martedì 30 novembre 2010

La sinistra scherza col morto

Sembra un film. Un pessimo film di fantapolitica. C’è una dittatura da far cadere. È sufficiente sconfiggerla in Parlamento? Assolutamente no. Bisogna batterla anche nelle piazze. Detto fatto, esplode la rivolta popolare. Giovani e anziani si scontrano con le guardie armate del Tiranno. Corteo dopo corteo, ci scappa il morto. Ucciso dalle guardie, naturalmente. Il morto viene sollevato da terra e portato, in alto sulle braccia, sino alla dimora del Tiranno. La folla glielo mostra e urla: è colpa tua! In preda al terrore, il Tiranno fugge. E la libertà ritorna.

Ho detto che è un filmaccio. E spero di non vederlo mai. Me l’hanno fatto venire in mente gli infiniti cortei di questi giorni contro la riforma dell’università progettata dal ministro Mariastella Gelmini. Brutta storia, davvero brutta.

Mi ha indignato, e spaventato, l’assalto al Senato, che ha visto una squadra di incappucciati superare il primo ingresso. Il Senato, come la Camera, è di tutti gli italiani. E mi dà sgomento la domanda della Jena apparsa giovedì sulla Stampa. Diceva: «Bisogna rispettare il Senato. Anche se c’è Schifani?». Basta un dettaglio, ben poco ironico, per intuire che la sinistra non sta più scherzando con il fuoco, bensì con il morto.

Troppi politici di opposizione hanno perso la testa. Credono che salire sui tetti possa ridargli i voti che hanno perso. Si sbagliano: quando saremo chiamati alle urne, quei voti andranno tutti al moribondo Berlusconi. È inutile che Bersani entri alla Camera indossando l’eskimo, come testimonia su Libero un deputato di centrodestra, Riccardo Mazzoni. Allo stesso modo, non serve a nulla che il leader del Pd dia dell’arrogante alla Gelmini. E che Di Pietro la descriva «chiusa nel bunker come Mussolini» (Tonino, impara la storia: nel bunker ci stava Hitler, non Benito).

Anche il parallelo con i cortei degli anni Settanta non serve. Se i capi della sinistra di allora fossero saliti sul tetto del Duomo di Milano, i katanga del Movimento studentesco e degli altri gruppi extraparlamentari li avrebbero fatti volare di sotto. Oggi, invece, i politici di opposizione sono diventati tutti scalatori. Persino il futurista Fabio Granata, un signore sovrappeso, inciccionito dalle troppe sedute nei ristoranti vicini a Montecitorio.

Perché i tettaioli della Casta di sinistra e affini si sentono sicuri? Un motivo esiste. L’odierno movimento di piazza non è per niente roba di studenti. È la sommossa di un’altra Casta: quella dei baroni e dei ricercatori universitari. Non vogliono perdere i loro privilegi, tanti per i primi e pochi per i secondi. È questo che gli importa, non lo stato comatoso dell’università italiana. E rifiutano di ascoltare quanto dicono alcuni rettori di buonsenso, non certo di destra, né al servizio del Caimano.

I lettori del Riformista hanno visto ieri quel che ha scritto Guido Fabiani, il rettore di Roma Tre. Giovedì 25 novembre, seminascosto da Repubblica, il giornalone pro-rivolta, aveva parlato Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano e presidente della Crui, la Conferenza dei rettori italiani. Intervistato da Laura Montanari, ha spiegato che l’università ha bisogno della riforma Gelmini e ha aggiunto: «Davanti ai cambiamenti esistono sempre resistenze. In questo caso, c’è un freno conservatore anche se viene da sinistra».

Decleva ha smontato all’istante lo slogan più diffuso, gridato in tutti i cortei: la Gelmini privatizza l’università, il capitalismo berlusconiano si sta mangiando i nostri atenei, orrore! Infatti il rettore di Milano spiega: «Pensano che introdurre tre esterni in un consiglio di amministrazione significhi consegnare l’università ai privati».

Il presidente dei rettori ha ragione. Tuttavia non esistono ragioni che tengano di fronte a un caos che ha un chiarissimo obiettivo politico: far cadere il governo Berlusconi. Forse non sarà un’impresa difficile, visto lo stato comatoso dell’esecutivo. Ma l’eventuale successo non cancellerà l’ipocrisia di troppi media. Giornali e tivù stanno per lo più dalla parte dei cortei. Nell’illusione di conquistare nuovi lettori e di strappare qualche frazione di audience in più.

Per portare a casa questo miserando bottino, tradiscono un’altra volta la loro missione primaria: informare in modo corretto sullo stato del paese. Di alcune testate, Repubblica per prima, nessuno si sorprende più. È da anni che il super-giornale di Ezio Mauro e di Carlo De Benedetti è diventato il nemico giurato del Caimano. Siamo di fronte a un foglio guerrigliero che ogni giorno scende in battaglia per distruggere Berlusconi. E forse vincerà perché il Cavaliere è in agonia e non appare più in grado di difendersi.

A meravigliarmi sono altri media. È il caso del telegiornale di Sky. Lo vedo quattro o cinque volte, dalla mattina presto alla sera tardi. E devo registrare la sua stupefacente deriva verso sinistra. Sin dagli inizi lo guida Emilio Carelli, cinquantotto anni, ritenuto da tutti un moderato, nato nella Mediaset del Berlusca, il volto principale del Tg5 per parecchio tempo. E dal 2003 direttore di tutte le edizioni giornaliere del tigì a pagamento.

Ma oggi il suo Skytg24 non lo riconosco più. È malato di settarismo anti-Cav. Mi sembra diventato la Telekabul di Murdoch. Un gemello del Tg3, il telegiornale rosso della Rai. Strano? Mica tanto. Il proprietario di Sky, l’australiano Rupert Murdoch, lo Squalo, non ama per niente Berlusconi. E da che mondo è mondo, l’asino va sempre legato dove vuole il padrone. Soprattutto se è un asino televisivo.

(di Giampaolo Pansa)

Macché 11 settembre, è il 1° aprile della diplomazia

E venne il giorno del Giudizio Universale, il mondo fu giudicato da un dio imbecille. Un mondo guidato da cretini e presieduto dal principe dei cretini: non ho altre parole per riassumere il senso della bufala cosmica delle rivelazioni di Wikileaks. Scusate ma non capisco l’allarme mondiale. Frattini dice che è stato l’11 settembre della diplomazia mondiale, a me è parso il Primo Aprile. Certo, un furbo circondato da furbetti ci ha guadagnato. Ma vi rendete conto di quale Cazzata Planetaria ci stiamo occupando? Sono giudizi sommari e stupidi espressi da qualche funzionario che deve redigere le sue note informative per la Casa Bianca e copia dai giornali e dalle tv; mica sono le pagelle del Signore sulle convocazioni in paradiso e sulle dannazioni all’inferno.

Riflettete un attimo, per favore, su quei rapporti. E ripassate in rassegna quei giudizi, la fonte e il tenore. Nella migliore delle ipotesi sono aria fritta, cose risapute, traduzioni in forma di gossip di giudizi che già s’intuivano. Nella peggiore sono chiacchiere da saloon, tra un whisky e l’altro, che sembrano ispirate più dalla lavandaia - con tutto il rispetto per le lavandaie - piuttosto che dalla diplomazia più importante del mondo. Se questa è la diplomazia americana, allora Dagospia for president, via Obama dalla Casa Bianca e dentro Roberto D’Agostino che almeno è spiritoso e non pretende con i suoi giudizi di guidare la superpotenza mondiale. Ma che senso ha riferire in mondovisione giudizi scemi su Putin macho e capobranco, la Merkel di scarsa fantasia, Sarkozy l’imperatore nudo e autoritario, Ahmadinejad il nuovo Hitler pazzo, Gheddafi un ipocondriaco che si è fatto il botulino ed ha un’amante ucraina, Karzai il paranoico, Kim Jong Il, leader della Corea del Nord, un vecchio ciccione con l’ictus...

A proposito di ciccioni, una obesa signora americana, come purtroppo ce ne sono tanti negli States, Elizabeth Dibble, trincia un giudizio su Berlusconi dandogli dell’incapace e del vanitoso, e poi riferisce di feste selvagge, probabilmente traducendo alla lettera e senza un filo d’ironia il mitico bunga bunga. Ma i festini dei Kennedy e di Clinton erano da prima comunione? I giudizi della signora in sovrappeso (disturbi ormonali e ghiandolari?, dovremmo chiederci stando ai criteri usati per redigere questi compitini) sembrano solo il frutto di una sommaria lettura dei titoli dei giornali italiani all’attacco del premier; e la cosa perfida e grottesca è che ieri gli stessi giornali hanno riferito con grande solennità quei giudizi di cui essi stessi sono la fonte... Ma pensate che il compitino di una grassa patatona americana, per restare alle categorie usate in questo rapporto, sia così sconvolgente per gli equilibri mondiali e così determinante per influenzare l’azione politica di Obama? Su, sono chiacchiere da dopocena, tra il caffè e l’ammazzacaffè, mica altro. Penso cos’era stata per secoli la diplomazia europea, vaticana, orientale, cinese (a proposito, e della Cina non si dice niente negli States; paura?). Giudizi acuti e valutazioni prudenti, informazioni vere e stile di espressione... Tremila anni di diplomazia e di civiltà finiti nel cesso. Pensieri sparsi attaccati col chewing gum. Naturalmente non escludo affatto che ci siano fascicoli seri, e perfino minacciosi, oltre la giostra per idioti globali che è stata pubblicata ieri. Allora lasciamo da parte la buffonata e pensiamo alle cose serie.

Il ciclone Wiki esplicita molte cose che erano implicite, e porta alla luce quel che tutti gli informati probabilmente già sapevano, regolandosi di conseguenza: la preoccupazione per l’Iran, le pressioni arabe per dichiarargli guerra, i rapporti difficili con Israele, la debolezza internazionale dell’Europa, e via dicendo. Per quel che ci riguarda, viene esplicitata una cosa che pensavamo e scrivevamo da tempo: all’Italia di Berlusconi, al di là del fumo dei pettegolezzi e delle campagne per delegittimarlo, alcuni ambienti internazionali, alcune lobbies e alcune diplomazie, a cominciare da quella americana, non perdonano i nostri rapporti economici con la Russia di Putin, la Libia di Gheddafi, la Cina e l’Iran. Non è il lettone di Putin o le amanti bionde di Gheddafi la loro preoccupazione, semmai è la propaganda; ma il fatto che l’Italia abbia vantaggiosi rapporti con quei Paesi, sia un loro partner significativo. Se vogliamo, è un copione già visto, ai tempi di Craxi e di Andreotti, forse anche di Moro. E non c’è da indignarsi e gridare al complotto ma c’è da capire e agire con realismo di conseguenza.

Quella è la partita più delicata, da lì vengono i suggeritori internazionali che si servono magari di toghe avvelenate, ma anche di scatole vuote nostrane per riempirle di tritolo e far esplodere il governo in carica. Quello è il pericolo reale, oltre la bufala. Vedrete, non si fermeranno lì, le loro feste selvagge proseguiranno in varie direzioni per inguaiare il governo. Non so quanto Obama condivida questa linea. Per il resto, l’effetto immediato di questo gossip cosmico dovrebbe essere solo uno: chiudete le ambasciate e aprite le sale da parrucchiera. È la sede più consona per questi pettegolezzi.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 29 novembre 2010

ll mio romanzo su Casa Pound sarà un film? Forse...

La Rizzoli ha da poco pubblicato un romanzo dedicato a Casa Pound e al suo immaginario. Detta così è già una notizia. Ma “Nessun dolore” di Domenico Di Tullio è prima di tutto un libro potente, che attraverso la mediazione della letteratura mette su carta l’evoluzione della destra radicale. Un’operazione di “sdoganamento” con pochi precedenti? Molto di più. Negli ultimi anni Casa Pound a tutti gli effetti ha rappresentato un'avanguardia culturale a Roma, prendendo spesso posizioni vicine a una certa “sinistra”. Ad esempio, qualche mese fa, mentre tg e giornali raccontavano i raid contro gli omosessuali, ha ospitato Paola Concia, onorevole (lesbica dichiarata) relatrice della proposta di legge contro l'omofobia. Casa Pound, tra le altre cose, sta promuovendo una rilettura critica degli opposti estremismi che hanno insanguinato gli anni '70 nel nostro Paese, dando spazio anche a voci 'dell’altra parte'. Le iniziative culturali “spiazzanti”, quindi, sono tante, e comprendono anche gli incontri dedicati a Luciano Bianciardi, Rino Gaetano, Kerouac e addirittura Che Guevara. Domenico Di Tullio, romano classe ’69, che nella vita fa l’avvocato penalista e che nel 2006 ha pubblicato “Centri sociali di destra. Occupazioni e culture non conformi” (Castelvecchi), ha scritto un romanzo che in grado davvero di far riflettere, e che potrebbe diventare un film, come racconta in quest'intervista ad Affaritaliani.it.
Di Tullio, la nuova destra radicale che racconta nel suo romanzo come ha accolto il libro? Ci sono state critiche?
"I ragazzi di CasaPound e Blocco Studentesco hanno certamente accolto con entusiasmo il romanzo, determinando l'iniziale successo di vendite del libro. Per la prima volta si sentono raccontati in maniera realistica e verosimile, mentre in passato sono stati sempre descritti come mostri da narrazioni nelle quali l'ideologico prevale sul realistico. La critica più stupida mi è arrivata dal solito guardiano del bidone di benzina vuoto, 'troppo poco fascista' quello che raccontavo, la più simpatica me l'ha rivolta proprio un giovane Blocchetto, dicendomi: 'L'ho trovato un po' noioso. La realtà di quello che facciamo è molto più entusiasmante e bella'...".
Racconti il percorso che l'ha portata ad avvicinarsi e a raccontare Casa Pound?
"Sono stato per cinque anni un militante del Fronte della Gioventù di Roma, movimento giovanile del MSI: è stata una esperienza molto formativa, anche se all'epoca vivevamo la contraddizione forte di essere libertari e garantisti, anticapitalisti e ribelli tuttavia organici a un partito di parrucconi e sostenitori della pena di morte. Alla fine ne sono uscito, ma ho continuato a frequentare sporadicamente l'ambiente, perché gli amici veri non cambiano mai. Con il lavoro è arrivato anche un maggiore distacco, favorito da una certa aridità politica e umana nella destra radicale degli anni '90. Il percorso di avvicinamento a CasaPound è stato graduale: ho iniziato a difenderli in tribunale, poi il sudore in palestra e i concerti hanno fatto il resto. Gli anni e la conoscenza mi hanno portato ad apprezzare le persone, lo spirito e lo stile delle iniziative delle Tartarughe".
In cosa consiste la “svolta” di piazza Navona per Casa Pound?
"A piazza Navona nel 2008 c'è stata una svolta epocale, soprattutto di immaginario collettivo. Per la prima volta le telecamere presenti hanno inquadrato i volti dei ragazzi del Blocco Studentesco, vittime di un'aggressione premeditata ad opera dei dieci volte più numerosi compagni dei collettivi e centri sociali di Roma, capeggiati da esponenti di Rifondazione Comunista. La realtà dei fatti, che i ragazzi del Blocco fossero lì da giorni per manifestare contro la riforma Gelmini e resistessero solo per rivendicare tale diritto, è stata innegabile, i visi puliti e gli occhi limpidi di giovanissimi liceali e universitari hanno sostituito le facce truci e bovine con cui i media avevano sino ad allora identificato i giovani della destra radicale. L'evidente sproporzione di forze in campo, la scandalosa gestione dell'ordine pubblico che ha permesso l'aggressione, il coraggio dimostrato dai giovani Blocchetti ha attirato su di loro la simpatia di chiunque abbia potuto vedere quelle immagini e rendersi conto con i propri occhi e, magari per la prima volta, giudicare senza pregiudizi".
Quali sono i “limiti” di Casa Pound?
"I limiti del movimento sono nella sua stessa natura di ente metapolitico e radicale, che a volte si trova ignorato nelle sue azioni e non rappresentato, proprio perché, per sua scelta, privilegia il movimentismo, la libertà intellettuale, l'azione creativa e provocatoria, rispetto ai giochi di tessere. è un limite connaturale che rispecchia quindi da un punto forte delle Tartarughe, quello di essere movimento e non un partito-mercato".
Si è detto che nelle metropoli la comunità che il libro racconta è anche un argine all'individualismo e a un certo nichilismo autodistruttivo. Quale altro ruolo ha l’appartenenza per i ragazzi di casa Pound?
"Un importante percorso di crescita umana e spirituale: oggi l'impegno è una rarità tra i giovani, che si limitano a seguire i dettami di mode e sottoculture imposte per ragioni commerciali dai media; giovani che non hanno un valido supporto da una scuola che preferisce formare consumatori in erba piuttosto che cittadini e persone, che sono abbandonati a se stessi, ai loro videogiochi, al loro iPhone o iPod o a uno qualsiasi degli inutili gadget tecnologici con i quali si sostituisce l'affetto familiare e la cura parentale. CasaPound è innanzi tutto un'esperienza di vita comune vera, di sacrificio, di tensione ideale, di coraggio quotidiano e rigore intellettuale che attrae per il suo essere zona franca e avamposto intellettuale, palestra umana e culturale, casa spirituale e famiglia militante".
Internet che funzione svolge per i ragazzi di della destra radicale?
"Internet e tutti i mezzi di comunicazione diretta sono stati e sono importantissimi per le Tartarughe. Il forum vivamafarka.com, la radio in rete Radiobandieranera.org, e i siti casapound.org e ideodromocasapound.org sono i luoghi virtuali che rappresentano e illustrano ciò che nella realtà pensa, dice e fa il movimento. La differenza, rispetto ad altri, è che il virtuale è al servizio del reale e non il contrario".
Il suo romanzo diventerà un film o una serie tv?
"Mi auguro un film poco sentimentale e ben recitato, pieno dei luoghi e delle persone che il romanzo cerca di raccontare. In tal senso, qualcuno ha già manifestato un solido interesse. Non mi augurerei la serie televisiva, perché l'espediente narrativo della fiction si basa su una ripetitività che non è assolutamente congeniale ad un movimento che ha come motto la frase: 'Avanti e più avanti ancora!'...".

domenica 28 novembre 2010

La Duma ammette: Stalin ordinò il massacro di Katyn

Un nuovo passo di riavvicinamento tra Russia e Polonia chiude contemporaneamente una delle pagine più dolorose del Novecento. La camera bassa della Duma, il parlamento russo, ha approvato una dichiarazione nella quale si afferma che il massacro di 22mila ufficiali polacchi a Katyn, nel 1940, fu ordinato da Stalin. Da parte di Mosca c'erano state già negli anni progressive aperture sulla vicenda, ma quella di ieri viene considerata da molti la prima ammissione ufficiale senza equivoci delle responsabilità del regime sovietico di quell'eccidio. Il 10 aprile di quest'anno, tra l'altro, il presidente polacco, Lech Kaczynski, è morto nello schianto dell'aereo della delegazione governativa diretta a Smolensk, nei pressi di Katyn, per una commemorazione del massacro. Quella cerimonia avrebbe dovuto segnare anche una riappacificazione con Mosca.
«Tutti i documenti pubblicati che per molti anni sono rimasti negli archivi segreti non solo rivelano questa orribile tragedia, ma testimoniano che il massacro di Katyn è stato compiuto su ordine diretto di Stalin e di altri dirigenti sovietici», si legge nella dichiarazione intitolata "La tragedia di Katyn e le sue vittime", approvata con 352 voti a favore e 57 contrari. «Nella propaganda ufficiale sovietica - prosegue il documento - la responsabilità per questo crimine è sempre stata attribuita ai delinquenti nazisti. Questa versione per molti anni è rimasta tema di discussione della società sovietica provocando sempre la rabbia, l'offesa e la sfiducia del popolo polacco». «Il parlamento - conclude la nota - esprime la sua profonda compassione a tutte le vittime di questa repressione ingiustificata e ai loro familiari».
L'eccidio di Katyn, non lontano dal confine con la Bielorussia, si consumò nel 1940, poco dopo l'invasione della Polonia orientale da parte dell'Urss, in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione con la Germania. Per decenni l'Unione sovietica ha accusato i nazisti di aver commesso il massacro. Fu solo nel 1990 che Mikhail Gorbaciov riconobbe la responsabilità del suo paese nel massacro. Nel tentativo di rilanciare le relazioni con Varsavia, il Cremlino ha poi fatto mettere in rete quest'anno dei documenti sulla tragedia e la giustizia russa ha consegnato alla Polonia decine di volumi dagli archivi segreti.
La Russia prova dunque a chiudere definitivamente con quel passato che finora ha pesato sui suoi rapporti con la Polonia. In quest'ottica rientra la campagna di destalinizzazione che il presidente Dmitrij Medvedev si prepara a lanciare per ricordare ai cittadini i crimini commessi da Stalin. Secondo alcuni analisti si tratterebbe peraltro dell'ennesimo tentativo di smarcarsi dal premier Vladimir Putin, che pure ammise i crimini commessi dal dittatore, ma in maniera meno netta. Il tutto, naturalmente, in vista delle elezioni presidenziali del 2012.

Quel fascismo inesplorato


Fascismo, questo sconosciuto? Ha senso porsi un interrogativo del genere di fronte alla sterminata quantità di libri che dagli anni Venti ad oggi è stata dedicata ad uomini e idee, dottrina e prassi, fatti e misfatti dell'Italia di Mussolini? Beh, diremmo proprio che un senso ce l'ha, perché, paradossalmente, il Fascismo di cui si sa (o si crede di sapere) di tutto e di più, è invece, per certi versi, ancora tutto da scoprire. Il lettore non ce ne voglia se, a questo proposito, andiamo a pescare nell'archivio personale.

Erano gli anni '80, collaboravamo alla mondadoriana "Storia Illustrata", spesso parlavamo col Direttore, Pier Maria Paoletti, liberale e gran signore, per proporgli questo o quel pezzo. E se l'argomento era il Fascismo, gli andava sempre bene. "Vedete - diceva - il Fascismo è una miniera inesauribile. Quando metto in copertina il nome di Mussolini, un fascio littorio, un'immagine del Ventennio, so che quel numero venderà più copie. E non tanto perché gli italiani siano nostalgici, quanto perché hanno la convinzione che ci sono ancora un sacco di cose da scoprire". Bene, noi più che di "scoperte" - e l'ultimo libro di Francesco Perfetti ("Lo Stato Fascista. Le basi sindacali e corporative", Le Lettere, pp. 450, euro 32) ce ne offre autorevole conferma - siamo convinti che il Fascismo abbia bisogno di una narrazione storica esemplare. E cioè capace di restituirne la complessità "sine ira et studio", tanto per ricorrere a quella citatissima sentenzia tacitiana che funziona sempre. A questo punto, però, ci vogliono ricercatori seriamente intenzionati a fare il loro dovere, dunque impegnati nella ricostruzione della "storia patria" e lontani da ogni distorta ottica "di parte". Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss, capo del Servizio storico al Ministero degli Affari Esteri, direttore della rivista "Nuova Storia Contemporanea", da decenni si è consacrato a questo compito.

Davvero arduo e scomodo, perché quanto più sei e vuoi essere liberale, tanto più sei oggetto degli strali dei faziosi: mala genìa che si indigna se dici che lo storico, per natura ed elezione, è sempre "revisionista", come più volte ripeteva Renzo De Felice, riconosciuto maestro di Perfetti. Il quale, oltre ad essere uno storico "armato" (di buoni documenti e di altrettanto buoni argomenti) è anche (si veda "La repubblica (anti)fascista", uscito l'anno scorso sempre per Le Lettere), un vivace polemista, capace di smantellare, "lancia in resta", i santuari del conformismo accademico e massmediatico.

Salvo poi tornare a un ruolo più "istituzionale" e cioè allo scavo accurato nel Novecento. E in particolare nel Fascismo: un movimento ideologico- politico che va ripensato, come ben dimostra Perfetti, nel suo "svolgimento" storico, nel suo sviluppo, in quella forte tensione dialettica con le istituzioni liberali - sia pure nell'accezione più conservatrice e autoritaria - e con lo Statuto albertino, che neanche la svolta del 3 gennaio 1925 annulla completamente, visto che il potere del Dittatore non cancella l'autorità del Re. Anche se indubbiamente si va definendo un altro modello statuale, un'altra realtà politica, giuridica, istituzionale e, diremmo, "valoriale", cui Perfetti dedica pagine rapide e sintetiche, ma sempre fondate sul documento e sull'argomentazione serrata. Come è "giusto" che sia perché la "materia" è ricca e contraddittoria, nel senso che il Fascismo ha - e l'avrà per tutto il Ventennio - un'anima "plurale". Perfetti, ragionando sulla milizia intellettuale di Angelo Oliviero Olivetti e di Sergio Panunzio, ne studia un aspetto, tra i più suggestivi: quello che ha al centro il sindacalismo, dalle sue origini rivoluzionarie (nel segno dell'eresia libertario- socialista cara al Mussolini dell'"Avanti!" e poi a quello di Salò), ai suoi approdi fascisti e corporativi. Con tanto di ipotesi post-fasciste, antiborghesi e rivoluzionarie, quali emersero nel celebre Congresso di Ferrara del 1932, tra i "corporativisti impazienti", neri, nerissimi, praticamente rossi.

(di Mario Bernardi Guardi)

mercoledì 24 novembre 2010

Stillicidio irresponsabile: la fiducia non basterà


A questo punto, la fiducia al governo serve a poco. A meno che non sia (e mi sembra di poterlo escludere) talmente va­sta e politicamente significativa da avviare un "secondo tempo" della legislatura. Ma continuare così, con questo stillicidio con­tinuo, con questo avvelenamento quoti­diano, non è più possibile. Non è soltanto la coalizione di centrodestra a logorarsi, ma la società italiana che sta scivolando verso il baratro.

Sono praticamente sette mesi che le isti­tuzioni rappresentative e lo stesso esecuti­vo non producono più nulla. La guerriglia intrapresa da Futuro e libertà sta progressivamente paralizzando ogni attività. Che poi i finiani giochino tutta la loro partita nel demolire l'avversario (alleato di ieri) è del tutto ininfluente ai loro scopi: la missione che si sono dati è creare i presupposti dell'ingovernabilità e dunque la distruzio­ne del centrodestra. Gli danno una mano, pur senza farli uscire dall'isolamento poli­tico nel quale si sono cacciati, le contraddi­zioni all'interno del PdL che esplodono con una frequenza impressionante: nes­suno sembra riuscire ad arginarle.

ARENA AZZURRA

Il partito berlusconiano non è un asilo, come è stato scritto, ma un'arena di gladia­tori nella quale si affollano odi ed idiosin­crasie, diffidenze e cattiverie, paure e risentimenti. Il "vizio d'origine" è noto, lo abbiamo descritto un'infinità di volte: il frettoloso ed approssimativo atto di fon­dazione. Ma a questo punto, è inutile pian­gere sul latte versato. Sarebbe però oltre­ modo suicida se si continuasse a far finta di niente, a nascondere la polvere sotto i tap­peti, a negare le evidenti difficoltà che im­pediscono, nelle condizioni attuali, il pro­sieguo dell'attività di governo.

Agli attacchi concentrici e preordinati Berlusconi ci è abituato. Per fronteggiarli, tuttavia, deve trascurare il governo, este­nuarsi in mille mediazioni, soccorrere i moribondi del suo partito, occuparsi delle paturnie di questo o quel coordinatore, del malessere di tanti parlamentari che bussa­no a Palazzo Grazioli per chiedere riconoscimenti e considerazione. Tra un vertice e l'altro deve pure farsi carico delle guerricciole intestine tra signore del PdL qualcu­na delle quali, con poco senso della grati­tudine e tanta ambizione da soddisfare, non trova niente di meglio che gettare ben­zina sul fuoco invece di impegnarsi per spegnerlo. La Campania sta morendo: non è colpa di Berlusconi, ovviamente. Sono vent'anni che agonizza. Ma l'estrema un­zione dovrebbe dargliela il Cavaliere. Stretta com'è tra camorra, politicanti, affa­risti la Regione non sembra in grado di ri­prendersi e l'affondo diventa più facile contro chi sulla sua rinascita aveva scom­messo tutto all'inizio della legislatura. C'è da chiedersi che cosa sia accaduto in poco più di due anni.

Anche i buoni risultati economici, non supportati da una politica fantasiosa, da investimenti necessari nei campo della ri­cerca, della cultura, dell'istruzione sono destinati a ridursi in polvere. E la lotta alla povertà, se non corroborata dallo smantel­lamento dei santuari dell'evasione fiscale, resterà un'utopia. Gli indiscutibili successi conseguiti nel contrasto alle mafie, segnati dalla cattura di pericolosissimi latitanti, sbiadiscono di fronte al cumulo di immondizie che sommerge Napoli e fa il giro del mondo. Come uscire da questo inferno nel quale le luci si spengono e si accedono ad intermittenza? Con la politica, natural­mente. Ma non la si può efficacemente e con continuità praticare se il Parlamento si trasforma in un Vietnam, se il respiro lun­go di cui il governo avrebbe bisogno diven­ta cortissimo, se le trame s'infittiscono non per mandare a casa Berlusconi, ma per rosolarlo a puntino e guadagnare tempo af­finché altre iperboliche proposte politiche abbiano il tempo di strutturarsi.

STACCARE LA SPINA

E meglio staccare la spina, allora. Si dice che le elezioni anticipate sarebbero una follia in questo momento. Perché, scusate, ciò che sta accadendo è meno folle e deva­stante per il Paese, gli italiani, le istituzioni repubblicane? Per resettare tutto non ba­stano tavoli sotto i quali si nascondono gli stiletti dei vili che tramano nell'ombra. Ol­tretutto non è dignitoso aggrapparsi alle il­lusioni per poi morire dissanguati: meglio anticipare il colpo e resettare tutto con un appello al popolo. Quindi, vada come deve andare. Ricordo che le democrazie muoiono anche per l'inerzia del potere che gene­ra anarchia. Nessuno, tantomeno chi ha ottenuto suffragi plebiscitari, può sottrarsi al giudizio popolare quando l'ingoverna­bilità viene certificata con il clamore di questi giorni. Le elezioni, a ben vedere, so­no il male minore. Me ne sono convinto dopo aver a lungo sperato in una ricomposizione del quadro politico. Ha vinto l'irre­sponsabilità: prendiamone atto.

(di Gennaro Malgieri)

Mishima, l'eterna giovinezza di un samurai


Le parole non bastano. Così parlò Yukio Mishima, e il 25 novembre del 1970 si uccise davanti alle telecamere col rito tradizionale del seppuku. Alle parole seguì il gesto e la scrittura debordò nella vita per compiersi nella morte. Il suicidio eroico di Mishima scosse la mia generazione, versante destro. Era il nostro Che Guevara, e sposava in capitulo mortis la letteratura e l’assoluto, l’esteta e l’eroe, il Superuomo e la Tradizione. Lasciò un brivido sui miei quindici anni. Poi diventò un mito a diciassette, quando uscì in Italia Sole e acciaio, il suo testamento spirituale. È uno di quei libri che trasforma chi lo legge; gustato riga per riga, non solo letto ma vissuto, come un libro d’istruzioni per montare la vita, pezzo per pezzo. Altro che Ikea, il pensare si riversava nell’agire. Le parole non bastano.

Andammo in palestra, dopo quel libro, tra i manubri e i pesi, sulla scia di Mishima e del suo acciaio per scolpire il corpo all’altezza dei pensieri e per dare una vita ardita a un’indole intellettuale. Correvamo a torso nudo d’inverno con alcuni pazzi amici per andare incontro al sole. Dopo una corsa di dieci chilometri c’era un ponte che era la nostra meta finale perché sembrava che corressimo verso il cielo. Arrivavamo sfiniti ma a testa alta, con uno scatto finale, e una benda rossa sulla fronte. Pazzi che eravamo, illusi di gloria. Ridicoli. Vedevamo il sole come obbiettivo, non guardavamo sotto, all’autostrada, che banalmente scorreva sotto il ponte. Eravamo nella via del Samurai, mica sull’asfalto. Inseguivamo il mito. Un mito impolitico, che ci portava lontano dall’impegno militante e ci avvicinava a quella comunità eroica che Mishima aveva fondato due anni prima di darsi la morte. Mishima diventò col tempo il nostro Pasolini, disperato cantore di un mondo antico contro il mondo moderno e le sue macerie spirituali, l’americanizzazione e i consumi. Oggi di Mishima non è più proibito parlare, tutte le sue trasgressioni restano vietate, eccetto una che però basta a glorificarlo agli occhi del nostro tempo: Mishima era omosessuale. Sposato, ma omosessuale. E così viene oggi celebrato dai media e riabilitato.

Su Radio3 è andato in onda qualche giorno fa un bel programma a lui dedicato di Antonella Ferrera. Ho scritto più volte di lui, accostandolo al Che, d’Annunzio e Pasolini. Fu grande gioia ripubblicare, con un mio saggio introduttivo, Sole e acciaio, dieci anni dopo la sua prima lettura. Avevo ventisette anni ma avevo un conto in sospeso con la mia giovinezza, e fui felice di onorarlo. Il peggior complimento che ricevetti fu da un professore che allora mi disse: è più bella la tua introduzione del testo. Mi piace ricevere elogi, non nego la vanità. Ma quell’elogio fu peggio di un insulto, disprezzava il breviario della nostra gioventù. Come poteva paragonare un saggetto giovanile e letterario a un testamento spirituale così denso e forte? L’ho riletto dopo svariati anni, quel piccolo libro; non era un libro sacro, d’accordo, ma lo trovai ancora bello e teso, spirituale e marziale.

Poi c’era Mishima romanziere, gran letterato, ma poco rispetto al testimone dell’Assoluto. Certo, Mishima soffriva di narcisismo eroico, c’era in lui una componente sadomaso e molto di quel che lui attribuiva allo spirito dell’antico Giappone imperiale proveniva in realtà dalla letteratura romantica d’occidente e dalle sue letture. Mishima era stato lo scrittore più occidentale del Giappone, era di casa in America, veniva in Italia, amava Baudelaire e d’Annunzio, Keats e Byron, perfino Oscar Wilde. Faceva il cinema, scriveva per il cinema e per il teatro moderno, amava i film di gangster, era amico di Moravia. E c’era in lui quell’intreccio di vitalismo e decadentismo comune agli esteti nostrani. La stessa voluttà del morire di d’Annunzio, lo stesso culto della bella morte degli arditi e poi di alcuni fascisti di Salò...

Ma il miracolo di Mishima fu proprio quello: ritrovare nella modernità occidentale il cuore antico del suo Giappone, il culto dell’imperatore, la via del samurai, il pazzo morire; il nostro pensiero e azione che diventano in Giappone il crisantemo e la spada. Ribelle per amor di Tradizione. Certo, dietro il suicidio non c’è solo il grido disperato e irriso verso lo spirito che muore; c’è anche il gusto del beau geste clamoroso e c’è soprattutto l’orrore della vecchiaia, del lento e indecoroso morire nei giorni, negli anni. Dietro il samurai c’era Dorian Gray. Ma colpisce la sua cerimonia d’addio, vestito di bianco come si addice al lutto in Giappone, e prima il suo congedo in scrittura. Saluto gli oggetti che vedo per l’ultima volta... Mi siedo a scrivere e so che è l’ultima volta... Poi il pranzo dai genitori alla vigilia, la ripetizione fedele delle abitudini, come se nulla dovesse accadere. E il giorno dopo conficcarsi una lama nel ventre e farsi decapitare, dopo aver gridato tra le risa dei soldati, l’occhio delle telecamere e il ronzio degli elicotteri, il suo discorso eroico caduto nel vuoto.

Quell’immagine ti resta conficcata dentro, come una spada, capisci che l’unica morale eroica è quella dell’insuccesso, pensi che il successo arrivi quando il talento di uno si mette al servizio della stupidità di molti; diffidi delle vittorie e accarezzi la nobiltà delle sconfitte. E leggi Morris e la Yourcenar che a Mishima dedicò uno splendido testo, per accompagnare con giuste letture il suo canto del cigno. Su quegli errori si fondò la vita di alcuni militanti dell’assoluto, alla ricerca di una gloria sovrumana che coincideva con la morte trionfale, la perdita di sé nel nome di una perfetta eternità... Perciò torno oggi in pellegrinaggio da Mishima e porto un fiore di loto ai suoi 45 anni spezzati, e ai nostri quindici anni spariti con lui.

(di Marcello Veneziani)

martedì 23 novembre 2010

Il furbo, il santo, il paraculo


E’ una potente trasmissione televisiva che si segue a bocca aperta ma respirando dal naso. Una messa cantata dove ci s’immerge mondandosi dei propri peccati, tenendosi per mano, mettendosi a posto la coscienza perché, insomma, se ci si fa novero tra i dieci milioni di ascoltatori di “Vieni via con me” – anche se di fiato corto, anche se arcitaliani – a ciascuno di noi è data l’ebbrezza di specchiarsi nella parte giusta, nella schiera vittoriosa, tra gli angeli del culturalismo e della virtù civile. E poco male se poi, ognuno di noi, tra i dotati di malizia e di corroborante cinismo, dovremmo farlo finire a fischi e a piriti (leggasi scoregge) questo Te Deum, giusto come ha fatto Umberto Bossi col suo pernacchio, perché – si sa – ci vuole un poco di vento in chiesa, altro che, ma non al punto di spegnere tutte le candele della libertà mentale.

Ogni pernacchio ha una stretta eco con lo spernacchiato, sono sempre le belle bandiere ad eccitare le pulsioni più grevi, Saviano è anche il mio labaro, onusto di medaglie, ma neppure si può fare, come ha fatto il Giornale, di lanciare in prima pagina una campagna contro Roberto Saviano e manco stampare in bella evidenza la vera notizia: l’arresto di Antonio Iovine, il camorrista.
Fare quegli ascolti che ogni volta si leggono come l’effetto di un formicaio in assedio alla torta del potere ha la funzione di un lavacro di giustizia. Purtroppo lo stesso arresto di Iovine, in questi tempi così malati di odio, grazie alla raffinata manipolazione di quelli col bicchiere in mano (quelli “dell’egemonia culturale, entrando da sinistra”, come giustamente se ne lamenta Ezio Mauro) è risultato quasi quasi ambiguo, una sorta di stroncatura di “Gomorra”, un po’ come la sparatoria sul pianerottolo di Maurizio Belpietro. Ci fosse stata una pistolettata davanti alla porta di Barbara Spinelli, l’Italia civile sarebbe ancora oggi mobilitata, specchiata di sicuro nel trionfante formicaio, affamato di legalità e giustizia. Ma purtroppo è solo la santificazione della geniale banalità quando si fa spettacolo. Questo è il “Vieni via con me” e Fini e Bersani, infatti, ridotti nel ruolo di “portavalori” (copyright di Aldo Grasso), messi sotto l’occhio di bue del narcisismo con l’elenco dei rispettivi valori, non sono la novità della destra e della sinistra, sono soltanto la versione poetica e furba del risotto cucinato da Massimo D’Alema nel salotto di Bruno Vespa.
La manipolazione è sofisticata per definizione e leggere in tre righe tre Curzio Maltese che schiera un giornale contro la critica laureata (Aldo Grasso, il nostro eroe), rea questa stessa critica di aver laurea e titoli di poter discutere della trasmissione-missione, quasi quasi c’indispettisce perché in quelle tre righe Maltese ci ruba il mestiere: “Chi se ne frega della critica laureata”, dice. Magari non ha la rude e futuristica irruenza degli squadristi ma, ci chiediamo, come dovrebbe essere la critica, analfabeta? Solletica già da sinistra, pur con bicchiere in mano, una deriva plebiscitaria? A forza di mettersi nel sacco l’incolpevole Saviano, bisogna pur dirlo.

Ecco, si sono ridotti a replicare Mario Scelba e le sue invettive contro il culturame. Proprio un brivido. E tutto questo per festeggiare la morte del berlusconismo televisivo.
Farsi presepe in tre, poi – perché sono tre i veri protagonisti della funzione, ovvero Loris Mazzetti, Roberto Saviano e Fabio Fazio – replica in automatico la santa trinità di san Giuseppe, la Madonna e il Bambinello. A poco a poco, però, nella morte del berlusconismo televisivo, si sfiora la sceneggiata con tanto di Isso, Issa e o’ Malamente. E tutta quella gioiosa ascesi nel paradiso del successo cui nessun monumento dell’immaginario collettivo democratico si nega (sia esso Abbado, sia Benigni, sia gli Avion Travel) fa precipitare tutto nella cara commedia all’italiana. Ed è perciò che tutti e tre ben s’individuano nei ruoli. Rispettivamente un Furbo, un Santo e un Paraculo.

Il furbo è Loris Mazzetti, capostruttura di Raitre, furbissimo e bravissimo, cui la sciagurata iniziativa dell’azienda Rai di volerlo licenziare gli porterà in dote un immediato reintegro e, di conseguenza, un assoluto potere extraterritoriale derivato dalla magistratura. E senza tema di dover rispondere all’azienda, al suo stesso editore, a qualsivoglia dirigenza Rai perché il grande furbo, una volta riportato in sella da un giudice, potrà sempre fare ostensione di certificato martirio. Avrà voglia Mauro Masi di rimetterlo in riga. Solito tempo perso o, al più, una moltiplicazione di pubblicità che il furbo Mazzetti metterà all’incasso. E tra i ricavi non mancheranno di certo le preziose gocce di quella pioggia di scomuniche asperse da Avvenire dopo le esibizioni di don Gallo (coautore con lo stesso Mazzetti di un libro edito da Aliberti), additato quale “servo narciso” dal giornale dei vescovi ma considerato pezzo forte della macchinazione dove la radice forte è sempre furba, santa e paracula.

Il paraculo è Fabio Fazio di cui abbiamo già dato, tutto si sa ed è bravissimo nel suo essere il monumento della vera Italia. La nazione tutta, infatti, gli assomiglia. Anche nel suo essere di sinistra è molto italiano. Lui è quell’italiano migliore, quello che si fa cittadino consapevole, ceto medio con le riflessioni, borghese dai principi solidi e ancor più saldi convincimenti, insomma: uno che si para sempre il culo. Basti pensare alla disperazione di Roberto Zaccaria, ai tempi della sua stagione in Rai, quando doveva togliere dalle reti un eventuale Piero Chiambretti per non urtare la solitaria ascesi di Fabio Fazio (terrorizzato da un probabile arrivo di Antonio Ricci) e magari nel frattempo alzare alti lai per la prevaricazione di Bruno Vespa, egemone in tutti i giorni della settimana su Raiuno. Tutto si sa di Fazio, è vero, ma solo in ristretta cerchia esoterica, quella dei detrattori, esclusi dalla santa messa penitenziale dei dieci milioni di ascoltatori, ma poiché non è reato augurargli di finire un giorno nella scuderia di Lele Mora, glielo auguriamo caldamente perché – e stiamo usando una parola scelta da Ezio Mauro per Saviano – adesso è proprio “troppo”. Ma nel caso specifico troppo paraculo.

Santino nelle mani del Furbo e del Paraculo è Roberto Saviano. E a lui vanno le preghiere nostre, la mia in particolare, adesso che ha scelto di fare la calata agli inferi, quelli della telegenia, specie quella conformista. I giornali sono pieni di editorialisti che odiano Saviano ma che in pagina, al contrario, lo elogiano. Io che invece lo considero un patriota voglio trattarlo su questa pagina con la nostra cameratesca consuetudine e dirgli di stare attento alla piega che quei due stanno facendo prendere alle piaghe della sua stessa santità, lo hanno infatti costretto all’ostensione di un nuovo romanticismo pop e basta più. Con un grave danno: la demagogia. Quella che separa. Quella di Saviano, se è permesso dirlo, smette di essere un’operazione contro la criminalità nello stesso momento in cui lui stesso si presta ad argomenti speculari a chi l’Italia vuole dividerla. A chi accusa il sud non si risponde accusando il nord e non perché ci sono più meridionali in settentrione di quanti possano essercene nel mezzogiorno ma perché se là sopra ci sono quelli che il tricolore lo hanno messo nel cesso, il tricolore bruciato lo abbiamo già visto a Terzigno, capitale immorale di quella pentola a pressione che sta già in avanzato bollore, capitale di un regno che sta cercando il suo re. E Saviano, che a differenza di quanto ha scritto Ezio Mauro, non è un uomo solo contro il potere, non deve cadere nelle botole del luogo comune.
Se si contrappone al sud il nord per spostare in avanti la famosa “linea della palma” – quella della lezione di Leonardo Sciascia secondo cui il deserto della malavita si prende un orizzonte sempre più vasto – ci si mette a capo di una rivendicazione semplificatrice che cassa definitivamente la verità. Come quando, inseguendo Giulio Andreotti, si diceva che la mafia era solo quella di Roma.

A voler ridursi, come ha fatto Saviano, ad essere “un esponente del sud”, si dà linfa a quell’istinto di separazione che tanto piace al protoleghismo. E anche quelli con il bicchiere in mano, speculari ai nemici del sud, pur dai loro salotti, da sinceri democratici partecipano a una deflagrazione che è solo demagogia. E non, certo, solidarietà, sostegno ai poliziotti e costruzione dello stato. Quando, insomma, alle calunnie contro il sud si replica con accuse contro il nord, non si sta più facendo la guerra ai separatisti dell’Italia ricca, al contrario: si è diventati nemici di Carlo Azeglio Ciampi. E un patriota non può essere capo di una plebe, sia pure mistica, qualcuno deve dirglielo a Saviano. E glielo dico io, cameratescamente. La strada che ha intrapreso Saviano non ha che questo sbocco, costretto com’è nella scorciatoia dai furbi e dai paraculi: quello di restare “un esponente del sud” a rischio di plebeismo, capo dunque di una plebe mistica. E’ quella che lui stesso, in un divertente lapsus prontamente annotato col nostro lapis, definisce, anzi, evoca, come “il mio pubblico”. Qualcuno deve dirglielo di non fare auto-proclami che possano infine ridurlo a caricatura, tipo “Madonna in cammino sulla terra dei peccatori”. Altrimenti, la prossima volta che faranno quelli dello share, canteranno in coro “Mira il tuo popolo, o bella Signora”? Glielo dico io, cameratescamente: si deve diffidare di quel pubblico. E mi ripeto: non c’è tanta differenza tra chi il tricolore lo butta nel cesso e chi, come a Terzigno, dove lo vorrebbero re, il tricolore lo brucia.

Saviano che è fatto santo, un santino messo in mezzo da un furbo e da un paraculo, non è certamente uno di quelli da cravatta stretta e camicia button-down. La sua faccia è perfetta e sa attraversare i mondi, tutti quelli insospettabili, rispettabili ma fuori codice, fuori dunque dalla cerchia dei furbi e dei paraculi. Alla sua vita così complicata aggiunge uno stordimento fatto di rimandi ormai totemici, anche quando i suoi detrattori gli fanno il favore di andargli contro abbaiando. Perfino i camorristi sono diventati più innocui e Saviano sa bene quanto più spietati possono diventare i furbi e i paraculi, e tutti i demagoghi benpensanti.
Belli furono i tempi delle sue riunioni con i ragazzi dello Straniero, la rivista di Goffredo Fofi. Stavano tutti ad ascoltare a bocca aperta e respirando dal naso, tutti immersi nella sacra ostensione della verità fatta letteratura innanzi all’ufficio di Fofi, disturbato solo dal continuo chiacchiericcio del mitico Spada, un fotoreporter amico di Saviano. A un certo punto Fofi s’interrompe infastidito e intima a Saviano: “Roberto, prendi quello e portalo fuori da qui”. Spada si mette in piedi, s’aggiusta il giubbotto, si porta sotto il muso del venerato maestro e gli ruggisce (con fare educato): “Ne’ Giacubi’, statte accuorto”. Uscirono insieme e andarono a divertirsi. Oltre le paludi della letteratura e dell’impegno.
Vecchi giacobini tornano, tornano sempre. Saviano ha sempre la faccia perfetta e il fatto che lui abbia scelto di stare però dalla parte giusta, furba e paracula, impedendo a tanti di condividere la sua santità, ci conforta comunque perché lui non si riduce a vanità. Magari cederà alla tentazione di sottoscrivere quanto ha scritto Ezio Mauro sul caso Saviano: “Un bisogno di cambiare programma non solo in tivù, ma nel paese”. Magari, appunto, cederà nell’illusione che con lui sia veramente nato un linguaggio nuovo, un significato diverso, un differente codice e non – come temiamo, perché sempre di tivù si tratta – solo una versione poetica e furba del solito vecchio risotto di D’Alema, ma che ci s’infili nell’amore, o nella passione sociale, da che mondo è mondo il romanticismo è impolitico. Qualcuno deve dirglielo e glielo dico io, cameratescamente. Per come mi dice sempre lui. Se ha scelto di sottrarsi alla letteratura per farsi riproducibile quanto a icona ma irriducibile quanto a santità, Dio ce ne scampi, può solo correre un serio rischio: diventare solo un nuovo Yuppi Du.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

domenica 21 novembre 2010

Sto con l'Italia che vuole vincere, sto con la mia gente


Non sto con Fini o Berlusconi, sto con la mia gente. Quella che ha combattuto per affermare una visione spirituale della vita e del mondo, che crede in Dio, un Dio qualunque purché sia, che promuove l'dentità italiana e la difende dall'aggressione di altre tradizioni, culture, religioni che arricchiscono il mondo, tutte rispettabili e bellissime, ma diverse dalla nostra. Il tema di oggi non è più come garantire l'integrazione nella grande stagione dei flussi migratori, ma come preservare le identità, cioè la ricchezza del mondo, nell'era della globalizzazione e nel rispetto dell'integrazione. Emergenza trascurata a causa della 'coda di paglia' figlia della furia totalitaria e razzista del secolo scorso. I veri statisti, se fossero tali, non rinnegherebbero i valori occidentali per avere accesso ai salotti radical-chic, non si arrenderebbero a un destino di mescolanze destinate a peggiorare il pianeta nei prossimi cento anni, ma assumerebbero le azioni necessarie a salvaguardare e promuovere le differenze tra i popoli. La politica dei respingimenti alle frontiere e quella degli ingressi programmati per gli immigrati con regolare contratto di lavoro ribadisce che 'rigore e accoglienza' possono convivere.

Sto con la gente che si emoziona quando una vita scocca, fin dal concepimento, e vuole difenderla anche quando potrebbe scomparire su un letto d'ospedale grazie a un'iniezione, perchè la vita appartiene a se stessa e al Signore.

Sto con la gente che ama l'indipendenza della nostra nazione e non accetta ordini dalle multinazionali dell'energia, che ricorda con ammirazione Enrico Mattei, rivendica gli accordi dell'Italia con Russia e Libia perché fanno risparmiare le famiglie e rendono più competitive le nostre imprese, che ribadisce di non essere una colonia, nè un mercato da saccheggiare e non intende pagare l'energia 100 volte quel che vale. Se ci hanno dichiarato guerra e finanziano i nostri oppositori è il segnale che siamo sulla giusta strada.

Sto con la gente che non crede giusto insegnare il Corano nelle scuole e vuole combattere la segregazione delle donne, anche con il divieto di indossare il velo integrale. Sto con chi ambisce a una giustizia giusta e politicamente neutrale, che desidera un potere giudiziario che sappia essere un ordine dello Stato e non un contro-potere che destabilizza lo Stato. Sto con la famiglia tradizionale, papà, mamma e figli, senza stravaganze, senza adozioni tra persone di uno stesso sesso. Chi è omosessuale ha il diritto di fare della sua vita ciò che vuole ma ha il dovere di lasciare in pace la famiglia e i bambini.

Sto con la gente semplice che quando la sinistra parla sistematicamente bene della destra si disorienta, non capisce, che quando un pezzo di maggioranza vota come l'opposizione si sente tradita e si dispera perchè vede allontanarsi la prospettiva di un 'paese normale'.

Sto con la gente che ha forgiato la sua sensibilità ambientalista scagliandosi contro la speculazione senza compromessi, che si è sporcata i piedi nel fango delle alluvioni, le mani nell'immondizia degli arenili degradati, la faccia sul fumo dei boschi in fiamme nel tentativo di salvarli dagli incendi. L'ecologia della responsabilità contro l'ambientalismo opportunista in giacca e cravatta.

Una domanda s'impone: se la Lega nord usasse il suo ministro degli interni per polemizzare quotidianamente con Umberto Bossi e la sua linea, ne trarrebbe benefici o subirebbe una caduta di consensi? Ha un senso oggi lamentarsi di uno sbilanciamento verso la Lega dopo averla rafforzata assumendo posizioni incomprensibili e attaccando quotidianamente Governo e PdL?

Sto con la mia gente, con quella che quando ha saputo che una signora Colleoni qualunque ha lasciato il frutto dei sacrifici di una vita ad Alleanza nazionale, si è emozionata e si è sentita “orgogliosamente diversa”. L'etica nella politica non è uno scioglilingua... Il fatto che in quella casa di Montecarlo viva il fratello di Elisabetta Tulliani è semplicemente disgustoso. Non è un problema di valore immobiliare, non m'interessano i parametri economici né le rilevanze penali: è disgustoso tradire la generosità e la buona fede di una persona che ti lascia tutto prima di morire, considerandoti la sua famiglia. Se abbiamo pagato campagne elettorali, anche nelle scuole e negli atenei, promosso collette tra squattrinati, calmierato sigarette e pizze con gli amici è perchè sapevamo di essere un Movimento povero di denari ma ricco di valori.

Sto con la mia gente, che ha combattuto una vita per affermare che la sovranità popolare è un valore e i governi li fanno i cittadini con il voto, non i Parlamenti con le imboscate e le congiure. Sto con chi è pronto, ancora una volta, a combattere per sconfiggere i trasformisti e i restauratori della prima Repubblica, quelli che, in odio al Cavaliere, vogliono cancellare diritti conquistati negli ultimi vent'anni e, tra questi, quello di decidere chi debba governare, senza deleghe. Combattere è un destino... facciamo rullare i tamburi, la trincea non è il terreno giusto per laicisti ed atei, la trincea e di chi crede. Non sto con Fini o Berlusconi, sto con l'Italia che vuole vincere, sto con la mia gente.

(On. Fabio Rampelli)

sabato 20 novembre 2010

Intervista a Franco Cardini: siamo alla necrosi etico-sociale


E' l’era dell’informazione telecomandata a renderci così ignoranti ed è la sua spropositata ridondanza a farci disinteressati?

Bisogna guardarci dalla tentazione di confondere le cause con gli effetti. L’informazione telecomandata che c’inonda di notizie futili e tale quelle importanti conoscere le quali sarebbe “scomodo” per il potere non sarebbe né ammissibile, né plausibile, né accettabile come tale se non si rivolgesse a una società civile caratterizzata da una desolante povertà etica e culturale: una società civile incapace di chiedersi ad esempio che cosa ci fanno, veramente, i “nostri soldati”, in Afghanistan e in Iraq, e che invece si appassiona allo squallore voyeuristico di spettacoli come “Il Grande Fratello”; una società di famiglie che, alla domenica, vanno in gita all’interno dei Centri Commerciali; una società di gente che non riflette più, di famiglie dove non si discute e non si condivide più nulla salvo i beni; una società dove le notizie (diffuse, quelle) che l’evasione fiscale o la corruzione sono generalizzate vengono accolte come se ciò fosse del tutto ovvio e naturale. Non ci siamo ridotti così per colpa della cattiva informazione: tolleriamo una cattiva informazione perché siamo ridotti così. Ma ciò significa che siamo alla necrosi eticosociale.

Nella post-modernità la nostra visione dell’Islam è ancora volteriana?

La visione dell’Islam è ordinariamente subordinata a quattro parametri, che servono a chi ci comanda: la disinformazione; il disinteresse; la genericità; il pregiudizio. S’ignora, o si finge d’ignorare, che l’Islam interessa quasi un miliardo e mezzo di persone; che non ha un centro disciplinare e istituzionale (non ha “Chiese”) e quindi non è possibile dare su di esso un giudizio univoco (si potrebbe dire che esistono, anziché l’Islam, gli Islam) ; che la sua complessa storia è profondamente radicata nel monoteismo abramitico e nella cultura ellenistico-romana e che ha quindi tanti e tali rapporti con la cultura del cosiddetto “nostro Occidente” da poter far realisticamente pensare che, in realtà, si tratti di un solo immenso albero culturale che da un solo tronco ha consentito il ramificarsi di cristianesimo, ebraismo e Islam. Si preferisce, invece, soffiare sul fuoco della favola abietta dello “scontro di civiltà” come volano demagogico e instrumentum regni, spauracchio sventolato davanti all’opinione pubblica per impedirle d’intravedere le ragioni effettive dei suoi problemi.

Siamo schiavi di “un moralismo antistorico”?

Siamo schiavi della nostra attuale incapacità di esprimere valori culturali positivi, del materialismo volgare che sta alla radice della cultura dei profitti e dei consumi, dell’oscura e ottusa paura che nasce dall’intima consapevolezza che la civiltà dell’individualismo e del progressismo, quella dell’Occidente cioè della Modernità (i due termini sono sinonimi) è arrivata al capolinea e si traduce in un’isterica ricerca del nemico metafisico, di Qualcuno e Qualcosa al quale addossare la responsabilità della nostra decadenza. Da qui il volgare equivoco che alimenta le “ricerca di sicurezza”, una delle prime esigenza propagandate come tali dai nostri politici e dai nostri massmedia e che per vivere e prosperare ha bisogno del mito del Complotto. La “minaccia terroristica” è il tipico prodotto di questa sinistra mitologia, alla quale si stanno sacrificando concreti spazi di libertà.

Peggio questo materialismo di quello comunista, scriveva lei…

Di gran lunga. Anzi, dal momento che il liberal-liberismo occidentale ha ormai dato luogo a un nuovo tipo di totalitarismo espresso dal “pensiero unico”, ritengo che ormai il paragone tra questo tipo di totalitarismo e, per esempio, lo stalinismo, sia aberrante e obiettivamente offensivo. L’offeso è lo stalinismo, beninteso.
La tirannide staliniana nasceva comunque dalla deformazione statalista e centralistica di un desiderio e di un bisogno profondo – e, alla radice, nobile – di giustizia. La tirannide di quello che Jean Ziegler ha definito “l’Impero della Vergogna” nasce dallo sfrenato individualismo e dalla Volontà di Potenza dei protagonisti (persone e lobbies) delle società transcontinentali e dalle estreme conseguenze dello “scambio asimmetrico” imposto con la forza dagli europei fino dal XVI secolo a tutti gli altri popoli e che oggi ha condotto i quattro quinti dell’umanità a vivere sotto la schiavitù dell’indebitamento e della fame. Le cosiddette “libere (e “naturali”) leggi del mercato” sono a tutt’oggi le prime e peggiori nemiche dei Diritti dell’Uomo che il genere umano conosca. Ma gli europei non se ne rendono conto perché resta loro difficile se non impossibile capire come i più modesti di loro sono, tuttavia, parte della minoranza privilegiata del mondo. Il punto è che viceversa tale realtà ormai non è più ignota agli altri, ai quattro e più milioni di “dannati della terra”: e che essi stanno progressivamente prendendone conoscenza e non sono più disposti ad accettarla. Da ciò discendono due necessità: “decrescita” (altro che “sviluppo sostenibile”) delle società opulente e ridistribuzione della ricchezza. Noam Chomsky, Jean Ziegler e Serge Latouche hanno nel complesso ragione: le loro visioni non concordano in tutto, lma la direzione è quella. L’alternativa è la catastrofe.

Il neo-fondamentalismo occidentale esercita una pace punitiva. Il concetto di pace non è più legato, né tanto meno preceduto, da quello di giustizia?

L’Occidente fa il deserto e lo chiama pace; aggredisce ed occupa, e lo chiama “esportazione della democrazia”; nel migliore dei casi, cerca d’imporre agli altri le forme politiche, etiche e culturali che a suo avviso sono le migliori (se non le uniche, il “naturale” punto d’arrivo della civiltà); definisce “barbarie”, “arretratezza”, “fanatismo” qualsiasi forma di resistenza tesa a salvaguardare, da parte degli altri, la propria identità; chiama con disprezzo “relativismo” qualunque istanza tesa a rispettare e a tutelare il diritto di tutti i popoli alle rispettive culture, dimostrando di confondere i concetti di “relatività” e di “relativismo” e d’ignorare perfino la differenza tra “relativismo etico” e “relativismo antropologico”, quello che c’insegna a comprendere qualunque cultura dall’interno dei suoi princìpi e a coglierne la sua “ragione nascosta”.
Quanto alla giustizia, la prima e unica forma di giustizia planetaria sarebbe quella che tendesse – con tutta la gradualità necessaria – a garantire non la parità e l’uguaglianza, che sono obiettivi innaturali e utopistici, ma un livello indispensabile di vivibilità e di decoro per tutti. Le classi dirigenti occidentali lavorano nel senso diametralmente opposto rispetto a questo obiettivo: lavorano perfino a rubare l’acqua ai popoli attraverso la privatizzazione della sua gestione, a sottrarre loro la possibilità di ottenere cure sanitarie adeguate attraverso l’artificiale mantenimento elevato dei costi dei brevetti farmaceutici. L’Occidente è genocida per un motivo mille volte più abietto di quelli fondati sulle ideologie razzistiche o collettivistiche: è genocida per sete di profitto.

Quella dell’Occidente è una guerra ideologica che diffonde, per dirla con Robert Jaulin, «la civiltà del vuoto, essenzialmente etnocida».

Solo che ormai l’Occidente ufficiale ha perduto per strada qualunque dignitoso e credibile alibi per difendere il suo vuoto. Quando diventa chiaro che lo scopo dell’accumulo capitalistico è l’accumulo capitalistico, che lo scopo dello sfruttamento è il suo perpetuarsi, che il mezzo si è trasformato in fine e che come fine è inaccettabile, si è arrivati al capolinea. E prima o poi il disincanto si generalizza, diventa coscienza condivisa. E’ necessario invertire la rotta prima che si arrivi a tanto; prima che sia troppo tardi.

Perdita del sacro o invece perdita di potere, dell’Autorità, dei mediatori religiosi istituzionali?

La Modernità si è costituita, dal medioevo ad oggi, su successive “liberazioni” ch’erano in realtà depauperamenti. La filosofia si è liberata dalla teologia, quindi la politica e la scienza si sono liberate dalla filosofia, quindi l’economia e la tecnologia si sono liberate dalla politica, si sono fatte politica esse stesse e hanno asservito la scienza. Ma l’indefinito sviluppo economico e tecnologico, spogliato dalle ragioni etiche e politiche, ha fatto progredire l’Impero del Nulla. Ch’è appunto quello che Ziegler ha definito “della Vergogna”. La tirannia del Capitale sul lavoro è stata un aspetto di tutto questo: con l’aggravante che, negli ultimi anni, lo sviluppo della speculazione finanziaria l’ha ridotta a tirannia del Capitale Inesistente. E’ il trionfo del nihilismo. Una società che si regge sul dominio dell’oro, solo che si tratta di “oro virtuale”. Il trionfo dell’estremo materialismo, quello fondato su una materia inesistente, illusoria. In Matrix si cela una profezia piuttosto realistica, forme fantafuturibili a parte.

Solo un dio può salvarci dal non-essere? E – sempre sul sentiero heideggeriano – saremo ancora capaci di un Dio?

Il problema non è capire se davvero abbiamo abbandonato Dio. E’ capire se Dio ha abbandonato noi, e se è possibile un Suo ritorno. Quel che i cristiani aspettano da duemila anni è la Seconda Venuta del Cristo. Ma come Re, Duce e Giudice.

giovedì 18 novembre 2010

C’è una destra colta che vuole fare guerra di idee ai futuristi


Nessuno sarà più come Silvio Berlusconi, il Cavaliere taumaturgo, il fondatore del centralismo carismatico. E dunque, sublimare il centrodestra, garantire la sopravvivenza del Pdl, costituzionalizzare il berlusconismo, non è un’impresa per un uomo solo. “Da tempo penso che, quando sarà, dovrà essere una troika a prendere le redini del partito berlusconiano”. Troika composta da chi? “Gianni Alemanno, Giulio Tremonti e Roberto Formigoni”, risponde al Foglio Marcello Veneziani. L’intellettuale della destra ex missina, mai davvero tenero con la fu Alleanza nazionale, con il suo gruppo dirigente e in particolare con il suo fondatore, Gianfranco Fini, sostiene che il presidente della Camera “ha sbagliato i tempi. Si è mosso troppo presto, e male, pensando che il ciclo berlusconiano fosse concluso.

Adesso è impossibile pensare che possa diventare lui il leader del centrodestra che sarà. L’esito più probabile della parabola finiana è una alleanza con l’Udc. Ha sbagliato troppo Fini in questi mesi, poteva essere il vice di Berlusconi, adesso può fare il vice di Casini”. Eppure, aggiunge Veneziani, “sarebbe un errore sottovalutarne la capacità di offerta politica. Fini ha fatto proprie alcune idee che funzionano ed è pur sempre un capiente collettore del disagio, del malcontento, che serpeggia nel Pdl. Deridere è facile, affrontare una sfida è cosa più impegnativa ma alla fine anche più appagante. A Fini bisogna sapere rispondere, da destra, e sul piano delle idee”.

Veneziani non ama il presidente della Camera “ma averlo espulso dal Pdl è stato un errore sciocco”, spiega. “Fini andava assecondato. Il conflitto con Berlusconi doveva rimanere all’interno del Pdl, della fisiologia dialettica tipica di ogni partito. Invece il dissidio è tracimato in maniera inspiegabile fino a colpire la maggioranza in Parlamento e il governo. Ora è tardi per recuperare, ma lo sbaglio non va ripetuto. Fini va preso sul serio. Alcuni temi fatti propri da Fli sono argomenti fondativi della destra italiana. La legalità, il senso dello stato, la cittadinanza. Altri sono mutuati, scimmiottati, dalla cultura della sinistra. Ma non va sottovalutata la forza concorrenziale di Fini e del suo partito nei confronti del Pdl e del berlusconismo. E’ necessaria una risposta di destra, articolata, credibile”.

Alemanno ci sta pensando. Può essere lui l’antidoto del Cavaliere contro Fini? “Ne ha tutte le caratteristiche, anche se dopo Berlusconi non ci sarà un altro Berlusconi e le formule si faranno necessariamente meno personalistiche. In uno scenario in cui al carisma si sostituisca la forza dei programmi, Alemanno può essere il comprimario di un ticket con Tremonti e Formigoni. Insieme, questi tre bismarckiani, riunirebbero anche l’Italia. La visione nordista e la visione centromeridionalista”. Negli ambienti alemanniani si pensa a un manifesto dei valori della destra, da dove si dovrebbe cominciare? “Alemanno deve iniziare dallo psicodramma del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Si dovrebbe ricordare che il patriottismo della destra non è ‘costituzionale’ ma ‘nazionale’, che ‘l’elezione diretta del premier’ è di destra mentre la ‘centralità del Parlamento’, di cui parla Fini, appartiene al vocabolario della sinistra.

Alemanno, che ha già costruito un rapporto solido con Tremonti, è anche l’unico che può declinare il valore della comunità applicata all’economia sociale e di mercato. Il sindaco sa incarnare anche la sensibilità antica dei democratico cristiani, la difesa della vita, la bioetica”. E sono i punti di un manifesto. Alla fondazione Nuova Italia circola già la data di un convegno sui valori della destra nel Pdl, l’11 dicembre. Lo sta scrivendo Veneziani? “Nessuno mi ha chiesto nulla”. Non ancora.

(di Salvatore Merlo)

L’antidoto del Pdl contro Fini è di destra e si chiama Alemanno

Gianni Alemanno si candida a essere l'antidoto, di destra, e sociale, che Silvio Berlusconi potrebbe presto promuovere contro Gianfranco Fini. Ieri il sindaco della Capitale ha partecipato assieme ai vertici del Pdl, alla pari con ministri e capigruppo, a un conciliabolo ufficioso dei generali berlusconiani alla Camera. Ha suonato le trombe del "voto subito", Alemanno, sconfessando alcune manovre sghembe dei mesi passati e proponendosi come leader naturale di ciò che resta di An, della sua classe dirigente e della sua ancora cospicua riserva elettorale.

Alemanno sa che non ha senso spendersi lì dove già lavorano figure come Daniela Santanchè. Lei recupera deputati di Fli al Pdl e coltiva l'ambizione di incarnare, in virtù di una tosta ortodossia berlusconiana, l'ala dura "e di destra" del partito. Gianni Alemanno, invece, si sottrae a manovre di sottobosco parlamentare e adesso immagina un percorso di elaborazione politica che sia la risposta del Pdl ad alcune agili intuizioni dell'area che fa riferimento a Fini. La sostanza è più o meno questa: sarebbe un errore sottovalutare le potenzialità di Fli, un soggetto politico autonomo, di centrodestra, alternativo al Pdl e guidato da un leader sorretto da alcune idee discutibili, ma popolari.

Se elezioni saranno, ma anche nel caso in cui il governo dovesse in qualche modo tirare avanti, il sindaco di Roma dovrebbe apparire agli occhi del premier come l'erede della tradizione di An e della cultura più identitaría all`interno del suo partito. Alemanno è pronto, si prepara a redigere un manifesto dei valori della destra che potrebbe suonare come una risposta al manifesto futurista degli intellettuali finiani. In più, con la propria fondazione Nuova Italia, ha pianificato una strategia di azione culturale, un progetto articolato per tappe, lungo tutto il 2011. Chi altri - si comincia a pensare nel Pdl - può rappresentare un contraltare spendibile nei confronti dell'offerta politica incarnata dal presidente della Camera? Si desume che Berlusconi stia per mettere il sigillo sulla strategia di Alemanno? Non ancora. Ma il sindaco, che pure non vuole abbandonare Roma, intende inserirsi come e più degli altri pretendenti nel novero degli astri pidiellini.

(di Salvatore Merlo)

Se nulla è vero, come dice Eco, perché i “Protocolli” sarebbero falsi?


“Il Cimitero di Praga” di Umberto Eco è un irridente manifesto intellettuale antitetico al messaggio di verità che Benedetto XVI propone agli uomini del nostro tempo. Non a torto L’Osservatore Romano”, per la penna di Lucetta Scaraffia, ne ha colto pericoli e ambiguità (“Il voyeur del male”, 30 ottobre 2010).

Ma il discorso merita di essere approfondito. Eco tiene ad assicurarci che nel suo romanzo nulla è fantasioso, ma tutto è storico, tranne la figura del protagonista, Simonino Simonini, l’unico personaggio inventato, che però “è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi” (p. 515). Per la verità, il geniale falsario Simonini, “incapace di nutrire sentimenti diversi da un ombroso amore di sé, che aveva a poco a poco assunto la calma serenità di un’opinione filosofica” (p. 103), ci appare come una sorta di controfigura dello stesso Eco. Il punto è che, ne “Il Cimitero di Praga”, Eco non si limita a sostenere la falsità di opere come i “Protocolli dei Savi di Sion”, ma è convinto della falsificabilità di ogni documento storico. Simonini – scrive – “ci teneva ache i suoi falsi fossero, per così dire, autentici” (p. 428). D’altronde, “chi deve falsificare documenti deve sempre documentarsi” (p. 121). Ma se nessun documento è, in sé, vero, tutti i documenti sono, almeno potenzialmente, falsi e se nessuno è certamente vero, di nessuno si può dire che è certamente falso. Per dire infatti che un documento è falso, occorre che ve ne sia almeno uno vero, il che non è, non tanto perché non esistano di fatto documenti veri, quanto perché, per Eco, la verità stessa non esiste in sé. Con ciò arriviamo al punto centrale del discorso di Eco: un relativismo assoluto che pretende dissolvere non tanto la verità filosofica quanto quella fattuale, che costituisce la trama oggettiva della storia.

Le radici di questo relativismo stanno nel nominalismo medioevale, che non ha niente a che vedere con la Scolastica, ma ne rappresenta il momento di crisi e di decadenza. Umberto Eco si è formato alla scuola tomista e ci ha consegnato uno dei migliori studi sull’estetica medioevale (“Il problema estetico in san Tommaso”, Torino 1956). Da allora però la sua deriva intellettuale ha seguito il percorso che dal nominalismo (di cui ha fatto l’apologia ne “Il nome della Rosa”) conduce all’illuminismo.

Dell’illuminismo torinese del Novecento, tanto bene analizzato da Augusto Del Noce, se Norberto Bobbio costituisce la versione neokantiana, Eco incarna quella neolibertina, più dissacrante, ma anche più coerente di quella dei “padri nobili” azionisti. Eco spinge il suo relativismo al punto di considerare correlativi vero e falso, non solo sul piano filosofico e morale, come voleva Spinoza, ma anche su quello fattuale. Ma se il falso storico è indistinguibile dal vero, solo la parola del falsario e dei suoi complici potrà attestare la non veridicità del falso. Con ciò Eco restituisce dignità storica ai “Protocolli dei Savi di Sion”, perché se tutto può essere falsificato e nulla esiste di certamente vero, la verità non è altro che la maschera soggettiva dell’interesse.

E’ vero ciò a cui il documento attribuisce verità. Se, come scrive Eco, “non c’è che parlare di qualcosa per farla esistere” (p. 385), c’è da chiedersi se definire falso un documento è sufficiente a metterne in dubbio l’esistenza e, di conseguenza, se il suo libro contribuirà a diminuire il numero dei lettori dei “Protocolli dei Savi di Sion” o non contribuirà piuttosto ad aumentarli, stimolandone la morbosa curiosità.

“Il Cimitero di Praga” è l’apologia implicita di quel cinismo morale che segue necessariamente all’assenza di vero e o di bene. Nelle oltre cinquecento pagine del libro non c’è un solo impeto ideale, né figura che si muova spinta da amore o idealismo. “L’odio è la vera passione primordiale. E’ l’amore che è una situazione anomala” (p. 400) fa dire Eco a Rachkovskij. “Odi ergo sum” (p. 23) ripete Simonini, a cui Rachkovskij insegna cinicamente che “mentre si lavora per il padrone di oggi bisogna prepararsi a servire il padrone di domani” (p. 499). E tuttavia, malgrado le figure spregevoli e i fatti criminosi di cui il libro è infarcito, manca nelle sue pagine quella nota tragica che sola può far grande un’opera letteraria. Il tono è piuttosto quello sarcastico di una commedia in cui l’autore si fa beffe di tutto e di tutti, perché l’unica cosa in cui veramente crede sono i filets de barbue sauce hollandaise che si mangiano da Laperouse al quais des Grands-Augustin, le écrevisses bordelaises o le mousses de Volailles del Café Anglais di rue Gramont, i filets de poularde piqués aux truffes del Rocher du Cancale in rue Montorgueil.

Il cibo è l’unica cosa che esce trionfante dal romanzo, continuamente celebrato dal protagonista, che confessa: “La cucina mi ha sempre soddisfatto più del sesso. Forse un’impronta che mi hanno lasciato i preti” (p. 24). Eco è tecnicamente un grande giocoliere, perché si prende gioco di tutti: dei suoi lettori, dei suoi critici e soprattutto dei cattolici che lo invitano nei loro convegni alla stregua di un oracolo, dimenticando che al “quid est veritas” di Pilato, Gesù Cristo risponde con le parole “Ego sum via et veritas et vita” (Gv, 14, 6), affermazione esclusiva e sfolgorante pervicacemente negata da tutti i relativisti, da duemila anni a questa parte. “Il Cimitero di Praga” costituisce una conferma, a contrario, dell’esistenza di questa verità, senza la quale tutto è privo di senso e di significato e si spalanca per l’uomo l’abisso dell’orrido, senza possibilità di riscatto.

(di Roberto de Mattei)

Il gerarca Pallotta e la meglio gioventù fascista


Non è facile scartabellare tra le carte di chi è morto per un’idea sbagliata. Aldo Grandi lo fa da una decina d’anni. Di mestiere, lui, fa il giornalista. È cresciuto come cronista di strada. La sua fortuna l’ha trovata nella storia, negli archivi di famiglia, nelle notizie ancora nascoste in qualche scatola del passato. Grandi nel 2004 incrociò quasi per caso Niccolò Giani e della scuola di mistica fascista. Era una miniera. Era la gioventù di Mussolini, ragazzi che la nomenklatura in fez guardava come stupidi sognatori o puritani esaltati. Grandi ha finito per adottarli. Li trova affascinanti. Forse perché in una dittatura cialtrona e opportunista questi alla rivoluzione ci credevano davvero.

Quando si parla di Giani ci si imbatte in altri due personaggi simili, due amici del gerarca «mistico»: Berto Ricci e il conte Guido Pallotta. È qui, seguendo le tracce del conte, contattato dalla nipote la quale aveva scovato in libreria il libro su Giani, si ritrova tra le mani l’archivio completo di un altro gerarca fascista, forse uno degli ultimi ancora inedito. È un’altra miniera. Sono le lettere, gli articoli di giornale, le fotografie raccolte da Aldo Grandi in Il gerarca con il sorriso (Mursia, pagg. 408, euro 22). E ci raccontano un altro pezzo di storia dei «giovani di Mussolini». Sono quelli cresciuti con il mito dell’uomo nuovo, con un’etica che avrebbe dovuto spazzare via furbi e opportunisti, codardi e «acchiappapoltrone», vecchi gerarchi e nuovi ricchi. A vent’anni incarnano l’utopia del «fascista perfetto»: credono nell’onore, nella Patria, nello Stato, da servire su tutto, anche con la morte, credono nell’etica dell’italiano moderno, non più comparsa, ma protagonista. Si rendono conto che le promesse del regime scricchiolano, e sognano la rivoluzione. Ma è una rivoluzione strana. L’obiettivo non è abbattere Mussolini, ma realizzare - senza compromessi - la sua ideologia. Un’equazione ingenua: salvare il capo, far fuori ministri e portaborse, e creare una nuova classe dirigente. È una generazione che ha creduto, combattuto e perso tutto.

Pallotta è un chierico, un fondamentalista del fascismo, squadrista della prima ora, segretario del Guf di Torino, volontario in Africa, direttore di Vent’anni, una rivista così mussoliniana che la corte del Duce considera frondista e antifascista. Pallotta comincia la sua carriera come giornalista della Gazzetta del Popolo e corrispondente del Popolo d’Italia. «Colpire, colpire, colpire inesorabilmente i nemici del fascismo, i tiepidi, gli opportunisti, gli accumulasti, i dormienti...».

Il suo stile è sferzante. Se la prende con i «falsi giovani». Sono coloro che «sussurrano e malignano, pettegolando ai margini della vita pubblica». Scrive: «Meglio disoccupati che arrivisti». Odia i «vecchi opportunisti che cambiano pelle come serpenti e monopolizzano l’esperienza in tutte le sue forme: insegnanti universitari, dirigenti d’azienda, personalità della finanza, alta burocrazia, funzionari statali e parastatali». Non sopporta il «tengo famiglia» che il fascismo non solo non è riuscito a debellare, ma ha sviluppato inseguendo la logica statalista e burocratica. I giovani di Mussolini non avevano capito che i totalitarismi sono un terreno fertile per i furbi.

La fiducia in Mussolini li porta al sacrificio totale. Giani muore in Albania, Ricci a Barce, Pallotta in un punto del deserto egiziano che si chiama Alam el Nibewa, da eroe, mentre scarica le ultime bombe a mano contro i carri inglesi. Il suo corpo non sarà mai ritrovato. L’Africa era il sogno di un impero impossibile, la colonia che avrebbe dovuto strappare l’Italia da un destino di nazione proletaria, la nuova «frontiera» di una generazione cresciuta in camicia nera. La loro vita si ferma a quarant’anni e forse è meglio così. Il futuro li avrebbe delusi. Sono pronti a dare anima, cervello e idee all’utopia fascista. Ma il Duce, a malapena li vede. E quando si ritrovano stritolati tra i gerarchetti locali, Mussolini preferisce la logica del potere a quella degli ideali. Ancora una volta la politica è una cosa troppo seria per lasciarla agli eroi o agli illusi.

(di Vittorio Macioce)

Italo Balbo, il manager delle trasvolate

Edoardo Sylos Labini, non a caso amante del futurismo, ha inventato il Disco-Teatro, una miscela di storia, letteratura e sonorità elettroniche. Il suo spettacolo Italo Balbo. Cavaliere del Cielo, che debutterà il 19 novembre alla Biblioteca Braidense, a Milano, è il preludio alla mostra «I cavalieri del Cielo», che si inaugurerà nella sala teresiana il 26. Sylos Labini vuole raccontare «la storia di uno degli ultimi eroici romantici della storia italiana del Novecento».
In effetti la figura di Balbo (1896-1940) è molto più complessa della vulgata su di lui. Basti pensare che fra il luglio del 1922 e il dicembre del 1924 – a 26-28 anni – per ben tre volte decise la storia del fascismo e quindi dell’Italia. La prima fu nel luglio del 1922, quando Mussolini trattava per entrare pacificamente in un secondo governo Facta e Balbo glielo impedì mettendo a ferro e fuoco la Romagna e costringendolo a proseguire la sfida armata al socialismo e allo Stato.
La seconda fu durante la marcia su Roma, quando Balbo, quadrumviro, impedì che De Vecchi e De Bono, altri quadrumviri, cedessero al timore per l’enormità dell’impresa. La terza volta fu il 31 dicembre 1924, nella fase conclusiva della crisi per il delitto Matteotti, quando Balbo ispirò e condusse il “pronunciamento dei consoli” che spinse Mussolini a instaurare la dittatura: «O con noi o contro di noi», era il succo delle parole di Balbo, temibile capo dello squadrismo, perché dello squadrismo militarmente organizzato e violento era stato l’inventore, nella sua Ferrara.
Eppure fu un innovatore, non a caso l’unico fra i gerarchi a avere come modello gli Stati Uniti, piuttosto che la Germania, la Francia o l’Inghilterra. Aveva una spiccata modernità: senso della propaganda, capacità di sfruttare i massmedia e il proprio carisma, abilità nell’eccitare e incanalare le masse. Non amato dai militari, dai borghesi, dai fascisti e dai monarchici, ebbe una grande indipendenza critica, ma senza sbocchi perché gli mancavano la capacità e il gusto di vasti progetti politici.
Lontanissimo dall’essere un avventuriero tutto fegato e improvvisazione, aveva una straordinaria capacità organizzativa, una precisione quasi teutonica che applicò alla sua passione per l’aviazione, intesa non come romanticismo umanistico ma come esaltazione tecnicistica della macchina, destinata «a spingere la tarda e pigra civiltà del mondo a un ritmo nuovo». Mussolini lo nominò ministro dell’Aviazione, e Balbo fu il vero creatore dell’aeronautica moderna, civile e militare, non soltanto italiana. Oltre ai record che l’Italia raggiunse fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Balbo volle dimostrare che il volo non era un’avventura riservata a pochi audaci, ma che l’aviazione civile sarebbe stato il futuro del cielo. Per questo ideò e realizzò una serie di «crociere»: voli di numerosi aerei in squadriglia, non più l’audace impresa di qualche sfegatato come Lindbergh.
Con la crociera atlantica del dicembre 1930-gennaio 1931, 12 aerei, i trasvolatori dell’Atlantico meridionale passarono da 24 a 64, di cui 45 italiani. Il più difficile volo attraverso l’Atlantico settentrionale iniziò il 1° luglio 1933 con 24 idrovolanti e 100 uomini d’equipaggio. La squadra volò in formazione e senza incidenti, portando di colpo i trasvolatori dell’atlantico settentrionale da 28 a 127 e facendo dell’aeronautica italiana un mito mondiale di coraggio e organizzazione.
I festeggiamenti furono superiori a ogni immaginazione: si celebrava la fine dell’isolamento americano, l’oceano diventava di colpo un fiume superabile non soltanto attraverso lentissime navigazioni, e l’aviazione passava dalla fase pionieristica a quella industriale. La trasvolata aumentò enormemente il prestigio italiano e dette l’impressione a milioni di emigrati – febbrilmente eccitati in quei giorni - di essere stati riscattati. Quando, il 19 luglio, i 24 grandi idrovolanti veleggiarono in formazione perfetta sui grattacieli di New York, Balbo ebbe un’accoglienza paragonabile soltanto a quella tributata ai reduci vittoriosi della Prima e della Seconda guerra mondiale e, forse, ai primi astronauti.
Mussolini, geloso della sua fama mondiale, lo “esiliò” come governatore della Libia: dove Balbo fece dimenticare le violenze compiute dai governatori precedenti con un paternalismo illuminato che non ha riscontro in nessuna delle altre amministrazioni coloniali italiane precedenti.
Poi, la sua opposizione alle leggi razziali, all’alleanza con la Germania nazista, alla guerra: e la sua tragica morte, nel giugno del 1940, abbattuto per errore dalla contraerea italiana. Il nemico inglese gli tributò un onore da vero “cavaliere del cielo”, lanciando un mazzo di fiori sul luogo dell’incidente.
(di Giordano Bruno Guerri)

martedì 16 novembre 2010

Gianfranco tra nostalgici e restauratori. E' così che chiamava i suoi nuovi amici


Irriconoscibile Fini. Vederlo nel presepio allestito da un gruppo politico denominato "Liberaldemocratici", che deve l'elezione di tre suoi deputati a Berlusconi, il quale inopinatamente li candidò nelle liste del Pdl, insieme con Rutelli e Casini, mi ha fatto un certo effetto. Non che fosse nel posto sbagliato, naturalmente, ma l'appassionato trio mi ha ricordato altre stagioni. Per esempio quella del febbraio 2008, quando improvvidamente Fini ruppe con il leader dell`Udc e confluì nel Pdl dopo averlo aspramente avversato. O ancora quella più lontana del 1993, quando da leader del Msi si trovò a competere per la poltrona di sindaco di Roma con colui che l'avrebbe battuto per pochissimi voti: mai sconfitta fu più vittoriosa, si disse. Tanta acqua è passata sotto i ponti e in politica è lecito cambiare opinione. Fini lo ha fatto, negli ultimi anni, con una rapidità tale che molti non sono riusciti a stargli dietro.

Passi per i mutati atteggiamenti su tante questioni politiche e culturali, al punto di sconfessare nei fatti la sua appartenenza alla destra stessa. Ma non si può dimenticare che il 27 gennaio 2007, chiudendo un convegno emblematicamente intitolato "Berlusconismo", organizzato dalla Fondazione Liberal, ricordò, riferendosi all`endorsement fatto dal Cavaliere in suo favore alla vigilia delle amministrative capitoline, che “le parole pronunciate in quell'occasione da Berlusconi, che fino ad allora non aveva mai assunto un impegno politico, furono spiazzanti e determinanti”. Ed aggiunse: “Non c`è ombra di dubbio che da quel momento, con quell'affermazione, e successivamente con la discesa in campo, con la nascita di Forza Italia, col cartello elettorale Lega al Nord-Alleanza nazionale al Sud, poi col Polo delle libertà e con la Casa delle libertà, Berlusconi ha cambiato la storia della politica italiana”.

Adesso dovrebbe toccare a lui, all'ex-leader di An, lo stesso compito, ma non per volontà elettorale come accadde all'epoca. Sarebbe giusto e naturale se avvenisse nei modi e nelle forme dovuti nelle famiglie politiche che hanno condiviso uno stesso destino. Ma che cosa è cambiato in soli tre anni, da quando, cioè, Fini ammise che “noi non siamo soltanto forze politiche che stanno insieme per un programma, perché abbiamo governato insieme, perché oggi siamo insieme all'opposizione o perché in molte realtà locali governiamo ancora insieme. No, l'unità che si è creata in questo periodo che ci separa dal 1994 è un'unità di valori”. Ben detto. Allora, che cosa è accaduto nel frattempo, convinto che era “compito dei partiti decidere se evidenziare ciò che unisce, i valori comuni, oppure al contrario, come mi sembra che qualcuno abbia intenzione di fare - e non mi trova certo d'accordo - mettere in evidenza ciò che può dividere”? Non lo sapremo mai. Come oscuri resteranno i motivi che hanno fatto venir meno quest`altra certezza: “Il problema è essere uniti per i valori del centrodestra, per la realizzazione dei nostri programmi, per tradurre in realtà le aspirazioni del nostro popolo”; tanto più che gli elettori erano “già arrivati a quel livello di consapevolezza”.

Senza ipocrisie, né retropensieri, Fini, con lucidità e generosità, affermava: “Chiedersi oggi chi dirigerà il centrodestra domani, amici miei, è quanto di più stupido possa fare una classe dirigente. Oggi dobbiamo chiederci come rafforzare il centrodestra e dobbiamo lealmente sostenere chi come Berlusconi il centrodestra lo ha realizzato. Il problema non è a chi Berlusconi lascerà la leadership, perché lui c'è, ci sarà e certamente sarà in grado di condurre la battaglia ancora per tanti anni. Il problema è molto più impegnativo, ed è quello di evitare - come dice la sinistra - che il centrodestra sia una parentesi, un`esperienza collegata all'avventura straordinaria e irripetibile di un personaggio come Berlusconi”.

Queste parole non sono state pronunciate nel secolo scorso, ma soltanto tre anni fa. Oggi vengono smentite dall'uomo che si è assunto la responsabilità di mettere fine a quel centrodestra che contribuì, in maniera determinante, a costruire, insieme con tanti militanti, iscritti, elettori e simpatizzanti che da destra venivano ed incontrarono, con lui, sul loro cammino il sogno di trasformare l`Italia. Se non ci si è riusciti, la responsabilità è di tutti, compreso Fini.

Il quale certamente ricorderà parole che suonano sinistre in queste ore, pronunciate sempre nel convegno sul berlusconismo con la convinzione di chi sentiva di partecipare ad un grande processo di rinnovamento nazionale: “Oggi siamo di nuovo al bivio, perché negli anni in cui abbiamo governato abbiamo dimostrato che è possibile un altro modo di concepire non soltanto la politica, ma anche di organizzare la società. Oggi i nostri avversari sono ovviamente le sinistre, ma sono le sinistre alleate di tutti restauratori, di tutti coloro che vogliono riportare le lancette della politica non a cinque anni addietro, ma ancor prima del '94”.

Sono, per caso, quelle stesse sinistre che applaudono Fini come loro oggettivo alleato nel far cadere il tiranno e restaurare la gloria dell'antica repubblica partitocratica?

(di Gennaro Malgieri)