lunedì 28 settembre 2009

Lampi di Folgore


Non se ne abbia a male Michele Serra ma è fin troppo ovvio che una mascotte dei parà, un cane da impegnare perfino nei funerali solenni nell’Italia di oggi, possa avere per nome Rommel. Fu Erwin Rommel, la “Volpe del Deserto”, a scolpire sulla pietra di El Alamein la sentenza che il Signore dei Mondi bacia con la sabbia, il vento e il silenzio di ogni alba sul deserto d’Iskandria: “Se il soldato tedesco ha stupito il mondo, il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco”.

A sbalordire il comandante germanico c’erano i paracadutisti italiani che scendevano dal cielo nel rabbuffo del piumaggio. E piovevano a grappoli i ragazzi di Bir El Gobi. E come Folgore dal cielo, i soldati della guerra perduta, planavano sul mare di polvere riscattando a mani nude la vergogna di un re in fuga e il tradimento della pregiata Marina (e Dio stramaledica i traditori). Daniele Lembo, che ha scritto per “Latina Oggi” il più bel pezzo sui sei caduti di Kabul, mi ha raccontato di aver incontrato ai funerali un paracadutista di ottantacinque anni. Un ragazzo imprigionato nel corpo di un vecchio, il parà. Un bellissimo giovane raggiante di rughe e capelli bianchi, splendido con la sua divisa coloniale, ancora integra, e con il basco in testa: “Nella Grande guerra”, gli ha detto il venerando guerriero, “si faceva il corpo a corpo. Io, nel deserto, il corpo a corpo non l’ho mai fatto. Quelli venivano avanti con i carri armati e io saltavo fuori da quella buca con la bottiglia di benzina”. Questa è la Folgore. Il coraggio contro l’acciaio. Bisogna capire il vecchio. Ma c’è da capire anche Lembo. Suo padre, per arrotondare il bilancio familiare, teneva la contabilità del cinema, al paese. Nel suo compenso era compreso l’ingresso libero in sala per i figli. Avrà avuto otto anni Lembo quando, eccezionalmente per una località di provincia, Minori, ebbe modo di vedere una pellicola di prima visione: “La battaglia di El Alamein”. La storia di due fratelli, un maresciallo dei bersaglieri e un tenente dei paracadutisti, immersi nella sabbia del deserto coi loro reparti. La scena finale del film mostrava i parà della Folgore nella veste di “cacciatori di carri”. Lembo s’innamorò dei “folgorini” guardandoli saltare fuori dalle buche, armati di bottiglie incendiarie, per dare l’assalto ai carri armati inglesi.

Coraggio contro acciaio, appunto. Fra le sabbie non c’è più il deserto perché ormai ci sono i morti. L’epigrafe del cimitero ad El Alamein è bellissima: “Sono qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore, fior fiore di un popolo e di un Esercito in armi. Caduti per un’idea, senza rimpianto, onorati nel ricordo dallo stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa fortuna, il cammino dell’onore e della gloria. Viandante arrestati e riverisci. Dio degli Eserciti, accogli gli spiriti di quesi ragazzi in quell’angolo di cielo che riserbi ai martiri ed agli Eroi”.

Entrato alle sedici in sala, ora della prima proiezione, Daniele rivide la pellicola fino all’ultima replica di mezzanotte. Oggi, in tutta Italia, un bambino che conosca questa pagina di storia non si trova. La sabbia che ci riempie la testa non è benigna come quella nel deserto di Alessandria e bisogna capire quella preside di una scuola di Roma che non ha voluto fare osservare il silenzio ai suoi scolari – “Piuttosto lo si faccia per i morti nel lavoro”. E bisogna capire pure quel prete in Lombardia che i sei caduti di Kabul li ha sputati – “maschioni mercenari fascistoidi”. L’Italia non esiste più e la Brigata Paracadutisti Folgore, tale è il nome esatto, è un’unità di fanteria leggera d’assalto che si descrive nel basco e basta. Il basco amaranto, uguale in tutto il mondo, è il segno di un’aristocrazia militare che affratella i nemici provenienti da ogni terra, sia essa la più remota. Il parà non conosce l’odio e quella preside e quel prete forse dovrebbero visitare la sede dell’Associazione dei Paracadutisti d’Italia, a Trieste, dove i vecchi soldati custodiscono nelle bacheche – quali cimeli, in ricordo dei gemellaggi – i brevetti scambiati coi loro camerati di ogni esercito: americani, inglesi, francesi, ungheresi, turchi, australiani, russi e tedeschi. Di volta in volta nemici o alleati. Hanno perfino i brevetti dei badogliani, quelli della “Nembo”. E in quella sede si venerano, accanto alle Medaglie d’Oro della Grande Guerra, anche le sacrissime bende del Sol Levante. Quelle dei guerrieri aviotrasportati nipponici. Ho usato la parola “camerata”, chiedo scusa, e se l’Italia non fosse quell’espressione geografica cui s’è ridotta ad essere, farebbe ridere il grande sforzo linguistico dell’eufemistico “commilitone”, invece c’è da piangere le lacrime del ridicolo, non proprio il massimo. Ed è una fortuna che resti una tromba a gridare il Silenzio per i caduti.

Il destino del parà è beffardo, e Salvatore Sottile, che fu paracadutista scelto in quel di Siena, a scanso di retorica, l’epopea parà la spiega al modo guascone: “Il parà è il più vulnerabile in azione, cade se deve cadere, sbriga la propria missione, ci mette sacrificio, dovere e lealtà e torna nei ranghi. Sicuramente non è quello che se ne va incontro agli applausi con la bandiera in trionfo”. I parà del 1978 – quando quelli morti oggi a Kabul non erano nati – si raccoglievano alla spicciolata. Alla visita medica un caporale entrava negli stanzoni della leva e chiedeva: “Chi viene nei paracadusti?”. Uno pronto ad alzare il culo dalla comoda branda della naja si trovava. E fare il parà negli anni ’70 era un modo per certificarsi peggiore gioventù, maschioneria fascistoide per come ancora oggi dice il famoso prete. Ovviamente una stupidaggine, questa: “Il dieci per cento dei Diavoli Neri”, ricorda oggi Sottile, “quelli della 15a compagnia, venivano da Lotta Continua. Per non dire dai Sorci Verdi. Tutti di estrema sinistra”. Fare il parà era anche il modo migliore per imparare qualcosa, anche mangiare due primi, due secondi, due porzioni di dolce e di frutta e però dimagrire di dodici chili tanto era grande il mazzo da fare. Fare il parà era quel sapere fare l’amore con l’MG, la mitragliatrice leggera, l’arma da portarsi nel lancio per buttarsi giù e vedere la terra venire incontro e non il contrario. Fare il parà è fare il lancio: il primo è una liberazione, il secondo è più ragionato, gli altri diventano un’orgia di concentrazione e di misura. Fare il parà ieri ma anche oggi e anche domani significa prendersi tutto quello che gli altri rifiutano: la cattiveria, la sfortuna, la morte (la preghiera del legionario: “Mon Dieu, donne moi ce qui reste…”). Se ci fosse l’Italia ci sarebbe un’Edith Piaf per i parà del tricolore, “Non je ne regrette rien” è il loro blasone preso a prestito dai cattivi, sfortunati e morti ammazzati legionari, ma come ci si presta e ci si scambia il basco tra i paracadusti di ogni dove. Ogni volta che sfilano i parà, dunque, ognuno ricordi questa canzone anche per loro. E’ la canzone che Tomaso Staiti di Cuddia, paracadutista, vuole che venga cantata al suo funerale. Essere parà significa avere un dio diverso e mentre gli altri se ne vanno con la bandiera in trionfo, i parà che possono anche chiedere e ottenere il permesso dal loro capitano di fare H24 per tenere in assedio la discoteca Pussycat zeppa di studentesse di Verona, i parà che per allegria possono – come fanno sempre – saltare dal secondo piano della caserma per ogni cambio di materasso, sono gli unici a sapere che il Col Moschin non è precisamente un colonnello che di cognome fa Moschin, ma il venerato Nono Reggimento d’Assalto, intitolato alla presa del Col(le) Moschin durante la I guerra mondiale. Quello degli incursori.

La peste del parà è la retorica, l’unico impasto che gli compete è la poesia. L’atto del lancio è poetico e Sergio Claudio Perroni, fustigatore di poetastri, già parà in quel di Livorno, interrogato, risponde. “Di poetico, ricordo:

-l’allora capitano Roberto Martinelli (poi generale comandante della Forza Multinazionale nel Sinai), che a ogni lancio si augurava che il paracadute incontrasse una corrente capace di tenerlo «in aria per sempre»;

- l’inno Baschi rossi e fregi d’oro, all’epoca cantato di nascosto in quanto vietato per sospetta apologia del fascismo («Siamo arditi, paracadutisti, e dal cielo ci lanciamo…»). Ma più poetico ancora era Paracadutista tu: “Pa-raca-dutista tu / che scendi di lassù so-prà l’infè-rno / Tu, conquisti ciò che vuoi / a fianco degli ero-i, che so-no ete-rni.”)

- i lanci dalla torre del sergente Toma, unico che in piazza d’armi sapesse lanciarsi «a x» dall’altezza massima, cioè diciotto metri (la «x» era la figura acrobatica più artistica e più pericolosa);

- l’allora tenente Marco Bertolini (oggi vicecomandante delle forze di coalizione a Kabul), che, per contare i sei secondi prima di verificare l’apertura del paracadute principale, anziché il conteggio di prammatica («1001, 1002 … 1006») ci suggeriva di recitare il mantra «sesso selvaggio a sassuolo» (anzi, essendo lui di Parma: «scescio scelvaggio a sciasciuolo»). Può sembrare prosaico, ma a metterlo in atto, appena schizzati fuori dall’aereo e ignari per quei secondi se il paracadute si sarebbe aperto o no, era poeticissimo;

- i parà schierati lungo il perimetro della piazza d’armi della caserma Vannucci a Livorno, per l’ultimo saluto a due commilitoni saltati in aria durante un’esercitazione: il silenzio glaciale rotto via via dal singolo schiocco delle mani sulle gambe di ogni parà che scattava sull’attenti al passaggio dei feretri;

- le meravigliose figlie del colonnello Malorgio”.

Nel poetico si annida anche il fattuale. E perciò il Perroni fattualizza: “Non è vero che la Folgore fosse una sentina di camerati. La domanda per parà la facevano molti ragazzi che, non potendo o non volendo schivare la leva, anziché passare quei dodici mesi a morir di noia in qualche casermaccia stantia preferivano farsi un po’ di sano mazzo con attività fisiche e sportive; non è vero che ci si menasse continuamente con la popolazione rossa di Livorno (o di Pisa, quand’eravamo alla SMIPAR, la scuola di paracadutismo, per prendere l’abilitazione al lancio): loro se ne fottevano di noi, noi ce ne fottevamo di loro o, al massimo, cercavamo – perlopiù invano – di fottergli le donne; molti paracadutisti, anche tra gli ufficiali di complemento, erano entrati nella Folgore solo perché si buscava paga più alta rispetto a quella degli altri corpi: c’erano in più l’«indennità di lancio» e l’«indennità di mensa» (quest’ultima era una specie di risarcimento in cibo per le energie profuse in tanta attività fisica; pagato mensilmente in quote alimentari di roba nutriente tipo parmigiano, cioccolata fondente, ecc.). Indennità che, per i raffermati, potevi mantenere solo facendo un numero minimo di lanci all’anno: ragion per cui in certi periodi vedevi i maresciallazzi panzoni e poltroni che diventavano improvvisamente operativi e andavano a far su e giù lanciandosi dall’elicottero per mettersi in pari con la quota minima”.

Ancora un po’ di poesia: “Un po’ della poesia del ‘basco rosso’ se ne andò, almeno per noi, quando fu consentito di portarlo a tutti i militari della Folgore, non solo ai paracadutisti: ossia anche ad autieri e altri soldati che non avevano mai messo piede su un aereo né mai se n’erano lanciati. Quando scoppiò lo scandalo degli Hercules, ossia i C-130 Lockheed, nella Folgore serpeggiò il terrore che sospendessero le consegne dei tanto sospirati C-130 costringendoci a continuare a lanciarci da quelle che davvero erano ‘bare volanti’, ossia i C-119: aerei che spesso ci mettevano tre o quattro tentativi prima di riuscire a decollare col loro carico di parà da lanciare”.A

ltro che maschioni mercenari fascistoidi per come dice il bravo prete (Dio stramaledica i buoni propositi). Non c’è stipendio in grado di convincere una persona a saltare dall’aereo, perché nessuno ha la sicurezza che il fiore bianco, quel paracadute, con tutto il scescio scelvaggio a sciasciuolo, si aprirà. E poi: quando ci sia arruola in un reparto di assalto, prima o poi quell’assalto si farà.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

sabato 26 settembre 2009

Senza verità si distrugge la libertà

Papa Benedetto XVI, come lei ha detto all'Angelus la repubblica ceca si trova nel cuore dell'Europa, come e perché questa visita può essere significativa per il continente nel suo insieme?
"In tutti i secoli questa repubblica Ceca è stata il luogo dell'incontro di culture. Cominciamo dal 9 secolo, da una parte in Moravia abbiamo la grande missione dei fratelli Cirillo e Metodio, che da Bisanzio portano la cultura bizantina, ma creano la cultura slava, con i caratteri cirilicci, con una liturgia in lingua slava. Dall'altra parte in Boemia ci sono le diocesi confinanti che portano il Vangelo in lingua latina, quindi la connessione con la cultura romana, si incontrano così le due culture, ogni incontro è difficile ma anche fecondo, si potrebbe facilmente mostrare su questo esempio. Faccio un grande salto nel XIII secolo Carlo IV che crea qui a Praga la prima università del centro Europa, in questo caso luogo di incontro tra cultura slava e germanofona, come nei secoli e ai tempi della riforma, proprio in questo terreno incontri e scontri diventano decisivi e forti. Faccio un salto subito al nostro presente nel nel secolo scorso la Repubblica Ceca ha sofferto di una dittatura particolarmente rigorosa, ma anche di un resistenza cattolica e laica di grandissimo livello, penso ai testi di Havel, al cardinal vlk alla grande personalità del card. Tomasek che chiaramente hanno dato all'europa un messaggio di che cosa è libertà e di come dobbiamo vivere ed elaborare la libertà. Penso che da questo incontro di culture per i secoli, e proprio da quest' ultima fase di riflessione e non solo di sofferenza, viene un concetto nuovo di libertà, di una società libera escono tanti messaggi importanti per noi che possono e devono essere fecondi per la costruzione dell'Europa. Dobbiamo essere molto attenti proprio al messaggio che arriva da questo paese."
Cade il muro di Berlino, una nuova fase storica?
"Come ho detto questi paesi hanno sofferto particolarmente sotto la dittatura, ma nella sofferenza sono anche maturati concetti di libertà che sono attuali , essi ancora adesso devono essere ancora più elaborati e realizzati. Penso per esempio a un testo di Vaclav Havel, che dice: 'La dittatura è basata sulla menzogna, e se la menzogna andasse separata nessuno mente più se viene alla luce la verità c'è anche la libertà'. E così è elaborato questo nesso tra verità e libertà, che la libertà non è arbitrarietà, libertinismo, ma è connesso e condizionato dai grandi valori della Verità, dell'amore e della solidarietà, e del bene generale. E così penso che questi concetti e idee maturate nel tempo della dittatura non devono essere persi adesso ma dobbiamo proprio ritornare a questi concetti e nella libertà spesso un po' vuota e senza valori, di nuovo riconoscere che libertà è valore, libertà è bene, libertà e verità vanno insieme, altrimenti si distrugge anche la libertà. Questo è il messaggio che viene da questi paesi e che deve essere attualizzato in questo momento."
Qual è il ruolo della Chiesa ceca?
"Vediamo che normalmente le minoranze creative determinano il futuro in questo senso la direi che la chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa e ha un'eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva e attuale e devono attualizzarli e rendereli presenti nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per il concetto vero di libertà e di pace e così contribuire in diversi settori: primo il dialogo intellettuale tra agnostici e credenti. Ambedue hanno bisogno dell'altro. Gli agnostici non devono mai essere contenti di non sapere se Dio esiste o no, ma devono essere in ricerca e sentire la grande eredità della fede. Il cattolico non deve essere contento di avere la fede ma deve essere in ricerca. E ancora di più nel dialogo con gli altri deve imparare Dio nel modo più profondo. Questo è il primo livello del grande dialogo intellettuale e umano. Nel settore educativo la chiesa ha molto nel fare e nel dare, nella formazione ad esempio parliamo di Italia, sul problema dell'emergenza educativa , è un problema comune a tutto l'occidente, che la chiesa deve di nuovo concretizzare e attualizzare, aprire al futuro la sua grande eredità. Terzo settore è la caritas, la chiesa ha sempre avuto questo come un segno della sua identità, essere di aiuto dei poveri è organo della carità. La repubblica ceca fa moltissimo per le diverse situazioni di bisogno e offre molto anche all'umanità sofferente nei diversi continenti e dà così l'esempio che la responsbailità per gli altri e la solidarietà internazionale è condizione per la pace."
In Caritas in veritate si legge di un'umanità più disponibile alla rilfessione morale e spirituale.
"Sono molto contento, per questa grande discussione, era proprio questo lo scopo di incentivare e motivare una discussione su questi problemi. Non lasciare andare le cose come sono ma trovare nuovi modelli di una nuova economia responsabile sia nei singoli paesi che per la totalità dlel'umanità unificata. Mi sembra oggi visibile che l'etica non è esterna all'economia, etica è un principio interiore dell'economia che non funziona se non tiene onto dei valori umani della solidarietà e della responsabilità reciproca Integrare l'etica nella costruzione dell'economia stessa è la grande sfida di questo momento. Spero di aver contribuito a questa sfida con l'enciclica. Il dibattito in corso mi sembra incoraggiante. Vogliamo continuare a rispondere alle sfide del mondo ed aiuatre che il senso di responsabilità sia più grande della volontà del profitto, che la responsabilità per gli altri sia più forte dell'egoismo, vogliamo contribuire all'economia umana a nche in futuro."
Dopo il suo incidente, come va il polso?
"Non è ancora pienamente superato, ma vedete che la mano destra è in funzione, essenziale posso mangiare e soprattutto scrivere. Il mio pensiero si sviluppoa soprattutto scrivendo. Era una pena e auna scuola di pazienza non poter scrivere per sei settimane tuttavia potevo lavorare e leggere. Sono un po' andato avanti con il libro. Ma c'è ancora molto da fare, tra la bibliografia e il resto penso di terminarlo nella prossima primavera, ma è questo è solo una speranza."

Il vero allarme civile? L'antitaliano Di Pietro

Toonine, Tooonine, ce diavule me cumbine? Avete mai provato a parlargli nel suo idioma prima di dire che Tonino Di Pietro non sente ragione? Vorrei tentare di parlargli da conterroneo a conterroneo e perfino da amico, come forse fui un tempo. Non tirerò colpi bassi, storie di finanziamenti pubblici e privati, lauree per corrispondenza o dishonoris causa, ombre personali e familiari. A costo di scontentare molti lettori del Giornale, dirò che non nutro antipatia per lui nonostante il suo sfascismo contro tutto ciò che è italiano, dal premier al congiuntivo. Sarà perché ho cugini al Sud di nome Tonino, ma considero Tonino Di Pietro un cugino di campagna. Mi ricorda troppo i ’zurri del sud, affettuoso nomignolo per indicare da noi i buzzurri; me lo vedo al bar o in piazza a litigare sui carciofi e le sgommate delle moto. In un ritratto che gli ho dedicato nel libro Sud, tratteggiando il suo stile tra la Guardia repubblicana e la Guardia campestre, notavo che a prima vista Tonino sembra l’autista di un ministro, ma poi quando lo senti parlare ti accorgi che lo avevi sopravvalutato.
Tifai Di Pietro ai tempi di Mani pulite e non me ne vergogno. Pensai che ci volesse davvero un po’ di piazza pulita contro il malaffare e non ritenni mai Di Pietro un agente segreto della sinistra togata. Ne conoscevo di tonini come lui al sud ed erano marescialli o militanti dell’Msi, magari sognavano un bel golpe per imporre legge e ordine. Certo, spaventava il suo furore, l’accanimento unilaterale delle indagini, ma la corruzione c’era, la necessità di un cambiamento pure, e non avremmo avuto Berlusconi, Bossi e Fini al governo senza Mani pulite. Non dimenticatelo, lui e voi.
Però ora l’Italia vive una situazione senza precedenti. Il leader morale e civile dell’opposizione è lui, Tonino Di Pietro. Vi rendete conto? Non è un’emergenza democratica, civile e politica questa? La sinistra sarà diffusa, come oggi si dice, esiste ovunque, meno che in politica. Dicesi Franceschini l’intervallo in bianco tra due leader rossi scoloriti. E dicesi sinistra la fettina di cotto schiacciata tra Berlusconi e Di Pietro. Il processo a Berlusconi, nei tribunali o nei parlamenti, europeo incluso, è di marca dipietresca; la sinistra si accoda, va faticosamente al suo rimorchio, è sua suddita. Loro sono la coda e isso è lu capo, Tonino da Montenero di Bisaccia, per usare un nome brigantesco. Mi diverte leggere i colti della sinistra che accusano il berlusconismo e il leghismo di essere incolti parvenu; ammazza la cultura che ferve a sinistra, se il loro capataz è Tonino Di Pietro, che ebbe per chiara fama una cattedra al Cepu.
A Di Pietro vorrei dire quattro cose. La prima è un bilancio della sua missione politica e giudiziaria: voleva eliminare la corruzione dalla politica, sterminare i socialisti, sfasciare Berlusconi. Ammetti, Tonino caro, che non ci sei riuscito. Il malaffare fiorisce trasversale, sinistra inclusa, il malcostume non ne parliamo; i socialisti sono rifioriti nel centrodestra e sono tra i migliori ministri, e Berlusconi governa senza golpe ma con quell’arma civile che si chiama voto, ovvero il libero consenso degli italiani. Missione fallita su tutti i fronti.
La seconda è un appello non più da terrone a terrone ma da italiano a italiano: non puoi gettare palate di fango sul tuo Paese, affittare pagine di giornali stranieri, portare in europarlamento la storia ridicola delle querele per attaccare il premier e di conseguenza la maggioranza degli italiani che lo hanno votato, lasciando credere che viviamo nella dittatura di Bananas. Sai bene che quella campagna viene tradotta in discredito per l’Italia intera. Perché sai bene che la stessa sinistra, quando attacca Berlusconi sul piano pubblico e privato, gli rimprovera di essere arcitaliano e di incarnare l’autobiografia della nazione (mentre loro evidentemente sono l’autopsia della nazione). Insomma, per sfasciare Berlusconi state sfasciando il Paese e la sua immagine nel mondo, ingigantendo storielle di malcostume, semplici querele e vicende private, cancellando l’azione di governo e l’ottima considerazione conquistata nei rapporti con i leader del pianeta. Berlusconi va all’Aquila e voi tra i corvi. Terza riflessione. Se un giorno si farà la storia di questi anni si scriverà che il populismo in Italia ebbe tre varianti: Bossi, Berlusconi e Di Pietro. Più contorno di Santoro. Non giocarti questo alone residuo di genuina popolarità, non prestarti come guardia giurata dei poteri grossi, una specie di Catozzo in servizio davanti a banche e palazzi della City. Ti vogliono usare come vigilante della notte e poi gettarti. Ti esaltano in pubblico ma in salotto ridono alle tue spalle, come leader delle brigate rozze.
Ma soprattutto una raccomandazione finale sento di fare al leader di Forca Italia: Tonino mio, tieniti caro Berlusconi, perché senza di lui perdi il mestiere, i voti e la ragion politica. Tutta la tua carriera è stata fatta in suo nome e per la sua presenza; se Berlusconi si ritirasse dalla politica, anche tu dovresti disotterrare la zappa e tornare in campagna. Dalle auto blu al trattore. L’Italia dei valori si sgonfierebbe come un pallone. Perciò tienitelo stretto, il Cavaliere. L’alternativa è secca: se Berlusconi è il male, tu sorto per combatterlo, perderesti con il suo ritiro la ragione di esistere come berluschicida. Se invece i mali da voi denunciati sopravviveranno al governo Berlusconi vorrà dire che avevate clamorosamente sbagliato diagnosi e dunque non sarete più credibili. Perciò godi Tonino mio, età soave è cotesta, altro dirti non vo. Scusa la lingua dialettale, ma è la poesia di un rozzo marchigiano di provincia, nato in un borgo selvaggio, che spiava volgari donzellette di campagna.
(di Marcello Veneziani)

giovedì 24 settembre 2009

Nel nostro paese non c'è abbastanza teppismo intellettuale

Qualcuno, che s’immagina di conoscermi, si meraviglierà, forse, di vedermi qui, in mezzo ai futuristi, pronto e disposto a urlare coi lupi e a ridere coi pazzi. Ma io, che mi conosco assai meglio di chiunque altro, non sono affatto sorpreso di trovarmi in così mala compagnia. Da quando sono scappato da quelle case di perdizione che son le scuole ho avuto sempre il vizio di star dalla parte dei matti contro i savi; dalla parte di quelli che mettono in campo a rumore contro chi vuole il pericoloso ordine e la mortale calma; dalla parte di quelli che fanno ai cazzotti contro chi sta alla finestra a vedere. Mi hanno chiamato ciarlatano, mi hanno chiamato teppista, mi hanno chiamato becero. Ed io ho ricevuto con gioia queste ingiurie che diventano lodi magnifiche nella bocca di chi le vomita. Io sono un teppista, è arcivero. Non c’è, nel nostro caro paese, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano. Non basta aprire le finestre - bisogna sfondar le porte. Le parole non bastano - ci voglion le pedate. Per questa mia nativa ed invincibile inclinazione al becerismo spirituale non ho potuto fare a meno di venir qui a far la parte di buffone schiamazzatore dinanzi a tante serie persone. Ho già scritto tutto il male e tutto il bene che penso del Futurismo e non voglio ripetermi. Ma resta il fatto fondamentale che in questo momento, in Italia, non v’è altro moto d’avanguardia vivo e coraggioso al di fuori di questo: non v’è altra compagnia sopportabile per un’anima fastidita dall’eterno ieri e innamorata del divino domani; - resta il fatto gravissimo, signori, che tra questi futuristi vi sono uomini d’ingegno che valgono assai più dei graziosi scimpanzè che ridon loro sul viso. Queste ragioni mi bastano a sfidare l’obbrobrio che può cadere sul mio capo scarmigliato dopo questo gesto di simpatia e, se volete, di solidarietà.
(di Giovanni Papini)

La gioventù bruciante che scaldò il Novecento

Nell’arco breve del primo Novecento, sull’orlo entusiasta della modernità, divampò uno straordinario incendio nell’arte e nella letteratura, nel pensiero e nelle ideologie, che presto si propagò nella vita dei popoli e nella storia mondiale. Superato l’umor lieve della belle époque, smaltiti i fatui ninnoli del salotto di Nonna Speranza e spenti gli ultimi lasciti dell’Ottocento, ma finiti anche gli euforici balli Excelsior in onore della modernità e della tecnica trionfante, una corrente elettrizza la società e contagia in breve tempo tutte le forme espressive, fino a diventare movimento di massa. Il suo epicentro è l’Italia, l’asse tra Firenze e Milano in particolare; ma si apre un’officina destinata a infuocare tutto il Novecento e il pianeta. Come definire quel periodo breve e intenso di cui si avvertirono gli effetti e si scontarono le conseguenze per tutto il Novecento e anche oltre? Anni incendiari, direi.

Uso la parola incendio non a caso. Si potrebbe far la storia di quegli anni, dico la storia dell’arte, della letteratura ma anche la storia civile, avendo come filo conduttore i titoli di libri, i proclami, i discorsi, perfino le testate di riviste, che alludono alla fiamma, al fuoco, all’incendio, all’ardere, al bruciare. È il fuoco la metafora e insieme l’allegoria più viva di uno stato d’animo e di una situazione. Il sogno di un futuro nuovo fiammante dopo aver messo a ferro e fuoco il passato e il presente; le utopie fiammeggianti, i falò di libri e di cose antiche, la linea del fuoco nelle trincee, le focose passioni erotiche e politiche, il sacro fuoco dell’ispirazione, la fiamma come simbolo dei combattenti, le fiaccolate, le sigarette accese e penzolanti dalle labbra per il riposo del guerriero...
Il precursore di questa piromania artistico-letteraria fu d’Annunzio che aveva scritto Il fuoco, e che all’ardere e agli arditi, alle fiamme, le fiaccole e le faville, aveva dedicato pagine, poesie, discorsi e fiumi di parole. Ma alla scintilla si era rifatto pure Lenin battezzando così il suo giornale - Iskra - che precede la rivoluzione russa; e tutta la modernità sembrava nascere dal fuoco, messa a fuoco, punto focale: lenti, lastre, dinamo, bombe, bengala, fotografie, flash col botto, ciminiere, fuochisti, pietre focaie, motori a scoppio...

Il fuoco come illuminazione, come ardore, come purificazione del mondo, il fuoco come espressione di un’ispirazione artistica, una passione storica, una promessa di rinnovamento. A giudicare da alcuni effetti tragici di quella passione focosa si può forse dire che in quegli anni cercarono un paradiso fiammeggiante, ma non s’accorsero che col fuoco si propizia l’avvento dell’inferno. Le fiamme sono di casa lì, più che in paradiso. Si addicono ai dannati più che ai beati.
Non fu tanto l’esordio del nuovo secolo a generare questo choc, i primissimi anni dopo lo scoccare del ’900, quanto il decennio che ne seguì, dopo l’ebbrezza per le scoperte scientifiche e lo sgomento per il piccolo mondo antico che finiva. Ma fu solo dopo i primi anni, quando esplose nel febbraio del 1909 il futurismo che una miccia si accese e raggiunse presto i serbatoi di una società vogliosa di scatenare gli assoluti in terra, tramite l’arte, il pensiero, la parola, e poi la lotta, la guerra e la rivoluzione. Gli assoluti terrestri, direbbe Popper, ovvero i paradisi in terra.
Impensabile ai nostri occhi smagati del presente, quel clima e quella sete di assoluto riversata nell’arte, nella vita e nella storia. Ma impensabile anche la precoce età di quei protagonisti, ragazzi quasi tutti sotto i trent’anni come non vediamo ormai da un pezzo. Il secolo della giovinezza, cominciato allora, a cavallo delle rivoluzioni e delle guerre, dopo il Sessantotto finì negli anni di piombo. Uscita da quel tunnel, la storia andò all’ospizio e trionfò de senectute, una società grigia, anziana. La gioventù s’allarga, l’età media si allunga, spariscono i giovani, depositari d’avvenire.

Quel decennio non fu solo un laboratorio degli anni che verranno, ma fu anche il cimitero del futuro, l’arco in cui si bruciarono in anticipo sulla vita e sulla storia del secolo i serbatoi di speranza e i sogni d’avvenire che si spargeranno poi in tutto il Novecento. L’uomo nuovo, il mondo nuovo e l’ordine nuovo nacquero in quegli anni e il secolo che ne seguì fu l’apoteosi e l’agonia di quel novismo, il suo trionfo e la sua catastrofe.
«E vengano dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia date fuoco agli scaffali delle biblioteche». È il primo fuoco appiccato in quel decennio: fu il Manifesto del Futurismo, di F. T. Marinetti.
A Milano presso le edizioni di Poesia di Marinetti, Aldo Palazzeschi, allora futurista, pubblica nel 1910 L’Incendiario, raccolta irriverente di poesie che mettono a ferro e fuoco il mondo anche se si aprono con l’apologia del maremoto, che a così breve distanza dalla tragedia di Messina e Reggio Calabria, era davvero una pessima ironia. Ma il suo non è il titolo di un libro, piuttosto è l’incipit di un’epoca, il programma di un generazione. «Uomini che avete orrore del fuoco, / poveri esseri di paglia!» scrive Palazzeschi che si definisce «povero incendiario mancato, incendiario da poesia. Ogni verso che scrivo è un incendio». «Sali o carbone, in fiammeggianti pire» gli fa eco un altro poeta futurista, Luciano Folgore nel Canto dei Motori del 1912, che è tutto un elogio del carbone e della combustione.

Prima del futurismo altri piromani avevano cominciato ad incendiare la letteratura italiana: Papini, Soffici e Prezzolini già dagli albori del Novecento si erano cimentati nell’impresa; ma in quegli anni produssero con libri, riviste e massacri, gli effetti visibili del loro talento focoso. Altri più densi incendi si appiccheranno nella poesia italiana con il Poeta pazzo, Dino Campana e i suoi sconvolgenti Canti Orfici usciti nel 1914. Fu un vero incendio nella letteratura, e per uno strano gioco del destino la prima edizione di quella raccolta, naturalmente poco compresa, finì in larga parte in un falò per riscaldare i soldati inglesi sull’appennino durante la guerra. Un falò, forse il primo rogo librario del Novecento, ma degna conclusione di un libro sulfureo, dedicato ad Orfeo. Un libro incendiario, che fece una fine adeguata, vorrei dire omeopatica.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 23 settembre 2009

Si scalda il partito del dopo-Berlusconi

C'era molta attesa per l'incontro tra il Premier e il Presidente della Camera, dopo mesi di polemiche a distanza e di silenzi. L'abitazione di Gianni Letta è stata la sede scelta per un colloquio di due ore che, secondo le indiscrezioni e le dichiarazioni dei fedelissimi di entrambi i leader, può considerarsi positivo. Ce ne saranno altri, per verificare la tenuta dei primi accordi presi. Marcello Veneziani spiega ai lettori de ilsussidiario.net come cambiano i rapporti di forza nella maggioranza e il quadro politico a seguito del vertice.

L’incontro tra Berlusconi e Fini è stato letto dalla maggioranza dei giornali come un riavvicinamento delle parti, l’inizio di un disgelo anche a livello umano tra i due leader. Dal punto di vista politico si è raggiunto un compromesso?

Il colloquio di ieri è una tappa di un riavvicinamento politico e di un compromesso inevitabile, anche se è altrettanto evidente lo scarto esistente tra i due, che mantengono strategie e soprattutto aspettative differenti. Fini non fa mistero di essere impaziente per la “successione” e si muove nella prospettiva di un paesaggio politico che non contempla più la figura di Berlusconi. Il premier dal canto suo non ha nessuna intenzione di gettare la spugna prima del tempo. Circa la strategie politiche anche i ruoli contano: il Presidente della Camera ha un compito istituzionale e arbitrale e tende a spegnere i conflitti, mentre Berlusconi li affronta e a volte li alimenta. Le frizioni sono inevitabili.

Hanno ancora senso ipotesi che vedono Fini pronto a tradire il centro-destra, o quelle che lo vogliono proiettato verso il Quirinale grazie all’appoggio della sinistra?

Sono ipotesi che hanno un fondamento, ma che non hanno nessuno fattibilità. Questo giustifica la prudenza di Fini, che in passato aveva già tentato emancipazioni da Berlusconi: dalla disastrosa esperienza dell’Elefantino con Segni, al rifiuto del pronunciamento del predellino, a cui poi sono sempre seguiti riavvicinamenti e ritorni. Fini nella sua carriera non ha mai tentato delle svolte, ma si è sempre accodato ad esse. Ai tempi di Alleanza Nazionale seguì una strada politica che aveva già tracciato Tatarella, prima ancora era al seguito di Almirante, oggi invece di Berlusconi. Non credo che sia pronto a fare uno strappo. Si sta guardando attorno, cercando di avere agibilità politica e interlocutori sull’altro versante, a partire dal centro. Vuole la legittimazione della sinistra, ma il suo gioco finisce più nei paraggi di Casini, che in quelli di D’Alema e Bersani.

Cerca solo legittimazione o è pronto ad alleanze diverse?
Fini si prepara ad almeno due ipotesi: un tracollo di Berlusconi che renda necessaria una transizione, dalla quale non può che trarne giovamento una figura istituzionale di centro-destra che riesca ad avere il consenso o almeno il non dissenso degli altri. L’altra ipotesi è quella di un ritiro di Berlusconi dalla scena politica che scomponendo totalmente il quadro politico metterebbe in crisi l’assetto bipolare accreditando un soggetto terzo che raccoglierebbe quei soggetti che attualmente hanno posizioni non riconducibili ai due poli. Penso a Casini, Montezemolo… e anche Draghi.

Come cambia la conduzione del Pdl? Vede il rischio di un partito più ingessato e di una consultazione permanente che renda travagliata ogni decisione?

Qualche modifica ci potrà pur essere ed è anche giusto che Berlusconi senta l’ex leader di uno dei partiti fondatori del Pdl, ma non credo che ci saranno delle traumatiche variazioni. Al di là delle posizioni di Fini, che non condivido affatto, penso che sia un riequilibrio utile. Sicuramente è indebolito il potere del triumvirato (i coordinatori Verdini, La Russa e Bondi), soggetto a questo punto di una tutela aggiuntiva.
Questo chiarimento ricorda episodi analoghi e malauguranti dei precedenti governi Berlusconi, come le richieste di Follini e Casini o le dimissioni di Tremonti volute dallo stesso Fini?

Li ricordo, ma c’è una differenza di fondo: allora era una coalizione di partiti, oggi c’è un chiarimento all’interno di un solo grande partito, con un alleato, Umberto Bossi. In più, c’è anche un margine di consenso molto ampio. Una fronda può anche non impensierire più del dovuto. Credo però che nessuno sia così avventuriero da far cadere un governo soltanto per abbattere il potere di Berlusconi per poi destinarsi a una posizione comunque minoritaria. A calcoli fatti conviene tirare la corda, ma non spezzarla.

Un’altra lamentela di Fini riguardava Il Giornale. Secondo lei Berlusconi potrà davvero dettare la linea a Vittorio Feltri?

Conoscendo Feltri non è pensabile. Di sicuro non si giocherà la sua credibilità di “battitore libero” per assecondare Berlusconi. Se Fini pensa che il Premier sia il mandante delle inchieste vuol dire che ragiona con la vecchia logica di partito, come se Il Giornale fosse il vecchio Secolo D’Italia. Ci possono essere direttori che sono esecutori di una linea di partito, ma quelli che come Feltri hanno acquisito una credibilità grazie alle vendite e non grazie alle protezioni politiche, non penso siano così masochisti e suicidi da sottomettersi al leader politico, proprietario del giornale.

Se allora l’opposizione interna è per lo meno domata quali sono dall’esterno gli attacchi più pericolosi che attendono il governo?

Alcuni rischi ci sono: dai segnali della Magistratura agli attacchi internazionali. Comunque rimango convinto che l’unico che può abbattere Berlusconi sia egli stesso, perché ha la capacità a volte di esagerare. È il fattore fondamentale di questa coalizione e l’unico in grado di sfasciarla. Il resto sono minacce, da non sottovalutare, ma ci sono tutti i presupposti per continuare a governare.

Il riavvicinamento con il Presidente della Camera porterà, secondo lei, a un compromesso anche sulle posizioni più scomode di Fini (dal biotestamento al voto agli immigrati)? C’è il reale rischio di scontentare il voto cattolico?

Berlusconi sa benissimo che larga parte dell’elettorato è sensibile a questi temi e credo che continuerà a rappresentare questo elettorato, pur tentando la ricucitura con Fini. Sarebbe un suicidio inseguire il Presidente della Camera arrivando a una posizione di mezzo che non decide nulla, o peggio ancora ripiegarsi su queste posizioni, obiettivamente minoritarie nel centro-destra. Berlusconi non potrà discostarsi molto da quei punti fermi che ha segnato e che riguardano l’alleanza con la Lega e il rapporto con il mondo cattolico. Non può inimicarsi tre o quattro interlocutori per assecondare la posizione, peraltro individuale, di Fini.

Come sono i rapporti tra il governo e la Chiesa dopo il caso Boffo e il recente intervento di Bagnasco?

Credo che non sia né nell’interesse della Chiesa né del governo Berlusconi aprire uno scontro o una “vertenza”. A conti fatti la Chiesa, rispetto al passato, ha un interlocutore molto più attento ad alcuni temi chiave. Il “caso Boffo” è stato un incidente, così come lo è stato l’attacco dell’Avvenire al governo. Malgrado questi episodi non penso che convenga ad entrambi cercare interlocutori diversi: Casini per la Chiesa e il mondo laico per Berlusconi.

Cosa si aspetta dall’Udc di Casini? Scioglierà il dubbio sulle alleanze?

Per ora è nel suo interesse non sciogliere questo dubbio e decidere le alleanze caso per caso. È una strategia che ricorda quella craxiana. L’Udc aspetta di giocarsi la partita nell’era post-berlusconiana.

L’opposizione sembra fuori gioco fino a quando il Pd non troverà un nuovo leader. Chi sarà secondo lei? Il centro-sinistra cambierà nei rapporti di forza, nei contenuti e nel tono della disputa politica?

Nel Pd contano le appartenenze. Siamo alla partita tra Pci e minoranza Dc. E quindi è sicuramente favorito Bersani. Cambierà comunque poco nella linea, perché non ci sono grandi margini di manovra. Il Partito democratico è schiacciato nel sandwich tra Berlusconi e Di Pietro. Ora può solo giocare di rimessa, tifare per le contraddizioni interne al centrodestra, e al massimo sperare in Casini.
(fonte: http://www.ilsussidiario.net/)

martedì 22 settembre 2009

Gli individui non esistono fuori dalle loro comunità

La crisi del modello rappresentato dallo Stato nazionale rigenera l’idea di comunità, che assume nuove forme e significati. Le comunità non associano più le persone solo per l’origine comune e le caratteristiche dei componenti: nel moltiplicarsi di tribù, flussi e reti, esse ormai raggruppano tipi diversissimi. Imponendosi come possibile forma di superamento della modernità, le comunità perdono lo status «arcaico», a lungo attribuito loro dalla sociologia. Più che stadio della storia, abolito dalla modernità, appaiono come forma permanente dell’umano associarsi.

In tale quadro figura la comparsa e lo sviluppo nel Nord America, dagli anni Ottanta, d’una corrente di pensiero che oltre Atlantico ha provocato innumerevoli dibattiti, ma che l’Europa ha scoperto più di recente: il «movimento» comunitario, costellazione rappresentata dai filosofi Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor.

Il movimento comunitario enuncia una teoria che combina strettamente filosofia morale e filosofia politica. Sebbene abbia una portata più vasta, la teoria è stata elaborata, da un lato, in riferimento alla situazione degli Stati Uniti, con l’inflazione della «politica dei diritti», la disgregazione delle strutture sociali, la crisi dello Stato-Provvidenza e l’emergere della problematica «multiculturalista»; dall’altro, in reazione alla teoria politica liberale, riformulata da Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e soprattutto John Rawls. Quest’ultima si presenta come una teoria dei diritti (soggettivi), fondata su un’antropologia individualista. Nell’ottica dell’«individualismo possessivo» (Macpherson), ogni individuo è agente morale autonomo, «padrone assoluto delle sue capacità», alle quali ricorre per soddisfare i desideri espressi o rivelati dalle sue scelte. L’ipotesi liberale dunque prevede un individuo separato, un tutto completo a sé stante, che cerca d’accrescere i vantaggi con libere scelte, volontarie e razionali, senza che esse siano considerate frutto di influenze, esperienze, contingenze e norme del contesto sociale e culturale.

Invece il punto di partenza dei comunitari è anzitutto d’ordine sociologico ed empirico: constata la dissoluzione dei legami sociali, lo sradicamento delle identità collettive, la crescita degli egoismi. Sono gli effetti d’una filosofia politica che provoca l’atomizzazione sociale, legittimando la ricerca da parte di ognuno del maggior interesse, restando così insensibile ai concetti d’appartenenza, di bene comune e di valori condivisi.

Il maggior rimprovero dei comunitari all’individualismo liberale è di dissolvere le comunità, elemento fondamentale e insostituibile dell’esistenza umana. Il liberalismo svaluta la vita politica, considerando l’associazione politica un puro bene strumentale, senza vedere che la partecipazione dei cittadini alla comunità politica è un bene intrinseco; perciò non può rendere conto d’un certo numero d’obblighi e impegni, come quelli non risultanti da scelta volontaria o impegno contrattuale, come i doveri familiari, l’obbligo di servire la patria e d’anteporre l’interesse comune a quello personale. Il liberalismo propaga una concezione erronea dell’io, non ammettendo che esso rientri sempre in un contesto socio-storico e, almeno in parte, che sia costituito da valori e impegni non sottoposti a scelta e non revocabili a piacere. Suscita un’inflazione della politica dei diritti, che poco ha a che fare col diritto in quanto tale, e un nuovo tipo di sistema istituzionale, la «repubblica procedurale». Infine, col suo formalismo giuridico, misconosce il ruolo centrale di lingua, cultura, costumi, pratiche e valori condivisi, come basi d’una vera «politica di riconoscimento» di identità e diritti collettivi.

La teoria comunitaria si pone dunque in una prospettiva «olistica». L’individualismo liberale definisce il singolo come ciò che resta del soggetto, una volta privato di caratteristiche personali, culturali, sociali e storiche, cioè estratto alla comunità. D’altronde postula l’autosufficienza del singolo rispetto alla società e sostiene che egli persegue il maggiore interesse con scelte libere e razionali, senza che il contesto socio-storico influisca sulla sua capacità d’esercitare i «poteri morali», cioè di scegliere una particolare concezione di vita. Per i comunitari, invece, un’idea presociale dell’io è impensabile: l’individuo trova la società preesistente ed essa ne ordina i punti di riferimento, ne costituisce il modo di stare al mondo e ne modella le ambizioni.

Per i comunitari, l’uomo è anzitutto «animale politico e sociale» (Aristotele). Così i diritti sono espressione di valori propri di collettività o gruppi differenziati, ma riflesso d’una teoria più generale dell’azione morale o della virtù. La giustizia si confonde con l’adozione d’un tipo d’esistenza secondo i concetti di solidarietà, reciprocità e bene comune. Quanto alla «neutralità» di cui s’ammanta lo Stato liberale, è vista sia come disastrosa nelle conseguenze, sia - più generalmente - come illusoria, perché rimanda implicitamente a una singolare concezione del bene, che non si confessa tale. Una vera comunità non è l’unione o la somma degli individui. I suoi membri, in quanto tali, hanno fini comuni, legati a valori o esperienze, non solo interessi privati più o meno congrui. Questi fini sono tipici della comunità, non sono obiettivi particolari uguali per tutti o per la maggioranza dei membri. In una semplice associazione, gli individui guardano i loro interessi come indipendenti e potenzialmente divergenti. I rapporti fra questi interessi non sono dunque un bene in sé, ma solo un mezzo per ottenere i beni particolari cercati da ciascuno. Mentre la comunità, per chi vi appartiene, è un bene in sé.

(di Alain de Benoist)

domenica 20 settembre 2009

Preghiera del Paracadutista


Eterno, Immenso Dio,
che creasti gli infiniti spazi e ne misurasti le misteriose profondita',
guarda benigno a noi,
Paracadutisti d'Italia,
che nell'adempimento del dovere balzando dai nostri aerei,
ci lanciamo nelle vastita' dei cieli.
Manda l'Arcangelo S. Michele a nostro custode;
guida e proteggi l'ardimentoso volo.
Come nebbia al Sole, davanti a noi siano dissipati i nostri nemici.
Candida come la seta del paracadute sia sempre la nostra fede e indomito il coraggio.
La nostra giovane vita e' tua o Signore!
Se e' scritto che cadiamo, sia!
Ma da ogni goccia del nostro sangue sorgano gagliardi figli e fratelli innumeri,
orgogliosi del nostro passato, sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, o signore, la nostra Patria, le Famiglie, i nostri Cari!
Per loro, nell'alba e nel tramonto, sempre la nostra vita!
E per noi, o Signore, il Tuo glorificante sorriso.
Così sia.

sabato 19 settembre 2009

Berlusconi, un delirio che parte da un complesso di inferiorità

«Sono il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto nei 150 anni della sua storia». Per quanto scavi nel passato, recente e remoto, non ricordo qualcuno che si sia espresso in questi termini su sè stesso. Nessun regista, per quanto sommo, Ingmar Bergman o Federico Fellini o Orson Welles, ha mai detto di sè: «Sono il migliore fra tutti quelli che si sono cimentati con la macchina da presa». Nessun attore, sia pur straordinario, un Lawrence Olivier, un Vittorio Gasmann, un Dirk Bogarde, ha mai osato affermare: «Sono il meglio fico del bigoncio». Nessun atleta, si chiamasse Fausto Coppi o Pelè, si è mai dichiarato il primo in assoluto. Nemmeno Maradona, che pure era un po’ “svitato”. Neanche Rudy Nureyev, che era un narciso per temperamento e professione, ha mai detto: «Sono il più grande ballerino di tutti i tempi». E lo era. Forse solo Carmelo Bene ha detto qualcosa del genere, ma in termini ironici e autoironici («Sono apparso alla Madonna»). Invece nelle affermazioni di Berlusconi e in tutto il suo atteggiamento non c’è mai un briciolo di ironia e, tantomeno, di autoironia. Si prende sempre e tremendamente sul serio. Come quelli che in manicomio credono di essere Gesù Cristo.
Questo delirio di onnipotenza maschera in realtà, come sempre, un proporzionale e irrisolto “inferiority complex”. Se uno è davvero convinto di essere il migliore, non ha bisogno di affermarlo, ci sono i fatti a dimostrarlo. Da che cosa gli derivi questo complesso di inferiorità è impossibile dire. Ci vorrebbe un analista. Un plotone di analisti.
A me Berlusconi, come uomo, per certi versi fa anche tenerezza. Neanche diventare padrone del mondo placherebbe questa sua ansia, questo bisogno inesausto di conferme. Se non gliele danno gli altri, sente l’urgenza di darsele da solo. Per dirla con le parole di una canzone di Sergio Endrigo, gli “manca sempre una lira per fare un milione”. E, per la verità, in questa sua ossessione non gli si può dare tutti i torti.
Nonostante nella sua vita abbia fatto cose notevoli (e lasciamo perdere, per una volta, i mezzi molto discutibili che ha usato per affermarsi, anche perché migliaia di altri si sono serviti degli stessi mezzi ma non hanno avuto la sua riuscita), non è stato mai preso veramente sul serio. È stato un grande imprenditore, nel settore immobiliare e dei media, ma non è mai entrato nel “salotto buono”. Stefania Craxi mi ha raccontato che una volta suo padre e Berlusconi andarono a trovare Gianni Agnelli nella sua villa di Saint Moritz. Agnelli ricevette Bettino, ma fece attendere due ore Berlusconi in anticamera. Come politico ha successo in Italia, ma il resto del mondo, dall’Europa agli Stati Uniti al Giappone, ride di lui. Per farsi notare nei meeting internazionali ha bisogno di ricorrere a scherzi infantili, da “asilo Mariuccia”. I suoi colleghi lo sopportano perché non possono far altro, per “dovere istituzionale” per dirla con Zapatero.
Io credo che Silvio Berlusconi abbia perso una formidabile occasione per diventare un grande uomo di Stato. Aveva tutto: esperienza, ricchezza personale, una batteria di media a disposizione, un consenso fortissimo e un’opposizione ridicola. Era considerato, e con buone ragioni, “l’uomo della Provvidenza”. Solo Benito Mussolini si è trovato con un potere altrettanto forte in mano. Ma mentre Mussolini aveva in testa un’idea di Stato e di Nazione che realizzò con coerenza e ha fatto buone cose (l’Iri, la creazione di una burocrazia efficiente, le bonifiche, per spulciarne solo alcune) prima che la sconfitta bellica liquidasse il fascismo, Berlusconi è su piazza da quindici anni, 2500 giorni li ha passati come capo del governo gli altri come capo indiscusso dell’opposizione, ma sfido chiunque a dire che in questo periodo l’Italia sia migliorata di un ette. La sola cosa che è riuscito a fare è spaccare il Paese in due. E adesso sta venendo in uggia anche ai suoi alleati e a parte dei suoi seguaci.
Penso che sia stato proprio il suo debordante narcisismo a perderlo. E di lui, oggi, si potrebbe dire, malinconicamente, quello che Leone Trotzkij, in un famoso discorso, disse dei menscevichi: “Avete sprecato la vostra parte, ritornate nella spazzatura della Storia”.
(di Massimo Fini)

venerdì 18 settembre 2009

Il massacro fa esplodere i problemi veri

Quanti anni luce dista l’Italia da Kabul? Qui parliamo d’inferno per un nubifragio o una coda in autostrada, di guerra e linciaggio per le beghe politiche o televisive, di killer per un articolo e di gente che salta per aria alludendo a un direttore dimissionario. Poi un giorno abbiamo davanti agli occhi l’inferno vero di Kabul, la guerra dei talebani contro noi occidentali, un kamikaze killer che fa saltare in aria non per modo di dire una decina di nostri soldati. E allora capiamo come quest’Italia viva in una bambagia di ipocrisie, usando metafore improprie e dimenticando la realtà. Crede di essere entrata nell’era della globalizzazione e invece vive un suo universo provinciale, a circuito chiuso, dove tutto finisce a Porta a Porta o in tribunale. Abbiamo perso il respiro della storia e abbiamo abbandonato alla solitudine i parà che sono a Kabul, ma anche i nostri che rischiano la pelle in Somalia o dove diavolo li porta la cruda realtà. Non capiamo più cos’è la storia, cos’è la guerra, cosa sono i soldati e i guerriglieri, non siamo in grado di capire la virulenza dei fanatici e l’uso delle bombe. Per avere una vaga idea di quel che succede, dobbiamo equiparare l’attentato di Kabul o di Nassirya agli incidenti stradali, ai terremoti, alle tragedie come quella di Viareggio. Non siamo più in grado di capire cos’è una guerra e cos’è l’odio. Al più c’è la camorra, c’è la guerra della criminalità; ma le guerre vere non riusciamo più a vederle. Troppo buonismo ci ha abituato a vedere nell’altro, nello straniero, solo il nostro fratello e non il nostro fratricida. Ma il nemico esiste, purtroppo; e ci dichiara guerra ogni giorno.

Da qui la solitudine sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari; sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti ma bare avvolte in un tricolore.

Nessuno pretende che l’Italia viva nel clima della guerra o faccia il tifo per le missioni dei nostri soldati nei luoghi caldi del pianeta. Ma è triste rischiare la vita per il proprio Paese, per l’Occidente o per la nostra civiltà, senza che gli interessati se ne accorgano. Un tempo i ragazzi sognavano di diventare eroi cadendo in guerra; per questi guerrieri in tempo di pace non vale nemmeno la consolazione della morte trionfale, il ricordo, la partecipazione. No, il massimo che possono aspirare è l’equiparazione alle vittime della violenza, del terremoto, dei week end. Senza onore né gloria, per dirla con il titolo di un famoso libro.

Quel che più impressiona è che sono coetanei del ragazzo che ti ha sorpassato con la moto da destra, con la ragazza che ha il piercing sulle ciglia e sulla bocca, del giovane che hai visto l’altra notte fumare cannoni di pace o ingoiare pasticche in un pub. Abissi dividono coetanei, gente che vive sotto lo stesso cielo, nello stesso tempo, tra gli stessi contemporanei. Che vedono la stessa tv, navigano su internet gli uni come gli altri, magari hanno i genitori separati... Sì, forse in molti casi c’è la stessa incoscienza o inavvertenza del pericolo, la stessa voglia di vivere di più, di rischiare e di provare la propria immortalità desunta dal vigore degli anni. C’è chi prova l’ebbrezza con una sostanza, con una moto, con l’alcol e chi con la divisa, le armi e la missione patriottica. C’è chi rischia in Afghanistan e chi in borgata o in curva.

Però noi siamo disarmati davanti alla guerra, quella vera, davanti ai kamikaze o presunti tali. Non riusciamo a capire come possa essere possibile e così non siamo attrezzati a reagire, preferiamo rimuovere o derubricare l’attentato al rango di incidente, follìa o calamità. C’è gente che uccide per entrare nella storia; e c’è gente, come noi, che dalla storia è uscito e non capisce chi vuole entrare. Loro fanno più morti e più nascite, noi non uccidiamo e non procreiamo. Loro sperano e per sperare uccidono e si uccidono, noi invece disperiamo ma vogliamo vivere a ogni costo e prolungare la vita con ogni mezzo. Loro hanno dimestichezza con la morte, noi siamo impauriti analfabeti del morire. Loro aspettano paradisi e per i paradisi procurano gli inferni; noi abbiamo smesso di pensarci, e ci fabbrichiamo inferni e paradisi di giornata, uso singolo. E tra noi e loro ci sono di mezzo i nostri soldati, che vivono sull’orlo tra i due mondi, provengono dal nostro mondo e affrontano il loro, e vivono la dolorosa cerniera tra due illusioni, la guerra di liberazione e la liberazione dalla guerra; o se preferite, la vita analgesica di noi occidentali e la vita mortifera dei feroci talebani. Poi accade l’attentato e le reazioni per farla finita sono due: le colombe chiedono il ritiro, i falchi chiedono di sterminare il nemico. Due modi per rimuovere il pericolo e abolire la guerra; e invece dobbiamo abituarci a combattere, ad alternare la prudenza all’audacia, a non disarmare, a convivere con il rischio e con la morte. Perché l’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito

(di Marcello Veneziani)

giovedì 17 settembre 2009

Attentato a Kabul: morti 6 parà della Folgore

Tenente Antonio Fortunato
Primo Caporal Maggiore Matteo Mureddu
Primo Caporal Maggiore Davide Ricchiuto
Primo Caporal Maggiore Gian Domenico Pistonami
Primo Caporal Maggiore Massimiliano Randino
Sergente Maggiore Roberto Valente


PRESENTE

Altro che Berlusconi, è Soru a voler «uccidere» l'Unità

Scrive Concita De Gregorio a proposito del giornale che dirige, l'Unità, fondato da Antonio Gramsci e affondato dalle Figurine Panini: «Quel che non si può comprare né corrompere deve tacere». Questo all'inizio dell'articolo, ma già qualche riga più sotto (evocato con prosa irritata il «dissenso», nonché «il dovere di cronaca» e «il diritto di critica») la situazione si è aggravata: «Dove non si può comprare, allora uccidere». Qualcuno sta cercando di trasformare la redazione dell'Unità in un bivacco per i suoi manipoli. Di chi si tratta? Concita De Gregorio, evidentemente, sta parlando del suo editore, Renato Soru, patron di Tiscali ed ex presidente della regione Sardegna. È lui, da quel che si leggeva tempo fa sui giornali, che vuole mettere a tacere l'Unità. Anche se accusarlo d'essere pronto, non potendo «comprarlo», addirittura a «uccidere» qualcuno, specie Concita De Gregorio, una signora, sembra un'esagerazione. Specie quando si pensa che Soru non vuole comprare l'Unità, che è già sua, né tanto meno corromperla, qualunque cosa ne dica la redazione: lui vuole venderla, o almeno «ridimensionarla drasticamente», e prima è meglio è. Subito dopo avere perso, nel febbraio scorso, le elezioni regionali sarde, un evento che ha provocato, insieme a quella che ha tutta l'aria d'essere la sua fine politica, anche le dimissioni di Walter Veltroni dalla segreteria del partito democratico, Soru aveva dichiarato di volersi sbarazzare dell'Unità, che aveva comprato per quattro soldi meno d'un anno prima, nel giugno del 2008. Bisogna capire il suo malumore, del resto: l'Unità, che lui evidentemente non aveva comprato per ragioni sentimentali (Gramsci, le bandiere rosse, Lenin, l'Aventino) ma perché gli tirasse la volata elettorale, gli ha invece portato una sfiga tremenda. Dunque, da come la vede Soru, l'Unità può anche andarsene al diavolo, Concita De Gregorio e l'intera redazione in testa al corteo. Di qui l'ira della direttora, che con la penna sull'attenti chiama alla guerra santa contro Soru. Qualcuno mi fa notare che forse Concita De Gregorio, nell'editoriale dell'altro giorno, non stava accusando l'editore-traditore Renato Soru, ma l'altro arcinemico dell'Unità, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Be', mi pare strano. Berlusconi, in fondo, ha soltanto querelato l'Unità perché, tra le altre cose, gli aveva dato del «gran porco». Non vuole uccidere il giornale, e tanto meno vuole comprarlo, e neppure corromperlo. Vuole soltanto che sia condannato per diffamazione a una pena pecuniaria pari ad almeno un fantastilione di euro (pagherebbe Soru, d'altra parte, cosa che alla De Gregorio dovrebbe fare piacere). Contro Berlusconi i gazzettieri dell'Unità scrivono giusto qualche articoletto diffamatorio, ma contro Renato Soru, che in attesa di trovare qualcuno che si compri l'Unità ha deciso un «drastico ridimensionamento aziendale», la redazione è scesa in sciopero, come ai bei tempi della lotta di classe. Perciò è senz'altro lui, Soru, e non Berlusconi, il «plutocrate» del quale Concita De Gregorio, come Minnehaha la Scotennatrice, vuole lo scalpo. Nessuno può seriamente credere che il direttore d'un giornale in balia d'un capitalista pidocchioso e boia non stia parlando di lui ma d'un altro magnate nemico del popolo quando chiede d'«opporre allo strapotere del denaro la politica». De Gregorio spiega che ci vuole una «grande mobilitazione» contro il tentativo d'assassinare l'Unità. Ma aggiunge (pescando a piene mani dal catalogo delle banalità) che «le mobilitazioni, da sole, non bastano». Bisogna «dare più forza», spiega ricorrendo anche qui a una bella frase fatta da sciocchezzaio flaubertiano, «alla voce del dissenso» (be', l'avesse data l'Unità, ai tempi, un po' di voce al dissenso sovietico, ma passons).

La libertà di stampa che piace a D'Alema è quella di Pol Pot


«I giornali? È un segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola». Chi ha sentenziato così? Il maledetto Caimano, ossia Silvio Berlusconi? Macché, è stato il democratico Massimo D’Alema. Max ha anticipato tutte le ire del Cavaliere nei confronti della carta stampata. Con assonanze sorprendenti. Compresa la strategia di darci dentro con le cause civili e le richieste astronomiche di danni.

La prima scena risale al 31 ottobre 1992. Aeroporto di Lecce. Incontro D’Alema che aspetta il volo per Roma. È mattina presto, ma lui già schiuma di rabbia contro una masnada di pessimi soggetti. I giudici di Mani Pulite. Gli editori. I giornali e i giornalisti. Primo fra tutti, Eugenio Scalfari, direttore di “Repubblica”. Ringhia: «Scalfari ha leccato i piedi ai democristiani che stavano a Palazzo Chigi, da Andreotti a De Mita. E adesso fa il capo dell’antipartitocrazia».

Quarantotto ore dopo, intervistato dal “Giorno”, Max si scaglia di nuovo contro “Repubblica”: «Che cosa si vuol fare? Cacciare deputati e senatori, per lasciare tutto in mano a Scalfari?». Un vero figuro, Barbapapà. Anche perché è in combutta «con quell’analfabeta di andata e ritorno che si chiama Ernesto Galli della Loggia». “Repubblica” prova ad ammansire D’Alema. Però il 13 novembre lui replica: «Ormai i giornali sono un problema in Italia, esattamente come la corruzione».

La rabbia dalemista ha un motivo: siamo in piena Tangentopoli e la stampa dà spago al pool di Mani Pulite. In un’intervista a “Prima Comunicazione” che in seguito citerò, Max dirà parole di fuoco sui giornali: «Si sono comportati in modo fazioso, scarsamente rispettoso dei diritti delle persone. Hanno alimentato una circolazione impropria di segreti giudiziari e il narcisismo della magistratura. La loro responsabilità morale è stata enorme: verbali, pezzi di verbali, notizie riservate sono diventati oggetto di uno sfrontato mercato delle informazioni. Uno spettacolo di iattanza indecente. Ha ragione la destra quando dice che c’è un circuito mediatico-giudiziario che ha distrutto delle persone».

Il 13 aprile 1993, la rabbia di Max sembra al culmine. Dice: «In questo Paese non sarà mai possibile fare qualcosa finchè ci sarà di mezzo la stampa. La prima cosa da fare quando nascerà la Seconda Repubblica sarà una bella epurazione dei giornalisti in stile polpottiano». Ossia nello stile del comunista Pol Pot, capo dei khmer rossi, il sanguinario dittatore della Cambogia.

Ma la nuova Repubblica nasce sotto un segno che a Max non piace: la vittoria di Berlusconi nel marzo 1994. Achille Occhetto si dimette da segretario del Pds e a Botteghe Oscure s’insedia D’Alema. Per qualche mese, il nuovo incarico lo obbliga a un minimo di cautela. Ma la sua avversione per i giornali non è per niente svanita.

La grana di Affittopoli

Nel giugno 1995, intervistato da Antonio Padellaro per “L’Espresso”, riprende a ringhiare contro «l’uso spesso selvaggio dell’indiscrezione giudiziaria». E conclude che le cronache su Tangentopoli hanno «consumato quel poco di rispetto per lo stato di diritto e di cultura liberale esistente da noi. Il danno prodotto è stato enorme. Provo fastidio per il comportamento dei giornalisti: non aiuta di certo l’immagine dell’Italia».

Il 1995 sarà un anno terribile per D’Alema e per Veltroni, direttore dell’“Unità”. Però Max non presagisce nulla. Il suo giornalista preferito è un televisionista: Maurizio Costanzo. In luglio, la Botteghe Oscure incaricano Costanzo di “stilare le nuove regole” dell’informazione. E D’Alema lo vuole accanto a sé nella Festa nazionale dell’Unità a Reggio Emilia. Insieme presentano il primo libro di Max, “Un paese normale”, stampato dalla Mondadori di Berlusconi.

La tempesta scoppia alla fine di agosto. È lo scandalo di Affittopoli, sulle case di enti pubblici ottenute dai politici a equo canone. Più saggio di Veltroni che strilla, ma resta dov’è, D’Alema trasloca. E sceglie la trasmissione di Costanzo per annunciare il passaggio in un altro appartamento.

Ma il suo disprezzo per la carta stampata resta intatto. Arrivando a coinvolgere politici incolpevoli. In quell’autunno dice di me: «Pansa si fa leggere sempre, ma ha un difetto: non capisce un cazzo di politica. C’è uno solo in Italia che ne capisce meno di lui: Romano Prodi».

Nel dicembre 1995, Max affida a “Prima comunicazione” il suo lungo editto contro i giornali. Intervistato da Lucia Annunziata, spiega di sentirsi una vittima: «Due giornalisti mi tengono e il terzo mi mena». «Il livello di faziosità e di mancanza di professionalità è impressionante». «Non esiste l’indipendenza dell’informazione: i giornali non sono un contropotere, ma un pezzo del potere. E come tali sono inattendibili». «Il loro compito è la destrutturazione qualunquista della democrazia politica». «Gli editori si contendono a suon di milioni i giornalisti più canaglia».

Al termine del colloquio con l’Annunziata, prima dell’invito a non acquistare i giornali, D’Alema annuncia come si comporterà in futuro: «Se dovrò dire qualcosa di importante, lo dirò alla gente, non ai giornali. Andrò alla televisione. Mi metto davanti a una telecamera con la mia faccia, con le parole che decido di dire, senza passare per nessun mediatore. Se parli con la stampa, sei sicuro di perderci».

Per coerenza, il 5 aprile 1996, alla vigilia delle elezioni politiche, D’Alema va in visita ufficiale a Mediaset. Accanto a Fedele Confalonieri, dice: questa azienda «è una risorsa del Paese». E rassicura i dipendenti: «Se vincerà l’Ulivo, non dovrete temere nulla. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia!».

L’Ulivo vince. Max spiega a Carlo De Benedetti: «Hai visto? Abbiamo vinto nonostante i tuoi giornali!». Ma D’Alema si sente prigioniero del Bottegone. Vorrebbe stare lui al governo. Prodi e Veltroni non gli piacciono. Sono «i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi». Poi la sua ostilità torna verso la stampa. In luglio tuona contro «il giornalismo spazzatura». E alla fine del mese, alla Festa dell’Unità di Gallipoli spiega: «Ormai c’è qualcosa di più che il normale pettegolezzo giornalistico, tendente ad alterare la verità. Ci sono lobby, interessi, gruppi che pensano spetti a loro dirigere la sinistra italiana».

Il 2 agosto, durante la bagarre parlamentare sul finanziamento pubblico ai partiti, D’Alema ringhia ai cronisti: «Scrivete pure quello che vi pare, tanto i giornali non li legge nessuno. E anche voi contate poco: prima o poi vi licenzieranno». A imbufalirlo è sempre il ricordo di Affittopoli e quel che ritiene di aver subito dalla carta stampata: «Giornalismo barbarico, cultura della violenza, squadrismo a mezzo stampa».

Perché Max si comporta così? In un’intervista citata dal “Foglio”, Veltroni prova a spiegarlo: «Io sono gentile con i giornalisti. Dovrei fare come D’Alema che li chiama somari per ottenere la loro supina benevolenza». Ma forse esiste un problema nascosto: una forma inconsapevole di autolesionismo che spinge Max a cercarsi sempre dei nemici.

Basta processi penali. Meglio “ricchi risarcimenti”

Una sera del novembre 1996, dice a Claudio Rinaldi, direttore dell’ “Espresso”: «Fate una campagna sguaiata contro di me. Vi mancano solo Michele Serra e Curzio Maltese, poi sarete al completo. L’unica critica fondata che potreste farmi è di aver messo Prodi a Palazzo Chigi». Quindi spara su Berlusconi: «Mi sta sul cazzo come tutti i settentrionali. È un coglione ottuso. La sua stagione è finita».

Il 1997 si apre con la causa civile che Max intenta all’“Espresso”. Per aver rivelato la piantina della sua nuova casa, ci chiede un miliardo di lire. Non lo frena neppure l’onore di presiedere la Bicamerale. Il 5 maggio scandisce a Montecitorio un anatema globale: «L’ho detto una volta per tutte, con validità erga omnes, con valore perpetuo: quello che scrivono i giornali è sempre falso».

Alla fine di novembre si scatena contro l’Ordine dei giornalisti. Bisogna abolirlo, dice Max, visto che non garantisce la correttezza professionale. Poi nel gennaio 1998 annuncia di aver scovato l’arma finale per sistemare la carta stampata. È di una semplicità elementare: niente più processi penali ai giornalisti, bisogna instaurare «un sistema che consenta una rapida ed efficace tutela in sede civile e che preveda consistenti risarcimenti patrimoniali».

Detto fatto, ecco in data 10 febbraio 1998 la causa civile di Max al “Corriere della sera” per quanto ha scritto «su un fantomatico piano D’Alema per il sindacato». Richiesta: due miliardi di lire. La sinistra non va in piazza a protestare. Eppure Max pretende dal «convenuto Ferruccio de Bortoli» anche il giuramento decisorio. Vale a dire che deve giurare di aver scritto la verità a proposito delle intimidazioni dalemiane sugli azionisti di via Solferino.

Quale sorte ebbe questa causa? Confesso di non ricordarlo. Ma che importanza ha scoprirlo? D’Alema aveva tracciato un solco che, anni dopo, anche l’odiato Cavaliere avrebbe seguito.

(di Giampaolo Pansa)

lunedì 14 settembre 2009

Ora il Governo aiuti i cittadini

Dopo Brunetta ora ci vuole Biondina. Non parlo dei Ricchi e Poveri ma di un altro ministero che svolga un ruolo simmetrico al ministro bonsai e che prosegua su altri versanti e sulla concreta tutela dei cittadini la sacrosanta difesa di Tremonti degli italiani dalle banche. È stata giusta e fruttuosa la campagna di Brunetta per colpire l’assenteismo dei dipendenti pubblici. Capisco le reazioni tra gli statali che si sono sentiti il fiato sul collo (e non dite il collo dei piedi per alludere al ministro bassotto); ma Brunetta ha avviato un discorso di serietà, di efficacia e di merito. Ora, per integrare l'opera di Brunetta, ci vuole alla ripresa d'autunno una piccola grande rivoluzione riguardo alle zone oscure del privato: gli italiani avvertono, con giusta ragione, che sono vessati, raggirati, sfruttati e spremuti da una galassia di mediatori che sono diventati per i cittadini importanti quanto la sanità e la scuola, la burocrazia e i ministeri: mi riferisco non solo al fantastico mondo delle banche, delle carte di credito ma anche delle compagnie telefoniche e dei gestori di internet, le compagnie di viaggio e le assicurazioni, per allargarsi via via alle agenzie che controllano i nostri scambi, le nostre comunicazioni, i nostri soldi, le nostre auto.
Avvertiamo quotidianamente la sensazione di essere truffati: tariffe che non corrispondono ai servizi, clausole invisibili che azzerano i benefici annunciati e arrecano malefici, contratti che tacitamente mutano e peggiorano le condizioni di partenza, ricatti, disservizi e flessibilità a senso unico, alto tasso di misteriosi errori quasi sempre a danno degli utenti, e una gerarchia dei diritti che funziona a rovescio. Ovvero se sei fedele a una compagnia telefonica, a una banca, a un gestore, le tue condizioni peggiorano anziché migliorare, perché viene premiata l'infedeltà, perché si incoraggia sempre il nuovo cliente a danno del vecchio. Più sei un pagatore puntuale e obbediente, più ti spremono e ti raggirano. E viceversa se contesti, se minacci azioni legali, se mostri di avere cognizioni di causa e solidi agganci, allora anche quelle che sembravano norme oggettive, valide per tutti, vengono rinegoziate e modificate. E allora tu vedi gestori telefonici importanti, banche pompose, che trattano come nei suk col singolo cliente condizioni diverse e meno sfavorevoli.
Ho avuto diverse esperienze in merito, e ne ho sentite tantissime da amici e conoscenti. Ogni volta che ho cercato di far valere un diritto non è stato possibile; solo temendo mie azioni me l'hanno concesso come un favore; non come regola ma come strappo alla regola. Un sistema mafioso-magliaro che dimostra come la fama di maggiore serietà ed efficienza del privato rispetto al pubblico sia spesso usurpata. Provate a cercare di parlare con i numeri verdi o avere spiegazioni ragionevoli o addirittura autorevoli per un disguido; provate a chiedere rimborsi per fatture sbagliate, per viaggi annullati o per utenze che non avete in realtà usato o che avevate disdetto per tempo; impresa solitamente frustrata. Si potrebbe, anzi si dovrebbe, fare una puntigliosa inchiesta con relativi paragoni tra aziende e servizi su questo enorme campionario di vessazioni, disguidi e di truffe.
Di solito queste compagnie di marpioni contano su una doppia considerazione: se l'utente è un poveraccio non ha i mezzi e le conoscenze per farsi valere; se l'utente è invece una persona abbiente e informata, non perde mezza giornata per tentare di recuperare pochi euro. E così la fanno franca, puntando sull'ignoranza e la rassegnazione, o sulla fretta e l'estenuazione degli utenti
Di tutto questo nessuno risponde, anche perché trattandosi di milioni di microcasi, isolati nella loro singolarità, non hanno rilevanza specifica. Ma diventano una rilevanza sociale se si pensa alla loro globalità. Bene, a chi rivolgersi, come reagire? Allora mi chiedo: perché non è possibile avere in questi casi lo Stato amico? Perché lo Stato deve essere solo occhiuto esattore, sottile persecutore e nemico del cittadino sulle strade e perfino in casa, nel fisco e nei controlli di polizia? Perché non può esserci anche un versante positivo dell'intervento pubblico, che faccia nascere nella realtà e nella considerazione degli italiani l'avvento di uno Stato amico? Come ci sono uffici, corpi e indagini sui cittadini, la loro fedina penale, la loro condotta fiscale, perché non si può distaccare parte dei numerosi impiegati, dirigenti e anche forze dell'ordine e della guardia di finanza a controllare e punire gli abusi di queste compagnie telefoniche, di queste banche, delle utenze internet, delle assicurazioni e così via? Perché dev'essere possibile denunciare un immigrato clandestino e non è possibile denunciare una bolletta irregolare? Perché non ci può essere uno sportello pubblico in ogni comune dedicato proprio a questo, non solo a quel che i cittadini devono dare alla cosa pubblica ma anche a quel che i cittadini si vedono defraudare da compagnie private di ventura?
Certo, mi direte che in teoria c'è già chi è preposto a questo; ma nella realtà sappiamo che i cittadini sono impotenti e abbandonati rispetto a questi pachidermi privati. Badate che non parlo di low cost o di piccole associazioni banditesche, parlo di grandi gruppi che controllano la finanza, la comunicazione, le polizze, l'hardware e il software del paese. Per non dire di società private con larghe zone d'ombra che gestiscono settori un tempo pubblici, per esempio legati alle ferrovie e all'alta velocità, allo smaltimento rifiuti e a imprese che lavorano negli aeroporti. In alcuni casi si sente odore di camorra.
Ma al di là delle ombre criminali, occorre una tutela dei cittadini dai disservizi e dalle angherie del privato. Sarebbe una gran cosa che nascesse un difensore pubblico e non solo le pur apprezzabili associazioni private di consumatori o i pur meritori programmi televisivi in questo senso. Dichiarazioni promettenti sul rapporto tra banche e sulle famiglie italiane sono state pronunciate da Tremonti. Un piccolo sforzo, Berlusconi e soci, per avviare in questo paese una rivoluzione pubblica, civile e sociale, verso uno Stato Amico. Fatevi sentire dalla nostra parte; ci guadagniamo tutti già solo in fiducia, governati e governanti.
(di Marcello Veneziani)

sabato 12 settembre 2009

Gianfranco Fini al bivio: ora scelga

Non c`è Gubbio, il Pdl è un partito monarchico. C`è un solo grande leader e poi basta. Ha il consenso della stragrande maggioranza del suo popolo e dei suoi parlamentari, compresi quelli che provengono da Alleanza Nazionale e dal vecchio Msi. Che si sono stretti intorno a lui e hanno detto chiaramente a Fini: se vuoi continuare il tuo percorso fallo per conto tuo, mettiti in proprio, non puoi trascinare il popolo, il partito, gli elettori e i loro rappresentanti in questa avventura personale. Un`avventura che guarda caso gode del consenso di chi si oppone al governo Berlusconi, a cominciare dalla stampa che lavora perla sua caduta.
Certo, non ci piace affatto un Pdl caserma, sarebbe bello vedere vera dialettica e intelligente dissenso sulle cose, ma interno al quadro di riferimento del centro-destra e non esterno; ed un dissenso non spocchioso e acido, un dissenso non mirato a indebolire il governo in carica, ma puntato a costruire, a indicare altre priorità, altri stili di vita, altre opzioni, compatibili con l`area di provenienza.
Qui siamo invece al capovolgimento delle linee guida dei partito, alla condivisione di molti obbiettivi politici dell`op posizione, all`insofferenza politica e personale, quasi al fastidio verso la leadership. Fini come Bersani sposa il nuovo esorcismo contro Berlusconi: è cominciato il suo declino, ecco la parola magica. Umanamente è comprensibile che Fini si senta schiacciato dalla personalità debordante del premier; sempre vice, sempre dietro di lui; ma bisogna anche accettare la realtà, i divari e i risultati, aver pazienza, saper conquistare la propria base elettorale sul piano dell`agire e non ottenere gradimenti pelosi dall`opposizione.
Perché la differenza vera tra Berlusconi e Fini, al di là di tutto, è sul fare. Sul dire magari Fini è più misurato, anche quando dice il contrario di quel che diceva poco tempo fa, lo dice con misura, perfino con garbo. Berlusconi invece è esagerato. Però Berlusconi fa, Fini no. Berlusconi agisce, costruisce, inventa, vince le campagne elettorali, sconfigge le armate nemiche, sopravvive a giudici, escort, stampa, foto, intercettazioni, malattie e inghippi coniugali, pugnalate amiche, assalti di ogni tipo. Fini invece agisce godendo del favore esterno, anche se ora fa la vittima. E in solitudine rispetto al suo popolo, a quel popolo che lo ha eletto e mandato in alto e a cui ha voltato le spalle. Fini viene dalla destra e va verso il nulla. Berlusconi viene dal nulla ma ha creato una realtà altrimenti impossibile nel nostro Paese: un governo, un partito di maggioranza, una leadership.
Fini è algido, Berlusconi è sanguigno. Berlusconi ha fondato dal nulla Forza Italia, e poi il Polo e la Casa della libertà, ha messo insieme cani e gatti, leghisti e nazionalisti, cattolici e laici, e infine con un colpo plateale, ha fondato il Popolo della libertà. Ha vinto tre elezioni e ha rischiato di vincere una quarta; mentre almeno in due su quattro competizioni elettorali Fini e Casini gli remavano contro o quantomeno non credevano al successo elettorale, Fini si iscrisse a un partito, il Msi, fu portato agli allori da Almirante; poi Tatarella e un gruppo di pensanti, inventò Alleanza Nazionale e a cose fatte lo chiamò alla guida; infine Berlusconi lo portò prima nel Polo e poi al governo. Uno ha fatto, l`altro si è accodato. Uno ha inventato, l`altro ha saputo presentarsi in tv. Uno è leader, l`altro è speaker. Uno governa e ha costruito molto in vita sua, da imprenditore prima che da politico; l`altro ha solo parlato, ma non ha governato neanche un piccolo comune, né ha altre esperienze professionali fuori della politica. E poi Berlusconi non ha negato il suo passato, le sue amicizie, incluso quella di Craxi. Fini da quindici anni nega le idee, le parole e gli amici del giorno prima: i neofascisti, i lepenisti, poi i conservatori, poi i cattolici, poi gli alleati, leghisti inclusi.
Da lui accusati di sostenere una legge razzista che reca il suo nome accanto a quello di Bossi. Berlusconi sbaglia quando è incauto nella sua vita privata, quando non distingue tra ricreazione e politica, quando riceve negli stessi luoghi statisti e zoccole, e non usa precauzioni nel filtrare la gente che gli entra in casa.
Dovrebbe liberarsi di tanti cortigiani, essere più selettivo, spendersi meno. Dovrebbe governare le sue ossessioni, la sua esuberanza, anche verbale. Ma fa tutto alla luce del sole, fa tutte le cose in grande, anche gli errori. Stendiamo un velo pietoso sulla vita privata d`altri leader; ma se dovessimo accettare il teorema che un leader politico va giudicato nella sua affidabilità anche dalle scelte private, verrebbero fuori paragoni non proprio esaltanti. Ma per noi il privato è il privato, e la sua incidenza sul pubblico non sarà inesistente ma nìarginale, merita rispetto, non può diventare l`argomento per privare il Paese del governo più lungo e più coeso della sua storia.
Berlusconi fa e strafà, parla e straparla, moderato nel fare, smoderato nel dire. Ma è il leader che ha conquistato sul campo la guida del Paese, che è in testa ai consensi popolari, che governa con passione efficace e ci mette l`anima nel suo lavoro. E lavora tanto, dovete riconoscerlo. Certo, esagera.
Per esempio esagera quando dice di essere il migliore presidente del Consiglio della storia d`Italia; io ne ricordo cinque o sei che hanno davvero grandeggiato nella nostra storia, ed almeno un paio nella storia della nostra Repubblica (dico De Gasperi e Craxi, perlomeno). Però è vero che Berlusconi ha governato più a lungo nel nostro Paese e già questo è significativo.
E senza avere un grande partito e una grande tradizione alle spalle, come fu la Democrazia Cristiana; lui ha fatto da sé. Volete negare che fosse solo per questo, Berlusconi è entrato nella storia, mentre altri a malapena galleggiano nella cronaca politica? Fini oggi ha due possibilità: una è quella di mettersi in proprioe continuare il suo ruolo di solista, senza più giocare questo ruolo ambiguo, super partes ma di parte. L`altra, di rivedere la sua strategia, riportare il suo dissenso dentro la realtà del suo popolo, dei suoi elettori, della loro sensibilità, criticando ma non giocando allo sfascio. La prossima mossa tocca a Fini. Berlusconi dovrebbe solo aprire le braccia, in segno di accoglienza odi rassegnazione.
(di Marcello Veneziani)