giovedì 28 ottobre 2010

Il romanzo "nero" su CasaPound fa boom in libreria


Il romanzo Nessun dolore di Domenico Di Tullio, «una storia di CasaPound», è già un caso editoriale. Pubblicato da Rizzoli, è uscito mercoledì 13 ottobre: in quattro giorni ha bruciato tutte le copie andate in distribuzione. Lunedì 18 andava in libreria la seconda edizione, esaurita il giorno stesso, e martedì 19 l’editore proponeva la terza edizione. Risultato? Il libro della «cultura non conforme di destra» (per quanto abbia ancora senso usare certe categorie) in meno di una settimana saliva al 15° posto della classifica della narrativa italiana, e ora veleggia verso la top ten. Una vicenda che ha preso in contropiede un po’ tutti nel settore: editori, librai, critici. E anche gli ipercritici, cioè coloro che in questo leggono una deriva e cercano di arginarla, come quelle librerie o megastore con libri a scaffale che, nonostante le leggi di mercato e il pecunia non olet di antica memoria, hanno pensato bene di censurare il romanzo, tenendolo nascosto in magazzino ed estraendolo solo su richiesta. «Ce l’abbiamo ma non lo esponiamo perché non mi piace», ha risposto il direttore di un grande punto vendita torinese a un ragazzo che lo chiedeva.

Ma come? Leggere fa bene, la cultura fa bene, la coscienza critica si nutre di letteratura e di libri, ma quando questi sono espressione di un pensiero non omologato e diverso da quello dei maître à penser in servizio permanente effettivo, beh, allora no, forse non è il caso... Eppure questo «selvaggio vento dell’ovest» a cui - parafrasando Shelley - è propizio il «respiro d’autunno», non si ferma, va oltre le piccole miserie e oggi fa salire le vendite di questo libro, domani non sappiamo.

«Non me l’aspettavo, non con queste proporzioni - commenta l’autore - perché questo significa che non sono solo i ragazzi di CasaPound ad averlo comprato». Già, i ragazzi di questa associazione nazionale «di destra» che si identificano nel simbolo della tartaruga, nel libro di Di Tullio si riconoscono. Vi trovano la loro comunità umana innanzitutto, che difende il diritto a un tetto, a una casa (il carapace della tartaruga appunto), il loro stile, la tensione verso un’idea di bellezza non classica, l’attenzione al corpo, cioè alla dimensione sensibile, plastica, tàttile della vita, gioia dei sensi e disciplina marziale, tra David Herbert Lawrence e Mishima, in cui l’azione «non è più sport ma già quasi rito» (ecco il perché del successo fra i suoi militanti degli sport da combattimento e dell’arrampicata in cui, secondo una concezione Tradizionale, è d’obbligo «essere ciò che stai facendo»), la solidarietà sociale, l’insofferenza per l’ipocrisia del main stream radical di maniera, l’apertura al sacro e il rispetto, quasi una filosofia, della “differenza”: «CasaPound aborre ogni forma di discriminazione sessuale, religiosa o etnica», precisa Di Tullio nel rispondere a chi, senza cercare di capire, gira la faccia dall’altra parte e liquida il fenomeno imbracciando a mitraglia l’accusa facile di antisemitismo. Il romanzo racconta la storia dell’incontro di due ragazzi romani di estrazioni sociali opposte, che si trovano a vivere insieme l’esperienza del Blocco Studentesco, l’organizzazione studentesca di CasaPound, e cominciano un percorso di amicizia e di formazione, di lotte politiche e di strada».

Fatti di vita quotidiana che svoltano in epica, quella di una Roma in cui sembra di respirare, in una sintesi paradossale ma non casuale fra Pasolini ed Ezra Pound, certe pagine di Ragazzi di vita. Loro, i ragazzi raccontati in Nessun dolore, sono quelli che amano definirsi «fascisti del terzo millennio», e costituiscono un’officina sociale che - precisa Di Tullio - «travalica certi schematismi anche terminologici: le categorie valgono per il momento storico in cui vengono coniate, e ciò che fanno i ragazzi di CasaPound oggi, nelle forme e nelle azioni, non ha riferimenti, se non in una tradizione più grande e più antica, che pre-esiste e che va oltre le apparizioni storiche del momento».

Gli scrittori preferiti da Di Tullio (già autore del saggio Centri sociali di destra, occupazioni e culture non conformi, uscito nel 2006 da Castelvecchi) rivelano, in perfetta coerenza con questo ragionamento, un eclettismo emblematico: da Fenoglio a Parise, da Cancogni a Edoardo Nesi a Franchini, quest’ultimo per «una certa inclinazione muscolare alla letteratura, alla scrittura come combattimento». Poi ci sono John Fante, Yukio Mishima, Cormac Mc Carthy «per lo stile».
Nessun dolore è un libro per chi non si adegua all’idea che non esista un’alternativa fra la banalità di una certa società dei consumi e l’anticonformismo di maniera. È il libro di chi sa che esiste un’alternativa interna alla società. Poi, volendo, c’è anche «il passaggio al bosco», certo, «ma non per i ragazzi più giovani: è una scelta da ponderare e avvicinare con spirito ascetico. Io passerei volentieri al bosco, ma con un collegamento Adsl», conclude Di Tullio. Anche Henry David Thoreau, forse, l’avrebbe fatto.

(di Lorenzo Scandroglio)

Il leader vuoto perfetto da riempire


Non sottovalutate Fini, ha un’arma micidiale che non avete preso in seria considerazione. Fini non ha un progetto politico o addirittura culturale, non ha una strategia, non ha spazi politici, non ha voglia di lavorare, non ha idee, non ha consistenza. Ma proprio quella è la sua arma micidiale: Fini attira perché è vuoto. Non è una battuta, è una valutazione politica che ha forti implicazioni. Fini è un recipiente vuoto e trasparente che ciascuno riempie come vuole. E può dunque diventare un punto di raccolta indifferenziata, una buca delle lettere o un cassonetto, se preferite, di notevole capienza. Fini può raccogliere tutti coloro i quali sono rimasti delusi per aspettative personali, carriere frustrate, dissensi politici, perfino divergenze ideali e filosofiche, perché è un medium freddo, inodore, insapore.

Se fate un viaggio tra coloro che si stanno avvicinando al suo partito trovate le motivazioni più disparate, in cui la stima e la fiducia verso Fini è una quota assai piccina. Fini diventa la discarica o il collettore di tutti i malesseri che si annidano nel centrodestra, di coloro che temono l’anagrafe di Berlusconi o di quanti non sopportano qualche colonnello. In più, mancando di qualunque contenuto, è un ottimo marsupio per depositare le proprie idee: c’è chi sogna con lui di rifare la destra e chi sogna di uscirne definitivamente, per alcuni è la promessa di tornare al passato e per altri è il futurista, c’è chi ritrova nella sua rottura con il premier l’indole d’opposizione del vecchio Msi e chi lo vede invece come una specie di ardito cercatore di terze vie, di incroci inediti con la sinistra, di trasgressioni politiche e culturali. C’è chi vede tramite lui la possibilità di essere finalmente legittimati a sinistra e chi vede nel suo partito una candidatura in un collegio già occupato da altri del Pdl. La sua vacuità è oggi la sua vera risorsa. Ma questo non vale solo in ambito interno. Fini attira i poteri forti, grandi e piccini, opachi e perfino occulti, perché non è portatore di un suo progetto, non ha punti fermi e non negoziabili, non ha un nucleo di pensieri suoi e di proposte forti; è la confezione ideale per essere riempita, veicolata e magari scagliata contro qualcuno (Berlusconi). Fini muta col mutare dei suoi utenti, assorbe le parole dell’ultimo che gli parla, è una specie di tassista della politica; la corsa e la destinazione la decidono i clienti. Studiava da duce, poi finì da conducente.

Fini è pure un buon involucro per avvolgere la sinistra, il centro e tutte le forme di antiberlusconismo, perché non portando nulla di suo, essendo un portatore sano e provvisorio di idee altrui, è utile alleato per qualsivoglia proposito. Fini non dispiace nemmeno a piccoli cenacoli intellettuali che non trovano collocazione nel presente quadro, vecchie nuove destre e vecchie nuove sinistre che da anni cercano spazi e visibilità e non la trovano: ora hanno trovato l’icona giusta su cui cliccare per accedere alla visibilità, hanno trovato il gadget politico per i loro discorsi e progetti; e sapendo che si tratta di un contenitore neutro e asettico, di un conduttore atermico, possono usarlo come credono. Quando si dice che Fini è il nulla in cravatta non si esprime disprezzo ma una rigorosa valutazione politica.

Di questa utile vacuità si accorse per primo Tatarella quando lo lanciò come erede di Almirante nell’87. Perché Fini consentiva per ragioni anagrafiche di saltare la generazione dei fascisti e dei colonnelli più anziani; ma soprattutto, Pinuccio confidava agli amici, Fini è multiuso, può essere usato per rifare il vecchio neofascismo, per tentare alleanze con la Dc o, aggiungeva preveggente, perfino per tentare intese con la sinistra. Perché non è portatore di sue idee, lui parla, dopo aver orecchiato; deve avere una chiavetta tra le scapole per caricarlo al punto giusto. Un carillon da piazza e da tv, una scatola vuota.

Se provate ad esaminare il suo linguaggio vi accorgete che la fonte principale delle sue riflessioni politiche e del suo successo mediatico sono i proverbi o comunque le frasi fatte. Dice con tono erudito «chi la fa l’aspetti» e la stampa lo esalta scrivendo: che statista. Poi dice come se stesse rivelando una verità nascosta: «La legge è uguale per tutti» e tutti lì a incensare il suo coraggio e la sua lucidità. Poi prosegue in tono scientifico: «Meglio soli che male accompagnati», e gli analisti osservano l’acume strategico delle sue scelte. Un giorno dirà: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio» e inebriati dalla sottile allusione, gli osservatori diranno: abbiamo finalmente un vero leader per la destra europea e democratica del futuro.

Il lessico finiano è attinto non dalle scuole di politologia ma dalle scuole elementari, ramo maestre del primo biennio, come vogliono del resto i suoi studi scolastici e universitari; nel triennio seguente già sarebbe inadeguato. Ma l’ovvietà rassicura, fa sentire anche i cretini persone intelligenti che capiscono la politica, e soprattutto conferma la sua promettente vacuità: ognuno inserisce dentro Fini quel che lui crede, pensa o preferisce. Non sottovalutate la sua vacuità, è il suo punto di forza e di consenso. Anche perché rispecchia il più generale vuoto della politica, di cui è l’indossatore perfetto.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 27 ottobre 2010

Staiti, lo scudiero col vizio di demolire il suo capo


Alla impertinente domanda di Giancarlo Perna: «Perché avete puntato tutto su Fini?», Pino Tatarella rispose quasi testualmente: «Perché Fini era sufficientemente scolorito per interpretare sia una politica radical-estremistica, che una svolta liberal-moderata».

Più che un suo epitaffio, sembra una pietra tombale posta sullo spessore politico e morale del personaggio Fini. Il 9 febbraio del 1999 Tatarella scompare, Fini si vede privato della sua stella polare politica e deve cercare di navigare da solo. All’inizio pensa di cavarsela facendo le stesse cose che aveva fatto, a partire dal 1978, con Giorgio Almirante, nel vecchio Msi. Stare attaccato alla giacca del leader, dire sempre sì, copiare gli atteggiamenti almirantiani, mutuarne, (a suo modo) l’eloquio, sposarne la demagogia e, soprattutto, non avere mai propri pensieri originali.

«Se mi è andata bene con Almirante, mi potrà andare bene anche con Berlusconi», deve aver pensato il giovane aspirante Forlani degli anni 2000!

(...) Sempre a modino, sempre composto, sempre «uomo in Lebole», quasi sempre silenzioso ed annuente, sempre con l’aria di chi ha pensieri profondi nella zucca, sembrava, come dicono a Roma, «nato con il fiore nel culo come le zucchine!». (...) Con l’aria compunta di chi crede in quello che dice anche se, chi lo conosce lo sa bene, in quel momento sta pensando ad altro. In realtà Fini è come l’ombrello: necessario quando piove, ma utile anche per proteggersi dal solleone! A patto che ci sia qualcuno a suggerirgli quando aprirsi e quando chiudersi. Come aveva appunto fatto fino al febbraio del ’99 Pinuccio Tatarella. La crisi di Fini e di An è cominciata da lì.

(...) Fotocopia sbiadita di Forza Italia per alcuni versi; del neodemocristianismo dell’Udc per altri; sballottata dalla Lega che la spiazza su tanti argomenti costringendola costantemente a giocare di rimessa sulla devoluzione, sull’unità nazionale, sull’immigrazione e financo sulle pensioni, An non ha più una identità forte, precisa, immediatamente riconoscibile. (...)

La crisi di An nasce da tutto questo; dalla neghittosità del suo leader; dalla vociante incapacità dei suoi cosiddetti «colonnelli», dalla perdita di ogni decenza politica di cui, il neocoordinatore La Russa, è la più palmare dimostrazione.

La crisi era già presente, prima ancora dell’evidenza elettorale; mascherata dalla finta baldanza, dal finto ottimismo, dal fastidioso presenzialismo dei vari La Russa, Gasparri e compagnia ghignante.

(...) E quasi tutti a pensare che dietro a quegli occhiali si celasse una grande intelligenza politica mentre invece, come aveva intuito Bettino buonanima, c’era solo il nulla.

L’uomo che non c’era e che finge di esserci, può pure continuare ad immaginare la politica come una carriera bancaria: tot anni, tot scatti; tot anzianità, tot aumenti di stipendio; ma abbiamo la netta sensazione che, questa volta, i suoi calcoli siano completamente sbagliati.

La destra da lui incarnata non serve a nulla, non rappresenta più nulla, non conta nulla.

Chi è senza passato e senza memoria, può anche avere un presente, ma, di certo, non avrà un futuro.

(di Tommaso Staiti di Cuddia delle Chiuse)

(Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo «Un carrierista sco­lorito che non ha futuro» di Tomaso Staiti di Cuddia della Chiuse. Il testo, originariamente pubblicato sulla «Padania», è stato ripreso nel 2004 da Leo Siegel e Mariano Congiu nel loro «Finimondo» (edizioni Seb, 125 pag). Stai­ti, deputato dell’Msi tra i ’70 e gli ’80, uscì da An in polemica con Fini.
L’altroieri Staiti ha ascoltato seduto in prima filail comizio per «aspiranti futuristi» di Fini a Milano, esprimen­do poi forte apprezzamento per il presidente della Camera. Ecco quello che scriveva su di lui solo pochi anni fa).

Márai, un esule triste nell’Italia comunista


Nel 1948 Sándor Márai, esule dall’Ungheria, arrivò in Italia e fra le varie città ove fermarsi optò per Napoli. Alla base di questa decisione c’erano motivazioni diverse: la prima era che nel capoluogo campano viveva Benedetto Croce, e per un liberale conservatore e aristocratico quale Márai, quella vicinanza significava al tempo stesso un conforto morale e una scelta politica. Márai era fuggito dal proprio Paese dopo che il comunismo aveva preso il potere, e con i comunisti non voleva avere niente a che spartire. Solo che in quell’immediato dopoguerra l’Italia viveva la paradossale situazione di una democrazia occidentale dove il Pci era la seconda forza politica, nonché l’incarnazione della resistenza al fascismo in nome della libertà e di una guerra partigiana che la retorica voleva di popolo e vittoriosa, laddove era stata un fenomeno minoritario e di scarsa importanza militare. Agli occhi di Márai, Croce e il suo entourage rappresentavano una sorta di compensazione a una deriva intellettuale per lui incomprensibile e grazie alla quale il comunismo non era una dittatura, ma una speranza...

Nell’Italia e a Napoli in particolare, Márai si illudeva inoltre di trovare ciò che nel resto dell’Europa uscita distrutta dal conflitto gli sembrava invece scomparso: una certa idea di fraternità, una povertà capace di unire invece che di dividere, un sentimento compassionevole che si nutriva di quello che nei secoli era stato il destino di un popolo invaso, occupato, dominato eppure a proprio modo unito, universale, votato alla grandezza spirituale e artistica. A Napoli, le sue coste, le isole che la fronteggiavano, Márai affidava quel sentimento della storia e della memoria tipico di un’intellighentia europea che a partire dal XVIII secolo aveva fatto del Grand Tour nella penisola il luogo deputato di ogni educazione intellettuale e di una vera e propria dolcezza del vivere. Come Goethe, anche lo scrittore ungherese vedeva nel «Paese dove fioriscono i limoni» la patria della giusta misura delle cose: baciata dalla natura, benedetta dalla luce divina. Si sbagliava, ma era in buona compagnia.

L’esilio italiano di Márai durò pochi anni, sufficienti per capire che la nostra era una nazione «fragile» e che la sua condizione di scrittore esule dall’Est Europa lo metteva nell’ambigua situazione di essere visto con sospetto in un ambiente culturale dove la via italiana al comunismo veniva sempre più presa sul serio e l’anticomunismo sempre più ritenuto un reperto reazionario. La morte di Croce, nel 1952, a 86 anni, fu in fondo l’epilogo di un pensiero liberale fiero e consapevole: dopo di allora liberali e marxisti più che avversari si scopriranno «fratelli separati», con i secondi a incarnare una sorta di inveramento rivoluzionario dei primi... Ma il 1952 è anche l’anno in cui Márai scelse di andare oltreoceano, negli Stati Uniti. Un secondo tentativo, alla fine degli anni Sessanta, a Salerno, questa volta, lo avrebbe definitivamente convinto che quello, purtroppo, non era il paese per lui.

Dell’esperienza italiana resta questo romanzo particolare, San Gennaro Vére e che ora esce tradotto in Italia per la cura di Antonio Donato Sciacovelli (Il sangue di San Gennaro, Adelphi, 346 pagine, 19 euro).

Costruito su un doppio binario, Il sangue di San Gennaro non si discosta nella prima parte da quella visione della napoletanità nobile e stracciona, sconfitta eppure a suo modo vittoriosa, delle commedie di Eduardo, dei reportage di Norman Lewis, dei romanzi di Salvatore Marotta e di Curzio Malaparte, scrittori diversissimi e che però nel far convergere il loro interesse su una città ne avevano ricavato una filosofia del vivere. Ancora anni dopo, Raffaele La Capria ne avrebbe dato un compendio magistrale in Ferito a morte, un romanzo dove l’idea d un paradiso perduto per incuria e pigrizia, eccesso di sicurezza, abitudine al bello trasformatasi in passività, cinismo indolente, illumina la decadenza del Meridione d’Italia meglio di un trattato sociologico.

É nella seconda parte però che Márai emerge con prepotenza, perché Il sangue di San Gennaro racconta il dolore di chi, costretto ad andarsene dalla propria terra, sa benissimo che d’ora in poi sarà sempre e comunque uno straniero. Questo sentimento, tuttavia, non si nutre di nostalgia, desiderio di vendetta, illusione in un possibile ritorno. L’esule Márai si sentiva colpevole: si era salvato invece di sacrificarsi... «Il comunismo non è altro che la forma sociale del Nulla. Ora, non c’è niente di più profondo e di più pericoloso del Nulla». Accettarlo e/o ammetterlo significava negarsi come esseri umani. Occorreva invece «la capacità dell’uomo a liberarsi grazie a una rivoluzione spirituale interiore, a sbarazzarsi del giogo imposto dai differenti sistemi sociali». Márai non credeva «a qualsiasi soluzione d’ordine sociale». No, «credeva solo nella redenzione».

Questo atteggiamento aiuta a capire perché Il sangue di San Gennaro trovasse in Italia scarsa eco. Oltre a negare al comunismo dignità intellettuale e politica, Márai non lesinava le sue critiche agli ex comunisti, questi «piromani terrorizzati dall’incendio che hanno contribuito ad appiccare e che ora si fanno assumere da una compagnia d’assicurazione in qualità d’esperti incaricati di stimare i danni»... Questi «compagni di strada che passano il loro tempo a lamentarsi ipocritamente sui metodi “erronei” del collettivismo».

Il suo radicalismo aveva un che di religioso, lo scontro era fra chi crede che l’uomo si esaurisca nella materia e chi invece crede in una spiritualità in grado di riscattare e vincere qualsiasi miseria economica, sociale, morale. Accettando l’esilio, Márai aveva salvato la propria vita, ma sentiva d’aver perso l’anima ed era questo che non sapeva perdonarsi.

Quarant’anni dopo, si sarebbe sparato un colpo di pistola. Era vecchio, malato, non aveva più affetti, il pensiero stesso della letteratura gli procurava solo nausea e disgusto. Si uccise l’anno in cui crollò il Muro di Berlino e dall’Ungheria si moltiplicavano gli appelli intellettuali a tornare, il mea culpa di un regime in dissoluzione. «Vogliono trasformarmi in un monumento, me e i miei libri. Ripubblicano tutto, con rilegatura in pelle, me compreso. Il destino comune di ogni monumento è che i cani finiscono per pisciare sul piedistallo».

(di Stenio Solinas)

Gli ottobristi di Fini hanno il vantaggio dell’indistinto, faranno strada


Che cosa vogliono i pensatori finianì? Passare dalla crisi dei valori al valore della crisi, mobilitare le energie degli esuli in Patria, ricombinare le identità di destra e di sinistra per amalgamarle in un ethos pubblico costituzionalmente corretto. Quindi racchiudere gli affiuenti in un bacino indifferenziato dal quale attingeredi volta in volta a seconda delle esigenze. Lo schema della Nuova destra, seppur rivisitato, è troppo chiaro per non rilevarlo subito, leggendo il “manifesto di ottobre per una rinascita della res publica e per un nuovo impegno politico-culturale” concepito dagli intellettuali finianì e già sottoscritto da numerosi colleghi di area progressista (da Maurizio Calvesi a Fiorello Cortiana, passando per Ermete Realacci, Giacomo Marramao, Nadia Fusini e Marco Müller).

Altri se ne aggiungeranno, attratti verosimilmente dalla genericità dell’impegno, dalla vaghezza ambiziosa dei contenuti – “accrescere il capitale sociale rappresentato dall’intelligenza e dalle virtù civili italiane” – e dal tocco inequivocabilmente modernista dell’iniziativa. La proiezione verso il domani – sia questa declinata secondo la banale “nostalgia del futuro” di almirantiana memoria, ovvero declamata con più genuina protensione verso una meta a venire che non contraddica il punto di provenienza – e un magnete destinato a raccogliere più consensi a sinistra che a destra. E gli intellettuali finiani non a caso si sono stanziati lungo la linea di frontiera oltre la quale una scappatella nel terreno altrui rende più di quanto possa costare in termini di coerenza.

Ciò detto resta lecito l’nterrogativo: da quale “linea di tiro” la Destra nuova di Fini scaglia le sue proposte e chiede di sottoscriverle? Non più quella di Alleanza nazionale/Pdl, bipolarista, conservatrice nei princìpi e liberista a intermittenza nell’amministrazione della cosa pubblica. Non ancora quella di un partito, Futuro e libertà, alla ricerca di una collocazione nel planisfero del post berlusconismo. Le citazioni dI Calamandrei e Hannah Arendt sulla libertà e sulla partecipazione in politica, ben evidenti nel manifesto degli ottobristi, non contraddicono l’impressione che i finiani puntino molto sull’inafferrabilità.

La vecchia Nuova destra di Tarchi e De Benoist si giaceva con le proprie certezze ereditate dall’alto Novecento: la Rivoluzione conservatrice, o modernismo reazionario, l’ecologismo à la Walter Darrè, l’organicismoo mitteleuopeo, le fantasticherie medievistiche di Tolkien. La Destra nuova dì Fini tende invece a rifuggire il fermo immagine sul proprìo arsenale di persuasione di massa, si limita a piantare il vessillo della futurolatria combinata con una imprecisata istanza di libertà. L’analisi del presente permeato da corruzione e corrosione è impeccabile ma l’antipassatismo non basta a se stesso nemmeno quando lo si nobiliti spolverandolo con il freddo agonismo delle idee (peraltro tratto dalla lezione storica di Machiavelli).

Tanto basta per liquidare l’operazione degli ottobristi? Evidentemente no, altrimenti sarebbe stata sufficiente una freddura. Il vantaggio degli ottobristi, che è anche la promessa di una durevolezza per il loro impegno, è nel calco negativo rappresentato dalla vacuità circostante alla loro intemerata. La sincope del bipolarismo di tipo anglosassone (trionfo della logica aristotelica: non si può essere al tempo stesso “A ” e “non-A“) e l’enfantillage intellettuale alimentato dai mezzi d’informazione e d’intrattenimento di massa, così come dai più paludati organi della cultura un tempo egemone (da Internet ad Alfabeta.2), incoraggiano il regresso verso un indistinto commercializzabile come ritorno al futuro.

(di Alessandro Giuli)

Shakespeare era cattolico?


William Shakespeare era cattolico? Secondo lo scrittore Joseph Pearce vi è una serie di elementi che porterebbe a rispondere affermativamente.

In questa intervista rilasciata a ZENIT, Pearce parla del suo ultimo libro, The Quest for Shakespeare: The Bard of Avon and the Church of Rome (edizioni Ignatius Press) in cui ripropone elementi della vita delle opere di Shakespeare, che ne dimostrerebbero la fede cattolica.

Il libro Shadowplay: The Hidden Beliefs and Coded Politics of Shakespeare di Clare Asquith è noto soprattutto per aver avanzato l’ipotesi che William Shakespeare fosse cattolico. Vi sono stati altri nella storia che hanno sostenuto la stessa idea?

Pearce: Esiste una schiera di illustri studiosi di Shakespeare che sono arrivati alla conclusione che il poeta fosse cattolico. Dopo il lavoro pionieristico di Richard Simpson del XIX secolo, la convinzione che Shakespeare fosse un credente cattolico ha ricevuto conferme dal successivo lavoro investigativo accademico degli studiosi. Tra questi ultimi figurano il padre gesuita Herbert Thurston, Mutschmann e Wentersdorf, John Henry de Groot, Ian Wilson, un’altro gesuita, padre Peter Milward, Hildegard Hammerschmidt-Hummel e ovviamente la citata Clare Asquith.

Come mai questo elemento della vita di Shakesperare è passato così inosservato agli occhi di tanti studiosi, che lo hanno definito al di sopra della religione, di una sorta di umanesimo laico o di un ateismo illuminato?

Pearce: Negli ultimi anni anche gli studiosi sono stati costretti a prendere atto del crescente numero di elementi di prova che dimostrerebbero la cattolicità di Shakesperare, anche se molti rimangono in un ostinato rifiuto. Il motivo per cui la fede cattolica di Shakesperare è rimasta nascosta è ascrivibile ad una combinazione di fattori. Anzitutto il fatto che il cattolicesimo, ai tempi di Shakespeare, fosse fuori legge. Per questo motivo tutti i cattolici dovevano mantenere segreta la loro fede. Il secondo motivo per cui la cattolicità del poeta è rimasta largamente ignota nei due secoli successivi alla sua morte è dovuto alla tendenza anticattolica del mondo intellettuale di quel periodo. In terzo luogo, gran parte degli elementi inconfutabili non sono venuti alla luce o non sono stati correttamente intesi se non fino a poco tempo fa. Infine, l’idea che Shakespeare fosse un umanista laico o un ateista è dovuta ad un’interpretazione soggettiva da parte di critici d’arte laici che hanno voluto vedere riflessi, nelle sue opere, i loro pregiudizi personali. Queste letture erronee sono state sconfessate dall’evidenza storica che dimostra che Shakespeare era un cattolico credente.

Da britannico cattolico, quali elementi di novità è riuscito a raccogliere su ciò che ha definito il puzzle della vita cattolica di Shakespeare?

Pearce: Ritengo che la mia posizione di cattolico britannico mi abbia aiutato molto nella ricerca sul carattere cattolico di Shakespeare. Conosco la storia del mio Paese e mi sono sentito molto a casa nel periodo di Elisabetta I e di Giacomo V, che è oggetto del mio libro. Il valore principale del mio libro è che esso raccoglie il gran numero dei diversi elementi di prova, nelle pagine di un unico volume. Prima della mia pubblicazione di The Quest for Shakespeare era necessario leggere separatamente numerose opere per poter assemblare insieme tutti i pezzi del puzzle. Ora tutti i pezzi sono disponibili in un unica fonte. Per quanto riguarda gli elementi di novità, credo che il mio libro offra una visione inedita dei fatti. Forse la più evidente differenza fra il mio lavoro e quello della gran parte degli altri studiosi sul carattere cattolico di Shakespeare è la tesi in cui sostengo che egli era considerato un cattolico sicuro dalla regina Elisabetta e dal re Giacomo e che la sua cattolicità non era ignota ma era tollerata dalle autorità.

Quali elementi di cattolicità è possibile trovare nella sua famiglia?

Pearce: Che la famiglia di Shakespeare fosse devotamente cattolica e praticante è ampiamente dimostrabile. La famiglia della madre era una delle famiglie cattoliche più note in Inghilterra e diverse cugine di Shakespeare erano state giustiziate per il loro coinvolgimento nei cosiddetti complotti cattolici. Il padre di Shakespeare era stato multato in quanto cattolico e così anche la sorella Susanna. Anche la scoperta di un testamento spirituale firmato dal padre di Shakespeare conferma inequivocabilmente la sua fede cattolica.

L’accoglienza delle sue opere presso la corte della regina Elisabetta non sono prova che egli avesse abbracciato la religione di Stato anglicana?

Pearce: Molti noti cattolici, considerati sicuri dalla regina, avevano accesso alla corte. Tra questi vi sono William Byrd, il compositore di corte, che era un noto cattolico, e il Conte di Southampton, benefattore di Shakespeare, che era tra i favoriti della regina nonostante fosse cattolico. Il fatto, quindi, che le opere di Shakespeare fossero recitate per la regina non significa che egli non potesse essere cattolico.

Lei sostiene che la vita di Shakespeare oscillava costantemente fra convenienza e convinzione. Cosa intende dire? E’ un aspetto che emerge anche nelle sue opere?

Pearce: La tensione di questa oscillazione in cui Shakespeare cercava di esprimere le sue convinzioni senza rischiare di trovarsi incriminato emerge con evidenza nella tensione intrinseca delle sue opere. Sebbene il carattere cattolico sia evidente, esso viene sempre espresso in modo circospetto. E proprio questo elemento di circospezione e ambiguità è il motivo di una così frequente diversa interpretazione da parte della critica laica. Il cattolicesimo, quindi, è certamente presente nelle sue opere, ma solo una lettura critica autentica potrà portare alla luce l’intera ricchezza della morale cattolica di cui sono intrise.

(di Carrie Gress - http://www..zenit.org/)

martedì 26 ottobre 2010

Governo tecnico proposta comica


Che lo si chiami "governo tecnico", "governo di transizione" o "governo di liberazione" (da Berlusconi, naturalmente) fa ridere comunque. Potrebbe essere una tragedia se fosse una cosa seria, ma per fortuna è soltanto un diversivo al quale fingono di credere i pochi oligarchi terrorizzati dalla prospettiva elettorale. Essi stessi, si rendono conto che una maggioranza alternativa politica e non semplicemente numerica in Parlamento non c'è. Il fatto poi che i fautori di un tale obbrobrio litighino già prima che la possibilità, ancorché remota venga esperita, la dice lunga sullo stato confusionale di chi vorrebbe cacciare il Cavaliere da Palazzo Chigi ed insediarvi un signore privo di legittimità popolare. È bastato che il leader di Fli, Gianfranco Fini, proponesse l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, emulando il Bertinotti d'un tempo, che Casini, suo potenziale alleato, gli rispondesse piccato. Altri, della stessa presumibile compagnia, come Montezemolo e Rutelli, non si sono ancora pronunciati, ma è difficile ritenere che condividano la sortita finiana. E siamo alla rottura di quello che dovrebbe essere il «nocciolo duro» del cosiddetto esecutivo di transizione.

Ma della partita dovrebbe essere pure la sinistra «presentabile», dialogante, quella impersonata dal Pd il cui segretario Bersani vorrebbe un governicchio di pochi mesi, giusto il tempo perché gli sconfitti della primavera 2008 facessero una legge elettorale contro i vincitori e si tornasse alle urne.

Diversamente la pensa D`Alema, neo-sodale di Fini, per il quale il governo post-berlusconiano dovrebbe comunque completare la legislatura. É per questo si prende del «matto» da Vendola il quale ritiene che ci sia invece bisogno della legittimazione popolare per fare riforme economiche di struttura che, dal suo punto di vista, dovrebbero rispondere a criteri pauperistici, un terreno sul quale potrebbe incontrarsi con Fini. Di Pietro è fuori gioco, brama dalla voglia di andare alle elezioni per salvaguardare il suo patrimonio di voti poiché sa bene che il tempo lavora contro l'Idv. Inutile dire che questa assortita compagnia dovrebbe anche tirar fuori dal cappello a cilindro il federato re di tutte le contraddizioni che sarebbero la vera anima del «governo di transizione». Impresa proibitiva perfino al mago Houdinì.

Ecco perché non è una cosa seria. Anzi, è talmente ridicola che non bisognerebbe neppure occuparsene. Ma la cronaca politica questo passa ed i giornali hanno il dovere di riferire. Sia pure per dare conto dell'inanità della nomenclatura che si propone come alternativa agli assetti determinati dalla volontà dell'elettorato.

Proviamo ad immaginare i sullodati esponenti della «guerra di liberazione» dal Cavaliere se questi dovesse essere sfiduciato alla Camera (al Senato è matematicamente impossibile e le ipotesi dei «congiurati» sono destinate a naufragare), intorno ad un tavolo per mettere insieme un programmicchio ed individuare un leaderino: dite che non sarebbe meglio del «Bagaglino» o di «Zelig»? Uno spettacolo che non vorremmo perderci per nulla al mondo. Dovremo però farne a meno perché nessuno lo metterà in scena. Per fortuna degli italiani, comunque la pensino. O il governo va avanti o si vota. Si mettano l'anima in pace i Frankenstein della politica.

(di Gennaro Malgieri)

Noi, schiavi dell’immaginazione al potere

Abbiamo smesso di sognare, dice la gente. Non siamo in grado di accettare la realtà, dice la stessa gente. Due cose opposte, dice la gente, qual è vera tra le due? Ambedue. Come succede ai bambini, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Provo su strada la filosofia, la porto in mezzo alla gente. So che sui giornali non si usa, ma io ci provo. Trovo conferma dei due modi di dire. La gente ha paura della vita, ha paura della realtà. Ha paura della violenza, ha paura dello straniero, ha paura delle malattie, ha paure dell’inquinamento, ha paura delle discariche e delle antenne. E ha paura di far figli, di uscire la sera tardi, di perdere il tenore di vita, ha paura del futuro ma anche del passato. E allora si rende schiava delle illusioni, che cerca in video, in fumo, nelle trasgressioni, in vacanza, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni, cambiano gli oggetti ma non i soggetti. In passato, un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrorismo, la violenza, gli anni di piombo. C’era chi bruciava nel fuoco i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. Ma i disagi, la violenza, le paure del presente sono passate dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa cosa: abbiamo scambiato il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere alla luce del sole la realtà quotidiana, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all'incanto o all'irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l'amore è ridotto all'atto sessuale, la religione è ridotta a proiezione nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l'arte è ridotta alle condizioni economiche e materiali, le idee ai rapporti di produzione, la cultura all'egemonia. In più ci snaturiamo quando dovremmo vivere la natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all'astrologia: si veda a tal proposito il saggio di Theodor Adorno, Stelle su misura, ristampato in questi giorni da Einaudi (pp.134, E11.50) in cui il filosofo di Francoforte analizza questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne.

Questa inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel '68 una formula di successo: l'immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l'uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, ribaltando così il rapporto con il cielo e con la terra. Se ci fate caso, i malesseri del presente - come i dolorosi furori del passato - hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, gli chiudiamo quando c'è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.

Passo dalla realtà alla letteratura, senza citarvi testi di filosofia o romanzi dove sarebbe facile pescare quel che dico; ve ne cito solo due agli antipodi. Uno è di un ex presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, Non è questa l'Italia che sognavo, un diario delle illusioni perdute nella repubblica italiana, il bilancio di una delusione. L'altro, all'opposto, è di un medico dell'anima, Ethan Watters, e si intitola: Pazzi come noi. Depressione, stress, anoressia: malattie occidentali da esportazione (B.Mondadori, pp.204, E.22). Watters racconta che succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. Non dice così, non voglio affibbiargli un mio pensiero; ma quella mi pare la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale che egli descrive. Vogliamo pestare il cielo con i piedi e camminare con la testa. Così i nostri dei sono pedestri, all'altezza delle nostre scarpe, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell'immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi chiamava psicocrazia. Gli dei caduti in terra si chiamano malattie. L'immaginazione al potere ci ha resi schiavi, non liberi; alienati, non autentici. Viviamo bene solo in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell'attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà maledizione. Così la vita diventa una confortevole patologia.

La terapia è semplice a dirsi, difficile a realizzarsi: restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinare il duplice bisogno di sogni e di realtà che ci rende uomini, collocandoli però nel loro giusto tempo e al loro giusto posto. Facile a declamarla, provate sul serio a realizzarla. E' quasi impossibile, ma a quel quasi conviene dedicare la vita.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 25 ottobre 2010

Non si giustifichi con la Bibbia un’occupazione ingiusta


Oltre a una generica condanna all’insegna della par condicio – non al terrorismo (di qualunque origine), all’antisemitismo, alla cristianofobia e all’islamofobia – il Sinodo sul Medio Oriente, dopo due settimane di serrato dibattito interno, ha riservato nel documento finale una bordata senza precedenti a Israele per la sua politica di occupazione.

«Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie».

Dietro questa frase è sintetizzata la posizione filo palestinese manifestata dalla maggioranza dei vescovi mediorientali che hanno preso parte ai lavori assembleari in Vaticano. Monsignor Bustros, arcivescovo dei greco-melkiti, presidente della commissione sinodale per il messaggio finale, si è fatto portavoce del sentimento generale spiegando che «la terra promessa è tutta la terra. E che non vi è un popolo scelto. Non ci si può dunque basare sul tema della terra promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e l’esilio dei palestinesi».

In buona sostanza «è chiaro, per noi cristiani, che non si può giustificare il ritorno degli ebrei e la espulsione dei palestinesi». A titolo di chiarimento ha anche puntualizzato che si «sono portati 4 o 5 milioni di ebrei in Palestina e, al contempo, sono stati cacciati 3 milioni di palestinesi dalle terre in cui avevano vissuto per 1600 anni»..

Di conseguenza «si tratta di una mera questione politica, ecco perchè non bisogna basarsi sulla Sacra Scrittura per giustificare l'occupazione da parte di Israele nella terra palestinese».

Ma i cristiani si arrovellano per capire quale sarà il loro futuro in Medio Oriente, consapevoli di essere stretti tra l’incudine (Israele) e il martello (l’estremismo religioso di matrice islamica). Sicché durante il Sinodo è risuonato più volte un interrogativo angosciante: come contenere l’emigrazione? «Noi vogliamo offrire all’Oriente e all’Occidente un modello di convivenza tra le differenti religioni e di collaborazione positiva tra diverse civiltà, per il bene delle nostre patrie e quello di tutta l’umanità», viene assicurato nel testo del messaggio finale. Sanno che la pace potrà arrivare solo col rispetto della legalità internazionale,a cominciare dalle risoluzioni dell’ONU, troppo spesso disattese.

«La soluzione dei due Stati diventi una realtà e non resti un semplice sogno». Un auspicio al quale si è associato il forte appello alla Comunità Internazionale affinché lavori «sinceramente a una soluzione di pace giusta e definitiva, attraverso l’applicazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, soprattutto per mettere fine all’occupazione dei differenti territori arabi». Il Sinodo spinge perché Israele torni a rispettare i confini che aveva nel 1967. «Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Al contempo lo Stato di Israele potrà godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute».

I timori dell’assise sinodale si sono poi rivolti al futuro di Gerusalemme, capitale contesa da israeliani e palestinesi. «Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo futuro».

(di Franca Giansoldati - http://www.ilmessaggero.it/)

Perché piace Casa Pound

Ci si chiede, spesso, come abbia fatto CasaPound a costruire così tanto in così poco tempo. Ce lo chiediamo spaesati a sinistra, per quello che valgono le etichette di appartenenza, ma è per capirci. Se lo chiede – sono sicuro – il variegato mondo del neofascismo italiano, disorientato da tanta irriverenza guascona e dall'idealtipo del "fascista del terzo Millennio" così lontano dai codici interpretativi e culturali da loro fino ad ora utilizzati.
Chi sono, e perché hanno tanto successo questi nuovi fascisti italiani? Da dove viene questo movimento che occupa case, chiede giustizia sociale, suona e produce musica indipendente?
La risposta, fulminante e senza possibilità di replica, si trova in "Nessun Dolore", romanzo scritto da Domenico Di Tullio, che di CasaPound è l'avvocato e militante di vecchio corso.
Un'auto-etnografia romanzata della realtà politica e culturale rappresentata da CasaPound, vista attraverso gli occhi, il sudore, il corpo, l'entusiasmo di due generazioni di militanti: i più anziani, quarantenni, e le nuove leve del Blocco Studentesco, l'organizzazione giovanile di CasaPound.
Attraverso l'intreccio delle storie di vita vissute dai protagonisti, l'autore racconta di una comunità uscita allo scoperto, dopo anni di ghetto culturale e politico, svincolatasi dal confino in cui era stata e si era rinchiusa. E che si presenta oggi con il suo miglior biglietto da visita: il riff sudato e distorto, scanzonato e tagliente di una canzone degli ZetaZeroAlfa, capace di aggregare giovani liceali figli della Roma bene e rudi ragazzi cresciuti negli scantinati adibiti a palestre delle periferie della Capitale.
L'immagine che il libro restituisce del gruppo umano che anima e alimenta CasaPound è una fotografia di ragazze e ragazzi sorridenti, di corpi tatuati e muscoli scattanti, di nervi tesi e sudore, di vita agiata e di spazi conquistati a forza, di valori in cui credere e di una perenne volontà di superarsi, di dare il massimo e subito dopo ancora di più.
Senza cadere in tentazioni di autoreferenzialità, la narrazione è un viaggio in una realtà che grida con forza e gioia la sua presenza nel mondo e il suo volersi riprendere tutto. Una realtà coesa e massiccia come una falange oplitica, in cui però nessuna individualità si diluisce nel tutto, ma rimane sé stessa, rivendica con il suo esserci la propria appartenenza.
Questa rivendicazione della propria unicità individuale, che accresce un soggetto collettivo senza perdersi in esso, trova espressione e affermazione nella dimensione della fisicità e della corporeità. Mettere in discussione il proprio sé nel processo di affermazione della propria soggettività individuale implica al contempo l'esporre a dei rischi il proprio sé corporeo. Ciò avviene nella convinzione che il lavoro su sé e sui propri limiti non può non riguardare anche la dimensione della propria corporeità.
E' qui che si ritrova la palingenesi del fascismo del terzo millennio: così come il pogo dei punk inglesi metteva in crisi le forme classiche del ballo nel rock, allo stesso modo la cinghiamattanza attraverso il ballo esaspera e rappresenta - per i militanti di CasaPound - aspetti fondamentali dell'esistenza: la vitalità, il gioco, la lotta, contrapposti a un modello culturale dominante e imposto che ha con il corpo "un rapporto complessato, paranoico, decadente".
Un libro che risponde quindi ai molti che si interrogano – con un approccio non pregiudiziale - sull'ascesa ed il successo di CasaPound.
(di Emanuele Toscano - http://www.espresso.repubblica.it/)

domenica 24 ottobre 2010

Mai più cavie umane


L'America lo ha fatto per la seconda volta: pochi giorni fa il Segretario di Stato Hillary Clinton si è scusata pubblicamente con il Guatemala per una sperimentazione, condotta dal 1946 al 1948, durante la quale almeno 700 individui, tra detenuti, malati mentali e soldati, sono stati deliberatamente infettati con l’agente della sifilide (e di altre malattie veneree), grazie anche alla complicità involontaria di prostitute, per verificare, poi, l'efficacia della penicillina.

Era già successo fra il 1932 e il 1972 con il tristemente famoso studio di Tuskegee: allora 400 raccoglitori di cotone dell'Alabama, malati di sifilide, erano stati lasciati senza cure allo scopo di studiare gli effetti della malattia. Per questo esperimento era stato l'allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a presentare le sue scuse, nel 1997. Poco tempo dopo è stato creato il Centro di bioetica di Tuskegee, uno dei primi negli Stati Uniti, e il problema delle sperimentazioni cliniche nell’uomo è diventato argomento di discussione fra ricercatori, bioetici, politici, filosofi, pazienti, sostenitori dei diritti civili e, persino, giornalisti. Discussioni che hanno prodotto, nei Paesi occidentali, una serie di regole e leggi per la tutela di chi vi partecipa, compresa la dichiarazione di Helsinki.

Proprio in questi giorni, in Italia, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri un disegno di legge su «Sperimentazione clinica e altre disposizioni in materia sanitaria» che, fra l’altro, prevede nuove regole per i comitati etici (che hanno il compito di tutelare i diritti di chi partecipa a sperimentazioni) e l'individuazione di nuovi requisiti per i centri autorizzati alle sperimentazioni cliniche, a partire dai test di laboratorio fino a quelli sull’uomo. Bene. Ma leggendo la letteratura scientifica, frequentando congressi internazionali, visitando centri di ricerca, dall’America alla Cina, ascoltando ricercatori e pazienti, e, perché no, navigando in Internet, ci si imbatte in una serie di questioni ancora più complesse. Intanto si percepisce la pressante necessità di trovare persone disponibili a partecipare alle sperimentazioni, soprattutto di farmaci. Basti pensare che sono in sviluppo 800 nuove molecole anti-cancro: dove reperire i malati?

Negli Stati Uniti il reclutamento avviene anche attraverso giornali e siti Internet. Ma non basta: così l'industria, da tempo, si è rivolta ai Paesi in via di sviluppo. Che spesso non hanno regole così severe come in Occidente. All'ultimo congresso degli oncologi americani si è posto il problema dell'affidabilità di queste sperimentazioni per valutare efficacia e sicurezza di medicinali che arriveranno poi sul mercato mondiale. E non ci sono solo i farmaci: ci sono anche le terapie con le staminali, i dispositivi medici, come protesi o stent, i nuovi interventi chirurgici (dai trapianti estremi all'uso di robot in sala operatoria) che dovrebbero essere valutati attraverso accurati e ampi protocolli sperimentali. La questione è più complicata di quello che sembra e merita un dibattito molto approfondito con tutti i cittadini. Tutti potenziali «cavie».

sabato 23 ottobre 2010

Cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza


OTTOBRE 2003 "Ho passato gran parte della mia vita politica a combattere ribaltoni e trasformismi, sono convinto che i valori di lealtà sono indispensabili in politica e non cambio idea. Chi parla di governo tecnico o pensa che nel mio immediato futuro ci sia un atteggiamento al di fuori dell’amicizia e della lealtà verso Berlusconi non mi conosce e non ha capito nulla".

23 OTTOBRE 2010 "Se il governo non cambia passo e cade si apre una fase nuova. Solo chi non conosce la Costituzione può dire che non è lecito dar vita a un altro governo nel corso della legislatura. La possibilità di avere un altro governo all'interno della legislatura è già successa in passato, e nessuno ha parlato di colpo di Stato».

venerdì 22 ottobre 2010

Protesta pastori: Petrini, fermare la speculazione del latte

Carlo Petrini guarda fisso negli occhi il commissario europeo all’Agricoltura Dacian Ciolos e attacca: «Se i pastori sardi sono nelle condizioni che andate leggendo in questi giorni la colpa è degli speculatori che vanno in Romania e lì acquistano a prezzi ridottissimi il latte e poi lo portano in Italia. Questo commercio sleale ha un nome: dumping. Noi a Terra Madre ospitiamo pastori romeni che sanno fare ottimi formaggi. Ecco, commissario: cerchiamo di far produrre più formaggi e bloccare questo commercio illegale. Sono ottimi i vostri prodotti e a Torino, con una comunità romena così fortemente rappresentata, li vendereste benissimo».
Anche ieri è andato dritto all’obiettivo il patron di Slow Food Petrini davanti alla foltissima platea della Sala Gialla del Lingotto. Chissà come avrà tradotto la signorina che accompagnava Dacian Ciolos certe espressioni piemontesi che Petrini (e anche il sindaco Chiamparino) hanno usato in abbondanza. Ma una cosa è certa: il commissario ha capito e apprezzato il messaggio. In ogni caso, Petrini ha ribadito il concetto: «In Romania bisogna implementare la produzione del latte per fare buoni formaggi e non favorire speculazioni fatte dai rumeni, ma anche dagli italiani sul latte a basso prezzo: insomma, è tempo di fermarli entrambi. I romeni producano buoni formaggi e gli italiani smettano di comprare formaggi tarocchi».
Applausi. Ancor più forti quando Petrini ha parlato della misera retribuzione dei pastori sardi. «Volete sapere quanto prendevano queste persone per un litro di latte nel 2000? Duemila lire. E volete sapere quanto guadagnano adesso? Sessanta centesimi. Vi sembra possibile?». Gran battimano anche quando Carlin ha detto che «è giunto il tempo di un’agricoltura 2.0. E quindi dobbiamo far sì che una nuova generazione di giovani torni a lavorare la terra». Poi è sceso nei dettagli: «Oggi il 44% degli addetti ha più di 65 anni». Secondo il fondatore di Slow food «ci vuole un grande processo educativo, bisogna fare in modo che nelle scuole ci sia un’educazione alimentare».

Piazzale Michelangelo si riempie di marmo con Graziano Cecchini

mercoledì 20 ottobre 2010

La tv ha distrutto anche la cronaca nera


Una frase che ha reso famoso lo scrittore Massimo Fini, da sempre convinto oppositore dei danni provocati dal mezzo televisivo, che non manca, sul mensile da lui diretto - «La voce del ribelle» - di ribadire il proprio credo.

La sua posizione di critica negativa si è rafforzata alla luce degli ultimi fatti di cronaca così spettacolorizzati?

«Sì, se mai ce ne fosse stato bisogno. La televisione ha distrutto quel che rimane della cultura italiana: lo si vede, purtroppo quasi tutti i giorni, in questo gioco di controspecchi, di primi piani, di dichiarazioni a effetto studiate a tavolino. La televisione ci ha completamente diseducato».

In che senso la tv sta diseducando il popolo italiano?

«Semplice. La televisione ha educato la gente a comparire, ad esserci a tutti i costi. A fare capolino tra una telecamera e l'altra e a giurare di essere stato testimone di chissà che cosa. Pur di esserci, di essere riconosciuto. Ricordo i funerali di Fausto Coppi, con tanta gente discreta e sinceramente commossa a seguire il feretro in religioso silenzio. Oggi succede esattamente il contrario. Anche il fragore dell'applauso è entrato nel copione già scritto degli occulti registi delle dirette del dolore. Un regresso pauroso, persino rispetto alle culture di molti rispettabili Paesi centroafricani dove i due valori preminenti sono il silenzio e il controllo di sé».

Ci sono differenze tra l'informazione pubblica e quella privata?

«No. E la mia scelta di distruggere a mazzate un apparecchio televisivo davanti alla sede Rai di viale Mazzini è solo emblematica. Peraltro, quello che è successo durante "Chi l'ha visto" merita una riflessione più ampia che invece mi sembra già rientrata nel trash dei nuovi collegamenti di tutte le tv presenti sul posto».

Ma anche la carta stampata ha le sue responsabilità?

«Indubbiamente, ma quelle della televisione sono sotto gli occhi tutti: la possibilità di mostrare in tempo reale immagini e di raccogliere testimonianze a braccio non ammettono alcuna mediazione. L'effetto è devastante».

Quale rimedio suggerisce?

«Per i Paesi occidentali farei una pausa di una decina d'anni spegnendo tutte le televisioni».

Registriamo la provocazione, ma ovviamente non sarà possibile. Cosa propone nell'immediato, sul piano pratico?

«Ispirare il legislatore verso la creazione di norme che certifichino le regole del buon gusto e di una cronaca attendibile».
E come la mettiamo col diritto di cronaca?

«Quando facevo il cronista giudiziario, negli anni '70, vigeva ancora il concetto per il quale il magistrato parlava esclusivamente attraverso atti e documenti durante la fase istruttoria. Solo la fase dibattimentale diventava pubblica».

Ma oggi anche i magistrati sono spesso vittime del protagonismo delle immagini?

«È vero. Andrebbe ristabilito il segreto istruttorio. Ma di questi tempi è bene precisare che le intercettazioni, per un certo tipo di indagine, devono restare nelle mani delle Procure: l'importante è che non vengano pubblicate il giorno dopo sui quotidiani».

Così i servizi spiavano Pci e Msi


I servizi segreti spiavano il Pci e l'Msi. Le prime prove documentali spuntano dalle carte di Aldo Moro conservate all'Archivio centrale dello Stato di Roma. Sono tre documenti inediti con la classifica di "segreto" datati 19 giugno '67, 5 maggio '69 e 3 marzo '70 giudicati di grande interesse storico sia da Armando Cossutta, esponente di spicco dell'Ex Pci, sia dall'ex senatore An Franco Servello, ex federale del Movimento sociale a Milano. In quel periodo il servizio segreto era unico, si chiamava Sid (fondato sulle ceneri del Sifar dopo lo scandalo De Lorenzo), era diretto dall'ammiraglio di squadra Eugenio Henke. E spiava con regolarità comunisti e missini.

Queste tre "veline" confermano i sospetti dell'attuale presidente del Copasir, Massimo D'Alema, sollevati di recente durante l'audizione del direttore del servizio segreto militare Aise, generale Adriano Santini, sull'attività spionistica dell'intelligence rivolta alla politica. Al generale Santini, D'Alema ha chiesto se i servizi svolgano ancora oggi attività di spionaggio nei confronti di partiti o di politici. La questione è diventata di stringente attualità alla luce della denuncia pubblica fatta dal capogruppo Fli alla Camera, Italo Bocchino, di essere stato pedinato in primavera dal controspionaggio dell'Aise nella centralissima piazza romana di San Silvestro. Ma altre presunte attività di spionaggio sarebbero avvenute - tra conferme e smentite - nei confronti di numerosi politici, fra i quali il ministro dell'Interno Roberto Maroni.

Durante l'audizione del generale Santini, il presidente del Copasir lo ha invitato ad interrompere, se in corso, ogni attività di "sorveglianza" nei confronti di esponenti di partiti. "Dalla mia esperienza politica passata - aveva detto al direttore dell'Aise D'Alema, alludendo al suo trascorso nel Partito comunista - so che attività di spionaggio avvenivano nei confronti del Partito comunista. Sappia quindi che oggi, se ci fosse qualcosa che non va nei servizi, me ne accorgerei". Le prove dei sospetti di D'Alema, almeno per quanto riguarda l'intelligence tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, riemergono ora dal passato fra le carte dell'archivio dell'esponente democristiano rapito e ucciso dalle Brigate Rosse.

La prima "velina" è datata 19 giugno 1967 e fu consegnata dall'ammiraglio Henke a Moro allora presidente del Consiglio nel suo terzo esecutivo di centro-sinistra. Il Sid, stando a quelle carte, monitorava "l'azione propagandistica dell'estrema sinistra e dell'estrema destra che ha colto spunti offerti da episodi scandalistici per creare fermenti e correnti di opinione contro le pubbliche istituzioni". A proposito del Pci, il Sid scriveva che "in tempo di pace tende ad acquisire il controllo delle masse attraverso una costante alimentazione dell'odio di classe, e attivizzando le organizzazioni di base politiche e sindacali per raggiungere una piattaforma comune per l'azione insurrezionale". "In tempo di guerra", si legge ancora nell'appunto segreto, il Partito comunista mira a "realizzare l'immediato condizionamento psicologico della Nazione e del Governo contro un conflitto armato attraverso l'esasperazione della piazza e, quindi, la strumentalizzazione dei moti popolari per conquistare il potere o, in caso di impossibilità, per iniziare la guerriglia". Gli 007 conoscono tutto dell'organizzazione territoriale del Pci. Sanno che può contare su "organismi fiancheggiatori quali l'Anpi", che "si avvale del supporto della Cgil", che ha la sua forza maggiore "nelle Regioni rosse". Quantificano il suo bilancio annuale in "15 miliardi" di vecchie lire.

Ma soprattutto sono al corrente che all'interno del partito "esiste un apparato clandestino dei quadri predesignati a sostituire gli organi centrali in caso di emergenza con compiti politico-militari". Una sorta di servizio segreto del Pci che - scrive il Sid a Moro - "può inquadrare non meno di 300 mila unità tratte dalle leve più giovani degli iscritti e godere dell'appoggio degli altri militanti nell'attività eversiva". Tutti fatti, questi, confermati da Armando Cossutta, allora responsabile proprio di quel "servizio d'ordine clandestino del Pci".

Ma i servizi di Henke spiavano anche a destra. In particolare, l'Msi di Giorgio Almirante. Che, però, non destava allarme "ai fini di una seria azione eversiva, sia per la scarsa consistenza numerica, sia per le finalità nazionali che si propongono nonché per l'attuale assenza di legami con potenze straniere". "L'Msi - è l'analisi del Sid - rilanciando tematiche ispirate a ideologie nazionaliste, ha potuto raccogliere oltre ai superstiti quadri del fascismo, qualche migliaio di giovani influenzati da possibilità di controbattere il comunismo". Anche dell'Msi gli 007 conoscono tutti i segreti. Sanno che è finanziato da ambienti industriali e imprenditoriali. Una curiosità: fra le organizzazioni giovanili come l'Asan-Giovane Italia e il Fuan, il Sid segnala pure "i Volontari Nazionali - Camicie Verdi utilizzata sporadicamente in compiti di vigilanza interna". La "velina" si concludeva con una chiosa politica tutta filogovernativa. "Oggi - scriveva il Sid - non sussistono le premesse che facciano ritenere possibile un grave attentato alla sicurezza dello Stato. Peraltro un evento di pericolo si potrebbe determinare in conseguenza di un mutamento delle presenti condizioni di equilibrio interno, sostenuto dalla formula di centrosinistra in atto".

Il secondo documento è del 5 maggio 1969 e arriva a Moro nonostante in quel periodo non avesse incarichi: era stato messo in minoranza nella Dc dopo la fine dell'esperimento del centro-sinistra organico. E dopo le elezioni del 1968 che avevano sancito una consistente diminuzione di suffragi per i partiti della coalizione. Ma l'esponente Dc seguiva attraverso le "veline" degli 007 ogni passo dei comunisti, visto che cominciava a pensare all'allargamento al Pci, la cosiddetta "strategia dell'attenzione". Di lì a poco (il 5 agosto 1969), sarebbe rientrato nel governo come ministro degli Esteri nel secondo gabinetto Rumor e avrebbe conservato quella carica quasi ininterrottamente fino al novembre 1974.

"Erano quelli - ricorda Cossutta - anni dal tintinnar di sciabole surriscaldati dalla strage di Piazza Fontana, dal tentato attentato a Rumor davanti alla Questura di Milano. E dallo scoppiare della guerra del Vietnam con le maninfestazioni e i cortei antiamericani a Roma". E il Sid di Henke che faceva? Il 5 maggio '69 un appunto intitolato "la costituzione di Brigate capeggiate da ex comandanti partigiani" svelava a Moro che "il Pci, d'intesa con i comunisti dell'Anpi", avrebbe deciso di costituire gruppi segreti nell'ambito delle sezioni del partito delle principali città del Nord. Queste "Brigate composte di 20-30 elementi di assoluta fiducia" avevano il compito di assicurare "il servizio d'ordine in occasione di manifestazioni del Pci". "La difesa delle sedi del partito comunista da attacchi condotti da elementi di estrema destra". "Eventuali azioni contro sedi di partiti e gruppi di attivisti di estrema destra". E "azioni contro le forze di polizia e le Forze Armate nel caso di interventi in ordine pubblico ritenuti eccessivi". "Queste Brigate - aggiungeva il Sid - dovrebbero rappresentare i primi nuclei intorno ai quali verrebbero rapidamente costituiti più grossi reparti per reagire a un eventuale "colpo di Stato" concordato tra le FF. AA. e le correnti di destra dei partiti di Governo".

Il terzo documento è un appunto telegrafico del 3 marzo 1970 e fa riferimento a una spia interna al partito comunista. "Fonte fiduciaria solitamente attendibile - così il Sid avvertiva Moro - riferisce che la Direzione Centrale del Pci, in coincidenza della rinuncia dell'incarico dell'onorevole Rumor, ha disposto il piantonamento delle sedi regionali, provinciali e di zona del partito, per tutto il periodo della durata della crisi governativa. Ha inoltre chiesto la segnalazione della presenza, fuori ordinaria residenza, di ufficiali dei carabinieri e della Ps". Il Pci temeva un colpo di Stato, ma i servizi segreti spiavano ogni loro mossa. E Moro sapeva tutto.

martedì 19 ottobre 2010

La curiosità morbosa che esorcizza il male


Ma perché la gente vive con morboso accanimento la brutta storia di Sara e della famiglia Misseri? Sbiadiscono perfino le guerre dei giudici, le inchieste sul premier, i dossieraggi, al cospetto della tragedia di Avetrana. Sarebbe facile e sacrosanto imbastire un bel processo accusatorio alla tv del dolore, agli sciacalli del video, gli esibizionisti dell’orrore, i grilli parlanti e le iene piangenti. Aggiungete poi la vergogna del pellegrinaggio di domenica scorsa alla casa dei mostri, una specie di luna park degli orrori. Sarebbe poi facile notare che tra tanti delitti feroci, ce n’è sempre uno che diventa racconto di massa, saga televisivo-popolare, tormentone mediatico. La Franzoni o la Cesaroni, Erika o Amanda, dimostrano che è l’attenzione mediatica, l’esposizione in tv a rendere il caso esemplare e proverbiale. E si creano cittadelle dell’orrore, ieri Cogne oggi Avetrana, a dimostrazione che anche la ferocia o la follia non hanno connotati etnici o geografici.

Io invece vorrei proporvi un’altra riflessione. L’umanità ha bisogno di spiegare il male, di confrontarsi con il dolore più atroce, di superare la soglia per vedere dove si nasconde l’orrore. Ai colti basta leggere Seneca o Sant’Agostino, interrogarsi sul concetto del male e del dolore. Ma la gente comune coglie il male e il dolore attraverso gli esempi, i casi concreti, la vita di ogni giorno. Anche Gesù non parlava per concetti ma per parabole, narrava esempi, affrontava singoli casi di malattia e di guarigione, di morte e di resurrezione, per farsi capire. L’uomo ha bisogno di conoscere storie del male, la grande letteratura è concentrata sul male e sul dolore, a cominciare dalla tragedia greca. Potete maledire finché volete la tv e i giornali che vi parlano del male e delle disgrazie: ma un aereo che cade fa notizia, diecimila aerei che volano no; Sara che esce con sua cugina non fa notizia, Sara uccisa e stuprata dai suoi famigliari sì. Trentatré minatori che tornano la sera a casa non fanno notizia, se restano sottoterra per un’infinità di giorni sì. E a loro proposito, la miseria dell’informazione non è stata l’accanimento spettacolare nel seguire la vicenda, ma la banalità di paragonare la loro epopea ai reclusi volontari del Grande Fratello e non ai prigionieri platonici del mito della Caverna o magari alla considerazione che il loro tornare alla luce sia stato come una seconda nascita, dopo una gravidanza pericolosa nelle viscere oscure di Madre Terra.

Critichiamo pure, e giustamente, tutte le esagerazioni, ma non dimentichiamo che alle origini di tutto questo c’è un bisogno innato dell’uomo, la paura del male e la voglia di addomesticarlo, di vederlo in faccia, di viverlo attraverso le esperienze degli altri per esorcizzarlo, per scaricarlo da sé, per sentirsi immuni.

Non ha colpe particolari la tv che ha dato così grande spazio a Sabrina (un nome che a giudicare dall’età sembra anch’esso pescato dalla tv, nata quando impazzava Sabrina Salerno). Non si può giudicare col senno di poi la tv - questa entità magica tra il divino e l’infernale - che ci ha mostrato fino alla nausea Sabrina; la tv non poteva sapere in anticipo quel che poi si è scoperto. E anche la stessa ragazza, che si preoccupa di quel che si dice in tv più che in tribunale, è la versione moderna del paese è piccolo e la gente mormora, o, se vogliamo dare una formulazione più alta, di vox populi vox dei.

È inaccettabile il filo ideologico emerso a ridosso della storia di Sara. Dal coinvolgimento di padre e figlia, e dai casi di violenza sessuale perpetrati gran parte delle volte in famiglia, c’è chi ha dedotto la solita moralina immorale: questa è la famiglia, il luogo degli orrori. Si perde come spesso succede, la distinzione tra l’eccezione e la norma. Per una famiglia abitata da mostri ce ne sono mille fondate sulla dedizione, l’amore, il sacrificio. Tra i venti milioni di famiglie italiane ce ne sarà qualche migliaio abitata da mostri, magari coperti dall’omertà familiare, e ve ne saranno svariate fondate sulla sopraffazione, la violenza, l’abuso. Ma la stragrande maggioranza delle famiglie sono il rifugio sicuro, la protezione primaria, la casa degli affetti, il luogo dell’autenticità in cui siamo veramente noi stessi, che nessun’altra realtà sociale può neanche vagamente sostituire. Poi ci sono tante famiglie sfasciate o in crisi permanente, separazioni a grappolo, genitori latitanti e figli debosciati. Ma la famiglia tradizionale non è il museo degli orrori, come la metropolitana non è il luogo in cui si prendono cazzotti mortali, solo perché è accaduto a una povera infermiera romena. Si scambia la vita di ogni giorno con l’orrore di un evento; si creano muri di diffidenza tra milioni di persone solo perché sparute minoranze abusano della propria libertà.

Certo, c’è bisogno di misura e di sobrietà, c’è bisogno di responsabilità educativa nell’uso dei media, sapendo che il mezzo non è neutrale e se non educa, diseduca. Non va lasciato a se stesso e alle regole del commercio. C’è bisogno di una tv più diversificata in cui accanto al becero gossip del dolore vi sia anche chi colga l’umanità, tragga riflessioni più alte, sentimenti più nobili e usi le tragedie per far crescere un popolo, senza assecondare la sete di sangue. Personalmente non guardo i programmi del dolore, detesto le lacrime in diretta e la disperazione rubata al volo dalle telecamere e provo un leggero ribrezzo per gli specialisti della tv del dolore. Ma riconosco che questi riti collettivi sono forme di partecipazione e catarsi comunitaria, e possono essere risposte di civiltà alla barbarie e non l’inverso. Sin da quando siamo bambini abbiamo bisogno di capire dove si nasconde l’orco, abbiamo necessità di dargli un volto e di delimitarlo in un confine, in un luogo, in un volto. Perché siamo miseramente, imperfettamente e splendidamente mortali.

(di Marcello Veneziani)

Negazionismo, no del Vaticano a una legge che lo punisca


Il quotidiano della Santa Sede, l'Osservatore Romano, entra nel dibattito sull'opportunità di varare una legge che preveda il reato di negazionismo per affermare che è "condivisibile" la tesi secondo cui "punire per legge chi sostiene la negazione della Shoah non è la strada giusta". "Negare l'Olocausto è un fatto gravissimo e vergognoso" premette il giornale d'Oltretevere in un articolo pubblicato sull'edizione di domani dal titolo "La storia non è vera per legge. Dubbi dalla comunità intellettuale sulla proposta di introdurre in Italia il reato di negazionismo". "Ma punire per legge - prosegue l'Osservatore - chi sostiene questa tesi, e quindi di fatto stabilire ciò che è storicamente vero attraverso una norma giuridica, non è la strada giusta. Anzi, rischia di essere controproducente: in democrazia la censura non è un mezzo corretto, e si finisce per far diventare martire chi vi incappa".

Questa, spiega ancora l'Osservatore romano, è "in sintesi, la condivisibile reazione degli storici alla proposta di introdurre in Italia il reato penale di negazionismo" lanciata dalle pagine di Repubblica dal presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. Una proposta che nasce dai numerosi casi verificatisi di recente, ultimo quello della lezione del professor Claudio Moffa all'università di Teramo. Il quotidiano della Santa Sede osserva anche come la posizione "della maggior parte degli storici" sia "in controtendenza rispetto al quasi unanime apprezzamento del mondo politico", a cominciare dai "presidenti di Senato e Camera, che si sono detti pronti a sostenere e a velocizzare l'iter di un eventuale disegno di legge che introduca il reato di negazionismo".

Quindi l'Osservatore cita David Bidussa che "sul numero di domenica de L'Unione informa, bollettino dell'Unione delle comunità ebraiche italiane diffuso in rete da 'Moked', il portale dell'ebraismo italiano, sostiene che 'una legge contro il negazionismo non sarebbe né una scelta intelligente, né una scelta lungimirante. Non aiuta né a farsi un'opinione, né a far maturare una coscienza civile'".

Questo perché '''l'Italia ha bisogno di una pedagogia, di una didattica della storia, di un modo serio e argomentato di discutere e di riflettere sui fatti della storia. Non servono leggi che hanno il solo effetto di incrementare la categoria dei martiri'". Viene riportato anche il giudizio dello storico Sergio Luzzatto per il quale il negazionismo è male culturale e sociale e dunque una sua rilevanza penale sarebbe sbagliata.

lunedì 18 ottobre 2010

Il pensiero italiano c’è ma mancano i pensatori


Ma esiste davvero un pensiero ita­liano, una linea filosofica che ha caratteristiche e originalità nazionali? Prima an­cora di rispondere c’è chi boc­cia come insensata la doman­da: ma come si può dare un con­­fine, un territorio al pensiero che per sua natura è fluido e sfuggente, senza dimora; e co­me si può solo ipotizzare una cosa del genere nell’epoca del­la tecnica e del globale? A que­ste pregiudiziali di sbarramen­to aggiungete­ne un’altra che de­riva dall’antica abitudine all’au­todenigrazione nazionale: via, l’Italia è solo una provincia e un bordello, una periferia dell’oc­cidente; la capitale del pensie­ro era la Germania, poi con gli analitici si è spostata sull’Atlan­tico. Che ci azzecca l’Italietta in questi scenari?

A un pensiero italiano credeva invece Augu­sto del Noce che considerava l’Italia non una provincia filoso­fica ma addirittura il laborato­rio mondiale del pensiero, lad­dove il marxismo e l’idealismo hanno raggiunto il loro capoli­nea con Gentile e con Gramsci, e la rivoluzione si suicidò nel ni­chilismo. Prima di Del Noce al pensiero italiano aveva credu­to lo stesso Gentile, ultimo risor­gimentale. Ora, dopo di loro, riapre la linea italiana Roberto Esposito, filosofo della comuni­tà sulle tracce di Bataille, della biopolitica sulle tracce di Fou­cault e dell’impolitico secondo la definizione di Mann. Esposi­to ha ora pubblicato da Einaudi Pensiero vivente dedicato al­l’origine e all’attualità della filo­sofia italiana (pagg. 265, euro 20). Notevole lavoro, non c'è dubbio, e azzeccati gli autori su cui fondare il percorso: Machia­velli e Bruno, Vico e Cuoco, Leo­pardi e De Sanctis. E poi Croce, Gramsci e Gentile, fino a Del Noce, Vattimo e Pasolini, più l’intrusione degli operaisti To­ni Negri e Tronti. A eccezione degli ultimi due, sono gli stessi autori su cui fondai ne La rivolu­zione conservatrice in Italia (1987), la linea di un pensiero italiano o una «ideologia italia­na », come scrivevo parafrasan­do un’opera di Marx ( L’ideolo­gia tedesca ). A loro aggiungevo Rosmini e Gioberti, Rensi e i fio­rentini. Anch’io come Esposito ravvisavo in Vico il filosofo di «un’altra modernità»; e come lui notavo ma in un’accezione diversa, l’emergere in Italia di una geofilosofia comunitaria.

Il pensiero italiano è indagato da Esposito con categorie estra­nee al medesimo pensiero ma usuali nelle opere di Esposito (immunitas, biopolitica, impo­­litico); e per chi non conosce le altre opere di Esposito e il suo gergo la lettura si rende diffici­le. Ma torno alla domanda inizia­l­e: allora esiste un pensiero ita­liano? Sì, rispondo, anche se per ragioni un po’ diverse da quelle espresse da Esposito. Se hanno ragione Vico e Machia­velli, l’origine è decisiva per fon­dare la differenza italiana. E l’origine non è un astratto fon­damento o una vaga indole, ma coincide con i tre fondamenti storici dell’eccezionalità italia­na: la civiltà romana, la civiltà cristiana che ebbe in Roma la sua sede e la civiltà dell'arte che dette all’Italia un primato mon­diale. Il pensiero italiano sorge in relazione, a volte in contra­sto, ma comunque all'ombra, di queste tre origini. Senza quel­la triplice radice non capirem­mo Vico e Machiavelli, la valen­za umanistica e artistica del pensiero italiano, la sua commi­stione filosofico-letteraria (in Dante e Leopardi, in Bruno e Campanella, ma anche in Cuo­co, De Sanctis, Croce e Gram­sci), la prevalenza di un pensie­ro co­munitario e statale per cor­reggere la naturale tendenza italiana all'individualismo e all' anarchia, il tormentato rappor­to tr­a pubblico e privato o tra eti­ca e morale; lo spiritualismo e il vitalismo intrecciati; il richia­mo maestoso o retorico al mito delle origini, il fascino della fan­­tasia creatrice, il sostanziale an­timaterialismo, antiscientismo e antipositivismo, la diffidenza per l’illuminismo, la tendenza ad una fondazione teologica della politica, la vocazione edu­cativa del pensiero, l’interventi­smo della cultura nel nome di un impegno civile se non ideo­logico, nazional-popolare, la spinta a identificare pensiero e azione, filosofia e storia, la diffi­denza per le regole, e infine la percezione dell’anomalia italia­na a volte come patologia, a vol­te come primato mondiale.

Il pensiero italiano ha partori­to anche una sua linea d'om­bra, anti-italiana, che ha accu­sato l’Italia di vivere prigionie­ra delle sue tre eredità: la roma­nità, la controriforma cattolica e l’umanesimo antiscientifico e antiprogressista. Non è possibile oggi pensare a un’ideologia italiana; ma è possibile oggi pensare a una ri­presa vivace, post-globale e plu­rale della tradizione italiana. Non più nei termini angusti del­lo Stato­ nazione, dello Stato eti­co o del nazionalismo filosofi­co; ma sulla linea di una geofilo­sofia originaria e originale si può ripensare oggi la differen­za italiana, la civiltà italiana e la sua attualità filosofica. Pensare italiano oggi è possibile e forse necessario. Piccolo particola­re, mancano i pensatori, o pas­sano inosservati. Abbondano i professori, gli impiegati di con­cetto della filosofia, prospera­no i clan e le sette, pullulano i notai del nichilismo che certifi­cano la morte del pensiero. Mancano i pensatori.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 13 ottobre 2010

Laif is nau? Meglio la latitanza


Dice Ilary Blasi che “potrebbe essere un’idea carina” quella di lei e Francesco Totti protagonisti in una sit com a venire. “Vedremo, chissà, quando Francesco smetterà di giocare”. Ci era sfuggito che Totti giocasse stabilmente a pallone, ma forse sua moglie quando dice “giocare” non intende il calcio. Avevamo invece notato che Totti l’attore lo fa da tempo, bon gré mal gré. Anzi “laif is nau”.

L’età oscura ha necessariamente un’appendice anche nel mondo del così detto sport. Sicché è comprensibile che il capitano della Roma, monumentalizzato a pieno titolo dopo gli esigui ma pesantissimi trionfi regalati negli anni addietro a noialtri suoi tifosi – su tutto lo scudetto del 2001 – oggi sia percepito come una figura a metà tra l’intrattenitore televisivo e un prepensionabile neghittoso. Lui per primo deve soffrire di questa condizione, si capisce dalle sue lamentele con la società sportiva che deve dirgli se è diventato o no un problema per la squadra. Ora non soltanto Ranieri lo impiega a mezzo servizio, ora anche Prandelli gli ha chiuso con alto senso della realtà lo spogliatoio della Nazionale.

Umiliazione passabile, visto che Antonio Cassano, l’alter ego giovane di Totti, aveva fatto di peggio in un’intervista alle Iene (il programma della signora Totti). Aveva osato reclamarlo al proprio fianco in azzurro per una partita di beneficenza come quelle in cui Gianni Morandi e Diego Abatantuono sfidano vecchie glorie tipo la Roma campione d’Italia del 1982/83, in un’orgia di caviglie ossidate e prolassi addominali. Per ora non se ne fa nulla. Sospiro di sollievo degli ammiratori di Totti: la memoria delle sue grandezze non deve essere così mortificata dal presente, non se lo merita. Sospiro di sollievo (sottaciuto) di Totti: alla sua età muscoli e polmoni vanno risparmiati dall’acido lattico e dal ludibrio della telecronaca. Dopodiché bisogna essere indulgenti e realistici. Totti non rivendica per sé l’intelligenza dell’allenatore né le basi minime della sintassi da commentatore televisivo (ma certo se lo fa Bagni…).

Come attore pubblicitario funziona nella parodia di se stesso. Ilary, cinica come ogni moglie, ne ha fatto il suo Raimondo Vianello nella “Casa Totti” in cui il capitano sta già diventando un signor Blasi. Concediamoglielo. Ma un tempo i grandi condottieri – e Totti lo è stato – si accontentavano della memoria imperitura e spesso finivano in esilio. Lui deve aver concluso che darsi al “laif is nau” è sempre meglio che fare il latitante come Giorgio Chinaglia. Purtroppo.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 11 ottobre 2010

Il Papa: «I capitali anonimi: potere distruttore che minaccia il mondo»


Dai «capitali anonimi» che «schiavizzano» gli uomini ad un modo di vivere immorale, dal terrorismo ideologico alla droga che divora la terra: anche oggi ci sono «false divinità che distruggono il mondo» e contro cui i cristiani devono combattere fino alla vittoria. Lo ha detto il Papa aprendo oggi con un discorso a braccio il Sinodo sul Medio Oriente.

CAPITALI ANONIMI - In particolare il Pontefice si è soffermato sulla minaccia rappresentata dai capitali anonimi definiti «una delle grandi potenze della nostra storia» e considerate una delle forme di schiavitù contemporanee, addirittura un «potere distruttore che minaccia il mondo». Il Papa ha così denunciato i rischi provenienti da un capitalismo finanziario senza freni e controlli. «I capitali anonimi pongono l'uomo in schiavitù» ha detto il Papa che poi ha aggiunto: «essi non sono più cose dell'uomo sono invece un potere anonimo al servizio del quale gli uomini si mettono, e per il quale soffrono e muoiono». «Si tratta - ha detto ancora il Papa - di un potere distruttore che minaccia il mondo».
Papa Ratzinger ha tracciato un parallelo tra i primi tempi del cristianesimo, quando «il sangue dei martiri» ha «depotenziato le false divinità a partire da quella dell'imperatore» al mondo di oggi. Anche adesso serve «il sangue dei martiri, il dolore del grido della Madre Chiesa che fa cadere, che trasforma il mondo... che non assorbe i falsi idoli», ha detto.

LE ALTRE MINACCE - Un'altra falsa divinità, ha indicato il pontefice, è il «potere delle ideologie terroristiche che dicono di agire a nome di Dio; ma non è Dio; sono false divinità che devono essere smascherate perchè non sono Dio». Poi c'è «la droga, questo potere che come una bestia vorace mette le mani sulla terra e la distrugge». Infine «il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica di oggi, in cui valori come la castità non contano più o il matrimonio non conta più». Tutte queste «false divinità devono cadere», ha proseguito Benedetto XVI, deve realizzarsi ciò che annuncia Paolo nella lettera agli efesini: le dominazioni cadono e diventano sudditi dell'unico Signore, Gesù Cristo«. «Siamo - ha rimarcato Benedetto XVI - in una lotta contro questo falsi dei che distruggono il mondo».