mercoledì 30 giugno 2010

A Bruxelles poteri occulti contro la Chiesa

Un «colpo di forza» tipico di una «dittatura» che ha usato «metodi violenti» inaccettabili. È ancora sotto shock Julien Ries, direttore del Centro di storia delle religioni dell’Università Cattolica di Lovanio. Considerato uno dei più grandi antropologi al mondo – era ammirato da Claude Lévi-Strauss – è rimasto interdetto dallo stile con cui è stata condotta la perquisizione della polizia nella sede della Conferenza episcopale belga e nella Cattedrale di Malines.

Professor Ries, come giudica quanto avvenuto?

Si è trattato di un attacco alla Chiesa nel suo stesso funzionamento con un’azione da Stato di polizia. Per la maggior parte della gente siamo di fronte ad un atteggiamento dittatoriale. Il Vaticano è intervenuto, il Papa e il cardinale segretario di Stato Bertone hanno detto che si è trattato di un episodio inammissibile. I vescovi sono stati sequestrati per 9 ore: una perquisizione selvaggia! Hanno controllato la Conferenza episcopale come se lì fossero riuniti dei malfattori: si è trattato di un vero e proprio sequestro.

Che significato ha questo attacco, a suo giudizio?

Non conosciamo quello che vi è dietro a questo gesto. Sappiamo che vi sono poteri occulti che attaccano la Chiesa. Quello cui assistiamo è la facciata esterna di questo attacco, appunto una perquisizione selvaggia, avvenuta in una forma che ha sconvolto il Paese. La reazione della popolazione è stata molto forte. La gente comune, credenti e non credenti, hanno reagito dicendo che non è possibile fare una cosa del genere: è qualcosa di dittatoriale! In Belgio abbiamo sempre saputo dell’esistenza di un potere segreto di stampo massonico: vi sono numerose logge e molti pensano che questo gesto venga da lì. Attualmente i media sono in mano a persone che fanno riferimento a questo potere, che da qualche anno attacca sistematicamente la Chiesa e il Pontefice in particolare. Si ricorda di quando la Camera Bassa del Parlamento di Bruxelles votò una dichiarazione di censura delle affermazioni del Papa sul preservativo e l’Aids durante il suo viaggio in Africa? Prima le sue parole vennero travisate, quindi condannate.

Di fronte a questo episodio, come ha reagito il Paese?

Attualmente, dopo le elezioni, siamo senza un governo. Il precedente esecutivo segue gli affari correnti, ma non fa granché e la Chiesa è in balia di questi attacchi. Ma la popolazione parla molto di quanto successo e prende posizione parlandone sui giornali e in strada. Tutti dicono che in Belgio non si è mai visto niente di simile: si è trattato di un’incursione della polizia nella vita privata delle persone. La Chiesa è stata profanata. Personalmente ho ricevuto molte telefonate di solidarietà da parte di tanta gente, anche di non credenti.

È noto che il Belgio vive una situazione di vuoto politico, senza governo dopo le recenti elezioni. Pensa che tale blitz della magistratura abbia approfittato di questo impasse politico?

È possibile, anche se non ho elementi per dire che sia effettivamente così. Stiamo vivendo una crisi politica molto profonda. Non so se in una situazione politica normale qualcosa del genere sarebbe successo. Si è realizzato un attacco verso la vita privata delle persone e quel che è peggio della Chiesa, toccata direttamente come non si vedeva dai tempi del comunismo e di Hitler. Noi in Belgio abbiamo conosciuto il nazismo, non vogliamo avere occasione di viverlo di nuovo.

Il Belgio è un Paese alquanto secolarizzato e politicamente debole. Vede un collegamento tra questi due fatti?

La secolarizzazione da noi è avanzata molto velocemente e ha indebolito la Chiesa, che però continua a funzionare normalmente. Giusto domenica sono stati ordinati 4 preti. Gli ultimi due governi hanno approvato leggi su aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali che hanno fatto crescere di molto la secolarizzazione. E la società al contempo è diventata più debole: rischiamo una perdita di valori, ad esempio in campo familiare visto che si verificano tanti divorzi quanti matrimoni.

(fonte: http://www.avvenire.it/ di Lorenzo Fazzini)

Il caso Papini, ribelle dimenticato


L’irregolarità e l’unicità dei percorsi letterari in Italia non è per niente amata e la sorte degli scrittori che hanno scelto, anche in forme discutibili ed eccessive, un proprio percorso completamente indipendente rispetto alla società letteraria e alle temperie ideologiche dei suoi tempi, è segnata. L’accesso al "canone" letterario per loro è difficile, pena la dimenticanza. Tra i più dimenticati, l’autore di Un uomo finito e Storia di Cristo, due tra i libri più importanti del Primo Novecento italiano, Giovanni Papini.

E a sostenere questo errore tipicamente italiano c’è stato uno scrittore del calibro di Jorge Luis Borges che aveva detto: «Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato». Un sospetto che, in questi anni, ha dimostrato la sua implacabile verità, perché il "ritorno" di Papini è sempre stato rimandato, a differenza di altri "irregolari" che invece hanno suscitato un curioso interesse, come nel caso di Malaparte. Speriamo, ora che arriva, edito nella meritoria collana dei "classici cristiani" di Cantagalli, finalmente in libreria, la ristampa di un libro-cardine nella sua esperienza di scrittore, Sant’Agostino (pagine 254, euro 18,00), che ci si disponga finalmente a riaprire il "caso" Papini, prima dissacratore, ateo, ribelle poi convertito al cristianesimo (nel 1921), in una dimensione tutta sua, quasi controcorrente.

Nell’ampia e importante prefazione al libro Carlo Lapucci, lo inquadra come «uomo di polemica e di critica, con tutti i difetti del polemista sarcastico, orgoglioso e mai soddisfatto, anche se disordinatamente, ha contribuito allo svecchiamento di un’Italia ancora piccola e conformista», ma mette anche in rilievo il segno di un’irrequietezza che diventa «la chiave nella quale va letto oggi Papini: i difetti sono gl’ingredienti di cui è fatta una personalità singolarissima e tutta italiana con l’ansia di trovare, scoprire, distruggere e rinnovare», con due temi che segnano il suo tormento e la sua meditazione: Dio e il Male.

La figura di Sant’Agostino diventa ai suoi occhi una sorta di alter-ego, con il quale confrontarsi proprio su questi due temi. E il Santo d’Ippona diventa decisivo per la sua maturazione, una sorta di inconsapevole inseguimento della sua storia pubblica e interiore che avviene fin dai tempi dell’infanzia e della giovinezza, quando ne sente parlare da una sua zia o quando alla Galleria degli Uffizi vede una piccola tela di Sandro Botticelli, rimanendo affascinato, come sottolinea lui stesso, da quel «singolare colloquio tra la sacra vecchiezza e l’ingenua puerizia dinanzi al gran mare chiaro e deserto».

È la gioventù inoltrata a offrirgli l’incontro risolutivo, attraverso la lettura delle Confessioni. È ancora presto per trovare una corrispondenza piena al nodo metafisico, ma la dimensione umana dell’esperienza di Agostino diventa per lui fondamentale: «Posso dire che prima di tornare a Cristo, Sant’Agostino fu, con Pascal, l’unico scrittore cristiano ch’io leggessi con ammirazione non soltanto intellettuale. E quando mi dibattevo per uscire dalle cantine dell’orgoglio a respirare l’aria divina dell’assoluto, Sant’Agostino mi fu di gran soccorso».

Del resto il giovane Papini, nella sua irrequietezza, si ritrova in una dimensione quasi a specchio rispetto a quella agostiniana, tanto che non ha problemi a scrivere: «Gli somigliavo, si capisce, nel peggio, ma insomma gli somigliavo. E che un uomo a quel modo, così vicino a me nelle debolezze, fosse arrivato a rinascere e a rifarsi mi rincorava».

La biografia esce nel 1929, ma per Papini è una sorta di debito morale, che ha più volte rimandato: «Da un pezzo meditavo di scriver questa vita, ma, preso da un’opera che mi pareva di gran lunga più importante, l’avevo sempre rimandata, senza mai rinunziarvi, finchè la voglia mi ha vinto e mi ha forzato a sciogliere il voto».

Qualcuno potrebbe obiettare che la "vita" di Papini possa sembrare datata, visti gli studi e le ricostruzioni biografiche che del Vescovo di Ippona, sono state fatte: va detto invece che la biografia di Papini stupisce proprio perché pensata da un grande scrittore che ha scelto di raccontare, al di là delle competenze critico-testuali necessarie, ponendosi nella condizione di ogni lettore, che vuole capire il senso dell’esperienza agostiniana. E la sua costante attualità. Così non sceglie né l’aspetto puramente biografico, né quello dell’illustrazione del suo pensiero, bensì segue la necessità di scrivere, «come artista e come cristiano, la storia di un’anima e anche gli accenni alla sua opera immensa non sono altro che assaggi, necessari per illuminare meglio il suo spirito e per dare un’idea meno monca della sua grandezza».

Evitando così il rischio dell’agiografia a tutti i costi, soprattutto nella volontà che è anche la novità sostanziale che anche storicamente rappresenta questa biografia, di non voler celare o soprassedere sugli aspetti negativi della vita del Santo, osservandoli nella prospettiva del percorso di Redenzione. Per un bisogno di verità rispetto alla rappresentazione anche del Male: «Non ho nascosta o velata nessuna delle colpe di Agostino giovane, a differenza di certi panegiristi di buona volontà ma di poco senno, i quali si studiano di ridurre quasi a nulla la peccaminosità dei convertiti e dei santi, non pensando che proprio nell’esser riusciti a risalire dal letamaio alle stelle consiste la loro gloria e si manifesta la potenza della Grazia».

(di Fulvio Panzeri)

Con Mussolini quest’inferno è diventato il nostro paradiso

Lo minaccia con orgoglio, un orgoglio tutto «pontino», quasi per ribadire quel senso di appartenenza che da sempre contraddistingue lui e i suoi libri (Palude, 1995; Il Fasciocomunista, 2003; Canale Mussolini; 2010). Quando Antonio Pennacchi (nato a Latina nel 1950 da una famiglia di coloni arrivati quaggiù per la bonifica dell’Agro, veneto per madre e umbro per padre) ha qualcosa «che non gli va giù», è subito pronto «a scendere in piazza». E non in una piazza qualsiasi, ma Piazza del Popolo (in realtà per la sua protesta lo scrittore preferirebbe l’angolo della piazza con i portici del Municipio), uno dei luoghi storici di Latina (con la Torre Civica, la Fontana della Palla, Piazza della Libertà, Corso Repubblica, il Palazzo delle Poste, Piazzale Bonificatori), la «più grande città di fondazione dell’epoca fascista», nata come Littoria il 30 giugno 1932, più volte candidata (vista l’integrità) a diventare «Patrimonio dell’umanità».
Antonio Pennacchi (tra i grandi favoriti dello Strega 2010) è in qualche modo il simbolo di un mondo dove si intrecciano le storie di Volsci, Romani, Saraceni, Papi vari: tutti più o meno sconfitti (nella loro voglia di bonifica) dalla malaria e dalla zanzara anofele. «Solo Mussolini ci è riuscito - dice -. Grazie a lui ci siamo potuti creare il nostro Paradiso in una terra inospitale e in questo siamo stati dei veri pionieri». E aggiunge: «Il fascismo è stato deleterio per i ceti medi, ma per i poveri una città come Littoria è stata la salvezza».
Questo ex-operaio, laureatosi in lettere «sfruttando un periodo di cassa integrazione», un percorso politico dall’Msi al Pd, un po’ come il personaggio di Accio Benassi protagonista proprio del Fasciocomunista (con la faccia di Elio Germano nel film di Daniele Luchetti Mio fratello è figlio unico, tratto appunto dal romanzo) sembra voler racchiudere nella sua vicenda personale il destino di un mondo, troppo a lungo dimenticato, quello dell’Agro pontino e delle sue palude (infine bonificate). Per lui se Latina (e i suoi quattordici piccoli borghi di fondazione limitrofi) è oggi ancora considerata un laboratorio di architettura (nelle sue strade e nelle sue piazze si intrecciano i nomi di Oriolo Frezzotti, Marcello Piacentini, Duilio Cambellotti, Angiolo Mazzoni) è dunque «merito di Mussolini» (non a caso sulla linea ferroviaria Roma-Littoria venne sperimentata la prima Littorina). Ma, pur non dimenticando (anzi ribadendo più volte) il fattore politico-estetico del progetto Littoria, Pennacchi sembra voler ribadire prima di tutto il lato romantico di questa epopea di migranti (citando Via col vento ma «non dalla parte di Rossella O’Hara» e la guerra di Troia «non dalla parte degli Achei ma piuttosto da quella di Ettore»). Dice: «Contro di noi, contro questa città si è consumata una sorta di damnatio memoriae». Una condanna che alla fine ha fatto dimenticare «le tante storie di immigrati come quella della mia famiglia». Gli stessi che hanno importato qui, «dove non c’era niente», quel che rimaneva del loro universo contadino che avevano appena lasciato. Un mondo che conserva ancora una propria forza visto che, dice Pennacchi, «continuo a pensare in veneto, tifo Roma ma anche Spal». E sempre a proposito di questo intreccio: «In città si parla più romanesco, anche se con molte parole venete, un romanesco legato a quel ceto impiegatizio cresciuto notevolmente durante il dopoguerra». E il veneto delle origini? «Rimane ancora nelle campagne, nelle vecchie generazioni, mia moglie parla ancora il veneto, mentre i miei figli parlano romanesco e italiano. E oltretutto tifano Lazio e non Roma». Una realtà certo unica, ma non poi così tanto: «Siamo unici ma non poi così tanto. La nostra insicurezza è la stessa che provano oggi quelli che lasciano l’Africa per venire a cercare fortuna qui in Italia». Lanciando anche un ponte ideale con quella colonia rumena così importante nella realtà attuale di Latina e dell’Agro Pontino («Sono come noi, le loro radici sono le stesse»).
Proprio in queste contraddizioni, dice lo scrittore, sta forse il mistero di quel «dissesto psicologico tipico degli immigrati», di quell’«incertezza dell’essere che ci porta ad essere anche un po’ mitomani». E anche questo è in fondo motivo d’orgoglio: lo stesso orgoglio che qualche tempo fa, dopo la dimissioni in blocco del consiglio comunale aveva fatto dichiarare a Pennacchi: «Non ci possono trattare così, noi di Latina».
(fonte: www.corriere.it di Stefano Bucci)

No al calcio moderno


Nel mio libro, Il denaro. “Sterco del demonio”, del 1998, fra i vari esempi di come l'eccesso di razionalizzazione economica finisce per distruggere il contenuto dell'oggetto cui viene applicata, portavo, fra gli altri, il calcio. Del resto già nel 1982, con l'introduzione in Italia del "terzo straniero" avevo preconizzato che il calcio, ridotto a puro business, benché resti "il gioco più bello del mondo", sarebbe andato lentamente a morire. Perché il calcio, checché ne pensino i suoi reggitori degli ultimi trent'anni, privi non solo di cultura sportiva ma semplicemente di cultura, prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport è rito. Ed è proprio il rito che è stato distrutto dal denaro.

Così scrivevo nel 1998: “Per un secolo il calcio è stato una grande festa nazional-popolare, interclassista, che si celebrava la domenica, in sostituzione di altre cadute in disuso. Attorno alla partita si coagulavano elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che, al di là del gioco e dello spettacolo, costituivano la vera ragione della passione per il calcio: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone di generazione in generazione, fra gli "anziani" e i giovani del vivaio e della "Primavera". Il business ha emarginato tutti questi elementi a favore di uno spettacolo asettico e buono per tutte le bocche, in particolare per quelle del consumatore televisivo: oggi in Italia e in Europa (cioè dove c'è il centro di questo business) ci sono società con tredici stranieri, altre che mandano in campo fino a otto giocatori di colore, gli atleti cambiano squadra ogni anno, per essere sostituiti da "novità" ritenute più stuzzicanti, o addirittura durante il campionato, non esistono più i giocatori simbolo e persino le maglie, per esigenze degli sponsor, vengono spesso cambiate. Ogni processo di identificazione è diventato impossibile. Nel frattempo la politica degli abbonamenti e dei prezzi ha tolto al calcio da stadio il suo contenuto interclassista: la suburra va dietro le porte e gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse tribune. Ma non è finita. Entro un anno o due il campionato invece di svolgersi la domenica verrà "spalmato" su quattro giorni della settimana".

“Sono scelte dettate da precise e improrogabili leggi di mercato” dicono gli addetti ai lavori (La Stampa, 4/9/97). Giocare in giorni diversi e anche in orari diversi (con buona pace della regolarità della competizione) permette infatti alle pay tv e alle pay per view (e anche questa è una ferita mortale al calcio come "festa di tutti") e alle stesse società di fare affari colossali. Se non ci si è ancora arrivati è per il conflitto con altre ragioni economiche: il Totocalcio non è pronto. Quando ci sarà il Totocalcio online, cioè la possibilità di giocare per telefono o per fax (il che elimina anche il sub-rito collettivo della schedina giocata al bar con gli amici) si darà il via. Tutto molto razionale, molto logico ed “economically correct” ma il risultato è questo: la Festa, il rito domenicale, quello della vigilia, l'identificazione, il simbolismo, il ritrovarsi in modo comunitario, cioè i contenuti sentimentali e sociali del calcio, quanto in esso vi è di concretamente umano, sono stati sacrificati all'astrazione-denaro. Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe diventare come tutto il resto, virtuale. Ad ogni buon conto il calcio va a ridursi a un qualunque spettacolo televisivo, ad una Domenica in da fruirsi solipsisticamente a casa. Perdendo tutti i suoi contenuti specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi svanirà. Così gli apprendisti stregoni avranno ucciso "la gallina dalle uova d'oro" e il razionalismo della forma-denaro avrà realizzato, è il caso di dirlo, l'ennesimo autogol” (Il Denaro. "Sterco del demonio", Marsilio, 1998, p.237).

Qualche anno fa, in una domenica canicolare di giugno, gli ultras, i terribili ultras, i demonizzati ultras, in rappresentanza delle tifoserie di 78 società di A, di B, di C e delle serie minori fecero a Milano, davanti alla sede della Figc, una civilissima manifestazione al grido di “Ridateci il calcio di una volta!”. Ma furono snobbati. Persino la Gazzetta diede la notizia – a me pareva tale – in un corsivetto. E se dal 1982 il calcio da stadio ha perso il 40% degli spettatori non è solo perché è stato trasferito in Rete, ma perché molti ragazzi preferiscono avvicinarsi a sport meno contaminati dal business, che mantengono quei valori che il calcio ha avuto per un secolo, come il rugby, la pallanuoto, l'hockey (alla fine degli Ottanta Berlusconi, grande corruttore anche in questo campo, tentò con l'hockey su ghiaccio lo stesso scherzetto che aveva fatto col Milan: comprò l'intera squadra che quell'anno aveva vinto il campionato, mi pare il Como, e la chiamò Hockey Milano. Ma tutta la Milano hockeysta si mise a tifare contro l'Hockey Milano e dopo un anno il Cavaliere fu costretto a lasciar perdere).

Per parte mia ho poco o nulla da aggiungere a quello che scrissi nel 1998 se non che, nel frattempo, tutti gli elementi del business sono stati ulteriormente enfatizzati. E mi fa specie vedere che le "vispe terese" arrivino solo adesso a capire che qualcosa non funziona e unicamente perché la Nazionale ha fatto una pessima figura ai Mondiali che con la sostanza del discorso c'entra poco perché il declassamento del calcio a business è un fenomeno che riguarda tutto il Primo Mondo (il Terzo, essendo ancora all'inizio di questa parabola, per il momento si salva). Scrive Fabio Monti in un'inchiesta del Corriere: “I presidenti sono stati solerti nello svuotare gli stadi e a riempire gli studi, prima vendendo e poi svendendo alle televisioni tutto il prodotto calcio, senza freni e senza ritegno. Per creare palinsesti sempre più appetibili si modificano orari e calendari”. Bene. Bravi. Bis. Ma arrivate sempre con una dozzina di anni di ritardo, quando la frittata è fatta. Ma c'è un altro dato molto significativo che va ben oltre il calcio. Pur avendo puntato sul business il calcio italiano è riuscito nell'impresa di essere sotto di due miliardi di euro, così come il modello di sviluppo occidentale pur avendo puntato tutto sull'economia, marginalizzando ogni altra esigenza dell'essere umano, sta fallendo anche e proprio nell'economia. Al di là del calcio ciò dovrebbe indurre la gente a riflettere su questo modello paranoico, sul tipo di vita che sta conducendo e sul Moloch (il denaro, il Mercato, la competitività) cui sta sacrificando tutto il resto. Peraltro questo era il senso di Denaro. "Sterco del demonio".

(di Massimo Fini)

Così i camalli affondarono la democrazia dell'alternanaza

Se cercate la scatola nera della sinistra italiana, potrete trovarla nel porto di Genova. Là, esattamente cinquant’anni fa, in un giugno più caldo del presente, la sinistra sfregiò la democrazia e fece cadere un governo legittimamente uscito dalle urne con un moto violento di piazza. Sto parlando dei ganci di Genova, come furono chiamati in gergo missino i micidiali ganci usati dai portuali comunisti, i feroci camalli che scesero in piazza per impedire lo svolgersi di un regolare congresso nazionale del Msi. Oggi tv e giornali ricordano i fatti di Genova con un sottinteso epico, quasi a celebrare un’epopea partigiana di giustizia e libertà. Affiorano rievocazioni nostalgiche di quel clima, in cui perfino le auto bruciate e le magliette a strisce dei portuali sono ricordate con tono elegiaco da commosso amarcord. E invece quell’evento che Aldo Moro definì «il più grave e minaccioso per le istituzioni» dalla nascita della Repubblica italiana, fu un vero e proprio golpe di piazza che tardò la nascita di una democrazia matura fondata sull’alternanza, resuscitò gli spettri della guerra civile e alimentò nella destra frustrata rigurgiti di neofascismo e sogni di golpe. Il principale testimonial e istigatore di quell’evento, con Umberto Terracini, fu Sandro Pertini, che ritrovò in quella mobilitazione lo spirito bellicoso della lotta partigiana, non accorgendosi che si trattava di una mobilitazione violenta contro un pacifico congresso ed un legittimo governo liberal-democratico. Era l’epoca del governo Tambroni, il primo governo di centro-destra che godeva dell’appoggio esterno dell’Msi. Il Paese viveva il boom economico, ormai pacificato, la violenta contrapposizione tra fascismo e antifascismo si era spenta, e anche la guerra fredda, con l’avvento di Krusciov e Kennedy si era intiepidita (salvo poi riaggravarsi a Cuba), assopendo l’antitesi comunismo-anticomunismo. Non era ancora stato eretto il Muro di Berlino.

In quel tempo l’Msi era guidato da Arturo Michelini, un nazional-conservatore che voleva inserire il suo partito nel gioco politico delle alleanze. Del resto, negli anni cinquanta, molte amministrazioni del sud erano rette dall’appoggio monarchico e missino, e perfino il Pci di Togliatti aveva trescato in Sicilia con l’Msi per sostenere la giunta Milazzo. Insomma, la guerra civile del ’45 e il frontismo radicale del ’48 erano ormai ricordi sepolti, come ricordo lontano erano ormai i celerini di Scelba contro i manifestanti o la legge dello stesso Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’Msi ebbe l’infelice idea di celebrare il suo congresso a Genova, città antifascista con un forte movimento sindacale e comunista. Di fronte alle minacce della sinistra, il Prefetto di Genova aveva saggiamente proposto di spostare il congresso missino a Nervi. Ma social-comunisti, Anpi, Cgil e portuali non accettarono il compromesso; volevano cogliere il pretesto del congresso missino per abbattere il governo di centro-destra. Sarà proprio Sandro Pertini (che perfino il suo compagno di partito Pietro Nenni considerava un violento) ad accendere il fuoco della rivolta con il «discorso del brichettu» (il fiammifero) del 28 giugno.

Due giorni dopo la città fu messa a ferro e fuoco dagli insorti, come accadde poi nel luglio del 2001 ad opera dei no-global. Aggressioni ai delegati missini, rifiuto di accoglierli in albeghi e locande, la celere travolta dai camalli, le jeep della polizia capovolte, incendi e assalti. Forse fece bene la polizia a non rispondere col fuoco e fecero bene i missini a non mobilitare il loro servizio d’ordine che comunque sarebbe stato soccombente. Ci sarebbero stati molti morti, non solo a Genova. Alla fine a morire fu il governo Tambroni e a restare invalida fu la democrazia italiana, che perse da allora il fianco destro. La spuntarono loro, i camalli d’assalto e le sinistre di piazza. Sotto i colpi della piazza i ministri della sinistra dc rassegnarono le dimissioni, il governo Tambroni cadde e gli stessi che avevano giudicato con allarme la violenza di piazza, come Moro e Fanfani, aprirono poi alla stagione del centro-sinistra, portando i socialisti al governo. Quando si parla del rumore di sciabole dei militari e carabinieri italiani, e della strisciante tentazione golpista che attraversò l’Italia tra il ’64 e il ’70, da De Lorenzo a Borghese, coinvolgendo i partigiani Sogno e Pacciardi, si deve considerare quel precedente genovese che rendeva impossibile la nascita per vie democratiche di un centro-destra in Italia. Quel clima violento perdurò a Genova fino ai primi anni 70, se si considera che tra i primi passi del terrorismo rosso in Italia ci furono l’assassinio del militante missino Ugo Venturini e il rapimento del magistrato “destrorso” Mario Sossi.

L’insurrezione di Genova diventerà la madre di tutte le mobilitazioni di piazza con cui la sinistra in Italia ha inteso forzare la democrazia italiana, i suoi governi, le sue scelte, le sue alleanze. Un metodo che viene tuttora utilizzato per abbattere con una spallata di piazza i governi usciti dalle urne. Per fortuna il clima è cambiato, i camalli si sono imborghesiti, non portano più le magliette a strisce e i ganci micidiali, né ci sono in giro partigiani pronti a riprendere le armi. Ma quel governo di centro-destra avrebbe accelerato la nascita di una destra postfascista e avrebbe insieme creato le premesse per una democrazia dell’alternanza, spingendo anche la sinistra a superare il massimalismo e a disporsi così a governare. Ma il Pci dell’epoca prendeva ancora ordini e soldi da Mosca e considerava l’America e il Capitalismo due mali da cui liberarsi. Così la Dc, con i suoi alleati, restò al governo vita natural durante.

(di Marcello Veneziani)

martedì 29 giugno 2010

Dell'Utri, lo strappo dei giovani del Pdl: i nostri eroi sono Borsellino e Falcone

Passano pochi minuti dalla condanna a sette anni di carcere del co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri e una nota della Giovane Italia Sicilia (ex Azione Giovani, movimento giovanile del Pdl) apre una polemica all'interno del partito del Cavaliere. Se i big del partito si schierano compattamente con il senatore condannato, i giovani siciliani e Azione Universitaria puntano i piedi. Uscendo dal coro. "Oggi più che mai sentiamo l'esigenza di avviare una profonda riflessione all'interno del partito dopo questa condanna che rimane gravissima soprattutto per un uomo impegnato in politica - si legge in una nota della Giovane Italia Sicilia - Non ci uniremo al solito coro di solidarietà già tristemente visto negli anni scorsi per i politici condannati. Il nostro movimento giovanile non può rimanere in silenzio davanti a fatti che minano la credibilità di un intero partito". Ma non basta. Per i giovani siciliani va subito accolta la proposta del ministro Giorgia Meloni (ex An) "sulla introduzione nello statuto del Pdl di una norma che preveda il no alla ricandidatura vita natural durante e l'espulsione per chi è stato condannato in via definitiva per corruzione e mafia".
Parole che scatenano l'irata reazione di Costanza Castello, coordinatrice dei club giovanili del Pdl-Sicilia: "Siamo letteralmente allibiti per l'uscita quanto meno impropria dei 'sedicenti' giovani del Pdl siciliano. Noi che rappresentiamo la parte evidentemente liberale e garantista ne prendiamo nettamente le distanze". Per la Castello quelli di Giovani Italia Sicilia sono solo "arrogantelli cercatori di gloria, votati al protagonismo".
Ma da Azione Universitaria, altra organizzazione giovanile ex An, arriva un nuovo affondo: "Mentre Dell'Utri continua a definire un eroe il mafioso Vittorio Mangano, noi affermiamo con orgoglio che gli eroi dei giovani siciliani sono persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino".

La cultura di destra non è più una barzelletta


Essere il nipote di Alessandro Pavolini è una consapevolezza latente, riposta in un libro di scuola. A quarantacinque anni Lorenzo Pavolini, scrittore e redattore di Nuovi Argomenti, decide di ristabilire un contatto con le proprie origini scrivendo un libro, Accanto alla tigre (Fandango), finito nella cinquina dei candidati al Premio Strega 2010, che vorrebbe essere un documentario e poi diventa un diario, trovandosi davanti alla difficoltà di stabilire le giuste distanze e rischiando di essere investito dai sentimenti, provando ad addomesticare la storia come si fa con una tigre da cui, se si decide di cavalcarla, forse sarà impossibile scendere, e scegliendo di domarla nell’unico modo possibile, camminandole accanto.

Come una formazione di sinistra ha convissuto con la consapevolezza delle sue origini?

In famiglia c’era una forma di reticenza alla quale non do un valore negativo, perché alcune questioni non riescono ad essere sciolte con un’interlocuzione diretta. Nella mia formazione il fatto che mio nonno sia stato uno di quelli che hanno elaborato la cultura fascista dal di dentro non ha avuto alcun peso. Mio padre non mi ha mai trasmesso una cultura di destra e mi ha lasciato libero di formarmi come mi pareva: io sono stato un ragazzo che, negli anni Ottanta, voleva lavorare tra editoria e giornalismo ed era affascinato dalla nostra cultura migliore. A un certo punto ho scansato un editore socialista e sono finito a lavorare con una casa editrice comunista come gli Editori Riuniti. Mi sono formato con quella cultura, antinazionalista e multiculturale, e ancora credo che qualcosa distingua una cultura di sinistra da una conservatrice e antisolidarista. Tra i libri che leggevo, se mi sono imbattuto in Ezra Pound o Céline non significa che li abbia letti in modo diverso rispetto ad altri grandi del Novecento. Ciò che più mi interessava raccontare è come ambienti di formazione familiari possano produrre degli individui che compiono delle scelte molto diverse. Famiglie che si sono divise di fronte al fascismo, com’è successo tra mio nonno e suo fratello Corrado, sposato nel ’21 con una donna ebrea.

Quando ha sentito che era il momento giusto per avvicinarsi alla figura di suo nonno? C’è un motivo legato al momento storico attuale?

Paradossalmente negli anni Settanta e Ottanta il mio cognome era più smarcato dalla storia del fascismo di quanto non lo sia adesso. Oggi quando mi imbatto in una scritta sul muro che inneggia a Pavolini penso come mai per quarant’anni non mi era mai successo. Non dico che certe cose stiano tornando, ma che c’è una tale distanza da quei giorni che una nuova generazione se ne può impossessare e farne il simbolo di una nuova destra o ne può ragionare con lucidità. Quando mi sono formato, a quarant’anni da quei fatti, le ferite erano troppo vive e le persone imbarazzate nell’affrontare certe questioni. Il mio libro è stato anche un tentativo di rottura di questo imbarazzo. Non è un romanzo storico né familiare, ma un libro che ragiona sulla storia e sulla famiglia. Non ho mai deciso che fosse il momento di scriverlo, però molte persone che hanno letto il libro mi hanno detto che adesso si poteva fare, e ho capito come la mia generazione, nella distanza biologica da certe tragedie, può considerarle in equilibrio tra pietas e lucida valutazione storica.

Cosa ne pensa delle polemiche sul revisionismo storiografico a proposito della necessità di correggere le tesi sul fascismo?

Sono polemiche che hanno avuto una fase molto scomposta dieci anni fa. Oggi c’è una volontà ideologica nel distorcere la storia. Il lavoro degli storici è una continua revisione della conoscenza della storia, e quello svolto dagli anni Novanta da Pavone, Gentile, Luzzatto, Crainz o Parlato non può essere tacciato di revisionismo, anzi si è fatto carico di guardare la storia da tutti i punti di vista. Come in tutte le discipline esiste chi opera con onestà culturale e chi ha dei secondi fini. Se uno storico pone un’ideologia come substrato del proprio lavoro sbaglia sempre.

Non nasconde che durante il processo di conoscenza di Alessandro Pavolini ha subito la tentazione di riabilitare la sua figura.

Ho scelto di venire a contatto in un preciso momento della scrittura con quei materiali che hanno la temperatura emotiva più alta – lettere, immagini, voce – e ho lasciato che la percezione di mio nonno mi invadesse, come accade a chiunque venga in rapporto con l’elemento umano della sua ricerca. La conoscenza e la passione ci avvicinano molto più dell’appartenenza alla famiglia. Capisco che un lettore possa restare colpito da quel “momento di rottura” perché sa che parlo di mio nonno, ma è semplicemente un individuo di cui mi sono chinato a osservare il destino e con cui si è stabilita una forma di empatia.

Cos’è la memoria?

Una volta si studiava la storia dei grandi personaggi, noi ci siamo formati sulle memorie dal basso, sulla storia degli Annales, sull’idea che tutti fanno parte della storia. La storia orale che ci ha insegnato Alessandro Portelli con il suo libro sulle Fosse Ardeatine (L’ordine è già stato eseguito, Donzelli, 2005, ndr) e poi il lavoro teatrale di Ascanio Celestini ci hanno mostrato com’è possibile fare di questa materia una narrazione collettiva, quando si raccontano le storie dolorose che ci hanno portato fuori dall’incubo della dittatura. È un discorso retorico dire che ci manca una memoria condivisa: probabilmente le memorie non sono fatte per essere tutte condivise, ognuno ha la sua, perché uno dovrebbe sentirsi compromesso con una memoria diversa? Qualcuno mi ha detto: «Quest’anno nella cinquina dello Strega ci sono due libri di destra!» (il riferimento è a Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Mondadori, ndr). Ma non sono di destra, sono libri che parlano della storia d’Italia e di un ventennio che ha coinvolto tutti, la minoranza che si è opposta e la maggioranza che ha partecipato e che poi ha cambiato.

Cosa intende con «la serietà in Italia non può che risolversi in tragedia»?

Noi italiani non abbiamo una grande capacità di sentire il tragico. Siamo inclini alla burla, a scansare il tragico con una battuta. Alessandro Pavolini era una persona estremamente seria e determinata fino ad accettare le conseguenze delle sue scelte, compreso il sacrificio di sé. In questo era un italiano atipico. In Italia la valutazione della nostra classe dirigente dal dopoguerra a oggi è stata “da barzelletta”: siamo specialisti nell’avere una classe dirigente che viene ridicolizzata perché a sua volta si rende ridicola. In fondo è questa relatività che ci ha dato modo di reagire all’egemonia americana in modo autonomo. Carosone canta Tu vo’ fa’ l’americano, Sordi fa l’americano e ci si ride sopra. A volte la nostra capacità di burla può essere molto utile nel confronto tra culture ma non ci aiuta a percepire la reale tragedia in atto.

Quanto il libro nasce nel tentativo di «parlare con i propri morti» e quanto in quello di parlare al Paese?

Più che ai miei morti io volevo parlare a mio padre, prendendomi la responsabilità di essere adulto. Ma le mie questioni sono le questioni del Paese. Mi ha aiutato costruire la frase dell’incipit, perché tra l’espressione «mio nonno» e «libro di storia» ho capito che c’era un cortocircuito tra dimensione personale e collettiva. Il lavoro intellettuale parla sempre al Paese. Per intellettuali come Moravia e Pasolini era naturale pensare che qualsiasi cosa scrivessero, anche la più intima, stessero parlando alla collettività. Non c’è dubbio che mentre scrivevo questo libro ho pensato che potesse essere utile a tutti. Strappare alle polemiche la conoscenza di un secolo, riconsiderare il fatto che la cultura di destra non è la barzelletta a cui ci siamo abituati dal dopoguerra solo perché non è stata più elaborata, capire che all’inizio del secolo ha affascinato molti giovani rappresentando una risposta italiana alla Rivoluzione russa, è qualcosa che era utile a me ma allo stesso tempo la volontà di entrare in relazione con la collettività. Mi interessava che altre persone vi trovassero una possibilità di interlocuzione. La scrittura deve contenere la cronaca del presente che non può che essere un discorso pubblico.

(fonte: http://www.ilriformista.it/ di Carmen Maffione)

Berto, la guerra in camicia nera

Con Giuseppe Berto gli storici non hanno dovuto faticare granché, come invece hanno fatto con molti altri scrittori italiani, per rintracciare le prove della sua adesione al fascismo: dieci anni dopo la fine della guerra, era lo stesso Berto a ricordare a chi l’avesse dimenticato, e a futura memoria, che lui non solo era stato fascista, ma che si era anche arruolato come volontario tra le Camicie Nere per combattere in Africa. Lo faceva con un libro intitolato, a scanso di equivoci, Guerra in camicia nera (ora riproposto dalla Bur, 196 pagine, euro 9.20), che evidentemente, a metà degli anni Cinquanta, non poteva trovare un’accoglienza troppo favorevole. Anche perché Berto, in quel libro edito da Garzanti, non sconfessava il proprio passato; scriveva anzi in una breve nota introduttiva: «Spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che comeme servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi». Si potrebbe dire che lo scrittore di Mogliano, con un libro come Guerra in camicia nera, se l’andasse un po’ a cercare; del resto anche questo era tipico del suo tormentato carattere. Reduce dall’insuccesso del suo terzo romanzo (Il brigante), già piuttosto defilato, per non dire inviso all’establishment culturale romano e nazionale, Berto contribuì col suo diario di guerra fascista alla propria stessa sfortuna, imboccando proprio in quel periodo un lungo tunnel di insuccessi e depressione dal quale sarebbe uscito - trionfalmente - nel 1964 con la pubblicazione del suo libro più famoso, Il male oscuro.

Anche se non è da leggere come un documento storico, come dice lo stesso Berto nella sua introduzione, il romanzo-diario Guerra in camicia nera è interessante perché racconta la guerra del fronte africano vista da chi si trovava dalla parte sbagliata della storia. L’arrivo di Berto a Tripoli, il primo settembre 1942, avviene in coincidenza quasi perfetta con un fatto destinato a cambiare le sorti del conflitto sul fronte africano: la nomina del maresciallo Bernard Montgomery a capo dell’VIII armata inglese. In quel momento la situazione era favorevole alle forze italo-tedesche che, grazie alla controffensiva condotta da Erwin Rommel, avevano respinto gli inglesi in Egitto. L’euforia di Berto dura quindi poco: giusto il tempo di accorgersi che il suo viaggio verso il fronte incrocia sempre più spesso il percorso inverso delle truppe italo-tedesche che annunciano la massiccia ritirata conseguente alla sconfitta di El-Alamein. Gli resta però l’ottimismo della «fede», che in un personaggio come Berto fa un po’ a pugni con lo spirito anarchico; lui è peraltro uno di quei fascisti che ritiene necessaria, dopo la vittoria della guerra, una rivoluzione interna al fascismo, che consisterà nell’«eliminare la stupidità e la corruzione» e nel «concedere una maggiore libertà politica».

La guerra vera, però, tarda per lui ad arrivare: si vive spesso in questo libro nell’aria polverosa della disfatta presagita inconsciamente, nel progressivo ripiegamento verso ovest che cede il passo ai fantasmi dell’VIII armata inglese. Quando si arriva al contatto con gli inglesi viene anche la consapevolezza che si tratti di un esercito «troppo numeroso e armato»; poi, dopo che il VI battaglione di cui l’autore fa parte viene spazzato via dal nemico, si manifesta in lui il desiderio del ritorno in Italia, che Berto prova a giocarsi con la carta dell’ulcera duodenale, a suo tempo nascosta per potersi arruolare nelle Camicie Nere. Raggiunge Tunisi ma gli esami danno esito negativo; torna in linea finché non viene il turno, anche per lui, di arrendersi agli inglesi (sarà poi portato nel «Fascist camp» di Hereford, in Texas, dove resterà fino al gennaio 1946). Guerra in camicia nera è il racconto in tono dolceamaro, tra sentimento e cinismo, di un’idea che si accartoccia su se stessa, di un’esperienza in cui la disciplina tenta di convivere con l’egoismo del volere salva la pelle. È un libro, a suo modo, antiretorico e onesto, le cui pagine brillano spesso d’ironia e autoironia: «Tra i tanti motti da cui siamo stati afflitti non ce n’è forse uno che dice: nudi alla meta? La meta è vicina, e io nudo press’a poco lo sono».

(fonte: www.corriere.it di Matteo Giancotti)

sabato 26 giugno 2010

Ustica, un filo tra il Dc9 della strage e i traffici nucleari italiani

C'è un filo che collega Ustica con il traffico nucleare che l'Italia gestiva a cavallo degli anni Ottanta e che riguardava principalmente l'Iraq. Non è una tesi nuova ma un libro appena uscito la ripropone con una documentazione che fa riflettere: Avvelenati di Manuela Iatì e Giuseppe Baldessarro è edito da una piccola casa editrice calabrese, Città del Sole. Un filo, quello che illustra l'inchiesta, che passa per la Basilicata e che ha già più volte interessato la commissione parlamentare ecomafie e i magistrati della Basilicata ed anche quelli che hanno indagato sulla strage di trent'anni fa.
Così gli autori del libro raccontano la loro inchiesta che intreccia uranio, rifiuti e la strage di Ustica: «I traffici di rifiuti tossici e nucleari che raccontiamo nel nostro volume sono quelli di cui si viene a conoscenza a partire dal 1994, grazie a un'inchiesta della procura di Reggio Calabria. L'inchiesta nasce da un esposto di Legambiente sull'ipotesi di interramento di rifiuti in Aspromonte, ma arriva molto lontano, si dirama in decine di rivoli che dipingono 'scenari inquietanti' e inimmaginabili, come scrivono nel 1996 i carabinieri reggini in un'informativa: la fuga di Licio Gelli dalle carceri svizzere, la morte del dirigente della partecipazioni statali Sergio Castellari, l'omicidio di Ilaria Alpi e il caso Somalia e, appunto, il coinvolgimento dell'Enea nei traffici di rifiuti radioattivi, la vendita di armi all'Iran e all'Iraq da parte dell'Italia e la strage di Ustica. Questi ultimi tre filoni sono collegati tra loro e sembrano trovare il loro fulcro nel centro Enea di Rotondella, in Basilicata. Per le procure lucane, infatti, quel centro sarebbe stato da un lato il punto di partenza di una serie di traffici di scorie radioattive gestiti dallo stesso Enea attraverso la 'ndrangheta, dall'altro una sorta di outlet del nucleare, di centro commerciale per chi volesse acquistare tecnologie e materiali nucleari, tra cui l'uranio. Le trattative per la vendita a Stati come l'Iraq, e altri i Paesi arabi sarebbero state condotte dallo Stato italiano, causando la reazione di Stati Uniti e Israele. Per fermare questi traffici, il Mossad avrebbe compiuto dei veri e propri atti terroristici. Per esempio l'attentato agli uffici romani della Snia Tecnit, società del settore di proprietà statale, o la strage di Ustica. L'ipotesi uscita da queste inchieste è che il Dc9 dell'Itavia sia stato abbattuto dai servizi segreti israeliani, in quanto trasportava, verso la Libia, barre di uranio rubate a Bologna, dove c'erano due impianti nucleari di ricerca gestiti dall'Eni e dall'Agip nucleare. Si ipotizzò addirittura che, per fornire clandestinamente alla Libia combustibile nucleare, venissero sistematicamente usati aerei di linea».
Al centro del racconto c'è anche un luogo poco conosciuto: il centro Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) di Rotondella, in provincia di Matera. «Negli anni Ottanta - spiegano gli autori di Avvelenati - il centro di Rotondella sarebbe servito anche come centro di addestramento sulle tecnologie nucleari. I tecnici iracheni e pakistani avrebbero frequentato là una serie di stage per apprendere le tecniche, nell'ambito di una sorta di attività di ricerca e di scambio di informazioni, tanto che anche lavoratori dell'Enea sarebbero stati in Iraq. Questo e molto altro viene riferito alla magistratura, per esempio, da Guido Garelli, personaggio ambiguo, che si diceva appartenente all'intelligence della cosiddetta Ats (Autorità territoriale del Sahara) e che avrebbe indagato su Rotondella anche per conto della Gran Bretagna. Apparirà coinvolto in molte vicende che trattiamo. Alcune sue dichiarazioni hanno trovato riscontro».
Tale era l'importanza di Rotondella che in quegli anni si discute di una visita del presidente americano, Jimmy Carter: «Secondo alcune fonti, l'allora presidente Carter, a seguito di tensioni internazionali sui traffici che partivano dall'Italia, visitò gli impianti dell'Enea una settimana prima della strage di Ustica».
Iatì e Baldessarro parlano poi dei riscontri documentali alla loro inchiesta: «Una serie di informative degli investigatori e alcuni interrogatori. Per esempio di Guido Garelli e di un teste chiamato Billy, ingegnere calabrese, funzionario Enea, presso il quale dal 1975 svolgeva attività di vigilanza per la radioprotezione dei laboratori dei centri Itrec di Rotondella ed Eurex di Saluggia. Racconta al pm reggino Francesco Neri della falsificazione dei registri del materiale radioattivo in entrata e uscita dagli impianti (per far uscire combustibile nucleare con l'inganno, sotto forma di scarto) e della fornitura all'Iraq di 12.000 kg di uranio».
Che fine ha fatto questa branca della inchiesta rispetto alla vicenda del Dc9? «Come racconta lo stesso pm Neri alla commissione sul ciclo dei rifiuti nel 2004 - rispondono gli autori -, lui chiamò il collega romano Rosario Priore, che si occupava del caso Ustica e che si recò a Reggio Calabria per acquisire gli interrogatori e la documentazione fornita dai testimoni, per le parti che potessero interessargli. Priore avrebbe detto a Neri 'tu, dopo vent'anni, mi hai dato la vera causale della strage', ma lo stesso Neri dice di non sapere quali accertamenti il collega abbia poi fatto».

giovedì 24 giugno 2010

Salvate il soldato Francesco Cossiga

Ma che fine ha fatto Francesco Cossiga? Si dichiara già morto. Ha annunciato per cinque anni la sua volontà di ritirarsi a vita privata, e tutti avevamo smesso di credergli vedendolo sparire. Poi l'ha fatto sul serio. Da tempo langue in un preoccupante silenzio. Depressione, annunci di catastrofe, ora ha deposto un ordigno-testamento in forma di libro in cui rivela di essere defunto.

Cossiga non è solo un ex capo dello Stato, un esternatore folle, o l'inventore del Cazzeggio istituzionale. Giusto vent'anni fa, col suo formidabile piccone, Cossiga mise in cinta la Repubblica italiana, anche se poi non riconobbe la figlia che ne nacque. Voi dite Mani pulite, i referendum di Segni, la Lega, la discesa in campo di Berlusconi. Tutto vero, ma vennero dopo. In principio fu Cossiga. Che per cinque anni se ne stette a cuccia al Quirinale, rispettoso del mandato istituzionale, rigoroso osservante del ruolo e della norma, per far dimenticare le fuoruscite dal protocollo del suo predecessore Sandro Pertini. Poi, vent'anni fa, dopo che era caduto il Muro e prima che il Pci si suicidasse, Cossiga cominciò a dar di matto. Picchiò duro sui pregiudizi fradici su cui si fondava la Repubblica consociativa e partitocratica. E per due anni colpì, disse la verità, suscitò la voglia di cambiare, cavalcò per primo l'antipolitica, portò la fantasia al potere. Fu il nostro De Gaulle, ma solo nella pars destruens. Infatti a De Gaulle si ispirò quando fondò il suo partito, l'Udr, che poi lui stesso sconfessò. Tentarono l'impeachment, come avevano tentato di inguaiarlo ai tempi oscuri del suo ministero degli Interni, dopo il caso Moro. Ma oggi non saremmo qui se non ci fosse stato lui.

Ricordo che in quel tempo io fondai un settimanale che guardava a lui per fondare una nuova repubblica. Gli dedicai molte copertine e appelli. Sperai in lui, ma lui in cambio mi offrì un paio di belle interviste, qualche brillante conversazione e il privilegio di entrare in Senato senza cravatta, vestito da extraparlamentare ed extracomunitario.

Cossiga non è un fondatore ma un affondatore, non fondava seconde repubbliche come Pacciardi; era piuttosto uno Spacciardi, perché dichiarò spacciata la Repubblica che egli stesso incarnava. Un presidente kamikaze che aveva pilotato con sorriso beffardo la prima Repubblica a sfasciarsi sul nemico. La fortuna e la disgrazia di Cossiga fu che andò al Quirinale praticamente da ragazzo, al paragone con gli altri presidenti. E tuttora, 25 anni dopo, è il più giovane capo dello Stato vivente. Siede al Senato nello scranno col numero 007, lui che amava giocare con le spie. Ma si è barricato in casa e ha depositato una bomba a orologeria. Parlo di un bel libro dal brutto titolo, Fotti il Potere, che ha scritto con Andrea Cangini. Non va in giro a presentarlo, come ci si aspetta da ogni autore e ancor più da uno come lui. Si rifiuta, si nasconde, vive la sua solitudine depressa e dichiara di essere già morto.

Al di là di alcuni lati comici e grotteschi, Cossiga è un personaggio tragico. Dai tempi di Moro ai tempi del Piccone, Cossiga ha dovuto sparare il colpo di grazia a chi più amava: la Dc e i suoi capi, la cultura del diritto, la repubblica dei partiti in cui aveva prosperato. Più il Vaticano, i grembiulini, la Gladio, il Mossad, i poteri forti (Cossiga sostiene che ci furono interessi economici alle origini di Mani pulite, citando un'inchiesta dell'Italia settimanale sulla spartizione dell'Italia a bordo dello yatch Britannia). E non si è riconosciuto nelle creature che ha via via messo al mondo, il Nuovo e tutti i suoi Testimoni, il Partito e i suoi straccioni di Valmy, come li battezzò lui.

Senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato né il primo comunista alla guida del governo, dico D'Alema, né la destra postfascista al potere, e forse nemmeno l'antipolitica, dico Di Pietro, Bossi e Berlusconi. Fu precursore perfino di Sgarbi e Dagospia. È lui stesso in questo libro a notare il paradosso di D'Alema portato da lui al governo con l'okay dell'America, con il compito di far entrare l'Italia in guerra con la Serbia: e D'Alema, primo comunista al potere, fu colui che bombardò con la Nato l'ultimo regime comunista d'Europa, provocando, sempre secondo Cossiga, «535 morti tra vecchi, donne e bambini».

È lui lo sdoganatore dell'Msi, che poi ha criticato la svolta nel vuoto di Fini, come criticò la deriva giacobina del rustico Di Pietro, che pure era suo figliastro: la sua vanga era la versione rurale del piccone. E non solo: qui vaticina il fallimento di Berlusconi, a cui pure mostra umana simpatia e sostegno, e di cui riconosce la voglia di lasciare un segno nella storia e non di pensare alle leggi ad personam, come dicono i suoi avversari. E a differenza loro lo critica non per l'autoritarismo ma per la sua debolezza.

Cossiga è tragico quando sostiene che la vita regge sulla menzogna, e la vita politica ancora di più: «La verità è che la menzogna ben più della verità è all'origine della vita, perché se gli uomini si sono evoluti è stato solo grazie alla loro capacità di mentire agli altri e a se stessi», Cossiga si diverte a dire la verità che coincide paradossalmente e tragicamente con la menzogna. La sua visione tragica è ancora accompagnata da un sardonico sorriso (l'aggettivo non è casuale per il sassarese). Ma Cossiga è tragico soprattutto perché in questo libro si sente odor di morte e di sfacelo, al punto da concludere il suo libro: «Io ero già morto ma la gente non se n'era accorta». Non vorrei spargere falsi allarmi e invadere la sua vita privata, ma temo che Cossiga stia accarezzando la tragica idea di rivolgere il piccone contro se stesso.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 23 giugno 2010

Le nostre vite di corsa contro il tempo che se ne va


La vita in fuga. Come può fuggire la vita? Scivola via perché il tempo scorre; la vita si consuma perché il tempo è irreversibile, si dissolve perché il suo tempo l’annienta. Siamo esseri storicamente determinati, e il tempo vissuto ci definisce come soggetti storici. Ecco perché la nostra unica e vera ricchezza è il tempo e, come ogni ricchezza che si teme di perdere, avvertiamo il fluire del tempo come un'ossessione che consuma la nostra esistenza fino a ridurla a nulla. L'ossessione della fine. E' rivelativa l'origine della parola "ossessione": viene dal verbo latino obsidere, "assediare".

Ossessionato, dunque, assediato da una forza incoercibile di cui non riesce a liberarsi, l'uomo apparentemente libero si consegna a una forza che ne condiziona la volontà, pur essendo egli assolutamente consapevole dell'insensatezza del suo pensare, fare, decidere. L'ossessione domina il tempo vissuto, determinandolo oltre ogni ragionevolezza. Il titolo di questo incontro aggiunge anche un altro tema - amore del temporaneo - che, se da un lato sembra circoscrivere e mitigare il sentimento ossessivo, offrendogli una parvenza di accettabilità (un'ossessione giustificata da qualcosa per cui ha un senso il patire), dall'altro lo ridefinisce ulteriormente nella sua concettualità. Dunque, se disponiamo in successione i tre termini - ossessione, vita in fuga, amore del temporaneo - ne abbiamo la sintesi: azione.

Siamo destinati all'azione; la nostra vita è un'incessante fuga dalla contemplazione. Il tempo della contemplazione appare insignificante di fronte al tempo dell'azione. René Guénon è stato il filosofo contemporaneo più radicale nel sostenere che la perdita del valore della contemplazione rappresenti uno dei motivi essenziali dell'origine della crisi del mondo moderno. Gli occidentali, sostiene, mettono l'azione al di sopra di tutto. La filosofia che meglio rappresenta il dominio economico occidentale, il pragmatismo americano, nega perfino l'esistenza di alcunché di valido al di fuori dell'azione stessa. Guénon ha buon gioco nella contrapposizione: i suoi studi sulla cultura indiana lo portano a privilegiare la forma ontologica del pensiero filosofico-religioso dell'induismo, in cui riscontra il più alto significato della contemplazione come fondamento stesso della verità. L'accesso al vero, attraverso la contemplazione, individua nell'idea di tradizione lo spazio per comprendere l'autenticità del tempo vissuto. Ci avviciniamo così al fondamento dell'ossessione.

L'occidente è ossessionato dall'azione, è assediato dal bisogno insopprimibile di agire, e nell'azione si appaga dell'amore per il tempo vissuto finché non viene provocato da quella stessa ossessione per l'azione che, nel momento stesso in cui lo appaga, gli mostra anche il consumarsi del tempo: l'ossessione dell'azione diventa ossessione della fine del tempo. Nella sua riflessione, Guénon spiega come l'azione, non essendo che una modificazione momentanea dell'essere, non possa avere in sé il proprio principio e la propria ragione sufficiente: se non si riconnette ad un principio che vada al di là del suo dominio contingente, è pura illusione, mentre il principio da cui essa può trarre la sua verità è la contemplazione. Per questo Aristotele ha affermato la necessità di un motore immobile, origine di tutte le cose, perché l'azione appartiene al mondo del mutamento, del divenire. Una conoscenza pratica, funzionale agli scopi, degrada in un'agitazione tanto vana quanto sterile: la totalità non può essere generata che da un essere stabile, immutabile.

Guénon radicalizza, dunque, la differenza tra contemplazione e azione, e nella subordinazione della contemplazione all'azione coglie l'origine della crisi del mondo moderno. Eppure, oltre le riflessioni di Guénon, rimane la domanda: perché siamo destinati all'azione? E, quindi: davvero è impensabile un riscatto del destino dell'azione? L'agire è soltanto esperienza di un sentimento ossessivo, un assedio dell'intelligenza oltre ogni ragionevolezza, dove l'amore del temporaneo non è che pura illusione, e l'ossessione della fine del tempo è angoscia del nulla? Perché, dunque, siamo destinati all'azione? Proviamo a trovare una risposta. C'è un prologo in cielo che apre il Faust di Goethe. Mefistofele fa notare al Signore che, pur avendo dato all'uomo - unico tra gli esseri viventi - la ragione, questi si comporta peggio delle bestie. Il Signore prova a convincere Mefistofele: gli fa notare che il suo spirito nichilista e distruttivo non ha giustificazione, che la sua visione dissolutrice non corrisponde alla verità, che il suo compiacersi del male gli offusca la mente e non gli consente di capire quanto di buono c'è nell'uomo. Ma Mefistofele non si lascia persuadere.

Allora il Signore gli chiede se conosce Faust. Sì, dice Mefistofele, lo conosco, è un uomo ossessionato dalla conoscenza, mai nulla lo appaga. Sarà anche ragionevole, continua il diavolo, ma non sa usare la ragione per capire e affrontare la vita. Il Signore conviene che il suo Faust è ossessionato da un grande desiderio di conoscere, di sperimentare (...). Ecco allora il patto di Mefistofele con il Signore. Anche se Faust può sembrare così saggio e razionale, io, dice il diavolo, lo porterò sul mio sentiero di corruzione. E non sarà un compito difficile, osserva Mefistofele, proprio perché c'è in Faust quell'ansia inesausta, quella volontà di azione, quell'eterno bisogno di operare che, alla fine, nonostante le buone intenzioni, travolge nel nulla tutto quanto è stato creato.

(di Stefano Zecchi)

Foibe, la traccia che fa discutere la politica


La traccia sulle foibe fa discutere anche la politica. Soddisfazione dal centrodestra che corona una battaglia contro la rimozione storica durata decenni. Critiche invece le associazioni antifasciste.

Esulta la destra Renata Polverini: "È un segnale importante per i nostri giovani perchè siano partecipi di una memoria sempre più condivisa di una pagina dolorosa della nostra storia che la Regione Lazio celebra dal 2003, quando la precedente amministrazione di centrodestra istituì la Giornata in ricordo delle foibe". Anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno, ha commentato le tracce: "È un fatto molto positivo che si sia scelto un tema sulle Foibe. Questo contribuisce al fatto che le Foibe non appartengano ad una memoria separata ma ad una condivisa da parte di tutto il popolo italiano". "La destra italiana è fiera di aver contribuito, attraverso una pluridecennale battaglia di controinformazione e migliaia di mobilitazioni solitarie sul tema delle Foibe e dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, a creare una vera e propria coscienza nazionale su quei giorni drammatici e troppo a lungo dimenticati, che oggi si traducono nel titolo di in un tema per gli esami di maturità». È quanto dichiara il deputato del Pdl e membro della commissione Cultura, Fabio Rampelli.

"Fatta la storia" Positivi anche i commenti delle opposizioni: "Oggi la scuola italiana ha scritto una pagina storica", dice il parlamentare Angelo Compagnon, segretario regionale Udc del Friuli Venezia-Giulia. Il deputato del Pd Ettore Rosato: "Una traccia di impegnativo valore simbolico ma sicuramente anche una prova difficile per gli studenti che hanno deciso di cimentarvisi. È bene che i nostri figli possano leggere tutte le pagine della storia italiana e il tema proposto ai maturandi è nello spirito della legge istitutiva del Giorno del ricordo, che appartiene a tutti. Guardiamo con serenità e senza trionfalismi all’ingresso delle tragedie del confine orientale nel quotidiano lavoro di docenti e studenti - ha concluso Rosato - consapevoli che ad essi è affidato il compito di costruire la memoria collettiva del Paese".

Azione Studentesca La scelta di inserire quest’anno tra le tracce della Maturità il tema sulle foibe "è un evidente segnale positivo per tutta la nostra generazione". Lo afferma Azione studentesca ricordando di essere da anni impegnata per far sì che le foibe diventino un capitolo di storia contemporanea discusso tra i banchi di scuola. "L’approvazione della Legge del 2004, che istituisce la Giornata del Ricordo e ora la scelta di inserirlo tra i temi dell’esame di stato, rappresentano un primo passo - osserva il responsabile nazione dell’associazione studentesca Michele Pigliucci - per la costituzione della memoria nazionale condivisa, che certamente trova nella scuola il primario luogo per la sua formazione. La questione delle foibe stata per anni considerata marginale e faziosa, perchè la maggior parte della nostra classe docente è abituata a leggere la Storia in chiave ideologica".

La soddisfazione del territorio "Straordinario". Così il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, definisce l’inserimento nelle tracce per la maturità di un tema di italiano dedicato alle foibe. "Il fatto che se ne possa parlare tranquillamente, vuol dire che il paese ha fatto un grande passo avanti", afferma il primo cittadino. "Del ’900 dobbiamo parlare come fatti storici e non delle rivalità. Finalmente è stata superata quella contrapposizione ed ora - prosegue Dipiazza- pensiamo allo sviluppo". "Cade ufficialmente il tabù foibe nelle scuole italiane dopo decenni di reticenze, rimozioni e falsificazioni alimentate dai libri di testo e, in taluni casi, da docenti faziosi" è invece il commento del presidente della Provincia di Pordenone, Alessandro Ciriani. "La Provincia di Pordenone - continua Ciriani - ha dato il suo piccolo contributo a questo grande risultato: in occasione del Giorno del Ricordo, celebrato con gli studenti, abbiamo distribuito alle scuole del territorio una preziosa pubblicazione firmata da storici e sopravvissuti per commemorare le foibe e l’esodo, invitando professori e dirigenti scolastici a discuterne in classe".

martedì 22 giugno 2010

Balbo, l'anti-Duce che non voleva entrare in guerra

Il 28 giugno 1940, pochi minuti dopo le 17,30, nel cielo di Tobruk si verificò la tragedia che sarebbe costata la vita al Maresciallo dell’Aria, Italo Balbo. Quel pomeriggio il Governatore della Libia si trovava, con altre otto persone (fra le quali il suo amico di sempre, Nello Quilici, chiamato in Africa per redigere il diario della guerra) a bordo di un trimotore S. 79. L’apparecchio, seguito da un secondo velivolo, era decollato da Derna. Dopo circa una mezz’ora di volo giunse in vista del campo di atterraggio nella cinta fortificata di Tobruk, che poche decine di minuti prima era stato attaccato da una quindicina di aerei inglesi, che avevano provocato, oltre a danni materiali, anche diversi morti. Il velivolo di Balbo, non riconosciuto, fu colpito dalla batteria contraerea italiana e precipitò in fiamme.
La notizia della tragica morte di Balbo giunse in Italia poche ore dopo la tragedia. Badoglio, allora Capo di Stato Maggiore Generale, fu avvertito per telegramma dal comando delle Forze Armate in Africa Settentrionale, e Mussolini venne informato mentre stava ispezionando i reparti sul fronte alpino. Già all’epoca, e anche negli anni successivi, si parlò di un complotto per togliere dalla scena politica una personalità di rilievo del regime, e, soprattutto, un potenziale avversario del Duce al quale non aveva fatto mistero della sua irriducibile opposizione alla promulgazione delle leggi razziali e della sua contrarietà a imbarcarsi nell’avventura bellica. Tuttavia, le inchieste ufficiali e ufficiose - e anche le ricostruzioni storiografiche - esclusero l’ipotesi di un attentato politico e confermarono che si trattò di un drammatico errore.
Quando, la sera stessa del 28 giugno, Dino Grandi seppe della morte del Maresciallo dell’Aria, considerò il fatto «un evento funesto» e disse ad alcuni amici che erano con lui: «Balbo è un fortunato perché la morte lo ha sorpreso al suo posto di combattimento ed egli non vedrà, come noi vedremo, la rovina dell’Italia». Balbo e Grandi erano stati amici da sempre. In alcune pagine memorialistiche, ancora inedite conservate nelle Carte Grandi presso l’archivio del MAE, Grandi scrisse che la morte del Governatore della Libia gli provocò «un dolore profondo». Tutti gli italiani, aggiunse, amavano profondamente Balbo «per le sue qualità e anche per i suoi stessi difetti», ma pure «per ripagarlo dell’antipatia profonda che contro di lui aveva sempre sentito Mussolini» e perché «lo sapevano contrario alla dittatura e contrario alla guerra». I due si conoscevano da lunga data: «Eravamo stati compagni di scuola, amici provati e fedeli dal tempo dell’adolescenza, camerati di guerra negli alpini, compagni inseparabili nei primi anni delle battaglie fasciste. Eravamo due caratteri e due nature profondamente diverse e forse anche per questo ci volevamo bene. M. che ci odiava ambedue, odiava ancora più la nostra amicizia ed aveva fatto di tutto per distruggerla con perfidia sottile. Non vi era riuscito. Ma era riuscito tuttavia a tenerci per lunghi anni separati e lontani, l’uno a Londra l’altro a Tripoli».
Forse, le parole di Grandi erano dettate da antico e comprensibile risentimento, ma che Mussolini diffidasse di entrambi è fuor di dubbio, tanto più che, all’inizio degli anni Trenta, si era vociferato di complotti - le voci erano subito rifluite in informative di polizia - che avrebbero dovuto avere per protagonista Balbo. E non è escluso che il rimpasto ministeriale del 1932 abbia avuto origine dalla preoccupazione del Duce di escludere Grandi dal governo e impedire il saldarsi di una temuta alleanza Grandi-Balbo.
I due non ebbero più molte occasioni di incontrarsi, ma si rividero alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia. Ecco come Grandi racconta, nella stesse pagine memorialistiche, l’incontro: «L’ultima volta che ho visto Balbo fu ai primi del mese di maggio 1940 durante una sua breve visita a Roma. Era scoraggiato e triste. “Quest’uomo (Mussolini, ndr) finirà un giorno o l’altro col portarci alla guerra e la guerra, qualunque esito essa possa avere, sarà la rovina del Paese. La Libia è disarmata e non potrebbe giammai resistere su due fronti. Ho domandato a M. armi e materiali ma egli mi ha risposto negativamente dicendo che non occorrono. Ha aggiunto che la guerra non vi sarà. Ma non vorrei che mi avesse mentito e che in cuor suo stia preparandosi a fare trovare la Nazione davanti al fatto compiuto”. Balbo aveva purtroppo ragione».
Anche Grandi era contrario alla guerra. C’è una pagina di diario, pur essa inedita, nella quale Grandi racconta - una volta saputo dell’ordine dato da Mussolini di sferrare l’offensiva contro la Francia - il suo incontro con Badoglio: «Con un pretesto vado a vedere Badoglio. Gli domando se la notizia è vera. “È vera”, mi risponde. Replico: “È un colossale errore. I casi sono due: la guerra sta per finire come credono i tedeschi ed allora è troppo tardi per intervenire aggredendo la Francia sconfitta. Ovvero la guerra sta per cominciare e si prepara ad essere una guerra lunga come sono sempre state le guerre inglesi ed allora è per noi troppo presto…”. Risponde Badoglio: “Sono d’accordo con lei. Ma il Duce vuole un concreto sacrificio da parte italiana, onde poter sedere con qualche carta in mano, al tavolo della pace”. Congedandomi dico ancora: “Nessun esercito guadagna prestigio ed onore aggredendo un nemico già sconfitto…”. Badoglio si stringe nelle spalle, poi aggiunge: “La responsabilità è del Duce”». La mattina successiva a questo incontro - è il 14 giugno 1940 - Grandi ricevette da Badoglio una lettera manoscritta di questo tenore: «Carissimo Grandi. Ho la più completa fiducia nella nostra vittoria. Vi ringrazio per la Vostra lettera affettuosa. Voi sapete che io Vi voglio bene. Aff.mo Badoglio». In un primo momento Grandi non se ne spiegò il motivo, poi lo attribuì alla furbizia e alla doppiezza badogliane e annotò, in quella stessa pagina di diario: «La spiegazione mi appare quindi chiara. Badoglio ha riflettuto sul nostro colloquio e alle parole che egli si è lasciato sfuggire vuole, con un trucco da basso politicante, “mettersi a posto” col Duce per l’eventualità di qualche indiscrezione da parte mia. Queste appaiono essere in questo momento le preoccupazioni del Capo di Stato Maggiore Generale, corresponsabile delle nostre operazioni di guerra. Mio Dio, in quali mani è il nostro Paese».
Dopo appena due settimane, o giù di lì, la tragedia nella quale perse la vita Italo Balbo. Il quale, malgrado le difficoltà spesso insormontabili legate alla scarsità di mezzi e di strutture, si adoperò (lo testimoniano gli appunti manoscritti stilati da Nello Quilici fra il 12 giugno e il 17 giugno) non si risparmiò, come sempre, sul piano organizzativo. Una tragedia quasi emblematica e sinistramente premonitrice.
(di Francesco Perfetti)

sabato 19 giugno 2010

Feltri, Belpietro e le manette


Ho cominciato la mia carriera di giornalista come cronista giudiziario all'Avanti! di Milano nei primi anni Settanta. Ogni giorno vedevo passare nei grandi androni del Palazzo di Giustizia non solo qualcuno in manette ma file di detenuti tenuti insieme dagli "schiavettoni" e da catene sferraglianti come dei deportati alla Cajenna.

Ogni tanto quando c'era un delitto particolarmente importante, in genere rapine perché allora la classe dirigente non si era ancora così corrotta come sarebbe stato negli anni Ottanta e dimostrato nei Novanta con le inchieste di Mani Pulite, arrivavano, oltre ai fotografi, anche le Televisioni.

Da neofita me ne stupivo. Non tanto delle manette, che soprattutto nei trasferimenti di più detenuti sono necessarie, ma dell'esposizione pubblica di queste persone, senza alcun rispetto, senza ritegno, senza protezione (anche quando non ci sono le tv non deve essere piacevole farsi vedere in manette dalle centinaia di persone che transitano ad ogni ora in un grande Palazzo di Giustizia qual è quello di Milano) ma allora nessuno sembrava curarsene, tantomeno i politici e gli opinionisti. In fondo la cosa non riguardava che degli stracci. Il 4 marzo del 1993, in piena Mani Pulite, ci fu l'episodio di Enzo Carra, l'ex portavoce di Forlani, fotografato in manette. I più feroci furono Bibì e Bibò, alias Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttore e vicedirettore dell'Indipendente, che spararono la foto in testa alla prima pagina, ingrandendola il più possibile e indicando Carra al ludibrio della folla inferocita di quei giorni. Il più pietoso fu il "giustizialista" Antonio Di Pietro, ai tempi pubblico ministero, che ordinò agli agenti penitenziari di togliere immediatamente le manette a Carra.

Del resto allora Bibì e Bibò erano dei forcaioli assatanati, sarebbero diventati dei "garantisti" a 24 carati quando passarono nella scuderia di Silvio Berlusconi. Se la prendevano anche coi figli degli imputati. Per esempio quelli di Craxi. Toccò a me scrivere sull'Indipendente una lettera aperta a Vittorio (“Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, 11/5/1993) ricordandogli che i figli non hanno i meriti ma neanche le colpe dei padri. Così come toccò a me, nel momento della caduta, mentre una legione di improvvisati fiocinatori si accaniva sulla balena ferita a morte, scrivere, sempre sull'Indipendente, un articolo intitolato “Vi racconto il lato buono di Bettino” (17/12/92), in cui, benché tempo prima Craxi mi avesse definito, nientemeno che dagli Stati Uniti dov'era in visita, “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili”, ricordavo che oltre all'uomo sfigurato , sconciato che vedevamo, con orrore, in quei giorni drammatici, ce n'era stato anche un altro che aveva suscitato speranze in molti. Passata la stagione euforica di Mani Pulite, l'immagine di Enzo Carra in manette è passata alla storia come l'emblema della "gogna mediatica" che non avrebbe dovuto ripetersi mai più (come dopo il "caso Valpreda" si giurò che mai più nessuno sarebbe stato chiamato "mostro"). Il Garante della privacy emanò alcune regole di comportamento per i media e parve affermarsi una maggior sensibilità per il rispetto della dignità dei detenuti. Ma solo per alcuni.

Lo dice il recente episodio che ha visto protagonista Fabio De Santis, l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane, uomo di fiducia di Angelo Balducci, insomma uno della "cricca". Con un cellulare De Santis è stato portato in manette, come gli altri quattro detenuti che erano con lui (due spacciatori di droga, un ladro, un rapinatore) dal carcere fiorentino di Sollicciano al Tribunale del Riesame. Quando è sceso dal cellulare De Santis ha dovuto percorrere una ventina di metri sotto l'occhio delle telecamere. Solo due telegiornali però hanno mandato in onda quella scena. La giustificazione più farsesca e farisaica è stata quella di Mauro Orfeo, direttore del Tg2: “Volevamo denunciare una gogna che ricorda certe immagini di Mani Pulite”. Denunciava la gogna mentre lo stava mettendo alla gogna.

Il Garante della privacy è intervenuto, molti politici e opinionisti si sono indignati. Molto giusto. Ma nessun Garante della privacy ha battuto ciglio e nessun politico si è indignato, nessun opinionista ha alzato il dito quando tutti i telegiornali, solo per fare, fra i tanti possibili , l'esempio ricordato ieri da Travaglio, mostrarono, con evidente compiacimento, le immagini di tre rumeni in manette accusati di stupro (e poi assolti). Molti politici, in particolare donne, dichiararono: “Per questi soggetti ci deve essere la galera subito e poi, processo o non processo, buttare via la chiave”.

Che cosa significa tutto ciò? Che si sta sempre più affermando in Italia un doppio diritto, di tipo feudale e peggio che feudale. Quello per i "colletti bianchi", per i vip, per "lorsignori", che oltre ad essersi inzeppati il Codice di procedura penale di leggi talmente "garantiste" da rendere quasi impossibile l'accertamento dei reati loro propri (fra poco non potranno nemmeno essere intercettati se non con mille limitazioni - parlo dei limiti posti alle indagini della polizia giudiziaria e della magistratura , non di quelli, a mio parere sacrosanti, alla loro divulgazione), van sempre trattati con i guanti. Per tutti gli altri, per coloro che commettono reati da strada, che sono quelli dei poveracci, non vale nemmeno la presunzione di innocenza. C'è la "tolleranza zero". Ma questa è la vecchia, cara e infame giustizia di classe.

(di Massimo Fini)

mercoledì 16 giugno 2010

Francesco Cecchin, 31 anni dopo si chiede ancora giustizia “perchè i nostri figli non conoscano quei torti”

Oggi è una di quelle giornate che difficilmente le persone, che hanno fatto politica e la fanno tutt’ora in uno schieramento, possono dimenticare. I ricordi, le sensazioni, gli umori ma anche i colori e gli odori di un tempo riaffiorano nella mente e nella memoria. Come fossero ieri. Eppure sono passati 31 anni dalla morte di Francesco Cecchin. Un ragazzo di 16 anni assassinato solo perché per alcuni, era dalla parte sbagliata. E non si può morire così, “con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…”.
Francesco era un ragazzo come tanti che in quegli anni dal sapore del sangue e dal colore della morte, avevano fatto una scelta di vita. Aveva deciso di impegnarsi in prima persona in anni , era il 1979, dove in molti reputarono meglio rimanere chiusi in casa ad osservare dalle finestre. A vivere passivamente la propria esistenza.
Francesco non era così. La sua, come quella di tanti altri ragazzi, fu la scelta non facile di una generazione. Una scelta fatta di stile, di modo di vita, di coerenza, di gioia e dolore, di sincerità e di impegno per il proprio quartiere, per la sua gente.
Sono passati 31 anni. Tanti, eppure il ricordo è vivo e vegeto ed è servito a molti per andare avanti, per crescere, per dimostrare a tutti, anche agli avversari, di che pasta siamo fatti. Gente che non molla mai, gente disposta a morire per la libertà e per un modo di essere. Uno stile di vita. Per valori che hanno attraversato imperituri la storia, i millenni.
No non è un giorno come altri questo 16 giugno 2010. Tanti anni sono passati, tante cose sono cambiate. Tanti ghetti sono stati chiusi. Anche grazie a Francesco. Anche grazie al suo sacrificio che non è stato di certo vano.
E forse, proprio perché il suo sacrificio non è stato vano, sarebbe giusto che dopo tanti anni i suoi assassini, come quelli di Paolo, come quelli di franco, francesco e di tanti altri ancora, venissero assicurati alla giustizia. Nomi noti a tutti, a noi come alla magistratura,come alle Forze dell’ordine.
Non chiediamo vendetta, chiediamo giustizia che è cosa ben diversa. Una giustizia, nel rispetto delle regole. Così come si conviene in una democrazia degna di questo nome. Perché, come dice una vecchia canzone, “…i nostri figli non conoscano quei torti”.
(di Stefano Schiavi)

L'antimafia indaga sull'eolico in Sardegna


In Sicilia sono già uno scandalo da centinaia di milioni. Ora i parchi eolici diventano un tema nel mirino delle Procure anche in Sardegna.Sul business dell'energia del vento nell'isola indaga anche la Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Cagliari che intende far chiarezza su impianti vecchi e nuovi sorti nell'isola in breve tempo. I magistrati hanno aperto un nuovo fascicolo d'indagine sulle domande presentate, sulle concessioni, sui progetti, sulle autorizzazioni riguardanti, in modo specifico, due progetti che interessano le zone del Medio Campidano e del Sulcis-Iglesiente.

I progetti, secondo quanto è stato possibile apprendere nonostante il riserbo mantenuto dagli inquirenti, prevedrebbero investimenti complessivi per circa 550 milioni di euro. I magistrati non avrebbero, per ora, individuato specifiche ipotesi di reato e nessuno sarebbe stato iscritto sul registro degli indagati. L'attività istruttoria ha consentito l'acquisizione di incartamenti riguardanti anche sei parchi eolici nell'area del cagliaritano.

Fra i controlli preliminari effettuati vi sarebbero anche quelli su progetti nel Medio Campidano della Green Energy Sardegna, controllata dalla Fri-El Green Power Spa di Bolzano (di cui si è occupata anche la Dda di Palermo nel febbraio 2009 quando fece scattare l'operazione «Eolo»), e che sarebbe intenzionata a costruire circa 30 generatori eolici. La Dda, diretta dal procuratore capo Mauro Mura, avrebbe sentito anche alcuni sindaci per chiarire che tipo di impianti dovrebbero essere costruiti nei loro territori e lo stato dei progetti.

Prosegue, intanto un'altra inchiesta, già avviata da tempo dal sostituto procuratore Giangiacomo Pilia della Procura della Repubblica di Cagliari, che riguarda la vicenda della cessione di alcuni terreni a un consorzio di società napoletane e una sarda nella zona industriale cagliaritana di Macchiareddu del Consorzio industriale provinciale di Cagliari per la costruzione di impianti eolici. Il magistrato aveva incaricato i militari della Guardia di Finanza di acquisire i documenti relativi a terreni che sarebbero stati acquistati per tre milioni di euro e che poi sarebbero stati ceduti gratis senza una gara pubblica. Circostanza, però, sempre negata dai responsabili del Consorzio industriale provinciale del capoluogo sardo. È probabile che ora nell'indagine della Dda di Cagliari possano confluire tutti i rami di indagine per chiarire nel dettaglio la situazione reale e individuare la sussistenza di violazione a norme di legge.

Della vicenda degli appalti per gli impianti eolici in Sardegna, come ha confermato tempo fa il presidente Beppe Pisanu, si sta occupando anche la Commissione parlamentare Antimafia.

martedì 15 giugno 2010

Manualetto per far bene la vittima

Cercate un mestiere facile e redditizio? Fate la vittima. È una professione antica. Le nostre nonne dicevano: piangere è metà vivere. Però ai tempi loro erano pochi quelli che decidevano di fare la vittima professionale. La società era più dura di oggi. Dopo il primo aiuto, ti mollava. Adesso la vittima lamentosa non soltanto sopravvive, ma campa alla grande.

L’unico inconveniente è che oggi in Italia sono in troppi a voler fare la vittima. La concorrenza è spietata. Per avere successo sul ring del vittimismo, bisogna darci dentro. E riuscire a far arrivare i propri lamenti sui media. Al riguardo, il Bestiario può dare un aiutino agli aspiranti vittime. Per questo compileremo un manualetto, fondato sull’osservazione delle vittime più applaudite: i televisionisti che si dicono minacciati da Silvio il Caimano.

Prima di tutto, per poter far bene la vittima, bisogna essere di sinistra. La vittima di destra non suscita compassione perché può vantare un solo nemico: il blocco delle opposizioni, ormai in sfacelo. La vittima rossa, invece, può lamentarsi di avere contro una serie di vampiri che vogliono bere il suo sangue: il Berlusca, il capitalismo, il Vaticano, la Cia, la destra, la mafia stragista, i petrolieri e l’alta finanza.
Il secondo obbligo per una vittima di successo è di avere molti amici. Non certo dentro i Poteri Forti, ma tra quanti gli assomigliano nel colore politico e nella capacità di lamento. È importante che questi amici lavorino nei media. Ecco un settore decisivo, soprattutto oggi, nella fase luttuosa dovuta all’arrivo della Legge Bavaglio.

Quale fortunata circostanza! Questa legge bestiale, vergognosa, fascista, nemica della libertà d’informazione e dell’igiene repubblicana, ci rende tutti vittime, ossia compagni e compagne della Vittima Professionale. Che potrà godere di un formidabile Soccorso Rosso, laico, democratico e antifascista. Elargito al canto di “Bella Ciao” e destinato a una sicura vittoria. L’unico guaio di tanta solidarietà, espressa in un diluvio di articoli e di servizi televisivi, è che finisce per dare un ritratto meschino della Grande Vittima. E senza volerlo ne offre una caricatura alquanto comica.

Prendete il caso di Michele Santoro. È il più bravo dei televisionisti. Ma nel dipingerlo come vittima della censura berlusconista, lo si trasforma in una madama piangiulenta. Addolorata. Sudaticcia. Tremebonda. Fa davvero pietà l’eroe di Annozero. Mobbizzato dai capoccia della Rai agli ordini del Cavaliere. Circondato da maniaci che lo sottopongono allo stalking più brutale.

Santoro è un uomo di potere. Ha navigato in tutti i mari della sinistra. È stato parlamentare europeo. Si è rivelato così forte da lavorare persino per l’Impero del Male, ossia per Mediaset. E se l’è sempre cavata. Insomma, un Superman. Ma il Soccorso Rosso lo trasforma in un povero orfanello che tutti cercano di violentare. Purtroppo, don Michele non se ne accorge. E fa la vittima alle prese con un dilemma esistenziale: la Rai mi vuole o non mi vuole?

La stessa mutazione sta subendo Fabio Fazio. Ecco un altro che, nel fare la vittima, cambia natura. Quando siede sulla cattedra di “Che tempo che fa”, Fazio è un implacabile fazioso. Lui è pagato, e bene, dagli italiani che versano il canone alla Rai. Ma la metà di questi onesti ingenui per Fabio non esiste. Sul suo video compare sempre e soltanto l’altra metà, quella rossa.

Lui prova a spargere un po’ di nebbia invitando qualche politico di destra che ha bisogno di reclamizzare un libruzzo. Ma è un alibi per potersi dipingere come il conduttore più imparziale di Videopoli. Di fatto è il censore più spietato. Esce un libro gradito alla sinistra? Ecco l’autore da Fazio. Esce un libro sgradito alla sinistra? Silenzio di tomba. Oggi Fabio il Fazioso si lamenta: «Quanto è difficile inventare un programma contro la volontà dell’azienda!». E giù lacrime.

Un’altra che fa la vittima è Serena Dandini. Confesso che mi è sempre piaciuta per la risata da ragazzaccia. Ma oggi ha una piva da Venerdì Santo. Teme di vedersi tagliare qualche puntata di “Parla con me”. Purtroppo, il suo divano rosso è fatto soltanto per chiappe rosse. Di fronte a signori rossicci, la Dandini diventa una beghina adorante. L’ho vista in ginocchio davanti a Ezio Mauro e a Eugenio Scalfari. I due spacciavano i loro sermoni arroganti. E la pia Serena se li beveva in estasi.

La Vittima Sempre Vittoriosa è Paolo Ruffini. Ecco il modello perfetto per il nostro piccolo manuale. Il suo percorso ci indica una serie di regole formidabili, tutte da rispettare. Scrivere contro la lottizzazione e farsi lottizzare. Non sapere nulla di tivù e diventare il boss di una rete televisiva. Discendere da lombi democristiani e forzisti, ma far carriera con la sinistra. Perdere una poltrona e riconquistarla grazie a un giudice. Infine avere la faccia di dire: «Voglio fare una tivù libera in un Paese segnato da troppi conflitti di interesse». Parole che in bocca a lui diventano una giaculatoria ridicola.

Ci sono infine le vittime di serie B. Uno è Antonio Di Bella. Rimasto due volte senza poltrona, il Tg3 e Rai Tre, per lo sgambetto dei suoi compagnucci, si limita a protestare senza piangere: un errore madornale. L’altro è Corradino Mineo, il capo di Rai News 24. Teme di vedersi chiudere la bottega. Forse piange, ma non se ne accorge nessuno. È il più sfigato, per questo mi sta simpatico. E gli grido: vai Corradino!, non sei solo nel tuo Caffè. Il Bestiario è mattiniero e ti vede sempre.

(di Giampaolo Pansa)