu favorita alle elezioni precedenti dal forte astensionismo provocato dalla delusione per il fallimento politico, l’illusione riformista bloccata, di Khatami, ma si è rivelata perdente in un corpo sociale che cerca una propria via alla modernizzazione all’insegna di un cauto riformismo, e priva degli elementi più vitali della società, i quadri professionali, le élites universitarie, i businessmen costretti a un regime economico asfittico.Difficilmente «la «rabbia popolare» di questi giorni vedrà una crisi del sistema tale da provocarne lo schianto e il suo rifondarsi su basi meno statuali se non più liberali. Ma gli iraniani sono pazienti e perseveranti, hanno dato al mondo la poesia, la miniatura, il tappeto, meravigliose e irripetibili nullità che però permettono agli uomini di definirsi tali.
(di Stenio Solinas)

martedì 16 giugno 2009

Partecipazione agli utili. Da Salò a Sacconi…

Di Nicola Piras

Alla luce di un welfare in rovina, traballante tra antiquato e precariato, una crisi inarrestabile che ha stravolto l’economia mondiale, una fuga industriale di proporzioni immani che dall’Europa sposta le sue unità produttive nell’estremo oriente, urge rivedere le regole di un mercato che, sregolato e senza freni, ha collassato su se stesso. Come il comunismo, anche il capitalismo, datosi per vinto, è imploso, vittima delle sue stesse contraddizioni, prigioniero della sua libertà. Quanto fittizia più che reale.

Si sentono così gli echi di sistemi alternativi al capitalismo esasperato e al liberismo sconquassato, anche in casa nostra. Si pone così dinnanzi la visione della partecipazione dei lavoratori agli utili, e perché no, alla gestione dell’impresa.

Idea che lo stesso Maurizio Sacconi [nella foto sotto], ministro del welfare, pone in prospettiva, in questi giorni, per risollevare le sorti del salario dei dipendenti dell’industria italiana. Riferendosi proprio a quel tessuto produttivo composto dalle piccole-medie imprese. Affossate non solo da un mercato oligarchico ma anche da una capacità decisionale ridotta e di breve raggio. Sacconi sottolinea, facendo entrare in gioco il meccanismo della partecipazione, una difficoltà contrattualistica omologante e iperburocratizzata, poco flessibile rispetto alle esigenze di un mercato allargato e ai rapidi cambiamenti, delle sorti economiche, in corso. Rendendo l’onore al nostro Paese di scivolare rapidamente lungo la china dell’osservatorio OCSE, in merito alla questione salariale. Sacconi ha così affidato le sue parole a due dei sindacati federali, UIL e CISL, e allo storico sindacato della destra, l’UGL.

Sacconi, con toni forti, dipinge le spoglie di una sinistra assoggettata ai poteri forti e del relitto borghese sempre più parassitario e cialtrone, accusandole di essere tra le cause dello sconquasso economico in atto. Facendo così strada al modello partecipativo, figlio di quella socializzazione repubblichina, tanto agognata in questo dopoguerra dagli esuli in patria e definendolo: «fondamentale per creare quella complicità tra capitale e lavoro e che da sola può garantire alti livelli di crescita nei prossimi anni».

Sin dagli albori della Repubblica Sociale venne lanciato l’imperativo categorico: socializzare i mezzi di produzione. Ovvero, senza intaccare il diritto alla proprietà privata, la legge di mercato domanda-offerta e la libera iniziativa economica, rendere i lavoratori partecipi alle decisioni aziendali e fruitori dei suoi utili e disutili. Il provvedimento di socializzazione fu punto cardine del manifesto di Verona del 1943 (carta costituzionale della Repubblica Sociale Italiana). Chiaramente anche in questo caso, sia nella stesura della legge che nell’applicazione, si svelarono tutti i limiti e le incoerenze di un regime al crollo. Incapacità strutturali e ideologiche che impedirono a un’ intuizione geniale di decollare. Un Mussolini stremato sentì l’esigenza di lasciare all’Italia quell’impostazione socialista, a Lui tanto cara, che, per un motivo o per l’altro, acquisì solo in parte durante il ventennio.

Le cose andarono diversamente, difatti il primo atto politico del CNLAI (comitato di liberazione nazionale Alta Italia, in buona sostanza i partigiani) fu proprio l’abrogazione del decreto sulla socializzazione. Questa, nella visione mussoliniana e di quel comunista in camicia nera che fu Bombacci, si pose in antagonismo sia al soggettivismo liberista, che accentrando nelle mani di un’unica persona, o comunque di una ristretta cerchia, la proprietà aziendale aliena i lavoratori da ogni scelta. Sia al collettivismo marxista, che, nella fase della dittatura del proletariato, abolisce ogni forma di libera concorrenza, castrando intuito e iniziativa. Il modello partecipativo fu il cavallo di battaglia del vecchio Movimento Sociale, autoreferenzialmente propostosi come erede di quella sinistra fascista protagonista dei giorni di Salò. Divenendo spesso sinonimo della parola “sociale” contenuta nella dicitura del partito.

Archiviato l’MSI e le vecchie vocazioni corporative, inadatte al mercato globalizzato, anche la socializzazione prese altre vie e modificò la sua epidermide. La partecipazione dei lavoratori, come prospettiva politica, torna in auge nel documento programmatico di Alleanza Nazionale. Proposta, da Gianni Alemanno, in quel di Fiuggi, primo congresso del partito. Pretendendo un’ applicazione completa e un’ estensione legislativa all’articolo 46 della costituzione italiana, quello, per l’appunto, concernente la partecipazione.

Il modello di riferimento è la Mitbestimmung (codecisione) applicata, in Germania, in tutte le imprese con più di 2000 lavoratori, secondo la quale tutti i consigli di amministrazione devono annoverare, in parti paritetiche, plenipotenziari degli azionisti e dei dipendenti. Il modello tedesco è raccomandato dalla Commissione Europea, secondo la V Direttiva, a tutti i paesi comunitari. Anche in Francia son stati fatti i primi passi in questo senso, con la legge Balladur che prevede la riserva di uno/due posti nei consigli di vigilanza delle aziende privatizzate. L’economia partecipativa su modello tedesco è l’accesso dei dipendenti ad organismi consultivi o decisionali e ripartizione degli utili aziendali. Con la facoltà da parte del lavoratore di investire parte del suo stipendio, benefit ecc. nell’azienda in cui presta la sua opera.

Volendo cogliere il sistema partecipativo non solo come progetto economico ma anche politico-istituzionale si può addirittura giungere a una sintesi di rinnovamento dell’intero sistema democratico. Concretamente una riforma del welfare, e del meccanismo fiscale, tramite lo strumento della socializzazione prevedrebbe la costituzione di un organo, affiancato al Parlamento o addirittura sostituito al Senato, che si occupi delle tematiche del lavoro e delle esigenze nazionali in materia economica. Scavalcando così l’odioso bicameralismo perfetto, datato e superfluo.

L’organo dovrebbe essere composto unicamente da rappresentanti delle forze produttive, candidati in apposite elezioni e con capacità di essere presentati dai partiti politici. Instaurando, inoltre, un Bilancio partecipativo in tutti i Comuni sotto i 5000 abitanti. Cioè attribuire il diritto ai cittadini di prendere visione del bilancio comunale, delle spese concernenti gli interventi di spesa pubblica e di esprimere eventuale dissenso. Qualora tale parere negativo venga espresso da 50% + 1 degli elettori e per 3 ripetizioni, anche non consecutive, il consiglio comunale decade e si indicono nuove elezioni. Dando luogo alla costruzione di una democrazia fiscale, giungendo a dare capacità al contribuente di destinare l’1% del suo carico fiscale al settore che lui stesso ritiene prioritario.

Nei momenti a seguire dei grandi crack finanziari, sempre più spesso provocati da manager lasciati agire senza controllo, dell’espansione del meccanismo coop, a discapito della piccola produzione e con forma sempre più radente quella della multinazionale, una svolta concreta è necessaria.

Il progetto della socializzazione e della partecipazione sembrerebbe offrire una via di fuga da un sistema in crisi. Il comunismo implose per via della sua chiusura totale al mondo circostante, per la totale assenza di un qualunque meccanismo di selezione meritocratico, per un dichiarato egualitarismo proteso al soffocare della personalità. Il capitalismo sembrerebbe degenerare per il motivo contrario: rimozione di ogni frontiera, economica, sociale, culturale; annichilimento dei principi di equità, ma anche di merito, a favore di un neoclientelismo oligarchico.

La socializzazione ha il valore di sposare i pregi di ogni sistema economico, finora proposto, epurandone le deficienze. Dosando libertà e solidarietà in par misura. La novità piena dell’ economia partecipativa è il ruolo che il soggetto produttivo assume. L’uomo non è più parte di un automatismo, un ingranaggio fra tanti, ma diviene cardine, centro, fautore del proprio destino. Ritrova se stesso nel compito che svolge, prendendo parte alle decisioni sul proprio futuro, armonizzando il proprio presente. Il lavoro cessa di essere un fine, nella peggiore delle prospettive economiciste, in direzione di divenire un mezzo per trovare se stessi, completare la propria libertà all’interno di un insieme armonioso. Laddove libertà e necessità collimino come due rette che si incontrano all’orizzonte. Dove, non più le attinenze fra gli elementi che lo compongo, ma il valore stesso degli elementi assume un ruolo primario.

La partecipazione è un metodo contingente dettato dalla necessità di saldare la frattura tra capitale e lavoro. Consumata dopo la fine del feudalesimo e accelerata dal tardo ottocento fin tutto l’ultimo secolo.

Troppo spesso la sospensione creatasi tra decisione e azione ha contribuito al sorgere di tensioni sociali, sfociate nel peggior odio di classe. Volendo leggere la partecipazione in vista del rafforzamento di ciò che è comunità e popolo, di quel socialismo particolare che dal più vicino al centro e verso l’esterno, in modo circolare e graduale, colleghi tutti i suoi punti. Comunità è prima di tutto appartenenza, e un Governo, abbandonate le velleità hegeliane e statolatriche, che tenda alla conservazione dell’identità non può che sfruttare l’ambito lavorativo per far insorgere una tensione nuova e unitaria nel popolo, linfa vitale per una società massificata e obbligata a ritrovare se stessa autonomamente.

La partecipazione è dispositivo essenziale per poter passare, usando le categorie di Marcello Veneziani, dal degrado di una società liberale schiava di una pretesa libertà, troppo spesso confusa con libero mercato, alla nascita della democrazia comunitaria.

Ciò che fa della socializzazione qualcosa oltre il mero strumento economico, è la visione etica e solidale che l’accompagna. L’interesse principale per le ambizioni, i desideri e i bisogni dell’individuo, che partecipando attivamente e collegialmente, non è ne massa senza volto ne soggetto sganciato dalla realtà. Ma individuo determinato, evolianamente assoluto, inserito in un contesto di riferimento, mosaico della sua stessa identità personale, la comunità nazionale. In questo si rilancia il feroce antagonismo al liberalismo e al comunismo rei della stessa colpa. Privilegiare l’istanza economica a discapito di quella umana.

Tratto da "Il Fondo" di Miro Renzaglia (www.mirorenzaglia.org)

sabato 13 giugno 2009

28 giugno 1940: cade Balbo, "l'aquila del fascismo"

E' l'unico gerarca che il duce tema. "L'unico _ dice a denti stretti Mussolini _ che sarebbe capace di uccidermi". L'unico che gli dia del tu in pubblico, che si permetta di scherzare a Palazzo Venezia, che lo provochi chiamandolo presidente, quasi a voler ostentare che complessi di inferiorità non ne ha. Lui, con quell'aria spregiudicata e moschettiera che seduce e irrita Mussolini, è Italo Balbo, virtuoso dello squadrismo, quadrumviro, trasvolatore, padre dell'aeronautica, grande amatore, ministro, governatore della Libia, il solo politico fascista, oltre al duce, celebre in tutto il mondo. Il solo, con Mussolini, a possedere il carisma del capo. La sua storia è la favola realizzata dell'uomo della strada che dice "se comandassi io" e arriva davvero a comandare, coautore, complice e vittima del sistema. Balbo è il bastian contrario del regime, con quel carattere orgoglioso, ironico e giocoso, di uno che va controcorrente e se ne vanta. Brucia le tappe con un'ansia febbrile. In apparenza, sembra un condottiero rinascimentale, una cavaliere di ventura del Cinquecento paracadutato nel Ventesimo secolo, il Giovanni dalle Bande Nere del suo tempo. In realtà, è qualcosa di più: la sua immagine, complessa e sfaccettata, è quella di un leader moderno, che sa sfruttare i mass media, eccitare e pilotare le masse, crearsi una straordinaria popolarità come piedestallo per l'assalto al potere. Ma il potere vero è un altro film e ha un altro nome: quello di Mussolini, il capo che accetta solo gregari. E così, dopo i trionfi di Rio e di New York e il mito dell'eroe azzurro nell'immensità del cielo, ecco giungere puntuale lo schiaffo dell'"esilio" in Libia, ras di uno scatolone di sabbia. E' una sconfitta che gli resterà sempre dentro. Fino a quel fatale 28 giugno 1940, quando nel cielo di Tobruk, nel cuore di quella guerra che detesta, viene abbattuto dalla distratta contraerea italiana. La sua ala viene spezzata dal destino: tragica beffa per l'"aquila del regime" e per la presunzione del vincente, che nella vita si era sempre divertito a scommettere sulla fortuna. Sono le 17,35 del diciannovesimo giorno di guerra. L'Italia è impegnata in Africa contro gli inglesi. Le mitragliere da venti dell'incrociatore San Giorgio, ancorato in rada, spediscono verso il cielo bordate di proiettili. Il bersaglio? Due aerei presunti inglesi, in realtà due trimotori color piombo, i "gobbi maledetti" dell'aviazione italiana, resi sospetti da una precedente incursione della Raf e dal gioco del sole. Il primo aereo, raggiunto sotto l'ala destra, è in difficoltà. Il pilota si avvicina alla pista per atterrare. Il bersaglio è troppo facile, un invito a nozze. Una fiammata investe la fusoliera, centrata in pieno. Il Savoia Marchetti esplode in una palla di fuoco. Si leva rauco un grido di esultanza, i serventi ai pezzi si abbracciano festosi. Pochi minuti e apprenderanno di avere abbattuto l'aereo del loro comandante, l'SM 79 I Manu di Italo Balbo. Nove passeggeri, nessun superstite. Il "moschettiere" di Ferrara è morto come è vissuto, a modo suo. Irruente, innamorato del rischio, schierato sulle barricate. Volendo sempre, e comunque, vivere pericolosamente.

(fonte:www.ilsole24ore.com)