venerdì 30 aprile 2010

Krancic: così il paladino del dissenso mi ha oscurato dal Secolo d'Italia


Nome: Alfio Krancic. Professione: Vignettista. Area politica: Destra. Curriculum: negli anni Settanta inizia a collaborare con Linea e La voce della fogna di Marco Tarchi. Negli anni Ottanta comincia la lunga marcia attraverso il post-fascismo e i quotidiani nazionali. Nel 1988 pubblica sulla Gazzetta di Firenze, nel 1990 sul Secolo d’Italia e nel 1992 sull’Indipendente di Vittorio Feltri che, nel 1994, lo porta al Giornale, dove continua a pubblicare ancora oggi una vignetta quotidiana. E poi collaborazioni varie, mostre, trasmissioni tv, tutto sul filo della satira.
Comunque, c’è poco da ridere. Fini e Berlusconi litigano ma alla fine chi ci va di mezzo è lei, Krancic. Non vediamo più le sue vignette sul Secolo d’Italia: cos’è successo?
«Non lo so neanch’io. Ho cominciato a lavorare per il Secolo nel 1990, vent’anni fa. Per moltissimo tempo sempre in prima pagina, una vignetta ogni giorno. Da qualche anno, a causa di cambiamenti grafici, in quelle interne, non tutti i giorni ma spessissimo. Poi improvvisamente sono sparito, non pubblico più niente da un mese e mezzo ormai».
Cioè da quando sono cominciati gli screzi tra Fini e Berlusconi.
«Sì, ma soprattutto - questa è una mia supposizione - da quando sono cominciati gli screzi tra Fini e Il Giornale, sul quale ho pubblicato vignette critiche su Fini e i finiani».
Contatti con la redazione del Secolo?
«Li ho sentiti proprio oggi. Visto che il tempo passa, e qualcuno si è accorto che sono sparito dal giornale, ho chiamato il direttore, Flavia Perina. Le ho chiesto se facevo ancora parte della squadra oppure se le mie vignette sul Giornale mi mettono in una situazione difficile col Secolo».
Risposta?
«Mi ha detto che da parte loro non ci sono assolutamente problemi di tipo politico. Ma solo di tipo organizzativo. Ha scaricato la situazione sui collaboratori».
Come vi siete lasciati?
«Mi ha detto che ne avremmo riparlato. Anche se dal mio punto di vista quello che è accaduto è chiaro».
La stanno facendo fuori, Krancic?
«Non me lo hanno detto. Ma credo di sì».
Curioso. Gli epurati che fanno le epurazioni. Ma scusi: Il Secolo, la Perina, i finiani: non sono i campioni della democrazia e del dialogo? La Destra presentabile, moderata, quella senza bava alla bocca... E adesso si mangiano lei e le sue vignette?
«Anche se non me lo hanno detto espressamente... Comunque, da un mese e mezzo sono sparito. Questo è un fatto».
Certo che alcune sue vignette erano un po’ cattive. Quella intitolata «Generazione Balotelli» con un Fini negro che butta a terra la maglia del Pdl e Berlusconi che gli dice: «Ora hai rotto!»...
«La satira è quella che è, deve colpire. Raccontare quello che succede da un punto di vista paradossale, ironico appunto».
Fini non è mai stato ironico, tanto meno autoironico. E si dice sia l’unico che non rida quando Berlusconi racconta le sue barzellette. Forse non le capisce, però.
«Questa è una supposizione più malevola delle mie vignette. Diciamo che Fini non è uno a cui piace essere messo alla berlina».
Lo conosce personalmente?
«No. L’ho visto una sola volta, a un’edizione del premio Novello di Umorismo e satira, a Codogno. Mai visto sorridere».
E lei, Krancic: da intellettuale di destra, come lo vede Fini?
«Mi sono fatto l’idea che Fini nutra un risentimento di tipo personale verso Berlusconi. Un sentimento che lo ha portato a fare scelte suicide per quanto riguarda la destra in generale, e soprattutto per la sua area. Le faccio un piccolo esempio: su Facebook, dove ho circa tremila contatti, si parla anche di questo. E leggo che tanta, tantissima gente non lo segue più... assolutamente. Del resto alle ultime elezioni a chi crede abbia portato via voti, la Lega? Alla vecchia An... ».
Lei ha iniziato alla Voce della fogna, tanti anni fa, quando l’Msi era nel ghetto. E adesso che i suoi amici di allora sono al governo, la fanno fuori. Bella parabola.
«In effetti... Nel ’94, con la vittoria del centrodestra, pensavo di essere uscito dalle fogne. E invece, anche se con garbo, mi ci hanno ricacciato».

(di Luigi Mascheroni)

Spenta la fiamma tricolore, al pensiero di destra non è rimasto nulla

Ne ha dette, di cose, Gianfranco Fini in questi ultimi giorni. E, come nel suo costume, non sempre le ha orientate nella stessa direzione. Esagera, probabilmente, chi sostiene che abbia fatto impallidire la fama di Togliatti in materia di doppiezza, quando gli rinfaccia l’andirivieni fra l’esaltazione del fascismo dei congressi missini degli anni Ottanta e le proclamazioni di segno opposto scaturite un ventennio più tardi, o gli chiede conto, nel pieno dell’offensiva dell’accoglienza e dell’apertura politica verso gli immigrati, della vena xenofoba venuta alla luce quando voleva accanto sul palco dei comizi Jean-Marie Le Pen e faceva mettere ovunque possibile tavolini per lanciare petizioni che urlavano l’imperativo del “tutti a casa loro”. Ma è certo che una vocazione a giocare su due tavoli il personaggio l’ha sempre dimostrata – basti pensare che, proprio quando faceva campagna contro l’immigrazione, si premurava di farsi premurare con una bambina di colore in braccio nell’oleografia degli auguri natalizi agli impavidi lettori del “Secolo d’Italia” – e non sembra propenso a smentirla adesso, se è vero che a Bondi minaccia “scintille in parlamento” per il governo e in tv giura che non si presterà a imboscate in quella sede.

Insomma, dare ascolto a quel che Fini dice, per chi vuole capire sul serio come funziona la politica non è consigliabile (né, del resto, è opportuno seguire alla lettera le dichiarazioni di qualsiasi esponente di partiti e coalizioni, non solo nel nostro paese; non per dar ragione per forza a Grillo, e per converso torto a Travaglio, ma pretendere che la politica si accordi con l’etica è far torto alla natura, all’esperienza e al buonsenso). Tuttavia, qualche frammento di sue dichiarazioni può servire a far luce su singoli aspetti di quegli atti della commedia umana che si svolgono nei palazzi istituzionali. E in questo senso si può leggere l’ammissione che gli è sfuggita in un dialogo fuorionda con Lucia Annunziata, quando, a proposito dei sodali di tanti anni non disposti a seguirlo ora sulla via della rottura di fatto con Berlusconi, ha detto che i suoi ex colonnelli “hanno solo cambiato caserma”. L’analisi è impeccabile.

Peccato che, ancora una volta, contraddica frasi vecchie
di pochi mesi, perché allora era soltanto il Pdl ad essere descritto con la metafora militaresca, rivendicando il diritto-dovere di portarvi aria nuova e libera, mentre adesso si giunge alla tacita ammissione che Alleanza nazionale aveva le stesse sembianze del fortilizio, dove tutti dovevano obbedienza cieca, pronta ed assoluta al comandante e, più che colonnelli, erano in auge i caporali e i gregari. Chi sgarrava, e magari denunciava le violazioni di uno statuto che prevedeva un congresso ogni tre anni e non ogni sei, sette o chissà quanti, come di fatto accadeva, veniva messo alla porta o costretto a farlo.

Questo non è, peraltro, che uno dei tanti dati di fatto
su cui l’ex presidente di An ha sinora dimostrato una memoria a chiazze. Nella psicodrammatica riunione della direzione nazionale del Pdl di giovedì scorso, ad esempio, difendendo le due ragioni. Fini ha fatto di nuovo ricorso a una formula che gli è cara: è venuto il momento di smetterla di nascondere la polvere sotto il tappeto. Chi avrebbe potuto dargli torto? Sarebbe difficile farlo, in particolare, a chi segue da decenni le vicende della destra italiana. È lecito però aggiungere che di quei sostanziosi mucchi di polvere ci si sarebbe dovuti sbarazzare da un bel po’ di tempo, e che le pulizie avrebbero dovuto iniziare dalla soglia di casa propria, prima di abbandonarla per il trasloco a palazzo Grazioli.
Almeno all’atto della confluenza nel Pdl, nel congresso di chiusura di Alleanza nazionale, l’ultimo segretario del Movimento sociale italiano ed unico presidente del partito che ne era nato per gemmazione (il copyright è di Ilvo Diamanti) avrebbe dovuto, per coerenza e per chiarezza, rispondere a due quesiti: quale lascito consegnava l’esperienza del neofascismo alla politica italiana, nel momento in cui la fiamma si spegneva? E quale bilancio si poteva trarre dagli oltre sessant’anni della sua presenza sulla scena italiana?

In apparenza si poteva trattare di interrogativi di interesse circoscritto a una smunta cerchia di nostalgici, ma nei fatti scioglierli avrebbe offerto, finalmente, una lettura convincente di un percorso che a molti appare tutt’altro che rettilineo, allontanando il legittimo sospetto che la sfida di Fini a Berlusconi – già allora visibile, sia pur sottotraccia – fosse, nella sostanza, un mero scontro di caratteri e ambizioni personali e non un contrasto di programmi e progetti. Senza tacere il fatto che, per un politico che nei primi anni Novanta propugnava l’avvento di un non meglio identificato fascismo del Duemila ed è approdato tre lustri dopo alla convinzione che nella guerra civile i fascisti stessero dalla parte sbagliata, tracciare un bilancio non reticente del cammino percorso e spiegarne i punti di svolta e le intuizioni ispiratrici sarebbe stato un dovere etico. Aggettivo di cui, all’attuale Presidente della Camera, piace far uso, applicandolo però più agli altri che a se stesso.

Invece, dalla cerimonia di spegnimento della fiamma non scaturì nessun approfondimento problematico dei motivi per cui, prima e durante gli anni in cui Fini ne aveva fatto parte, un partito politico si era assunto il compito di portare sulle spalle il fardello di un’identità maledetta, incontrando il consenso di qualche milione di italiani, l’indifferenza di molti altri e l’astio irriducibile di un vasto numero di avversari e nemici. E tantomeno delle ragioni che portavano, nel 2008, a scaricare di quel bagaglio anche gli ultimi residui, senza degnarli di uno sguardo, critico o malinconico che fosse. Come, sulle colonne del “Foglio”, Buttafuoco e Staiti di Cuddia, e su altri giornali Veneziani e altri, hanno osservato, il cadavere, ormai mummificato e smembrato, è stato interrato alla chetichella. E si sa fin dall’antichità che i morti oltraggiati, specie se dai consanguinei, tendono a vendicarsi.

Non si può certamente interpretare così lo squagliamento dei sodali di un tempo – i vituperati “colonnelli” per i quali è stato rispolverato il nostalgicissimo epiteto di badogliani – che oggi corrono a rifugiarsi sotto le ali di Berlusconi, ma non vi è dubbio che, se Fini si sta sempre più isolando dal grosso dei seguaci, lo deve all’incapacità, o alla mancanza di coraggio, dimostrata nel non fare i conti sul serio con l’eredità fascista, neofascista e postfascista. Con cui, però, lo studioso delle vicende di quella parte deve misurarsi. Chi scrive lo ha fatto attraverso vari libri – da Cinquant’anni di nostalgia a Esuli in patria, da Dal Msi ad An al recente La rivoluzione impossibile (Vallecchi), dedicato in primo luogo all’evoluzione della giovane generazione neofascista degli anni Settanta e Ottanta – e prova, qui, a riprendere il discorso.
La questione accennata, ovviamente, può essere affrontata da più punti di vista. Qui ci si può limitare a toccare quelli che sfiorano la più immediata attualità.

Partiamo dal fatto che la scomparsa di Alleanza nazionale
ha segnato, sia pur in linea con l’evoluzione progressiva del Msi, la fine di almeno due delle ambizioni che dal fascismo – o quantomeno dalle sue correnti movimentistiche – si erano trasmesse inizialmente ai suoi epigoni: la pretesa/promessa di superare la contrapposizione tra sinistra e destra, estraendo da ciascuno dei due campi le istanze ritenute migliori e fondendole in una nuova sintesi, e quella di incarnare un modo nuovo di rapportarsi alla politica, rifiutando le forme cristallizzate della democrazia partitocratica. Sul primo di questi due versanti, non c’è alcuna vena polemica nella constatazione che, nel Msi prima e in An poi, il fascismo ha completato quel processo di resa alla destra che già aveva attraversato varie fasi in epoca di dittatura. Ridotta la socialità a espediente gergale di propaganda, il neofascismo ha rinfoderato l’aspirazione a proporre modelli di organizzazione economica della società diversi da quelli imposti dal capitalismo e nei confronti di questi ultimi ha, un poco alla volta, affievolito le residue critiche.

Negli ultimi anni, persino le accuse alla mentalità consumistica e i connessi fervori ecologisti che avevano surrogato le vecchie venature di anticapitalismo romantico sono state spazzate via dai documenti ufficiali, mentre il rifiuto dell’individualismo – pilastro antropologico della concezione del mondo liberale – si andava affievolendo. Anche il richiamo al comunitarismo non è andato oltre lo slogan: esibito ad uso interno, quasi solo negli ambienti giovanili, sotto l’ambigua forma dell’incitamento a formare una “comunità militante”, il concetto di comunità non è mai stato applicato all’analisi delle dinamiche sociali contemporanee, non si è mai tradotto in formule progettuali, non è mai stato applicato a situazioni concrete (anzi: laddove lo si sarebbe potuto inserire nel dibattito pubblico, come quando si è discusso delle modalità di organizzazione delle collettività multietniche, ci si è premurati di affossarlo, a profitto di proposte basate sulla prospettiva di assimilare i diversi e annegarli nel crogiolo del modello occidentale). L’unico campo in cui An si è staccata dal retroterra di destra caro al Msi è stato quello del costume, della morale individuale e collettiva; ma non si è trattato di una fusione fra valori propri e stimoli provenienti dall’esterno; tutto si è ridotto all’introiezione di istanze progressiste – curiosamente fatte proprie senza smettere di denunciare nel Sessantotto la fucina di quella “disgregazione morale” di cui si stavano accettando tutti i prodotti – all’unico scopo di apparire al passo con i tempi e di scrollarsi di dosso il micidiale sospetto di non aver imperato a memoria le lezioni della Storia.

Quanto all’allineamento a mentalità, stili e logica di un tipo di politica messo per decenni alla berlina, l’evidenza delle sue manifestazioni offerta quotidianamente da giornali, radio e tv esime dal perderci troppo tempo. Temendo di mettere in discussione il faticoso raggiungimento della legittimità a governare, e scordando in fretta le infatuazioni lepeniste di un tempo, i post-neofascisti si sono preoccupati di allontanare da sé ogni sospetto di ammiccamento al populismo, anche a rischio di lasciare i benefici elettorali di questo fenomeno agli alleati che ne sfruttano le diverse declinazioni: Berlusconi da un lato e la Lega Nord dall’altro. Apparire i bravi ragazzi pensosi in mezzo a una compagnia un po’ troppo scapestrata è stata la tattica perseguita con più cura dai vertici aennini, che dall’antipolitica, o meglio dalla politica antipartitica, si sono congedati dopo le “radiose giornate” giustizialiste di Tangentopoli.

Entrambe queste scelte, tese – accanto alle ripetute
e progressivamente sempre più ampie condanne di vari aspetti del regime mussoliniano – a liquidare l’immagine di continuità e contiguità con il fascismo implicita nella storia missina, hanno spostato Alleanza nazionale al ruolo di bersaglio secondario delle accuse degli avversari, molto più impegnati, con la poco significativa eccezione di centri sociali e collettivi studenteschi, a prendere di mira gli atteggiamenti autoritari di Berlusconi o l’intollerante xenofobia leghista. Nel contempo però hanno lasciato campo libero ad un’area di estrema destra che, non essendo stata in alcun modo stimolata a un onesto confronto critico con il fascismo, con le sue espressioni storiche e con il suo retroterra ideologico e culturale, si è appropriata nei modi più rozzi della mitologia ad esso connessa, facendone una bandiera. La crescita numerica di questo ambiente, che dà corpo agli stereotipi coltivati dall’antifascismo militante e li legittima, cancellando le tracce del percorso di fuoriuscita dal tunnel delle nostalgie autoritarie e totalitarie tracciato a suo tempo dalla cosiddetta Nuova Destra, è il dono avvelenato che il voltafaccia dei postfascisti passati con disinvoltura dal ghetto al palazzo lascia all’Italia; una pericolosa eredità di cui non è facile soppesare le conseguenze future, che nemmeno il possibile approdo alla casa comune berlusconiana di alcune frange oggi dissidenti, prima fra tutte La Destra di Storace, aiuterebbe ad arginare.

Quanto poi alla funzione che il gruppo dirigente di Alleanza nazionale, oggi lacerato, potrebbe svolgere nel momento in cui Berlusconi lascerà la guida del centrodestra, le prospettive sono indecifrabili. Lo sono per quanto riguarda le singole figure, che ormai stanno amalgamandosi in forme distinte con le varie anime oggi presenti nel Pdl, e lo sono per quanto concerne le idee di cui An è stata portavoce, perché queste sono, da tempo, indistinguibili, perlomeno come aggregato unitario e coerente. Come Alessandro Giuli ha sostenuto nel suo Il passo delle oche (Einaudi), e come la lettura di documenti e periodici di area conferma, il “pensiero di destra” non aveva già più ai tempi di An, e men che meno ha oggi in quei dintorni, un volto riconoscibile. A sostituirlo è venuto un insieme liquido di riflessioni prive di un filo conduttore, abbacinate dall’ossessione di apparire moderni ad ogni costo, ancora legate a una terminologia di stampo conservatore in cui parole come nazione, identità e Stato sono tuttora frequenti ma ondivaghe nell’attribuire contenuti a quei termini. I modi in cui questo incerto substrato culturale influenzerà il Pdl degli anni a venire, o le formazioni politiche che lo sostituiranno in omaggio al continuo cambio di sigle che sembra essere l’unica caratteristica costante della “Seconda repubblica”, sono ad oggi impensabili. E pare che neanche il brain trust finiano riesca ad immaginarli.

Resta da capire, oggi più che mai, se in questo panorama Fini si sia assegnato un compito che vada al di là della propria personale promozione a scranni più elevati dell’attuale. La spregiudicatezza del personaggio, il suo completo disancoraggio (non da oggi) da visioni del mondo, ideologie, credenze collocate al di fuori dell’orizzonte della contingenza, rende difficile sciogliere il dubbio. Che dal fallimento della “lista dell’elefantino” ideata per le elezioni europee del 1999 in poi la sua tattica sia consistita nel farsi accreditare come l’unico ragionevole, affidabile e moderato uomo di Stato presente nelle file della sua coalizione, non c’è dubbio, e dopo l’accantonamento di Casini e dell’Udc la pista, in questa direzione, gli si è presentata sgombra. Che una simile manovra puntasse a farne il candidato più accreditato alla Presidenza della repubblica, cui si giunge in genere sull’onda di larghe intese che coinvolgono l’opposizione parlamentare, è parso per un certo tempo probabile. Che la sinistra veda il coronamento di questa ambizione come la meno peggiore delle soluzioni attualmente immaginabili, e cerchi nei modi più discreti di favorirla, insistendo nel sottolineare che Fini, per carità, non ha cambiato campo (perché, se questa impressione si facesse strada nel centrodestra, come sta avvenendo nelle ultime settimane, la candidatura finirebbe col bruciarsi in via definitiva), e tuttavia è da lodare per la perizia e la sagacia che da uomo delle istituzioni va dimostrando, è cosa certa. Ma, se anche le cose stessero così, non è mai stato chiaro che cosa l’ex-aspirante alla guida del fascismo del Duemila si proporrebbe di fare una volta giunto all’agognato soglio. E meno ancora lo è oggi, nel momento cioè in cui da più parti si ipotizza che, magari col sostegno di quegli interessi che potrebbero trovare un elemento di coagulo e rappresentanza in Montezemolo, le ambizioni dell’uomo si siano impennate ulteriormente, sino a prospettargli l’obiettivo, o il miraggio, della guida del governo.

Sbagliano, o vogliono intorbidare le acque, quanti sostengono che dietro Fini si stia profilando un progetto di egemonia politico-culturale successiva e sostitutiva rispetto al berlusconismo di cui taluni “ex fascisti di sinistra” di provenienza missina sarebbero mente e nel contempo braccio. Dietro le trovate ad effetto, le appropriazioni indebite, il gusto per la vetrina, la classe dirigente che ha condotto ad estinzione il soggetto politico in cui si era incarnato il neofascismo, così come il nucleo dei suoi intellettuali fiancheggiatori, non ha sin qui esibito alcun progetto originale, alcuna cultura politica coerente, alcun segno di una nuova identità in grado di sostituirsi alla precedente. Insomma, dietro la fiamma che si è spenta l’unico profilo che finora è spuntato è quello di un nulla. Ma la politica non sopporta vuoti, e in ossequio a una regola mai smentita riempie sempre, in un modo o nell’altro, i vuoti che i suoi attori provocano. Se le istanze che in un’altra epoca avevano dato vita al fascismo e ne avevano poi, malgrado la catastrofe bellica, garantito la persistenza in altre forme, non si sono acquietate, c’è da chiedersi come e dove troveranno nuove manifestazioni.

Se non hanno più nessuna ragion d’essere, la domanda appropriata è: su quali basi manterrà un proprio ruolo il ceto politico che su di esse si è a suo tempo formato? In entrambi i casi, indovinare la risposta esatta è impresa impervia, ma le convulse vicende delle ultime ore ne lasciano indovinare una plausibile: giunto al capolinea un percorso storico e ideale durato quasi un secolo, ai suoi estremi epigoni politici non è rimasta altra scelta che il mimetismo, sia pure in vesti diverse, da un lato il populismo liberista berlusconiano, dall’altro una incongrua miscela di residui nazionalconservatori e frammenti di umanitarismo progressista. Misero destino, malgrado gli strepiti plaudenti dei sostenitori più irriducibili, tuttora incapaci di affrancarsi da quel complesso del “capo-che-ha-sempre-ragione” che più fascista non si potrebbe immaginare, per un fenomeno storico a cui nemmeno i più aspri critici e i più tenaci avversari hanno mai negato una tragica e magari funesta grandiosità.

(di Marco Tarchi)

giovedì 29 aprile 2010

Online gli archivi russi su Katyn

Mosca vuole dimostrare di aver «imparato le lezioni della storia», e nell’ansioso tentativo di un miglioramento dei rapporti con Varsavia ha reso pubblici oggi i documenti relativi al massacro di Katyn, dove 70 anni fa vennero uccisi circa 22000 soldati polacchi. «Lo dobbiamo al mondo» ha detto il leader del Cremlino Dmitri Medvedev, in visita in Danimarca, specificando tuttavia che «questi archivi non erano sconosciuti: semplicemente sono stati messi su un sito in modo che tutti possano avere l’opportunità di vedere chi ha dato l’ordine di uccidere gli ufficiali polacchi».
Tra i documenti pubblicati online, quello che spicca è una nota del capo della polizia politica (Nkvd), Lavrentij Beria, al dittatore sovietico Josif Stalin, dove si propone di uccidere gli ufficiali. Tali i documenti sono stati desecretati nel 1992 e inviati a Varsavia, ma non erano mai apparsi prima su un sito ufficiale russo. Il capo dell’Archivio federale russo, Andrei Artizov, da parte sua ha spiegato che tali documenti erano stati pubblicati per mettere a tacere coloro che negano la colpevolezza sovietica.
Il massacro di Katyn rappresenta il fardello più pesante nella storia dei rapporti tra Mosca e Varsavia. Un fardello che con il recente incidente all’aereo presidenziale di Lech Kaczynski ha subito una strana metamorfosi. Mosca ha infatti dimostrato un’apertura e una disponibilità, senza precedenti nei confronti di Varsavia. Dopo che un paio di giorni prima già il premier Vladimir Putin aveva accolto il collega Donald Tusk per le commemorazioni del massacro, frutto di una repressione scellerata dopo l’invasione da parte dell’URSS nel settembre del 1939 delle regioni polacche d’Oriente.
Tra le 22.000 vittime c’erano ufficiali polacchi, ma anche prigionieri dell’Armata Rossa, tutti uccisi nella foresta di Katyn, oltre che a Mednoie (Russia), e Kharkiv (Ucraina). Una macchina della morte messa in funzione da Stalin e funzionante per tre giorni consecutivi. Putin da un anno nel discorso ufficiale pone l’accento sulla necessità di condividere questa sciagura tutti insieme, russi e polacchi. Nel segno di una ricerca spasmodica a un riavvicinamento politico tra i due paesi.
Per decenni, l’Unione Sovietica ha accusato i nazisti di aver commesso questi omicidi. Poi nell’aprile 1990 il leader sovietico Mikhail Gorbaciov ha riconosciuto la responsabilità del suo paese in questi massacri. La nota Ong russa Memorial, che si batte per l’accesso ai documenti ancora classificati come ’top sectret’, ha accolto con favore la pubblicazione di documenti. Ma per ora Katyn non è ancora considerato ufficialmente da Mosca come crimine contro l’umanità.

mercoledì 28 aprile 2010

Stefania Craxi: serve riconciliazione a piazzale Loreto


"Trascorso il 65esimo anniversario della Liberazione non vi è stato nessuno, nel panorama politico e istituzionale della Nazione, ad aver avuto il coraggio politico e l’onestà intellettuale di compiere un gesto simbolico e importante volto a restituire agli italiani la verità della loro storia: recarsi a piazzale Loreto per un atto di cancellazione dell’atroce oltraggio inflitto al cadavere di Benito Mussolini". Lo afferma Stefania Craxi, parlamentare del Pdl e sottosegretario agli Esteri.

"Potrebbe apparire una provocazione, continua la Craxi, eppure piazzale Loreto era e resta, con tutti i suoi significati, il simbolo incancellabile di un’epoca e del suo sanguinoso epilogo, teatro non di una, ma di due tragedie dolorose e terribili. L’eccidio di quindici martiri antifascisti, fucilati contro una staccionata di legno, una mattina d’agosto del 1944 da militi della Repubblica Sociale; le barbarie inflitte dalla folla nell’aprile del 1945 ai cadaveri di Benito Mussolini e Claretta Petacci, dei fucilati di Dongo e l’esecuzione infine di Achille Starace, ex segretario del Pnf, fucilato sul posto, dopo un processo sommario, dai partigiani antifascisti, sotto il macabro scenario dei cadaveri appesi per i piedi alla tettoia di un distributore di benzina". "La storia - conclude il Sottosegretario agli Esteri - non può in nessun caso essere tagliata in comparti separati tra loro: ecco il motivo per cui sarebbe stato opportuno chiudere con un gesto spettacolare, recarsi a piazzale Loreto".

Slow Food è di destra o di sinistra?


Quando nacque, nel 1986, si chiamava ArciGola ed era una costola dell’associazione culturale più di sinistra. Poi, crescendo, ha avuto da Enzo Ghigo i primi finanziamenti per lanciare il Salone del gusto al Lingotto. Quindi Letizia Moratti, da ministro dell’Istruzione, ha appoggiato la nascita dell’Università di Scienze gastronomiche a Pollenzo, nel 2004. Infine, i ministri dell’Agricoltora di centro-destra Alemanno e Zaia ne hanno sempre sostenuto le idee, fino a diventare amici personali di Carlin Petrini.

Il movimento Slow Food, dunque, è di destra o di sinistra? È aperto all’innovazione e alle nuove idee della «green economy» obamiana, sostiene il saggio di un giornalista inglese, Geoff Andrews, da pochi giorni in libreria con il Mulino (Slow Food, una storia tra politica e piacere). No, è un movimento «intrinsecamente antiprogressista, antiscientifico, idolatra delle società tradizionali, delle piccole comunità statiche e immutabili», replica il pamphlet di Luca Simonetti, pubblicato da Pagliai editore, che critica radicalmente (per la prima volta) il movimento della chiocciola, con il suo Mangi chi può, meglio, meno e piano.

Per il movimento sorto tra Langhe e Roero negli Anni 80, diventato mondiale grazie all’idea di Terra Madre, assemblea che si ripeterà a novembre a Torino, c’è un’attenzione che va dunque a scavare le radici di un’ideologia che - come scrive Simonetti, docente di diritto alla Sapienza di Roma - ormai è condivisa «da buona parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche italiane»: un fatto che secondo il giurista è un sintomo dell’«inarrestabile e gravissimo degrado della cultura, della politica e della discussione pubblica nel nostro Paese». Lo stesso Manifesto che rivendica la lentezza come ragione costitutiva dei seguaci di Petrini per Simonetti è chiaramente ispirato a quello di Marinetti sul futurismo, tanto che banalizza persino un grande maestro della storiografia progressista come il francese Fernand Braudel, perché «identifica la civilisation matérielle con i piaceri della vita». Ma c’è di più: è sbagliato dire, come fa Slow Food, che la «gastronomia è scienza», mentre l’idea delle «comunità del cibo» viene identificata come un «guazzabuglio di vaghezze» che prende più spunto da un utopista ottocentesco come l’inglese John Ruskin che da Karl Marx, che anzi ne criticava le idee.

Tutt’altro il tono di Andrews, docente alla Open University inglese, il quale pensa che la chiocciola abbia saputo offrire un’alternativa credibile alla globalizzazione e alla «fast life» e racconta degli intellettuali new left americani che hanno seguito il pifferaio magico di Bra. Come Alice Water, la cuoca californiana che è riuscita a far impiantare un orto nella Casa Bianca a Michelle Obama, ricordando come nel Congresso di Puebla del 2007, in Messico, Petrini per prima cosa difese i contadini dello Stato di Tabasco colpiti da un’alluvione: secondo lo scrittore inglese, un tipico atto da «globalizzazione virtuosa», di un movimento che ha saputo mettere radici in Paesi con tradizioni e culture tanto diverse, come gli Stati Uniti, la Germania, la Romania post-comunista o la Gran Bretagna.

E Petrini come reagisce di fronte a questo dibattito ideologico? Ribadisce, come ha sempre fatto, che le «categorie della vecchia politica non sono applicabili» al suo movimento, mentre di fronte alla critica di sostenere tesi «anti-scientifiche» replica che ci deve essere dialogo tra scienza e saperi contadini, non contrapposizione. Se poi però si scava un po’, ecco che emerge forse un Carlo Petrini con simpatie sempre più «right wing», vicine al centro-destra. Così rivendica gli orti ecosostenibili dell’Expo 2015 di Milano, che «guarda caso - dice - sono stati varati da una governance non certo di sinistra, dalla Moratti a Formigoni, sulla base della nostra proposta». E ricorda un viaggio in Gran Bretagna, dove ha incontrato il conservatore Cameron. «L’ho visto in un “farmer market” londinese e mi ha fatto un’ottima impressione. Anche la rivista Ecologist ha evidenziato che su questi temi il guerrafondaio Blair è stato assente. Devo dire che questo libdem, questo Clegg, mi piace molto... chissà, sarà che sono diventato conservatore anche io?».

sabato 24 aprile 2010

Cacciarlo non basta


Ma che fine farà Fini? Sembra soltanto uno scioglilingua. Invece è un interrogativo drammatico che si affaccia per la prima volta, come uno spettro maligno, agli spalti del castello incantato di Silvio Berlusconi. Urge liberarsi dello spettro, pensa il Cavaliere. Dunque è facile prevedere che, prima o poi, Gianfranco Fini e la sua pattuglia verranno cacciati dal PdL. Come avvenne molti anni fa al gruppo del “manifesto” buttato fuori dal Pci. A destra pochi ricordano quella vicenda. Eravamo nel 1969, un anno cruciale della Prima Repubblica. Con l’autunno caldo nelle fabbriche e la strage di piazza Fontana. In febbraio si aprì a Bologna il 12° Congresso del Pci. Venne confermato segretario Luigi Longo che guidava il partito dalla morte di Palmiro Togliatti. Poiché Longo aveva una salute malferma, gli fu affiancato un vicesegretario. Era Enrico Berlinger che cominciò allora la scalata al vertice del Pci.
In quel congresso, quattro compagni osarono l’inosabile. Ossia criticarono la prudenza del Pci nel condannare l’invasione sovietica di Praga, avvenuta nell’agosto precedente. Erano Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Massimo Caprara e Aldo Natoli. Come si regolò il Partitone rosso con i quattro dissidenti? Con una mano dura e veloce. Appena nove mesi dopo li radiò dal partito.
La requisitoria contro la Banda dei Quattro venne pronunciata da Alessandro Natta. Prima dinanzi alla Quinta commissione del Comitato centrale e poi di fronte al plenum del comitato. Natta eseguì il compito con spietatezza dottrinaria. Ed elencò una per una le colpe dei quattro. La più grave era di aver organizzato il dissenso dentro il sacro corpo del partito, proponendo “una negativa logica di gruppo”. In subordine, veniva l’accusa di arroganza e di seminare “confusione e germi di disgregazione”.

Dopo 40 anni
Da allora sono trascorsi quarant’anni, ma la requisitoria di Natta potrebbe essere ricopiata da qualche tribunale interno al PdL e scagliata contro Fini e il suo piccolo seguito. Con le stesse parole incalzanti: dissenso, logica di gruppo, germi di disgregazione. E con l’identica conclusione: la cacciata dal PdL. Se andrà così, il Cavaliere si beccherà l’accusa di essere un neo-stalinista. Ma a Fini toccherà quella di essere stato incauto, uno che se la è cercata. Tirando troppo la corda, per di più al riparo della poltrona di presidente della Camera.
Ho già scritto più volte di avere poca stima di Fini come leader politico. E ho anche spiegato il perché. Ma adesso nel rievocare la sua parabola discendente cercherò di essere il più freddo possibile. Ho cominciato a capire del tutto che cosa intendeva fare nel dicembre del 2009. Fu allora che Fini si lasciò sfuggire una confessione: «Vorrei che il PdL fosse come la Dc della Prima Repubblica, un partito del quale rimpiango l’ampio dibattito». Era chiaro che, per dibattito, Fini rimpiangeva la struttura correntizia della Balena bianca. E si proponeva di dar vita dentro il PdL almeno a una corrente: la sua.
Del resto, non poteva essere che questo lo sbocco della propria guerriglia contro Berlusconi. E di riflesso, contro il partito che anche Alleanza nazionale aveva contribuito a fondare. La guerriglia era già iniziata ben prima del dicembre 2009 e proseguì ininterrotta sino alle elezioni regionali del 2010 e ancora dopo. Arrivando al punto di scagliare addosso al Cavaliere e al gruppo dirigente del PdL l’accusa delle accuse: nell’Italia del nord siamo diventati la fotocopia della Lega, Umberto Bossi è ormai la stella polare del governo.
Fini e il suo gruppo di fedeli avevano un bisogno disperato di distinguersi da questa linea. Per farlo, occorreva una crisi o uno strappo all’interno del partito. Fini cominciò con l’annunciare la nascita di un gruppo autonomo alla Camera e al Senato, distinto da quello del PdL. Respinto in modo brusco dal Cavaliere, ripiegò sull’ipotesi di una corrente dentro il PdL. Per poi approdare al disastro di giovedì nel corso della Direzionale nazionale. Con un discorso da contestatore integrale. E soprattutto con i due scatti di rabbia rivolti contro l’augusta persona del Cavaliere.
Sono due sequenze che, grazie alle riprese televisive, stanno facendo il giro del mondo. Non capita tutti i giorni di vedere la terza carica dello Stato gesticolare infuriato contro il premier, suo sodale nel governo. Per poi alzarsi di colpo, precipitarsi sotto il podio e inveire sotto il naso del suddetto premier. Se mai un giorno il PdL chiuderà bottega, si dovrà dire che tutto è cominciato con quel frammento di cinema verità. La prova più eloquente che il Paradiso di Silvio è finito e il demonio si è insinuato tra gli angeli.
Che cosa accadrà adesso non occorre molta fantasia per prevederlo. Di sicuro, Fini non se ne starà zitto. Se si cucisse la bocca, farebbe karakiri, come i samurai sconfitti che si uccidevano con la propria spada. Dunque continuerà a parlare. E seguiterà a farlo da presidente della Camera, poiché non ha nessuna intenzione di rinunciare alla carica. Anzi, un Fini minaccioso ha già avvertito il ministro Sandro Bondi: «In Parlamento vedrete scintille!».
Eppure proprio qui emerge il tallone d’Achille di Fini, il suo lato debole. Nessuno può impedirgli di continuare la guerriglia. Ma molti, compresi anche parecchi dei suoi tifosi, dubitano che possa farlo dallo scranno di Montecitorio. Non soltanto perché sarebbe scorretto, secondo un minimo di galateo istituzionale. Ma anche perché, concionando tutti i giorni sulla carta stampata e alla tivù, rischia di svilire del tutto l’istituzione che rappresenta. Al punto di esporla a contestazioni accese. Quelle che di sicuro metteranno in scena i leghisti non appena Fini oserà affacciarsi al di là del Po.
È stato un giovedì nero quello del 22 aprile. Nero per tutti e non soltanto per i sostenitori di Fini e di Berlusconi. Nel giro di un paio d’ore si è chiuso, all’improvviso, un ciclo storico che durava dal 1994. Quando alla fine di marzo ho scritto su “Libero” che stava iniziando la Terza Repubblica, avevo visto giusto. Ma senza immaginare un avvio così rapido e tanto drammatico.

Tutti sconfitti
Dal match violento tra Fini e il Cavaliere usciamo tutti con le ossa rotte. Il presidente della Camera ha svenduto l’autorità del suo incarico. Berlusconi ha perso la propria sacralità una e trina: come premier, come presidente del partito, come capopopolo in grado di fare miracoli. Persino il Partito democratico non ha motivi per gioire. Condannare quanto è avvenuto come uno spettacolo indecoroso non gli salva l’anima. Dal momento che anche nella parrocchia di Pierluigi Bersani si tirano i piatti in faccia, sia pure al riparo dalle telecamere.
Ma è soprattutto Berlusconi a scoprirsi nei guai. Per la prima volta il suo carisma è stato incrinato. La rissa con Fini ha ferito anche lui. E sul fianco più difficile da difendere: l’attività del governo in una fase tanto pesante per il paese. Come il bambino della favola, Cravatta Rosa ha gridato: “Il re è nudo!”. Lo ha fatto con un elenco spietato dei problemi che l’Italia ha di fronte.
Fini finirà male. Anche se non sappiamo come. Forse verrà cacciato dal PdL. Forse sarà costretto a lasciare la poltronissima di Montecitorio. Forse la sua pattuglia dissidente resterà isolata dentro un mare di consensi per il Cavaliere. Ma comunque gli vada, rimane una certezza: una gran parte delle questioni indicate da lui devono essere risolte. In fretta. Con mano ferma. E con l’aiuto di tutti.

(di Giampaolo Pansa)

Massimo Fini: un ritorno alla politica? Solo dopo la fine di Berlusconi

Nel mondo globalizzato governato dalle elite di potere che controllano i media la politica si fa in tv. I leader contano sul proprio carisma personale amplificato dal Web e, soprattutto, dalla televisione. Ma quando si apre il confronto senza mediazioni, ecco le crepe nella struttura di un potere che appariva blindato agli elettori, sempre più ridotti a spettatori impotenti. E' così per Barack Obama alle prese con i vari fronti di guerra in Medio Oriente e con riforme tribolate negli Usa, è così anche per Silvio Berlusconi messo in discussione e incrinato nella sua immagine di leader assoluto dal co-fondatore del Pdl, Gianfranco Fini. Massimo Fini, scrittore e giornalista fieramente indipendente rispetto ai tradizionali schieramenti politici, pensatore non allineato, analizza i possibili scenari a cui va incontro il nostro Paese nei prossimi tre anni di governo Berlusconi. Il federalismo farà a pezzi l'Italia o la modernizzerà? Come ristabilire il rapporto di fiducia tra elettori ed eletti? A più ampio raggio: che ruolo può avere l'Europa nel creare un modello sociale e politico alternativo alla globalizzazione made in Usa? Proviamo a capirlo.
Fini, cominciamo con una valutazione del voto regionale. Il centrosinistra arretra e si chiude nelle sue roccheforti, la Lega si prende il Nord. Il Pdl tiene ma fibrilla. Andiamo verso un Paese sempre più frammentato e in mano a lobby di potere?
"Innanzi tutto, e non bisogna dimenticarlo, il voto regionale ha detto che almeno un italiano su tre non è andato a votare, il che vuol dire che la gente non crede più a questa politica. Quanto al discorso allarmato sull'Italia dei ricchi che scappa e lascia indietro i poveri, l'ampliarsi delle differenze tra classi privilegiate e un ceto medio sempre più impoverito è un fenomeno che riguarda l'intero mondo occidentale e va letto a più ampio raggio".
Ma quando Bossi strepita che la Lega dopo il successo elettorale spingerà a tavoletta sul federalismo fiscale e andrà a controllare le grandi banche del Nord, la sua è solo demagogia oppure c'è da preoccuparsi?
"Anche qui facciamo un passo indietro e ampliamo lo scenario. Se ha ragione di esistere il progetto di un' Europa politicamente unita a tutti gli effetti, allora i nuovi punti di riferimento diventeranno le macro-regioni. Ad esempio la Liguria con la Provenza, nella progressiva riscoperta delle piccole patrie. I discorsi nazionalistici saranno pura forma. Ma ci vorrebbe un localismo coerente, tipo quello degli indipendentisti corsi dell'ultima generazione. I quali non sono contro lo sviluppo ma non ammettono che la modernizzazione avvenga a discapito della loro storia, della tradizione. E per questo non hanno problemi, per riassumere, a rinunciare al frigorifero per tornare alla ghiacciaia. L'alternativa è illudersi che il ritorno al dialetto ci tenga a galla in un mare globalizzato di Coca Cola. Per questo il federalismo predicato dalla Lega negli ultimi tempi è falso e privo di senso. Era forse più interessante un precedente scenario disegnato dal Carroccio, con l'Italia divisa in tre macro-aree diverse per risorse, storia e ambiente".
Quanta colpa ha la sinistra nell'affermazione di Berlusconi?
"Ne ha tanta. Non ha mai fatto, quando era al governo, una legge sul conflitto di interessi. Questo ha permesso al premier di prendere il potere dopo aver forgiato, a suon di spettacolini televisivi, la mentalità dell'italiano medio per oltre vent'anni. La presa economica, mediatica e politica di Berlusconi sul Paese ora è tale da renderlo imbattibile. Malgrado gli scandali e le leggi ad personam".
Insomma, televisione sempre cattiva maestra? Eppure Barack Obama si è affermato anche grazie al suo carisma personale e all'uso accorto dei media, dalla tv a Internet. Non è il mezzo ma ciò che si trasmette attraverso di esso che bisognerebbe stigmatizzare, non crede?
"L'operazione di presa del potere da parte di Obama è stata certamente spettacolare e molto ben condotta. La sua popolarità però è crollata in seguito, quando la grande affabulazione via mass media è svaporata di fronte alle esigenze della politica reale. Quella che vede il presidente Usa inasprire la linea guerrafondaia di Bush in Medio Oriente e mandare altri 30.000 marines in Afghanistan, ad esempio. O quella delle misure di politica economica che lo mettono in guerra contro potenti lobby finanziarie, ergo contro una parte dell'elettorato. Vendersi attraverso la televisione non è poi così difficile, se uno è gobbo e basso ma ha buoni strateghi e molte risorse può imporsi esattamente come un bell'uomo alla Obama, o un piacione stile Berlusconi".
A proposito di politica reale: come valuta la spaccatura interna al Pdl dopo il confronto tra Fini e Berlusconi?
"Fini si è reso conto dell'errore commesso facendo confluire An nel Pdl, cioè in un partito modellato sull'adorazione incondizionata del grande capo Berlusconi. Il presidente della Camera ha in mente una destra moderata di ampio respiro internazionale. Ma in qualsiasi Paese del mondo la destra è sinonimo di law and order. Il che significa massimo rispetto e autorevolezza riconosciuti a polizia e magistratura, non continui attacchi irresponsabili ai giudici. Cosa che non si sono mai sognati di fare, ad esempio, Andreotti e Forlani quando erano sotto processo. Per la semplice ragione che una classe dirigente non delegittima le istituzioni dello Stato. Mai. Quali sono le idee politiche di un avventuriero come Berlusconi, se non il potenziamento di se stesso? Fini ci ha messo un po' a realizzarlo, ora si è stufato. Si aprono molti scenari ed è difficile fare previsioni esatte di ciò che potrà capitare. Ma in sostanza lo ripeto: il normale dibattito politico riprenderà in questo Paese solo dopo il tramonto politico di Berlusconi".
Il ritorno al sistema elettorale proporzionale può riavvicinare i cittadini alla vita politica del Paese e alla voglia di andare a votare?
"Almeno restituirebbe una parte del diritto di sperare di scegliere i propri rappresentanti, illusione che è tramontata con questo finto bipolarismo maggioritario. Naturalmente anche con il proporzionale gli apparati dei partiti continueranno a fare blocco per favorire la vittoria dei propri uomini di fiducia".
Nel suo manifesto intellettuale lei propone il no deciso alla globalizzazione, alla democrazia rappresentativa e alle oligarchie politico-economiche e promuove l'autoproduzione, il localismo e la democrazia diretta in ambiti controllati. L'Italia post-Berlusconi può realisticamente guardare in questa direzione?
"Il mio manifesto può avere un'applicazione realistica nel lungo periodo. La chiave potrebbe essere una sorta di autarchia europea, dunque guardare oltre l'Italia. L'Europa ha risorse, popolazione e mercato per fare da sé. Un po' come gli indipendentisti corsi, ma con prospettiva più ampia. Senza seguire gli Usa sulla strada dissennata della globalizzazione e di un uso della tecnologia che ha reso il mondo più connesso e veloce ma anche molto fragile. E allontanato la gente dalle proprie radici".


venerdì 23 aprile 2010

Il pubblico ludibrio di un bipolarismo in fase terminale

Cose mai viste. La lite pubblica, personale, quasi fisica e altamente drammatica, che è scoppiata ieri alla prima direzione nazionale del Pdl, entrerà di diritto nel Blob dei programmi cult di Enrico Ghezzi. La rivedremo per anni, farà storia. Non si era mai vista una cosa del genere nella politica italiana, neanche ai tempi della Dc, quando pure le correnti e i conflitti dilaniavano il partitone di maggioranza relativa.
Per noi del Riformista non è stata una gran sorpresa. Da mesi ripetevamo, tra i pochi, che il conflitto tra i due leader del centrodestra italiano era una cosa seria, che si fondava su radicali divergenze politiche e di interesse, che non era solo - cosa che pure è - un contrasto di personalità; e che dunque non era sanabile. In molti avevano scommesso sul contrario: vedrete, a entrambi non conviene, dovranno trovare un accomodamento, magari faranno pure le riforme insieme. Evidentemente, non è andata così.
Chi ha vinto e chi ha perso? Mah. Se ci fosse un'opposizione reattiva e in forma, con una scena così ieri avrebbe stravinto l'opposizione. Insomma: il partito di governo si è esposto al pubblico ludibrio e ha dato uno spettacolo orribile di sè.
Quando parlo di spettacolo inverecondo non mi riferisco solo al litigio dei due leader, ma anche al conformismo dei supporter, al tono bulgaro del comunicato finale che esprime «gratitudine» a Silvio, alla ferocia con cui le ovazioni si abbattevano sui capi della dissidenza, ogni volta che venivano nominati.
Ma di un'opposizione in grado di far pagare questo spettacolo al momento l'Italia non dispone, dunque l'esito della partita va giudicato tutto all'interno di quell'aula, dentro il Pdl.
Gianfranco Fini ha ottenuto dal canto suo un risultato storico: ha costretto il premier a una discussione pubblica sulla salute, la linea e la leadership del partito carismatico. Con ciò stesso negandone e distruggendone il carisma. Berlusconi non ha affatto gradito, gli sono anzi saltati i nervi, e non ha resistito alla tentazione della replica immediata che ha poi acceso le polveri della rissa verbale, con la terza carica dello Stato che urlava sotto al palco con il dito puntato e il presidente del Consiglio che gli dava sulla voce dal palco. Tutta la liturgia che era stata preparata a imitazione delle procedure dei partiti normali, è allora saltata.
Fini ha fatto - almeno per chi come a noi è rimasto il gusto delle posizioni minoritarie e delle analisi politiche - uno splendido discorso. Diciamoci la verità: in questi giorni non era apparso molto chiaro, nelle confuse ricostruzioni dei suoi nuovi colonnelli, il contenuto politico del dissenso di Fini. Da ieri è chiarissimo, e molto ben argomentato. Non sempre, ma molto spesso convincente.
Innanzitutto la Lega. Fini ha lucidamente spiegato che effetti può avere nel lungo periodo sulla destra italiana l'aver dato in franchising alla Lega il suo sistema di valori e spesso anche la sua politica al governo. In secondo luogo ha definito le leggi ad personam di Berlusconi sulla giustizia come un colpo arrecato al valore della legalità, che pure la destra sbandiera. Infine è uscito dalla caserma, come aveva definito il Pdl, rivendicando il diritto-dovere al dissenso, alla minoranza, e anche chiedendo garanzie di rispetto e di ascolto per le posizioni di minoranza.
Però, bisogna dire che tutto questo sforzo di accendere una discussione politica è fallito. La risposta è stata una vera e propria umiliazione di Fini. Berlusconi gli ha detto chiaro e tondo di dimettersi da presidente della Camera trattandolo, proprio come Fini aveva paventato nel suo intervento, come un dipendente infedele. Gli ha detto che è un traditore, perché nell'ultimo incontro si era dichiarato pentito di aver contribuito a fondare il Pdl. Gli ha detto con il comunicato finale che correnti non saranno tollerate e che «se sgarra è fuori». Gli ha fatto dire da una sfilza infinita di interventi della nomenklatura che aveva torto, e nel cosiddetto dibattito non s'è sentita neanche una voce che desse ragione a Fini, perché i suoi si sono cancellati dalla lista degli interventi.
Lo scontro, non c'è neanche bisogno di dirlo, è dunque insanabile. Fini ha detto che non si dimette da niente e che non tacerà. Berlusconi prepara la ritorsione sui suoi uomini nel partito e nelle commissioni parlamentari, e sfiderà con una raffica di voti di fiducia la pattuglia parlamentare finiana, per vedere quanti reggono e quanti ne può cacciare. Ma la conseguenza più importante della giornata di ieri travalica il dibattito nel Pdl.
La verità è che ciò che è accaduto è l'ultimo e più clamoroso sintomo della crisi che sta sconvolgendo il fragile e imperfetto bipolarismo italiano. La camicia di forza in cui era stato costretto dalla nascita dei due partitoni è già piena di strappi. Da quando Pdl e Pd esistono, la crescita delle forze più estreme è stata esponenziale, la Lega da un lato e Di Pietro dall'altro. E la crescita di queste forze ha a sua volta avviato una reazione a catena nei due partitoni, con Fini che sbatte la porta per colpa della Lega e il Pd dilaniato dal rapporto con Di Pietro. A tutto questo oggi si aggiunge la nascita di fatto di una pattuglia finiana in parlamento, che peserà eccome, per esempio nel delicato processo di riforme istituzionali, che credo realistico considerare già tramontate, a questo punto.
Il simulacro del bipolarismo italiano resta appeso al solo corpo mistico di Berlusconi, il Peron della Seconda Repubblica, che con la forza dei suoi voti e della sua popolarità tiene in piedi un sistema già defunto, anche se non lo sa ancora.
(di Antonio Polito)

Una destra che cerca approvazione a sinistra


Marco Tarchi, oggi professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, ieri ispiratore della nuova destra. Il tentativo della nuova destra di sottoporre la destra almirantiana a un bagno di innovazione venne fermato inventando Gianfranco Fini. L’Opinione analizza oggi con Tarchi gli ultimi colpi di coda finiani.

Il contenzioso aperto da Fini serba per molti delle verità pelose: come può l’ex patrigno di An criticare il leaderismo berlusconiano se in nome del “finismo” sono stati soppressi (dal ’90 ad oggi) tutti i pensieri diversi che affioravano nel contenitore Msi-An?

In effetti, quando Bocchino afferma che “un partito che non ammette le correnti non è pienamente democratico”, fa un’involontaria autocritica, perché è stato Fini, nel 2002, a definire le tendenze organizzate interne ad An una metastasi, è stato lui a censurare ogni forma di dissenso nel partito in cui regnava da sovrano assoluto – atteggiamento ereditato da Almirante, cui deve la carriera – è stato lui che, in spregio dei dettami statutari, ha fatto passare sette anni dal 1995 per tenere il secondo congresso di An nel 2002 e altri otto per celebrare quello di chiusura nel 2008. È evidente che la democraticità non c’entra con i veri motivi del contendere; è solo un pretesto polemico.

In molti ricordiamo Gianfranco Fini silenzioso e nell’angolo, lontano dall’immaginare l’autorevole terza carica dello Stato. Il Fini di oggi le sembra un gigante con gambe d’argilla? O meglio il volto della destra che piace alle sinistre, cioè quello d’una destra che non becca voti?

Fini non è mai stato un gran stratega. Ha viaggiato, bene, sulle ali della tattica e della capacità di cogliere le opportunità che gli si presentavano, dote in cui hanno avuto peso la spregiudicatezza e il cinismo di cui è ampiamente provvisto. Ma per riuscire aveva ed avrebbe bisogno di essere il solo gallo nel pollaio. In An era così, adesso no.

Pare che Fini abbia detto ai suoi ex colonnelli “venite, seguitemi, rifaccio An”: di rimando gli è giunta risposta “stiamo bene con Berlusconi, tornaci tu in An”. E’ stato un dialogo tra sordi o s’è finalmente detto basta ad un equivoco politico?

L’opportunismo è stato alla radice dell’esperienza di Alleanza nazionale, nata sulla scia della non prevista apertura di Berlusconi nel bel mezzo del crollo dei partiti storici dell’Italia repubblicana. La classe dirigente di An ha accettato pressoché in blocco una serie di svolte perché convenivano in termini elettorali e di legittimazione a governare, non per convinzione profonda. Che oggi continui a ragionare secondo la logica del maggiore vantaggio conseguibile non mi sembra una sorpresa.

Berlusconi viene accusato di populismo da un Fini che ci sorprende con aperture a sinistra, inviti alla lettura dei discorsi di Nenni e Berlinguer, voto agli immigrati, elogio dell’autore di Gomorra… Non le sembra che il salotto buono dell’economia abbia conquistato il presidente della Camera?

Quando si hanno grandi ambizioni, in politica, bisogna avere gruppi di interesse o blocchi sociali corposi per portarle a buon fine. È evidente che Fini, non potendo al momento puntare sui secondi, cerca di appoggiarsi ai primi, pronunciando parole che vadano nel senso delle loro aspettative o richieste. E, sapendo di non poter suscitare grandi simpatie nell’elettorato di destra, con le sue attuali posizioni, cerca di legittimarsi come leader governativo di compromesso presso i suoi supposti avversari.

La Lega ormai impazza anche in Toscana ed Emilia. Il popolo di destra vota Carroccio e boccia Fini. Per certi versi la Lega ha qualcosa di quella terza via che s’auspicava?

Non dispiace a un certo numero di elettori di sinistra per le sue aperture sociali, che la staccano dal cliché dei partiti borghesi, e a destra attrae per le chiusure all’immigrazione, i discorsi “legge e ordine” e l’immagine di “partito del fare”. Il mix, per ora, funziona.

Ha visto la foto di Fini a fianco di Montezemolo? Lo sa che qualcuno già parla di quadrunvirato Fini-Casini-Montezemolo-Rutelli?

Sì, ma in un pollaio con troppi galli le baruffe sono certe.

Non le sembra che oggi Berlusconi risponda meglio di Fini al percorso che si sperava un tempo per la destra?

Direi piuttosto che, meglio di Fini, parla il linguaggio di certa destra, conservatrice e liberale, ma vicina, nel suo stile, alla mentalità e alle aspettative di quell“uomo qualunque” che in politica continua a contare nel momento in cui si aprono le urne elettorali.

L’eroe che salvò Padova dalle bombe

Un mese fa l’Anpi di Roma ha denunciato per «apologia di fascismo» un gruppo di persone che al sacrario della Rsi di Nettuno hanno deposto una corona di alloro con un nastro tricolore e la scritta «il mio onore si chiama fedeltà». In precedenza esponenti della Cgil, del Pd e, ahinoi, anche di An «vicini a Fini» (così si è letto), hanno protestato perché nel programma di storia del quinto anno dei nuovi licei dedicato allo «studio dell’epoca contemporanea» si parla di formazione e tappe dell’Italia repubblicana» ma non si citano esplicitamente le parole «resistenza» e/o «movimento di liberazione»: non che il loro studio sia stato escluso, ci mancherebbe, ma non si citano esplicitamente i nomi. «Volevo contribuire ad una sorta di pacificazione lessicale» ha affermato il professor Sergio Belardinelli, docente di sociologia della cultura dell’ateneo di Bologna. Buona intenzione, però subito rimangiata.

Dunque, le cose stanno purtroppo ancora così e dopo le fatidiche affermazioni sul «Male assoluto» dell’attuale presidente della Camera e della sua scoperta che «l’antifascismo è un valore», appena un anno e mezzo fa, le cose a 65 anni dalla fine della guerra mondiale e civile diventano sempre più difficili e complicate. La «pacificazione nazionale» non avverrà mai se i «buoni» continueranno ancora e sempre ad essere da una parte ed i «cattivi» dall’altra per principio e per definizione. Ancora oggi i «militari combattenti» superstiti della Rsi che non si macchiarono di alcun crimine specifico se non quello di essere stati «dalla parte sbagliata», sono privi di una minima pensione e non hanno mai visto restituite le medaglie che si meritarono per i loro atti di valore nel 1943-1945 (una proposta di legge in questo senso non è stata mai portata avanti, ovviamente, per le proteste dell’Anpi ecc. ecc.).

Furono dunque dei «traditori», dei «servi dei nazisti», dei «responsabili morali dell’olocausto». Una condanna generica. Vediamo di approfondire la questione parlando specificatamente di una forza armata, l’Aviazione Repubblicana, e poi pensiamoci un attimo su.

Molte lacrime si sono sparse sul recente libro dal romantico titolo Le ali del mattino di Thomas Childers (Mursia) che narra la tragica vicenda dei coraggiosi membri dell’equipaggio dell’ultimo bombardiere americano che ebbe la disgrazia di essere abbattuto sulla Germania il 21 aprile 1945: evidentemente nei successivi 15 giorni, sino alla fine della guerra, non ne furono colpiti altri a dimostrazione che gli aerei alleati potevano indisturbati spargere morte sulle città tedesche ormai sostanzialmente indifese. Si trattò di sfortunati eroi che combattevano per la democrazia. Veniamo ad altri aviatori. Ad esempio, Giovanni Battista Boscutti, pilota dell’Aeronautica Repubblicana, abbattuto l’11 marzo 1944 mentre con il suo caccia Macchi 205 Veltro cercava di contrastare i bombardieri alleati. La sua squadriglia, l’«Asso di Bastoni» comandata dal capitano Visconti (ucciso dai partigiani a Milano che gli spararono alle spalle dopo il 25 aprile come ha raccontato di recente Giampaolo Pansa), 38 aerei con quelli tedeschi, si alzò contro 300 fortezze volanti giunte per bombardare a tappeto Padova: uno contro dieci dunque, quasi certi di morire. La sua storia, e la storia del ritrovamento dei resti suoi e del suo velivolo, sono raccontate da Madina Fabretto in Con tutte le mie forze con allegato un CD del gruppo musicale «La Compagnia dell’Anello» che ha composto una canzone in suo ricordo e onore (il volume è stato sponsorizzato dalla Provincia di Padova, alla quale si può richiedere). Ebbene: Boscutti fu un lacché di Hitler, un traditore della Patria, un rappresentante nel suo piccolo del «Male assoluto», oppure un vero eroe, disinteressato e misconosciuto, che si sacrificò consapevolmente, come quasi tutti i piloti da caccia della Rsi, per contrastare i bombardamenti terroristici alleati sulle città italiane del Nord, certo non obiettivi militari, che fecero decine di migliaia di morti? Nessuno osa raccontare la loro storia e quella del capo di Stato Maggiore della AR, Beppe Baylon, asso della guerra di Spagna, che ai suoi superiori chiese soltanto aerei da caccia per contrastare gli attacchi dei Liberators su paesi e città, e non bombardieri per colpire le truppe nemiche.

Cosa furono allora questi militari? Come definirli dopo 65 anni? Come parlarne nei libri scolastici? Come trattare i superstiti? Mi piacerebbe una risposta da parte soprattutto dei politici, in specie quelli sui più alti scranni, che soltanto a parole cercano una «riconciliazione nazionale». E sapere anche se queste affermazioni significano fare dell’esecrato revisionismo revanscista, o magari addirittura apologia di fascismo, per cui venire denunciati e nei cui confronti è necessaria una levata di scudi del nuovo «arco costituzionale» che va dalla sinistra radicale ai finiani.

(di Gianfranco de Turris)

giovedì 22 aprile 2010

Guerri: siamo il luogo dell'individuale ma spesso finiamo nell'individualismo


Giordano Bruno Guerri, esiste ancora la Destra o la tradizionale divisione della politica non ha più senso?
«Sì, la Destra c'è e ha ancora senso parlarne e distinguerla dalla Sinistra».
Eppure questo sembra un momento piuttosto difficile...
«Sì, ma sono convinto che i problemi che stiamo attraversando in Italia siano contingenti. Il pensiero ideale della Destra rimane».
Soltanto problemi contingenti?
«La questione è sempre la stessa: la Destra è il luogo dell'individuo, che è una cosa nobile, ma spesso sfocia nell'individualismo, che invece non è una cosa nobile».
Pensa che ci siano princìpi cardine della Destra. Hanno ancora senso Dio, Patria e Famiglia?
«Sono princìpi che dovrebbero restare nel cuore ma non si tratta di una formula unica e univoca. La Destra è molto di più. Inoltre si può fare a meno di Dio e della Famiglia ma non della Patria, che è il cemento di una società e che richiama direttamente l'idea di Popolo. In ogni caso la Destra è anche il luogo del dubbio e della libertà: non può essere ancora legata a uno schema arcaico come quello Dio, Patria e Famiglia».
Che ne pensa di Gianfranco Fini? È diventato di Sinistra o riesce meglio degli altri a interpretare il futuro?
«Fini sta facendo quello che io gli consigliavo di fare cinque o anche dieci anni fa. Quando ero direttore dell'Indipendente. A quel tempo lo spronavo ad avere posizioni più aperte nel dibattito politico».
Dunque meglio tardi che mai. Adesso lo promuove?
«Bé, il problema è che in questo momento Fini usa in modo strumentale le cose che dice e che fa. Le lega semplicemente alla contingenza politica e dunque sbaglia».
Il presidente della Camera ha creato una corrente e rimprovera al resto del centrodestra di essere poco democratico e chiuso al confronto. Crede che il Pdl rischi di fare la stessa fine del Pd, cioè divorato dalle divisioni interne?
«Penso che la tenuta di Berlusconi sia infinitamente superiore rispetto a ogni capo che ha avuto la Sinistra. Mi sembra davvero difficile fare un parallelo di questo tipo».
Dunque finché c'è il Cavaliere, il Pdl e l'intero centrodestra andranno avanti tranquilli...
«Tranquilli direi di no ma finché il leader sarà Berlusconi il Pdl reggerà e continuerà per la sua strada».
Mi dice una cosa di Destra?
«Meno Stato e più individuo. Questa è certamente una cosa di Destra. Valeva prima e vale ancora adesso. Almeno per la Destra che piace a me».

Buttafuoco: solo l'islam applica veramente i valori tradizionali


Pietrangelo Buttafuoco esiste ancora la Destra?
«Esiste ma bisogna starsene alla larga se si viene da quella storia. Oggi la Destra è diventata solamente una pallida e patetica caricatura di quella che era un tempo la vera Destra».
Quali sono allora i veri valori della Destra?
«Bé, basta pensare a che giorno è oggi. Lei mi chiama nella data in cui chi si riconosce nei valori della Destra dovrebbe celebrare il Natale di Roma. Eppure, nonostante il Governo sia di destra, non c'è una benemerita mentula delle istituzioni italiane che si sia ricordata di questo anniversario. Accade perché l'Italia non riesce a liberarsi dalle soggezioni culturali nei confronti della sinistra e precipita in una marmellata dove perfino le bagarre politiche tra Fini e Berlusconi sembrano delle grandi novità culturali e invece sono solo dei piccoli traccheggi».
Dio, Patria e Famiglia dove sono finiti?
«Solo la comunità musulmana riesce ancora a riconoscerli come valori».
Quindi i musulmani sono meglio degli uomini di Destra?
«Sono per natura uomini di Destra e posso assicurare che loro sanno interpretare i valori di Dio, famiglia e patria meglio di qualche famosa donna politica italiana più avvezza al botox e minigonna che a difendere l'essere di Destra».
Allora fa bene Fini a farli integrare?
«Fini ci vede lungo. Sa che quando si saranno integrati saranno i veri difensori del pensiero di Destra. Più di quello che fanno molti italiani. Il suo problema, però, sarà un altro: è davvero convinto di quello che dice dato che sostiene cose che un tempo osteggiava e che invece dicevano i suoi oppositori?»
Ovvero?
«Fini, all'interno del Msi, era sempre contrario alle posizioni che io, Umberto Croppi, Flavia Perina e Fabio Granata sostenevamo. E oggi che cosa sta accadendo? Loro dicevano le stesse cose che oggi dice lui con la differenza che al tempo non c'era ancora la rivoluzione berlusconiana che ha tolto il tappo ad una serie di chiusure ideologiche».
Così Berlusconi che ha sdoganato la Destra ora si becca i pesci in faccia da Fini.
«Parlare ancora di sdoganamenti ormai non ha più senso. Se si pensa poi che Fini è la star di Fabio Fazio allora si capisce come siano cambiati i tempi. La cosa da capire è invece come il premier, finita la fase asfissiante del berlusconismo e antiberlusconismo, intenderà trarre vantaggi da tutta questa bagarre».
Ma il Pdl è destinato a fare la fine del Pd, lacerato dal suo interno?
«Potrebbe fare una fine peggiore di quella del Pd nel momento in cui dovesse separarsi dal destino del suo fondatore».
Quindi esiste solo perché c'è Berlusconi?
«Non ci sono dubbi».
Le piacerebbe concludere dicendomi una cosa di destra?
«Oggi è il Natale di Roma».

mercoledì 21 aprile 2010

Il razzismo radical chic è come Gomorra


Egregio Adriano Sofri, ho letto il suo editoriale di ieri su la Repubblica e mi ha sorpreso la violenza verbale nei confronti di Berlusconi. Lo definisce lupo spelacchiato, lo accusa di non pensare, gli attribuisce una visione cosmetica del mondo, lo tira per i capelli, gioca perfino tra lezioni e lozioni. E gli contrappone, in un corpo a corpo che ricorda gli anni di piombo, l’immagine e la persona di Saviano, l’autore di Gomorra. Giochino facile e un po’ demagogico, lievemente fascista - e glielo dice uno che di fascismo se ne intende - perché oppone la gagliarda giovinezza del «lupacchiotto» Saviano all’età grave e assai provata del «lupo spelacchiato» Silvio. Fu Pasolini - ricorda? - a vedere in lei e in Lotta continua di cui lei era leader, qualcosa che gli ricordava il primo squadrismo.

Curiosamente lei adotta a rovescio la stessa distinzione manichea usata da Berlusconi nel dividere le forze del Bene dalle forze del Male, opponendo, in una forma di implicito razzismo, l’antropologia di Saviano all’antropologia, anzi all’antropofagia, di Berlusconi. Deprecabile manicheismo in ambo i casi, con l’attenuante per Berlusconi che lo ha usato nella guerra politica ed elettorale, mentre lei, Sofri, è un fine intellettuale e lo usa in tempo di pace, fuori dalle urne. Il tema è noto. Berlusconi ha criticato - com’è suo diritto e lo ha ben ricordato la figlia Marina - la riduzione del nostro Paese alla criminalità organizzata; è un’immagine falsa che nuoce all’Italia. La malavita è una delle facce dell’Italia, ma non si identifica con l’Italia. E invece da qualche tempo si tende a vendere, soprattutto fuori d’Italia, l’immagine di un Paese dominato, anzi diciamo pure, governato dalla malavita. Salvo una minoranza di antitaliani puri, puliti e pensanti.

Prima che lo dicesse Berlusconi, in un mio libro di un anno fa avevo criticato anch’io che l’Italia fosse rappresentata con un solo film a Hollywood, il Gomorra tratto da Saviano. E avevo scritto e detto a Napoli che quel film andava proiettato nelle scuole del napoletano e del casertano, a scopo educativo; ma non poteva diventare l’unica sintesi dell’Italia da esportare nella principale vetrina del mondo. È chiaro anche ai cretini che non facevo solo una questione d’immagine, di finzione o di cosmesi. Ma contestavo una falsa rappresentazione dell’Italia, che non corrisponde alla realtà e nuoce agli italiani, soprattutto a coloro che lavorano e studiano all’estero. Invece lei ha ridotto la tesi di Berlusconi a una pura questione di ipocrisia facciale, dicendo che il premier avrebbe esortato Saviano a dire il falso. È vero proprio il contrario, ha respinto la falsa riduzione dell’Italia alla criminalità. Anche per lei Berlusconi ha censurato Saviano e la verità.

Ora si dà il caso che Saviano abbia pubblicato il suo Gomorra proprio da Mondadori, riconducibile a Berlusconi. Non mi pare che Berlusconi abbia soppresso il libro o esortato a boicottarlo. Ha solo criticato l’uso improprio di una piaga verissima del nostro Paese. Non è suo diritto divergere dall’opinione di Saviano o è vilipendio della Repubblica, intesa come quotidiano? Mi pare legittimo dire che la malavita alberga dentro l’Italia a partire dal sud, ma mi pare falso e masochista dire che l’Italia sia dentro la malavita. Non è vero e non è giusto per la grande maggioranza degli italiani. Berlusconi non ha peraltro invocato censure e killeraggi, come accadeva negli anni ’70, ma ha dissentito da una tesi, e lo ha fatto alla luce del sole.

Ammiro Saviano, ha scritto un libro coraggioso e forte, e perciò vive pericolosamente. E anche se non sopporto il suo uso da madonna pellegrina nei manifesti, in tv, in politica e nei giornali, a cui peraltro lui si concede, so distinguere la buccia sgradevole dalla polpa meritevole.

Ma lei, Sofri, si rivela molto più simile all’icona di Berlusconi che lei stesso dipinge e dileggia, quando si sofferma sull’immagine e sulle parole di Berlusconi e non sui fatti e sulle azioni di governo del medesimo: ma è qui che va giudicato un uomo di governo. Lei può fare tutti i paragoni gobbi con Andreotti, ma non può mistificare la realtà. Il governo Berlusconi ha fatto di più contro la malavita rispetto ai governi precedenti. Ha messo in galera più mafiosi e camorristi, ha sgominato più bande, ha minato i racket della monnezza e fermato appalti alla malavita, ha confiscato beni rilevanti. Da una parte ci sono gli ideologi dell’antimafia, dall’altra ci sono arresti, espropri, confische. Se tutto questo per lei non conta, allora è lei a ritenere che conti più la parola, la vetrina, il pregiudizio ideologico, la retorica che la realtà dei fatti. E questo non è un caso, perché lei proviene da un radicalismo che opponeva l’immagine di un mondo migliore alla realtà della storia, che ha sempre anteposto l’utopia ai fatti, che ha sempre preferito i parolai e i professionisti dell’antimafia a chi sul serio l’ha combattuta e magari è morto.

E tra questi ci sono molti uomini «di destra», come lei stesso cita. E i Borsellino che lei ricorda erano della stessa pasta dei Calabresi, che lei non ricorda: ambedue furono uccisi perché servitori dello Stato da criminali comuni o da criminali ideologici (sul piano degli effetti si equivalgono; sul piano delle intenzioni no, riconosco ai secondi un perverso idealismo). Se il paragone non fosse irriverente, direi che la stessa cosa accade con Ratzinger: lui che più di ogni altro papa ha denunciato e condannato i pedofili, e ha sofferto di queste ferite della Chiesa fino alle lacrime, passa per il papa della pedofilia. Così il governo che più ha colpito la malavita passa per un governo mafioso. Perché l’immagine che vi siete costruiti prevale sulla realtà.

Penserà che ho difeso il premier perché scrivo sul Giornale di Berlusconi. No, Sofri, scrivo sul Giornale perché penso queste cose. E converrà con me che è più coerente chi scrive sul Giornale perché preferisce Berlusconi ai suoi avversari interni ed esterni, rispetto a chi, come lei, scriveva su una rivista «di Berlusconi», Panorama - senza peraltro subire censure neanche lei, mi pare - ma poi lo detestava intimamente. E ora che non ci scrive più lo detesta in questo modo plateale e un po’ volgare. Ma siamo abituati allo snobismo incivile, versione aggiornata del vecchio radicalismo chic. Sapendola sprezzante, confido in una sua non risposta. A differenza sua, io invece, le esprimo la mia stima per la sua qualità di scrittura, di lettura e di intelligenza, unita al mio dissenso e al mio civilissimo disprezzo per la sua cecità ideologica e il suo torvo manicheismo che in altra epoca dettero, come lei ben sa, atroci frutti.

(di Marcello Veneziani)

martedì 20 aprile 2010

Fini? Un opportunista senza più opportunità


È stato il primo a parlare di una destra «fuori dal tunnel del fascismo», e per questo venne espulso dal Msi. Marco Tarchi, oggi docente all’università di Firenze, è stato l’animatore della stagione dei Campi Hobbit e di apertura del neofascismo tra la fine degli anni 70 e metà degli 80 che va sotto il nome di Nuova destra. E che ha raccontato nel suo ultimo La rivoluzione impossibile edito da Vallecchi, dove raccoglie i documenti di quegli anni. E ne racconta la «rottura» vista con sospetto a sinistra, dove veniva liquidata come l’ennesimo travestimento del fascista, e osteggiata e poi stroncata a destra. Il giovane Fini, pupillo di Rauti, era fra quelli che guardavano con diffidenza al potenziale eretico di chi chiedeva il superamento dei recinti di destra e sinistra. Si arena là la revisione proposta dalla Nuova destra - la messa in crisi del «virilismo» e del mito della forza del fascismo, per dirne una - e, secondo Tarchi, non fa eredi nelle destre italiane, neanche quelle più presentabili raccolte intorno alla fondazione FareFuturo. Neanche nel Fini politicamente corretto di questi anni.

Professor Tarchi, oggi Fini è costretto a smarcarsi da Berlusconi, ma anche costretto a restarne compagno di partito. Se le sembra così, perché?

Perché una sua scissione verrebbe interpretata come l’esito di un conflitto personalistico da buona parte degli elettori del Pdl, che al di là di un continuo controcanto rispetto al presidente del Consiglio e di alcune prese di posizione lontane dalla cultura e della mentalità dell’elettore di destra, non hanno percepito sin qui nessun abbozzo di un credibile programma e/o progetto politico condivisibile.FareFuturoWebMagazine avverte che Fini è «potente fra la gente ».

Il professor Campi lo esorta a fare due passi avanti. Le sembra uno scenario possibile?

No. Sono affermazioni che, in linea con una tendenza che ha caratterizzato FareFuturo fin dall’inizio, mirano solo a impressionare con effetti speciali. Fini, semmai, riscontra acute simpatie a sinistra, ma solo in funzione antiberlusconiana. Se Berlusconi uscisse di scena, su quel terreno non capitalizzerebbe quasi nessun consenso.

Lei è stato tra i primi del Msi a parlare della «necessità di uscire fuori dal tunnel del fascismo». Non è quello che prova a fare l’ex leader di An?

Se vogliamo insistere nell’analogia, quello delle nostalgie era, per i neofascisti, un tunnel simile a quello delle metropolitane: c’erano varie vie di uscita. A destra, a sinistra, percorrendo lunghi tratti nel ripensamento critico, prendendo scorciatoie opportunistiche e insincere a scopo solo tattico. La mia strada e quella di Fini sono state, e sono, opposte. E dieci anni dopo che io avevo pronunciato la frase che lei cita, Fini annunciava il prossimo avvento del «fascismo de il Duemila» con gli stessi toni con cui, un paio d’anni fa, si è detto certo che i fascisti avevano scelto la parte sbagliata. L’opportunismo per un politico è una dote essenziale; per chi si occupa di idee, è un comportamento indecente.

Marcello Veneziani, altro intellettuale formatosi negli anni della Nuova destra, sostiene che il leader di An non ha coltivato i temi della destra, lasciando scoperto tutto un fianco del Pdl, latitando nel contrasto con la Lega e così facendo fuggire gli elettori di questa parte. «Uno speaker buono per la tv, non un leader di governo», condivide?

Sì. Sebbene con Veneziani mi sia spesso trovato in disaccordo. Peraltro, fino a pochi anni fa, Fini criticava Berlusconi da destra, agitando tematiche nazionaliste e rivendicando un presidenzialismo statalista. Si è accorto che non faceva breccia e ha indossato gli abiti del moderato aperto ad istanze progressiste. Per cercare dagli avversari quella legittimazione a futuro leader di un governo pacificatore delle tensioni che il centrodestra non gli avrebbe riconosciuto.

Il pezzo ribelle di An e il Pd potrebbero convergere sulla difesa dell’unità del paese e della costituzione dal presidenzialismo senza contrappesi. La convergenzaè paradossale: ciascuno arriva su temi non tradizionalmente propri (la sinistra e l’unità nazionale, la destra e la difesa del parlamento). Qual è il suo punto di vista su questo esito?

Sarebbe catastrofico, elettoralmente, per entrambi. Un Fini alleato di fatto del Pd si porterebbe dietro, a stento, una piccola pattuglia di parlamentari e rischierebbe di non raggiungere il quorum necessario per superare la soglia di sbarramento alle successive consultazioni. A meno che un certo numero di elettori del Pd non decidesse di fare quanto hanno fatto molti ex elettori di Prc, PdCI e Verdi nel 2008. E un connubio Bersani-Fini non dispiacerebbe certo né a Di Pietro né a Grillo.

Lei, anche nel suo ultimo libro, sottilinea che l’attuale destra di governo non è l'erede di quella «rivoluzione» che la sua Nuova destra sognava. I finiani rivendicano di aver raccolto «l’eredità possibile» di quella esperienza. A suo parere c’è oggi, da Casapound al palazzo, un luogo un movimento o una persona che incarni quelle idee? Oppure quella di Nd era veramente una «rivoluzione impossibile»?

No. Chiunque legga imolti testi che l’esperienza della Nuova Destra ha prodotto, sa che quel progetto meta politico puntava ad un solve et coagula che non si è realizzato, riunendo delusi di destra e di sinistra attorno a temi precisi: valorizzazione delle specificità culturali dei popoli in opposizione all’omogeneizzazione culturale cosmopolita, rifiuto del modello culturale occidentalista, opposizione al consumismo, all’individualismo e al materialismo spicciolo, differenzialismo antirazzista, multiculturalismo a base intercomunitaria, lotta contro la «colonizzazione sottile» dettata dall’americanismo, rifiuto dell’egemonia unipolare statunitense e della Nato.

Le pare che ci siano, a destra e dintorni, soggetti politici che sostengono queste idee?

Posso proficuamente dialogare su molti di questi temi con Danilo Zolo o con Franco Cardini, ma su altri terreni non c’è possibilità di proficui confronti. La politica ha divorziato dalle idee, e non da oggi.

Non vogliamo i colonnelli


Per comprendere quali siano i rapporti tra il generale, Gianfranco Fini, e i suoi colonnelli è necessario tenere a mente due cose: la prima è che sono cresciuti quasi tutti nella militanza romana del Msi e si conoscono benissimo, la seconda è che sin da ragazzi Fini era il capo e loro i diadochi. Da sempre e senza eccezioni, legati l’uno agli altri da un patto generazionale e da un vincolo di solidarietà e sostegno reciproci. Fini era il capo indiscusso che garantiva l’equilibrio tra le correnti, ma senza le correnti non ci sarebbe stato un capo così come senza il capo le correnti sarebbero finite con il combattersi e l’annullarsi reciprocamente.

Questa profondissima empatia spiega la ragione per la quale la classe dirigente di An non si è mai rinnovata né modificata. Persino l’accentratissimo universo berlusconiano, nei suoi oltre quindici anni di storia, ha vissuto profonde modificazioni: oggi sono pochissimi i dirigenti sopravvissuti alla discesa in campo del 1994. Così non è stato per Alleanza nazionale e per i suoi colonnelli che sono lo stesso gruppo dirigente che alla fine degli anni Ottanta si condensò attorno a Fini sostenendolo nella definitiva presa del potere ai danni della vecchia classe dirigente missina: “I ragazzi di Sorrento”. Certo sono finiti nel sottoscala dei ricordi Publio Fiori, Domenico Fisichella, Gustavo Selva. Ma non è forse vero che non erano missini? Erano forse i coetanei di Fini? No. Gli unici a essere stati allontanati, nel corso degli anni, sono stati quegli uomini che paradossalmente rappresentavano le componenti culturali più nuove e contaminanti che si allearono con il Movimento sociale per costruire Alleanza nazionale.

Democristiani di destra nel tempo dimostratisi incapaci di costruire un proprio recinto di potere dentro An e per questo spazzati via dalla violenta contesa che ha sempre caratterizzato la vita del partito, tra le correnti e i tre colonnelli che le guidavano. Racconta Gustavo Selva: “Erano grandi le potenzialità di trasformare An in una forza politica aperta, ma quando il partito è tornato al governo nel 2001, ha prevalso l’autoreferenzialità e si è richiuso tutto”. Da quando ha assunto la guida del Msi, per poi traghettarlo in An e metterlo alla prova del governo, Gianfranco Fini ha scelto di triangolare alternativamente con le correnti, privilegiandone ora una ora l’altra con l’obiettivo di gestirne la conflittualità e addomesticarne le ambizioni. Ne ha fatto uno strumento di potere che si è tuttavia lentamente trasformato in una trappola per lo stesso leader: Fini si è scoperto schiacciato e bloccato dal proprio ruolo di eterno mediatore. Ha detto una volta Maurizio Gasparri, l’amico della giovinezza col quale il leader non ha più il rapporto di un tempo: “Vogliamo dire la verità? Venti anni fa abbiamo fatto la scelta giusta scegliendo Gianfranco e non credo che con altri le cose sarebbero andate meglio. Certo è intervenuta una certa accettazione reciproca dei ruoli. Un po’ come in famiglia: il papà e la mamma uno non se li sceglie”.

Una condizione politica e psicologica, quella di Fini, confermata anche dagli uomini oggi più vicini al presidente della Camera, il quale smentisce la vulgata che lo ha sempre descritto come il temibile dominus di An e che, al contrario, spiega come sia stato possibile per il capo di An aver vissuto lo scioglimento del proprio partito quasi come una liberazione.
Il leader non ne poteva più di quegli umori arcaici che hanno reso divertenti le cronache delle riunioni di An, drammatiche ma mai del tutto serie, piacevoli da raccontare, grasse ma nel contempo effimere, piene di battute sfacciate e di aneddoti da curva sud, di tipi umani, di macchiette, di colore. Certo vi era immerso fino al giorno prima, ma per ragioni tattiche, forse per calcolo o per sincera maturazione, a un certo punto Fini ha cominciato a pensare che non fossero certo queste le riunioni di una classe dirigente di destra, spendibile nell’amministrazione moderna ed europea; non sono mai state di questa risma le riunioni vincenti e noiose dei gollisti francesi dei tempi buoni, o quelle dei conservatori inglesi come il giovane David Cameron.

E’ vero, i cronisti italiani non avrebbero saputo che cosa scrivere se nei congressi di An non ci fosse stata la simpatia da osteria dei Gramazio, le smorfie e gli intercalare dei Nino Strano o le lacrime del novantenne della Garbatella. Ma Fini ha detto basta a questo agitato intrattenimento di maschere, al romanticismo della platealità di cui la destra italiana è ancora prigioniera, agli allucinogeni del passato, alla tipica droga di cui fanno uso i vecchi. In età decisamente matura questo leader cerca un futuro per sé e per la destra, sa che nulla è immobile come un mare increspato, come un eterno svolazzo di bandiere, non vuole più ubriacarsi di identità. E dunque nel progetto di formare una classe dirigente bipolarista, sarkozysta, noiosa e perbene, anche il partito di Berlusconi, con tutti i suoi difetti, non solo non è un errore ma a un certo punto per Fini diventa quasi un destino. L’ex leader di An è entrato nel Pdl decidendo di non costituire An in una corrente interna al nuovo soggetto, il cofondatore lo ha spiegato chiaramente nel proprio discorso al congresso dello scioglimento.

Fini ha usato parole che rivelano il disprezzo maturato negli anni per il correntismo di Alleanza nazionale: “[Il Pdl deve essere] un contenitore ampio, arioso, plurale, inclusivo, interclassista, aperto, certamente unitario […] ma che certamente mai e poi mai dovrà pensarsi e organizzarsi secondo la degenerazione della democrazia che è la correntocrazia […] nessuno pensi all’interno del Pdl di costruire la corrente di An […]”. L’ex leader ha lasciato liberi i colonnelli e il corpo della creatura che aveva guidato per vent’anni. Lo ha fatto, sì, perché ha deciso di investire nel nuovo progetto politico, ma lo ha fatto soprattutto perché sempre di più era arrivato a considerare i propri diadochi e la nomenclatura di Alleanza nazionale alla stregua di una zavorra che gli impediva di spiccare il volo. Un esempio, nonché forse l’origine lontana del divorzio, è quanto accadde nel luglio del 2005, ai tempi del referendum sulla legge 40. In quell’occasione Alleanza nazionale si è divisa aprendo una profonda disputa intorno al referendum sulla fecondazione medicalmente assistita. Fini è in un primo momento a favore dell’interdetto contemplato nella legge 40 così come i suoi colonnelli, poi tuttavia studia la faccenda e nel corso dei mesi cambia idea lì dove la dirigenza di An è rimasta sulle posizioni originarie. L’immagine è questa: Gianfranco Fini solo, nella hall dell’hotel Ergife di Roma dopo la sua relazione, mentre le correnti sono riunite in conclave per decidere come demolire la sua posizione. E’ l’immagine del leader solo, che decide e aspetta, che combatte contro il suo stesso partito. Che dice gelido: “Se pensate che la mia posizione sia un tradimento dei valori, allora non abbiamo più nulla da dirci!”. Che attacca le correnti a sciabola sguainata, le definisce senza troppi complimenti “una metastasi”. Che al bar li chiama, sospirando, “questi del partito”.

Sull’altro piatto della bilancia, poi, l’almanacco di recriminazioni dei cuori infranti: “Fini ha scelto da solo – dicono – non ci ha mai avvertito di nulla. Neanche quando è andato in Israele”. Per non dire dei fondatori amareggiati, di Gaetano Rebecchini che nel 1994 partecipò alla gestazione di An con una spruzzata di cattolicesimo tradizionalista apostolico romano, e che in quei giorni sbatteva la porta: “Vado via”. Un malcontento condiviso da quasi tutto il corpo organizzato del partito. E’ il momento in cui Fini capisce quanto sia in realtà lontano dai propri ex fedelissimi e dal perimetro del loro potere. Nella circostanza, siamo nel luglio del 2005, l’80 percento del partito si esprime contro la svolta laica di Fini, che voterà come il centrosinistra. Il capo del partito comincia a maturare una riflessione profonda sui legami politici e culturali tra sé, i colonnelli e il partito, riflessione che lo porterà a un freddo ma progressivo distacco dai diadochi che precipita proprio in quei giorni con un episodio passato agli annali del giornalismo come “l’episodio della Caffetteria”.

Nicola Imberti è un giovanissimo e precario cronista politico del Tempo di Roma quando si trova per circostanze fortuite a sorseggiare un caffè alla Caffetteria, un bar di Piazza di Pietra, dietro al Pantheon, a due passi da Montecitorio. E’ a pochi centimetri di distanza da Altero Matteoli, Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa e non riesce a credere alle proprie orecchie. I tre colonnelli si fanno ascoltare mentre si consultano, senza levità, sul presunto rincretinimento del proprio capo, vittima di attacchi depressivi e mutevolezze caratteriali. Diceva La Russa di Fini: “E’ malato. Non vedete com’è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace”. Replicava Matteoli: “La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi ma scuotiamolo”. A cosa si riferissero non è chiaro. Certo era un periodo forse difficile per il capo. Covava idee poco conciliabili con quelle dei colonnelli e gli si attribuiva un flirt con una ministra di FI. Imberti torna in redazione e compila uno scoop che, a 28 anni, gli varrà l’assunzione al Tempo, ma che innesca immediatamente un terremoto dentro An. Letto l’articolo, il leader di An sussurra a chi gli era vicino: “Per coerenza dovrebbero dimettersi”. Così Fini processa i propri luogotenenti, azzera tutti gli incarichi nel partito e fa poi in modo che Gasparri sia sostituito dal più fidato Mario Landolfi al ministero delle Comunicazioni.

L’episodio della Caffetteria vissuto come un tradimento e la reazione muscolare di Fini hanno lasciato degli strascichi di rancore profondo destinati a venire fuori di quando in quando ancora oggi. Da quel momento i rapporti non sono stati più gli stessi: lo scandaluccio delle confessioni di fronte a una tazzina di caffè ne ha rivelato la sostanza e i limiti, tanto che il successivo e consensuale divorzio del capo dai dirigenti, siglato all’indomani della vittoria alle politiche del 2008, non stupisce più di tanto. Fini prende coscienza di un fatto: il partito di cui pure è per statuto il satrapo irremovibile non gli assomiglia per niente. Alleanza nazionale soffre ancora del retaggio dei compromessi culturali che si dovettero fare a Fiuggi nell’abbandonare la fiamma e la tradizione avita. Fini ha guidato il cambiamento e lo ha fatto da leader, cioè perseguendo la strada della spasmodica mediazione, talvolta nascondendo la verità e persino le proprie convinzioni più profonde. Negandole e contraddicendole di quando in quando. Ciò è stato comprensibile e giustificabile nel periodo della transizione, ma la forse insoddisfacente capacità di elaborazione culturale da parte della dirigenza postmissina nel corso degli anni è stata irragionevole e inspiegabile. Fini non ha avuto il tempo, la voglia o la capacità di nutrire culturalmente la sua creatura dirimendo le aporie intellettuali che l’attraversavano e quando si è trovato ad averne bisogno, ha scoperto in An un mostro che non aveva più nulla in comune con lui, con le sue aspirazioni e la sua – vera o presunta – maturazione.

Fini ha preferito, coccolato dai colonnelli, una lunga navigazione a vista che nel corso degli anni lo ha portato ad attorcigliarsi nei fili dei compromessi di potere correntizio che, a posteriori, ha imputato per intero all’ambizione personale dei propri diadochi. Così, alla vigilia dell’ingresso nel Pdl, dato uno sguardo al rottame che si lasciava alle spalle, il leader di An è finito, come Mussolini, a prendersela con il materiale umano che aveva a disposizione. Questa analisi risulta evidente nelle parole di Fabio Granata. Il deputato finiano, intervistato dallo scrittore Andrea Camilleri, ha spiegato così, attaccando i colonnelli “berlusconizzati”, l’ingresso di An nel Pdl. Sono parole che, assolvendo Fini, per la verità non rendono giustizia ai colonnelli: “Quando con Fini abbiamo deciso di affrontare anche l’ultima fase, quella della confluenza di An nel Pdl, abbiamo ragionato a partire da una considerazione fondamentale: non avevamo più una classe politica adeguata a reggere la sfida, in termini di identità e prospettiva, che ci eravamo posti con la nascita di Alleanza nazionale. In altre parole: i berlusconiani erano già dentro casa nostra; noi abbiamo sciolto An perché An era già berlusconizzata al cento percento. Abbiamo dunque sciolto un equivoco”.
Il vecchio Msi, come ha scritto Alessandro Giuli (“Il passo delle oche”, Einaudi, 2007), era un partito a basso tasso di laicità, generalmente nazional-conservatore, allineato sulle posizioni del Vaticano in materia di divorzio e aborto. In dodici anni di vita Alleanza nazionale non si era mai posta il problema di tornare sull’argomento. Ciò, nel corso del tempo, ha ingarbugliato l’identità di An rendendola un pasticcio che Pietrangelo Buttafuoco ha definito ironicamente “pollaio dei valori”.

Non che Fini non lo sapesse, ma quando ha deciso di mettere un po’ di ordine era forse troppo tardi e la chiamata storica del Pdl era già arrivata marcando una distanza troppo profonda tra lui, i colonnelli e il partito. Non fosse stato col Pdl, Fini avrebbe comunque escogitato un sistema per librarsi in volo e scrollarsi di dosso quella che considerava la polvere aennina: sarebbe stato il progetto di Alleanza per l’Italia, il partito nuovo, immaginato dopo lo scioglimento della Cdl, attraverso il quale mettere in pratica una ouverture verso il blocco moderato, il sistema col quale scaricare il “colonnellume” e i compromessi culturali propri di An dentro i quali Fini si sentiva ormai stretto. Come diceva già nel 2006 Alessandro Campi suggerendo, ma anche interpretando, gli umori di Fini: “An è un partito da rifondare, o del quale decretare il fallimento politico-progettuale e quindi la chiusura. La formulazione può apparire brutale, ma il realismo appartiene al Dna della destra: inutile dunque coltivare illusioni. Meglio affrontare i problemi alla radice cercando di risolverli. A partire da quello di una classe dirigente di partito che, al centro come alla periferia, è ancora oggi composta quasi per intero da personalità che si sono formate nei ranghi del Msi, molte delle quali hanno dato ciò che potevano già all’epoca delle battaglie d’opposizione. L’apertura verso la società civile, il ricambio di energie e di uomini, immaginato una decina di anni fa con la nascita di An, semplicemente non si è realizzato, con i risultati che oggi si vedono”. Un partito, An, cui è sempre mancato un luogo di elaborazione culturale che non fosse periferico o ancillare.

Non è un caso se Fini ne abbia dovuto costruire uno sostanzialmente indipendente dalle dinamiche aennine, FareFuturo, il pensatoio finiano, che ha preso il posto del “forum delle idee”, primo e tardivo tentativo di mettere ordine nel pollaio dei valori. E non è neanche un caso se, quando la forza identitaria del partito gli poteva tornare utile, e cioè nel momento della fusione con Forza Italia, Fini, lungi dal rafforzare i propri legami con An e i colonnelli, li abbia lasciati andare entrambi. Oggi è FareFuturo ad assomigliargli più di qualsiasi altra cosa, è la fondazione-pensatoio ciò di cui il cofondatore del Pdl ha bisogno per riempire di forza culturale le proprie intuizioni politiche.

(di Salvatore Merlo)

Pubblichiamo un estratto del libro “La conversione di Fini” di Salvatore Merlo (Vallecchi, 220 pagine, 16 euro), in libreria dal prossimo 28 aprile.