sabato 29 agosto 2009

L’impresa di Fiume: ma quanto era libertario il regno di D'Annunzio?

«Ah, se fossi morto a Fiume...». Quante volte questo pensiero deve aver attraversato la mente di Gabriele d’Annunzio, murato vivo al Vittoriale a contemplare l’osceno crepuscolo di sé stesso. Quante volte, fra un biglietto firmato «Frate gentile», «Fratel Gabriel priore indegno», «Piccolo seguace di Sant’Antonio», propedeutici tutti a notti di lussuria, una richiesta economica al Duce del Fascismo, un messaggio ai legionari in partenza per l’Africa, una comunicazione di servizio al gioielliere Buccellati, l’idea di essere un sopravvissuto in quell’Europa degli anni Trenta che, pure, avrebbe potuto essere sua terra d’elezione, deve averlo toccato. Fiume era stata per lui l’ultima illusione di fermare il tempo, la possibilità di essere signore e padrone di un regno vero eppure fantastico: il prodigio incarnato di leggi e di pietre, di eroismi e di fiori, di arte e di amore. Aveva 56 anni, era già nell'età in cui «non suonano per me se non gli addii, se non i commiati, se non le separazioni, se non le rinunce, se non le condanne. Ho sognato che ripiegavo la mia carne come un mantello senza colore». L’«esosa vecchiezza» celebrata da allora in poi nel mausoleo di Gardone, suo cilicio e sua tomba, gli detterà un ultimo epitaffio: «Ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla».A novant’anni da quell’impresa, l’editore Castelvecchi ripropone all’attenzione degli studiosi e dei semplici lettori la Costituzione della Reggenza italiana del Carnaro che d’Annunzio scrisse rielaborando la bozza d’insieme preparatagli da Alceste de Ambris, sindacalista rivoluzionario e mazziniano (La Carta del Carnaro e altri scritti su Fiume, pagg. 168, euro 16). Lo fa affidandola alla cura esemplare di Marco Fressura e Patrick Karlsen e premettendogli uno scritto altrettanto esemplare di Giordano Bruno Guerri che ne sottolinea «l’apertura democratica e l’avanzata spregiudicatezza di molti suoi assunti centrali, che oggi definiremmo libertari. La parità dei sessi veniva stabilita come dogma inderogabile, ogni cittadino era elettore ed eleggibile a partire dai vent’anni. I Comuni godevano di grande autonomia e nelle scuole tutte le etnie avevano diritto all’insegnamento nella propria lingua, riconosciuta dallo Stato». Ancora: si faceva «divieto di qualsiasi insegnamento religioso e politico nelle scuole, la libertà era estesa ad ogni forma del comportamento umano, a partire dal pensiero e dalle credenze religiose, veniva garantita l’assistenza sociale per malattia, invalidità, disoccupazione, vecchiaia», il diritto di proprietà veniva vincolato alla sua utilità sociale, i lavoratori inseriti in un sistema corporativo «che doveva porre fine al dissidio padroni-oppressori e proletari-vittime del mondo capitalistico». A un collegio di architetti e urbanisti veniva affidato «il compito di curare la salubrità delle case, difendere il paesaggio e le bellezze urbanistiche», la musica era «un’istituzione religiosa e sociale», il lavoro «una fatica senza fatica» che «tende alla bellezza e onora il mondo». Era il 1920 e par di sognare.Qualche anno fa il saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione (il Mulino), che giustamente Giordano Bruno Guerri richiama nella sua introduzione come punto di partenza di una nuova storiografia più attenta a sottolineare gli elementi libertari di quell’impresa che non il suo essere stata l’apripista della marcia su Roma e del Fascismo, ha fatto del fenomeno fiumano il paradigma di un’occupazione appunto come «festa», di una rivoluzione come epifania di un nuovo mondo, di un modello comportamentale in grado di sfidare il tempo e riproporsi, come un fiume carsico, negli anni a seguire, ora interrandosi, ora di nuovo balzando in superficie.
Fiume e il «fiumanesimo» sono stati insomma il leitmotiv, spesso inconscio, spesso inconfessato, che fa da sottofondo a tutte le successive rivolte e/o rivoluzioni intellettuali che poi seguiranno: dai figli dei fiori alla contestazione studentesca del maggio ’68, dagli hippies agli indiani metropolitani, dalle comuni ai centri sociali ai movimenti no global. Mischiati vi troviamo tutti quelli che ne furono gli elementi principali: la politica come rappresentazione scenica, la satira e l’ironia come arma, la ricerca di nuove alimentazioni, nuove mode di vestiario, nuove tecniche di conoscenza, l’ambientalismo, l’idea di un’economia alternativa, il rifiuto della morale e delle istituzioni borghesi, l’esasperazione della condizione giovanile, l’idea di una nuova alleanza fra Paesi poveri e/o in via di sviluppo. Il secolo della modernità e delle masse trova qui per la prima volta chi ne avverte la pericolosità e cerca di ridare loro un senso. Intravede nella prima la tendenza a trasformarsi da strumento in feticcio, nella seconda la tirannia della maggioranza, il peso schiacciante del numero.In un libro bellissimo, Le mie stagioni, Giovanni Comisso, che da giovane era arrivato a Fiume direttamente dalle trincee di una guerra finita e già diventata routine militare, riepilogherà, vent’anni dopo, alcune coordinate di quell’esperienza: «Godere dello spirito, credere nella propria individualità, essere certi che le macchine non accrescono il tempo, ma ogni attimo se profondamente vissuto è vasto come una vita, ridurre al minimo le nostre esigenze materiali, disprezzare il denaro, il lusso, generatori di stupidità». In una frase che ha l’andatura di un verso trova il modo di racchiudere il senso di un’avventura e un’esperienza: «Questa città era stupenda, la mia giovinezza era al massimo, l’estate declinava lentamente con tramonti sfolgoranti sul mare».Perché poi Fiume fu anche questo, fu soprattutto questo: la vacanza dalla storia e dalla politica, l’idea di poter fermare il tempo, di dilatarlo in modo che non ci fosse né passato né futuro, ma un unico immobile presente, senza fretta e senza l’ansia di sentirti sul collo il rantolo di ciò che era stato, né sul volto il soffio di ciò che poteva essere. Semplicemente immersi nella vita, lasciandosela scorrere addosso, nudi e benedetti dal sole, a cavalcioni di una balaustra come se si fosse sulla terrazza del mondo. Ah, se d’Annunzio fosse morto a Fiume...
(di Stenio Solinas)

venerdì 28 agosto 2009

Il senso dei tempi. La famiglia perduta e la frittata gay

Non riesco a provare antipatia per Max, Cicci e Andrè che pure occupano con i loro corpi, i loro birignao gay e i loro sgargianti asciugamani il mio scoglio di Talamone. Non riesco a capire come si possa aggredire una persona perché è omosessuale. Mi pare rozzo e pure stupido, quasi quanto chi propone leggi ad hoc per salvaguardare i gay come se fossero una specie protetta o una fragile cristalleria da tutelare come bene pubblico e cagionevole. In un paese civile dovrebbero bastare le leggi che valgono per tutti. Ma l'occasione delle recenti aggressioni ai gay è stata ghiotta per riprendere la celebrazione pubblica dell'omosessualità e la condanna di chi non si compiace per la pervasiva presenza di un immaginario gay che colonizza ormai la società.Non voglio far prediche, preferisco partire dalla realtà, parlando di persone vere. I tre gay che ho citato non sono figure retoriche, ma reali. Ho disordinato i loro nomignoli ma sono davvero là, su quello scoglio in vacanza da Roma: lei, Max, è la femminona del trio, un incrocio tra un lottatore di sumo e una massaia obesa, liscia e abbronzata nelle sue rotondità lucenti, con una raggiera di capelli biondi arruffati ed una risata fragorosa, in falsetto. Poi c'è, non so come definirlo, il capo famiglia, con i capelli biondi legati a ciuppillo, come si diceva da noi delle casalinghe con la cipolla in testa, che governa il gruppo e sforna ogni mattina gustose frittate, con variazioni quotidiane e annuncio pubblico (oggi è di patate). Infine c'è il ragazzo, il pupo, il belloccio, più taciturno, magro e con capelli corti ma biondo-accecanti per denotare l'affiliazione al gruppo. Viaggiano in Mini Minor e scendono tardi al mare, la gente lascia loro la punta prelibata dello scoglio per una sorta di cavalleria o di usucapione.Mi colpisce la loro voglia di amicizia, le loro carinerie per acquisire simpatia e farsi accettare, la premura con cui salutano tutti e a tutti offrono frittata mista, che è un po' il simbolo della loro vita. Su di me, per esempio, appena mi hanno conosciuto, si sono documentati e il giorno dopo che li ho conosciuti sono venuti preparati, avevano visto su internet vita e opere. Anche per rimediare all'amabile gaffe del primo giorno quando uno di loro, riconoscendomi come giornalista e scrittore, mi ha chiesto se fossi criminologo. Ho risposto che criminale forse sì, ma criminologo lo dica a sua sorella. Non ho ben capito i loro rispettivi ruoli nella vita intima e sessuale, ma non mi interessa saperlo. Mi colpisce di loro questa gioconda maturità, che mette allegria e tristezza. Il gay, e il trans in particolare, nell'ansia di travestirsi e di vivere la propria diversità, resta legato ad una specie di avvizzita infanzia e di sgualcita teatralità, che lo spinge a giocare per darsi un ruolo e a travestirsi per sancire l'asimmetria rispetto all'anagrafe e all'anatomia. Non ho difficoltà a riconoscere nella loro vita un disordine di fondo, come dicono i teologi, anche se mi riesce difficile trovare in giro vite ordinate.La loro sembra un'identità gioiosa quanto sofferta, preadolescenziale ma quasi costretta all'immaturità, la pubertà come un ergastolo e una maschera permanente. Poi vedo in giro tra coppie scoppiate, famiglie senza figli, e avverto tanta insofferenza, me compreso, verso i rari bambini al loro primo frignare, in spiaggia, in aereo, al ristorante o in albergo. Capisco che un'epoca nata narcisista finisce omosessuale, ama nel suo sesso solo se stessa, la propria individualità accresciuta, non è capace di proiettarsi nella vera diversità, che è etero, e poi nella famiglia, nella procreazione. Ognuno si vive addosso, vive allo specchio e l'omosessualità fotografa e realizza la condizione presente. Se ci fosse uno Schopenhauer del Duemila direbbe che l'astuzia della specie ha deciso di portarci alla morte demografica anche in questo modo, alimentando pulsioni omosessuali.
Di tutto questo non voglio far scontare nulla a Max, Cicci e Andrè, a cui mando virtuali orchidee in cambio di frittata. So distinguere l'errore dagli erranti e sono convinto che una sessualità non disposta a procreare sia una distorsione del disegno naturale - e per chi crede, soprannaturale - di perpetuare la vita e fondare le famiglie. Non un peccato e tantomeno una ragione di disprezzo o di odio, ma un errore. Spesso mi trovo a dover considerare la loro umanità, e i loro gusti, la loro sensibilità, la loro affabilità e cortesia, mediamente più viva di quella dei cosiddetti etero. Mi piacerebbe solo che non si confondesse un'inclinazione privata con un modello pubblico. L'omosessualità è un diritto, la sfilata gay è invece un esibizionismo che mortifica la loro dignità e la rende caricaturale. Vorrei che i bambini e gli adolescenti fossero educati al piacere e al dovere di formare una famiglia e non al primato assoluto dei desideri soggettivi; senza penalizzare chi per inclinazione naturale o per scelta poi si sottrae. Vorrei che non si ponesse sullo stesso piano una famiglia con padre madre e figli ad un triangolo omosessuale. Vorrei che si tutelasse pubblicamente la famiglia, come un bene pubblico, sociale e civile, naturale e culturale; lasciando le altre unioni, occasionali o omosessuali, alla libera sfera del diritto privato. Mi piacerebbe vivere in una società che coltivasse valori pubblici e poi lasciasse a ciascuno nella propria vita la facoltà di assumersi le responsabilità di una scelta diversa, sulla sessualità e la famiglia, la bioetica e l'eutanasia. Ognuno viva come ritiene di farlo, a patto di non danneggiare il prossimo. Ma una comunità che voglia dirsi civiltà abbia pure il coraggio di indicare i valori comuni e non considerarli occasionali, neutri e soggettivi. Una comunità libera e civile non impone valori ma non si sottrae a educare e orientare.Per il resto dico a Max, Cicci e Andrè: dividiamoci lo scoglio e la frittata. E chi arriva prima si prende il posto migliore, senza priority omo o etero.
(di Marcello Veneziani)

giovedì 27 agosto 2009

Fini trova casa: la stessa del Pd

Lungamente sospirato, arrivò in un pomeriggio d’agosto all’altare della sinistra perduta, la Sposa del Partito Democratico, al secolo Gianfranco Fini. Due ali di folla che si allargano per far passare il Presidente della Camera con il suo velo invisibile che suscita tra i compagni commossi invisibili lanci di riso. Un tifo caloroso in platea dopo giorni di marcia nuziale su la Repubblica e le sue sorelle, in attesa euforica del Convertito, salutato come antifascista, anticlericale ma soprattutto antiberlusconiano. Poi la Sposa firma autografi ai compagni e si ferma a parlare con loro, come evita di fare negli incontri con il Popolo della libertà. Articolesse di elogi, attestati di ammirazione e fiumi di paragoni in suo onore con l’Orco feroce Umberto Bossi, con l’Assatanato Silvio Berlusconi, e con i sette nani del suo vecchio partito, i suoi luogotenenti costretti a un’indecorosa difesa del cadavere, la destra buonanima. Loro le bestie, lui la Vergine Rifatta, venuta a Genova, città tremenda per chi viene dal Msi, a miracol mostrare. Un tifo della madonna per la nuova sposa che non ha tradito le premesse, limitandosi a tradire i suoi elettori e il suo passato anche più recente. Stimolato da Mario Orfeo, nuovo direttore del Tg2, a lui assai caro e non a caso venuto da la Repubblica e da sinistra, Fini ha parlato da prete progressista della legge Bossi-Fini, quel suo omonimo bestiale e razzista di qualche anno fa. Poi ha parlato da laicista progressista del testamento biologico, con implicito disprezzo della pessima accozzaglia cattolico-conservatrice-tradizionalista che fino a pochi anni fa un suo omonimo cercava di rappresentare. Infine ha parlato da leader della sinistra soffusa contro la Lega, Berlusconi e la destra italiana. Con toni misurati, come s’addice al personaggio. Ma a Genova Fini ha perfezionato il suo lungo viaggio da Almirante a ET, l’extraterrestre. Non lasciamoci trasportare dall’euforia dei compagni, ricomponiamoci. Dunque, per cominciare, Fini ha fatto bene ad andare alla festa del Partito Democratico. È il presidente del Parlamento, ha un ruolo bipartisan e non può seguire la decisione, discutibile, di Berlusconi e del suo governo di disertare la festa perché i democratici hanno perfidamente alluso ai suoi festini. Fini ha fatto bene ad andarci, come farà bene ad andarci l’altra figura istituzionale, Schifani. Ha fatto bene Fini a mazzolare alcune posizioni radicali della Lega, l’infelice battuta - poi rientrata - sul ripensamento del Concordato con la Chiesa, insomma alcune cadute nel rozzismo. Fa bene Fini a difendere l’unità d’Italia, anche se lo fa in modo assai più moscio di Napolitano e Ciampi, con cadute nell’internazionalismo catto-progressista. E fa bene, dal suo punto di vista, a smarcarsi da posizioni di partito, fa bene a dialogare... Però che volete, a me fa qualche impressione vederlo ridotto al ruolo di Cristoforo Colombo della sinistra, scopritore genovese di un Partito che non c’è più. E mi fa impressione pensare che pochi anni fa parlai pubblicamente assieme a Fini proprio lì, a Genova, in quei luoghi precisi dove è riapparso dopo il lifting mentale. Era una festa di Alleanza nazionale e quel Fini lì mi scavalcò, come era ovvio, a destra. Sui temi classici della destra, immigrazione inclusa. O magari sulla legge anti droga, che Fini firmò con Giovanardi; ma evidentemente Giovanardi falsificò la sua firma, perché lui ora dice cose opposte. E così vale per il presidenzialismo, che piaceva da matti a Fini e alla sua destra, fino a pochi anni fa: ma ora il decisionismo è sparito e quel che conta per il Fini bis è il Parlamento.
Fa impressione incontrare uno che gli somiglia tanto, persino con lo stesso cognome, che ora ti scavalca a sinistra e dice cose opposte a quelle che diceva, non da ragazzo, non da missino, ma da leader della destra moderna italiana del terzo millennio. Era vice di Berlusconi all’epoca in cui parlammo insieme al pubblico di Genova; ora ha fatto carriera e fa il vice di Napolitano o il fratello maggiore di Franceschini che è la sua versione parrocchiale, un Fini minore che ha studiato dalle monache.Sono contento che la sinistra abbia finalmente trovato un leader su cui non si divide ma che elogia compatta. È un buon auspicio per le primarie. Fino a ieri ero convinto che Pdl volesse dire semplicemente Partito del Leader, inteso come Berlusconi; e Pd volesse invece dire Partito del, ma non si sapeva di che cosa. Ora finalmente viaggia in Pdf, come Partito di Fini. Sono contento per loro, anche se le posizioni di Fini non sono nemmeno di sinistra, sono neutre come il sapone dei bambini; forse terziste, cerchiobottiste, e approdano nella terra di nessuno. Ma sono contento per la sinistra che ha trovato finalmente un leader con cui condivide l’assenza di idee. Meno contento sono per la destra, lo dico ormai da turista curioso e disinteressato. Ecco, vorrei chiedervi: chi è il leader della destra oggi in Italia? Non riesco a trovare una risposta. Mi arrampico e deliro: Ratzinger? Calderoli? Arisa? Non so, non mi sovviene nessun leader della destra, nuova, vecchia, surgelata. Intanto, auguri a Fini l’astronauta per il suo lungo viaggio verso Marte. Come i fascisti di una celebre satira di Corrado Guzzanti...
(di Marcello Veneziani)

martedì 25 agosto 2009

Io, bersaglio fisso dell'odiatore da tavolino

Caro Giornale,

chiedo ospitalità perché ci sono attorno a noi, in questa Italia con il sangue agli occhi, molti marciatori senza marcia, gente come lo storico manganellatore Sergio Luzzatto - e tra poco te ne chiarirò i motivi - cui sarebbe piaciuto partecipare alla presa della Bastiglia, del palazzo d’Inverno e perfino alla Marcia su Roma. Anche se, naturalmente, al momento di una vera marcia, Luzzatto indosserebbe gli scarponi da soldato solo in metafora, stando magari nascosto in un convento, a coltivare l’odio come ebbrezza del cuore. Vengo al dunque: a suo tempo, il Governo Prodi, nella persona di Francesco Rutelli, ministro per i Beni Culturali, mi nominò nel comitato dei garanti per le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. Ne fui onorato soprattutto perché a guidare il gruppo dei garanti c’era, e c’è ancora, Carlo Azeglio Ciampi, l’ex Capo dello Stato che mi ha altresì voluto con sé nel ristretto comitato di presidenza. Sul Sole 24 Ore di ieri c’è dunque Luzzatto che s’è preso di petto il 150° accusando l’attuale governo, nella persona di «livello» (basso, ovviamente) di Sandro Bondi, di aver utilizzato una sorta di manuale Cencelli al fine di porre l’anniversario dell’Unità sotto il segno della «memoria condivisa». A un certo punto Luzzatto si è chiesto: «Che cosa garantisce per esempio il garante Pietrangelo Buttafuoco, noto giornalista di estrema destra? Quale idea della storia d’Italia, quale memoria delle nostre vicende collettive? Forse la speranza che le celebrazioni dell’Unità nazionale arrivino a comprendere anche la marcia su Roma, “bellissima marcia”, scrisse Buttafuoco sul Foglio del 2 aprile 2004?». Capisco di essere il suo chiodo fisso: anni fa Luzzatto scatenò una campagna violenta contro di me per evitare che vincessi il Campiello con il mio romanzo Le uova del Drago. E se lo dice lui che ho definito «bellissima» la Marcia - lui che mi fa il grande onore di collezionare tutto ciò che scrivo - non posso certo contraddirlo. Ricordo di aver perfino fatto, credo in quel 2 aprile, o magari un altro giorno (lui solo lo sa), l’elogio di Mino Maccari che in quel 28 ottobre 1922 alzò al cielo il motto: «O Roma, o Orte». Ho perfino fatto, come ben sa lui che mi colleziona, l’elogio di San Padre Pio che a sua volta elogiava «il manganello di Peppino Caradonna». Ecco, capisco di buttarla troppo in avanspettacolo facendo torto al suo mestiere di odiatore, ma se lui per fascista intende un intollerante, uno che per meglio calunniare il proprio avversario lo deforma, ebbene, in questo caso il fascista è lui. E mi scuso con i fascisti che sono tutti morti. I fascisti, così come i comunisti, erano fascisti e comunisti quando c’erano il fascismo e il comunismo. Cercarli oggi, scimmiottando sentimenti che non ci appartengono, è ridicolo. Nel suo caso, il militare in idee-cadaveri è anche vigliacco. Insomma, Luzzatto è solo un odiatore da tavolino che - fortuna sua - traffica non in marce ma in cattedre, non in rivoluzioni ma in concorsi e collaborazioni editoriali protette dalla Confindustria e da Gianni Riotta, celebrato finto avversario compiacente del Governo Berlusconi. Lui, il simpatico odiatore Luzzatto ovviamente ha diritto di vedermi come vuole: étoile della Scala, pescatore di trote, compagno di merende... o appunto. Lui che ha letto tutto di me avrà certamente divorato il mio Cabaret Voltaire, dove la butto proprio brutta con la destra, a maggior ragione con l’estrema xenofoba visto che io, da quel dì, campo di pane e studio dell’Islam. Di pane e studio dell’India. Di pane e studio della sublime tradizione sciamanica siberiana. Tutto ciò per portare al tavolo dei garanti anche Roma, proprio nel senso di Roma Orma Amor: l’idea primigenia dell’Italia. Quella di Virgilio, prof. Luzzatto, non quella dei Quadrumviri del 1922. E torno ancora un attimo al «noto giornalista d’estrema destra», dunque. Il certosino collezionista odiatore ha scritto così, ma voleva dire giornalista fascista e antisemita, giusto per linciarmi. Perché, ebbene sì, io sono il suo doppio, la sua paura, il suo fantasma: colpisce in me l’intollerante che si agita in lui. Caro Giornale, da quando mi sono accorto che lo squadrista Luzzatto raccoglie tutti i miei articoli, dal Foglio a Panorama, ho raggiunto una nuova, più matura sicurezza. Grazie a lui, infatti, ogni mio pezzo di carta non va perso. E confesso che nei miei articoli metto sempre una frase per lui. Tipo: «I nazisti almeno vestivano bene». Tanto lui ci casca sempre. So insomma come alimentare la sua morbosa passione. Pensate che il mio caporedattore mi prende perfino in giro: «Mi raccomando, Buttafuoco, non dimenticare la frase per Luzzatto!».

Dopo il ’94, buio totale non sappiamo parlare di noi

Un dibattito non fa mai bobina indietro quando viene innescato. Saran piene le estati dei giornali, come dice Pietrangelo Buttafuoco, di articolesse sull’identità della destra che si perde, si strazia o si rinnova, ma il punto d’attacco è sempre alla fine e mai all’inizio. E il mio punto d’attacco nasce dalla richiesta di recensire un libro di Adalberto Baldoni dedicato alla storia della destra, sfornato da poco per Vallecchi. L’avevo letto, quel libro, e avevo già notato la strana differenza tra le pagine dedicate alle vicende della destra politica e culturale fino al 1994, sviscerate con passione professionale, e quelle che partono nel momento in cui il Movimento sociale rinnova (o mutila, o tradisce, o sublima, fate voi) la sua identità in Alleanza nazionale, liquidate sembra come un sottoprodotto di tutto quello che è accaduto prima, di ben altra valenza e spessore politico, culturale e anche antropologico.
Eppure il processo di costituzionalizzazione della destra - termine più corretto dell’orribile «sdoganamento» - l’affermazione di un partito e della sua leadership, il percorso di chi faceva attività politica o culturale a destra negli anni dell’«opposizione al sistema» e si ritrova a conquistare postazioni di governo o maggior peso culturale o mediatico sono eventi importanti, a parte l’opinione che se ne dà, per la storia italiana, che dovrebbero interessare chiunque si occupa di analisi politica (e non solo chi scrive, che ha scelto di abbandonare l’attività politica dodici anni fa per dedicarsi al lavoro giornalistico e culturale).
E subito la mosca m’è balzata al naso sotto forma di una teoria di domande e valutazioni più ampia, frutto pure di una chiacchierata precedente con Piero Ignazi, che ho buttato giù in forma problematica e tutt’altro che trionfalistica o pragmatistica. Schematicamente, ho tirato giù una valutazione di genere politologico e una di taglio generazionale. La prima osservazione è una domanda: perché da più di dieci anni nessuno abbia pensato di scrivere un’analisi seria, rigorosa, approfondita, di taglio storico e politologico, sulle vicende della destra politica - e certo, del Msi che diventa An, ché altre destre dotate di consenso in Italia non se ne sono viste - che nel 1994 per la prima volta va al governo fino a quando, oggi, la nascita del Popolo della libertà è forse cominciamento di un’altra fase politica. Di più: molti di coloro che hanno avuto a che fare con questo ambiente culturale e politico e recentemente si sono occupati di destra (e ho citato qualche nome comunque di gran levatura culturale), hanno prodotto - legittimamente - analisi rapsodiche e parziali, ispirate a nostalgia, risentimento o disprezzo. Il che appare in buona misura confermato dalle risposte al mio articolo, che non danno scampo.
Solinas accusa la destra di essere ideologicamente pasticciata, Buttafuoco di aver buttato a mare un patrimonio di uomini salvato solo dalla Sim di Maurizio Gasparri (ci sto anch’io in quella Sim, e difatti il commento più divertente al mio pezzo è arrivato proprio da un suo sms). La mia domanda però era un’altra.
La seconda osservazione è motivata dal fatto che, forse perché gran parte di quelli che si sono occupati in forma politologica o narrativa della destra ha cuore e radici negli anni ’70 o al massimo negli Ottanta, tutto ciò che in chiave prima culturale che politica è stato prodotto dal 1994 in poi di solito viene ignorato. Però, piaccia o no, oltre all’Italia settimanale negli anni ’90 nascono riviste, da Area a Charta minuta, che producono analisi importanti, gli spazi di intervento intellettuale si allargano, le idee «da destra» vengono messe alla prova e non sempre danno buoni esiti: significa essere ottimisti o trionfalistici ammettere che quel lavoro culturale è stato fatto, fallimenti compresi? Non mi pare. Ma l’esempio delle aggregazioni giovanili è ancora più eclatante, e in questo confortano i tanti riscontri positivi ricevuti dal mio intervento, compresa la destra arrabbiatissima di Elena Donazzan o esistenziale di Massimo Rossi.
Pochi anni fa le liste di destra hanno sbancato nelle scuole, fatto storico dopo quarant’anni, ma pochi se ne sono accorti. Ancora: mentre i campi Hobbit degli anni ’70 vengono, giustamente, celebrati come tappa fondamentale per il mondo giovanile di destra, altre esperienze di aggregazione generale e innovazione culturale degli anni ’90 mai hanno trovato la dignità di una notarella a piè di pagina, neppure per criticarle e pure ferocemente (a uno di quegli eventi, era il 1998, Solinas è stato invitato. Buttafuoco invece ha dato forfeit cinque minuti prima, forse per questo non se ne ricorda). A questo punto, a domande un poco inevase, c’è conferma che serve urgente un libro sulla destra negli ultimi quindici anni. Così, l’estate prossima ci sarà materiale più sodo per mandare avanti la bobina.
(di Angelo Mellone)

Ma che noia questa destra onnivora

Perché gli intellettuali di destra non si occupano della Destra? Così, sconsolato, si è interrogato l’intellettuale di destra Angelo Mellone sul Giornale dell’altro ieri. «Strano ma vero», proprio adesso che la Destra si è fatta «forza di governo, senso comune, cultura popolare maggioritaria» non ne parlano, non si entusiasmano, peggio la dileggiano...
Come accade a tutti gli innamorati (nella vita come nella politica), Mellone non riesce a capacitarsi che l’oggetto del suo amore non goda del più generale apprezzamento. Lo vede bello, seducente e coinvolgente, come è possibile che possa non piacere? «Nostalgia e risentimento» è la sua spiegazione, qualcosa dunque che non riguarda la ragione, ma sta fra l’anagrafico e il sentimentale.
Curiosamente, l’autore di Di’ qualcosa di destra e il coautore di La destra nuova imputa agli antipatizzanti quella che, a ben vedere, è caso mai una pecca dei simpatizzanti. Se questo soggetto politico è così importante da studiare, se «negli ultimi quindici anni la cultura politica di destra ha trovato aria nuova e rinnovata sulle riviste, sui quotidiani, nelle iniziative editoriali, nei media elettronici e persino nelle università» cosa impedisce a chi non ha in sé la tabe della nostalgia e del risentimento di dare alle stampe l’opus che analizzi a fondo «la storia, le idee, la organizzazione e le tappe istituzionali della destra, in Italia, dal 1994 a oggi?». Per inseguire il paradosso dello «strano ma vero» che è alla base della sua analisi, Mellone imbocca una strada senza uscita: minimizza e/o nasconde il lavoro critico dei simpatizzanti, che pure esiste, magari discutibile, ma esiste, e se la prende con la nostalgia canaglia di chi invece rema contro. Un po’ come il destino «cinico e baro» a cui Giuseppe Saragat imputava i rovesci elettorali del suo partito. Nell’articolo in questione Mellone mette sul banco degli imputati nomi fra loro diversissimi, da Marco Tarchi a Marcello Veneziani, da Pietrangelo Buttafuoco ad Alessandro Giuli, al sottoscritto, e non sta certo a me spiegare le ragioni oppure i torti altrui, ma avendo scritto, più di dieci anni fa, un pamphlet che si intitolava Per farla finita con la destra, credo di poter essere esentato dal dovermi appassionare sul tema. Ho già dato, insomma.
Da osservatore disincantato quanto scettico vorrei però indicare a Mellone un paio di elementi che nulla hanno a che fare con la nostalgia e il risentimento, ma molto invece con la politica e la politologia. Il primo riguarda il paradosso di un partito (perché poi la destra di Mellone è questo, la storia del Msi che diventa Alleanza Nazionale e poi approda nel Partito della Libertà) che per poter continuare a vincere (?) si è dovuto annullare (come ben si sa, è Alleanza nazionale che ha celebrato in un congresso il proprio scioglimento, non Forza Italia). Si è assistito a questo proposito a molti contorcimenti intellettuali, tenuti in piedi alla fine da un hegelismo un po’ raffazzonato (ciò che è reale è razionale), travestito via via da libertà di manovra, fine di un equivoco, necessità di fare tabula rasa, e simili.
Il secondo riguarda l’ossessione onnivora di assimilare culture altre, basata sull’assioma che essendo scomparse le ideologie non abbiano più senso gli steccati ideologici che le recintavano. La cosa curiosa è però che questa contaminazione, questo attraversamento di campo post-ideologico avviene continuando a ogni piè sospinto a rivendicare una cultura di destra e un’appartenenza a destra, un andare oltre, al di là della destra e della sinistra, dicendo di restare sempre e comunque a destra... Dopo averlo scritto, mi rendo conto che un lettore giudicherà il tutto quanto meno schizofrenico, ma non è colpa mia, è colpa di chi lo teorizza.
L’impressione, insomma, è quella di una classe dirigente che ha accettato la subordinazione al più potente alleato in cambio di una rendita di potere (legittima per carità) e di un ceto intellettuale che, invece, si barcamena fra la fronda, il quieto vivere, il non voler vedere, il trionfalismo a volte querimonioso e l’elaborazione di scenari prossimi venturi tanto mobili quanto evanescenti, intorno ai quali più che il rigore dello storico sarebbe meglio adatta la palla di vetro della chiromante.
(di Stenio Solinas)

Nella Destra mancano icone da narrare con passione

«Dopo il grande crollo del 1992-94 le classi dirigenti politiche di questo Paese hanno virtualmente troncato ogni legame con qualunque retroterra culturale», ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di venerdì 14. E Angelo Mellone sul Giornale di martedì 12 rileva che oggi, per una certa «pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali», la destra post 1995, una volta diventata «forza di governo», risulta essere un «oggetto meno epico, troppo urbano», tanto è vero che nel libro di Adalberto Baldoni, che ha dato spunto al suo intervento polemico, «il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994».
Credo che la risposta al problema esistenziale posto da Mellone (perché non c’è nessuno che scrive «un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica»?) stia nelle parole sue e del professor Galli della Loggia sopra riportate. Proprio perché uno di questi partiti italiani (nel nostro caso l’ex Msi ed ex An) ha troncato i suoi legami con la cultura delle origini c’è un’incomprensione e un disinteresse fra questo partito e una certa «denutrita pattuglia di gionalisti e intellettuali» che in precedenza nella Destra si riconosceva. Sarà consentita o no questa posizione, o tutti devono essere obbligatoriamente entusiasti delle (o interessati alle) posizioni che prima al Msi e poi ad An ha fatto raggiungere l’attuale presidente della Camera? Peraltro, non si capisce il motivo per cui Angelo Mellone si preoccupi: in contrapposizione a costoro mi pare che esista una pattuglia ben pasciuta di altri intellettuali e giornalisti che riesce a esporre i propri opposti punti di vista politici e culturali in Fondazioni, giornali, riviste, «iniziative editoriali, nei media elettronici e persino nell’università», come Mellone elenca con giusto compiacimento, controbilanciando questi «piagnoni», questi scetticoni circa le magnifiche sorti progressive della ex destra aennina discioltasi in Forza Italia.
E proprio dalle citate parole di Mellone si evidenziano i motivi di questa disillusione, che non è tanto un miscuglio di nostalgia e risentimento, secondo la sua ipotesi, quanto - appunto - il fatto che il suo «soggetto politico», come direbbero i politologi, sortito a partire dal 1995 non ha nulla di «epico», non sollecita alcun «pathos»... Esso è sembrato nel corso di ben quindici anni soltanto un poltronificio, pur se, secondo quanto afferma Mellone, esso è ormai «cultura popolare maggioritaria».
Ma è così? Se fosse una «cultura popolare maggioritaria», se ne dovrebbero notare gli effetti. Per quanti sforzi faccia non me ne accorgo. L’uso dei simboli forti è scomparso, se ne ha una paura folle, solo la Lega ne ha ormai l’appannaggio.
E tutto ciò perché avviene? Mellone ha usato una parola che mi ha fatto rabbrividire e che mi ha ricordato la Praga del 1968, quando lui forse era appena nato: «Il processo di normalizzazione democratica della destra», che poi diventa anche «il processo di costituzionalizzazione della destra». Mi spiace: una destra «normalizzata», all’esterno come all’interno, ha prodotto il solo effetto di azzerare quello che sempre Mellone definisce negativamente un «eclettismo ideologico forzato», che era invece la vera forza prima del Msi e poi di An. Sicché: al bando tutti coloro che non si riconoscono nelle posizioni ormai «normalizzate» del partito, sino a far assumere alla Nuova Destra posizioni ufficiali spesso non dissimili da quelle della Vecchia Sinistra, ad esempio in tema di «guerra civile» antirevisionista, come ha notato l’insospettabile (e profetico) Giampaolo Pansa su questo giornale il 24 luglio scorso.
A questo punto sembra ingenuo o provocatorio chiedersi retoricamente per quale motivo nessuno della «pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali» senta il minimo impulso a occuparsi «scientificamente» della evoluzione (per loro: involuzione) di un partito così «normalizzato». Che motivo ne dovrebbero avere? Quale interesse potrebbe muoverli? Più consono per loro fare un esame critico, magari umorale, della situazione (non sempre distruttivo, spesso inutilmente propositivo) in base alle loro esperienze passate e presenti e non in nome di un’asettica «scienza politica» o di un pragmatico interesse contingente. Per far quel che chiede Mellone in senso tassonomico e quasi entomologico ci sono schiere ben pasciute che albergano nelle università e nelle Fondazioni e nei mass media elettronici cui utilmente affidarsi per uno scopo così alto. Noi, poveri denutriti, ci muoviamo solo se sentiamo il pathos, l’appeal dell’epico, che ci possiamo fare? La burocrazia e la normalizzazione non ci ispirano. Nemmeno la costituzionalizzazione ci esalta.
(di Gianfranco de Turris)

A destra nessuno sa raccontare la nuova destra

Ha ragione Piero Ignazi: manca un libro che analizzi a fondo la storia, le idee, le organizzazioni e le tappe istituzionali della destra in Italia dal 1994 a oggi. Manca da più di dieci anni, dai tomi di Marco Tarchi, Dal Msi ad An (Mulino, 1997) e dello stesso Ignazi (Il polo escluso, Mulino 1998), dai contributi di Annalisa Terranova e Marco Di Troia sui movimenti giovanili, Planando sopra boschi di braccia tese e Fronte della gioventù (entrambi Settimo sigillo, 1996 e 2001), o dal volume (La destra allo specchio, Marsilio 2000) di Chiarini e Maraffi. Solo qualche reportage giornalistico come La fiamma e la celtica di Nicola Rao (Sperling&Kupfer 2007), qualche tentativo di teorizzazione o qualche pamphlet a tasso variabile di passione (Fabrizio Tatarella sul movimentismo giovanile, Cristina Di Giorgi sulla musica alternativa), cinismo o pressappochismo, è uscito.Inspiegabilmente, o forse no. È un enigma di tratto provincialistico: strano ma vero, quando quella che per comodità ha da definirsi destra politica, quando il partito smarrito che consuma il suo ruolo di alternativa sistemica dopo lo scoppio di tangentopoli e la riforma elettorale maggioritaria, quando questo partito, il Msi poi An, comincia a vincere, a essere forza di governo, a farsi oltre il perimetro della retorica a filiazione nostalgica, quando la destra vince la sua battaglia per la cittadinanza politica e culturale e ritorna a farsi senso comune, cultura popolare maggioritaria che catalizza identificazione in milioni di italiani postideologici, la destra allora diventa per magia isterica un oggetto meno epico, troppo urbano, meno catalogabile sotto la categoria scomoda e per questo entusiasmante dell’“anomalia”, e dunque quasi noioso, poco interessante.
Strano ma vero, il processo di normalizzazione democratica della destra fa guadagnare in voti e in legittimazione a governare ma spinge intellettuali e politologi a occuparsi di altro o a fabbricare giudizi preconcetti. Non è spiegabile per i cultori della scienza politica e del soft power secondo Joseph Nye (Leadership e potere, Laterza, 2009), declinazione moderna del concetto di egemonia culturale, quando è ancora tutto da spiegare l’impatto consistente della destra anni Novanta sull’immaginario collettivo, ben prima che Giulio Tremonti facesse teorizzazioni alter-global. Non è spiegabile neppure per quella pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali che, ciascuno a modo suo, s’è sempre mosso all’interno della destra intesa questa volta come milieu culturale, sociale e da ultimo politico (magari per distaccarsene da molto tempo, com’è il caso di Tarchi). Molti di essi, infatti, hanno costruito le loro grandi - a volte - o piccole - molto spesso - fortune editoriali proprio sulla volontà di sparare sul vecchio quartier generale, mentre chi prova a costruire ipotesi di nuova cultura politica viene accusato di complicità con una politica dissolutrice dei vecchi slanci ideali.
Anche a sinistra questo accade, ma in forma più complessa, dato il maggior potere di radicamento e interdizione che là detengono i residui dell’industria culturale. A destra, diciamola così, può esser data una lettura di, per lo più, tipo generazionale di questa infelice combinazione di disinteresse e disprezzo per le vicende politiche e culturali che partono dagli anni Novanta della seconda Repubblica. Alcuni esempi possono spiegare questo continuo alternarsi dei due registri della nostalgia e del risentimento. A destra, come a sinistra, nell’eterna riproposizione del mito reducista e dell’«ai tempi nostri», vige ancora il duplice principio della valenza morale del radicalismo politico e della superiorità etica della generazione degli anni Settanta: ciò che è venuto dopo è per forza di cose peggiore, contaminato con il “regime” che si voleva distruggere, quando forse si tratta solo della giovinezza che fu che stinge dalla memorialistica eroica alla semplice cronaca. È sintomatico, ad esempio, che in un libro come il recente Storia della destra di Adalberto Baldoni (Vallecchi, 2009), il Baldoni autore di un gran testamento generazionale come quel Noi rivoluzionari – prefazione straordinaria di Beppe Niccolai - che fece infuriare Almirante per il suo elogio del ’68, ebbene anche in Baldoni il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994 e cede il passo a una liquidazione piuttosto frettolosa di ciò che accade quando la destra, diremmo con Alessandro Caprettini, torna a veder le stelle. Lo spazio dedicato all’esame della dimensione aggregativa e musicale nelle esperienze giovanili o all’attività culturale si ferma agli anni ’80, salvo i rimandi bibliografici. I campi giovanili degni di menzione sono “solo” i tre campi Hobbit degli anni ’70, ed eventi significativi come i quattro Campobase degli anni ’90, che pure mobilitano migliaia di ragazzi, affrontando dibattiti a volte laceranti (memorabile quello sull’antiproibizionismo a Rocca Scalegna nel 1998) non trovano neppure la dignità di una citazione in nota, al pari della trasformazione del Fronte della Gioventù in Azione giovani. Stesso discorso per le riviste e gli istituti culturali (Area, che pure a fine anni ’90 supera la 10mila copie vendute, non è citata).
Un minoritarismo blindato ha fatto in modo che all’interno della medesima definizione di “cultura di destra” convivesse un po’ di tutto, storici, politologi, letterati, giornalisti, tradizionalisti e rivoluzionari, conservatori e futuristi, sinistri e destri. La seconda Repubblica ha permesso di superare questo eclettismo ideologico forzato: c’è chi recupera la vocazione antica, modernizzante, laica e nazionale della destra, e chi si costruisce l’immagine di un tradizionalismo a tinte reazionarie o persino antirisorgimentali che in Italia non è mai esistito in forme significative. Ad ogni modo, negli ultimi quindici anni l’immaginario di destra ha invaso il campo del costume e degli stili di vita, la cultura politica di destra ha trovato aria nuova e rinnovata sulle riviste, sui quotidiani, nelle iniziative editoriali, nei media elettronici, e persino nelle università. Eppure questo interessa poco. Sarà che si dà per assodato il paradigma dell’assorbimento, prima politico poi culturale poi antropologico, della destra nel berlusconismo. O sarà che qualche intellettuale, messo alla prova della trasformazione in politiche pubbliche delle sue teorizzazioni, fallisce e si ritrova a esser pretesto per Sandro Bondi quando scrive, a ragione, che la cultura «diventa inutile piagnisteo» se non è capace di farsi cultura politica. Conviene dar la colpa a qualcun altro o invocare la rovina del Tempo e della Storia. Nostalgia e risentimento. La nostalgia è quella per il tempo (per i cinquantenni, il tempo della gioventù) quando si stava meglio perché si stava peggio. Il risentimento per una speranza tradita è ciò che muove figure le più incomponibili come Marcello Veneziani, scultore in libri come La cultura della destra (Laterza, 2007) di un’idea immobile di destra che mai scende a patti con la modernità degenerata (eccezion fatta, guarda caso, per Berlusconi), o Pietrangelo Buttafuoco quando comunica sul Foglio di aver preso casa lontano dall’arena politica, o Stenio Solinas, critico feroce dell’evoluzione culturale di Gianfranco Fini. Tale evoluzione l’ha lodata invece un ex antipatizzante come Giuliano Ferrara: scherzo della sorte, alla sua corte sta Alessandro Giuli, il cui Il passo delle oche (Einaudi, 2007), se si scansano gli schizzi delle invettive, offre qualche spunto di interesse per comprendere come un impolitico osserva il processo di costituzionalizzazione della destra. Ma, ancora oggi, sono praticamente assenti le analisi di taglio comparativo sulla destra italiana e il contesto europeo. Ha ragione Ignazi: strano ma vero, è assente un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica, negli anni della seconda Repubblica, magari anche critico o supercritico, che racconti a fondo dimensioni decisive come il passaggio dall’alternativa al governo, la contaminazione con il berlusconismo, la dinamica dei processi culturali. Strano ma vero, non c’è.
(di Angelo Mellone)