lunedì 28 febbraio 2011

domenica 27 febbraio 2011

Il Duce intimo


Il Giovedì Santo del 1934, il capo dell'Ufficio stampa di Mussolini, Gaelazzo Ciano, telefonò a casa del giovane Yvon De Begnac per invitarlo ad un colloquio con il Duce, rimasto impressionato dal volume del giovane autore di «Trent'anni di Mussolini: 1883-1915». Il capo del fascismo si aprì al giornalista al punto che tra i due si stabilì immediatamente una corrente di simpatia. De Begnac non ci mise molto a maturare l'idea di una completa biografia mussoliniana avvalendosi della disponibilità del Duce a metterlo a parte, in una serie di incontri, delle sue idee e degli aspetti più intimi della sua vita e della sua formazione intellettuale. Dai colloqui vennero fuori due volumi; un terzo vide luce nel dopoguerra, intitolato «Palazzo Venezia. Storia di un regime». I monologhi di Mussolini furono registrati da De Begnac per circa dieci anni il cui compilatore li riordinò incessantemente fino alla fine della sua vita, nel 1983.

Sette anni dopo Francesco Perfetti li pubblicò con il titolo «Taccuini mussoliniani» che oggi Il Mulino ripropone, senza cambiare una virgola, con la stessa preziosa introduzione del curatore e la prefazione di Renzo De Felice (pp.642, 19 euro). Il grande storico del fascismo, sottolineando l'importanza di questo materiale, rivisto e risistemato da Perfetti, ci permette di comprendere «alcuni aspetti e momenti essenziali della sua formazione e, se non della sua politica in senso proprio, del suo atteggiamento di fronte alla realtà politica». Frequentemente De Begnac, le cui vicende private e pubbliche, a cominciare dalla folgorante carriera giornalistica, Perfetti ricostruisce minuziosamente nella densa ed intrigante nota introduttiva, ebbe la fortuna di essere l'ultimo interlocutore delle lunghe e faticose giornate di Mussolini, divenendo così depositario delle considerazioni e degli sfoghi del suo alto interlocutore. Una «posizione di privilegio», la definì lo stesso De Begnac che raccoglieva anche racconti utili e ai più sconosciuti di brandelli della vita disordinata del giovane Mussolini che forse sono la parte più interessante dei «Taccuini» che contengono le esperienze più pregnanti del suo tumultuoso cammino, dall'agitatissimo noviziato rivoluzionario con i sindacalisti e gli antimilitaristi, all'ascesa nel Partito socialista e fino alla guerra e alla rottura con il mondo marxista.

Non vi è dubbio che le pagine più interessanti di questo densissimo volume che suscitò scalpore quando fu pubblicato la prima volta nel 1990, sono quelle in cui il racconto s'intreccia con le storie sapide di avventure intellettuali e di passione sovversiva che hanno avuto a protagonisti personaggi del livello di Angelica Balabanoff, la vera «ispiratrice» di Mussolini che molto imparò dalle donne (basta ricordare Maria Rygier, Anna Kuliscioff, Margherita Sarfatti), Arturo Labriola, Enrico Leone, Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orano, Sergio Panunzio, e soprattutto Georges Sorel i quali molto contribuirono a solidificare nella sua coscienza il senso della milizia rivoluzionaria permanente, al di là del socialismo «parlamentarizzato e corrotto». In altri termini, fu il sindacalismo rivoluzionario, il cui «Arcangelo» (per usare il titolo di un altro volume di De Begnac) era Filippo Corridoni, a trarlo dalle secche del ministerialismo in cui s'era impaludato il socialismo riformista e gli fece scorgere quella che sarebbe stata la sua strada.

Questi «Taccuini», il cui contenuto è impossibile sintetizzare, sono un miniera di spunti e riflessioni intellettuali che trascendono perfino gli aspetti più propriamente politici e mostrano un Mussolini partecipe del grande dibattito culturale europeo dell'epoca. Nel dedalo di correnti, autori, filoni di pensiero, filosofie anche minoritarie, tendenze intellettuali eccentriche ed addirittura esoteriche si può dire che nulla sia sfuggito all'occhio curioso del Duce il quale si abbandonava spesso e volentieri a dotte considerazioni sulla morfologia della storia di Spengler o sulla letteratura francese più nuova ed effervescente, dimostrando una competenza fuori dal comune.

Alla vigilia del 25 luglio 1943 Mussolini incontrò per l'ultima volta De Begnac: «Guardò di malavoglia le carte che gli sottoponevo. Disse: "Questo nostro lavoro dura da quasi dieci anni. Eravate un ragazzo quando veniste qui per la prima volta". Dopo una pausa lunghissima, mormorò: "Qui, tutta una vita conclusa, ma la lotta continuerà"». Il «Presidente», come lo chiamò sempre il suo interlocutore, si congedò da quella piccola storia che aveva messo nelle sue mani senza neppure chiedersi che cosa ne avrebbe fatto.

(di Gennaro Malgieri)

Nel poligono di Salto di Quirra trovate cassette di uranio


Ormai non ci sono più dubbi: nel Poligono Interforze di Perdasdefogu-Salto di Quirra (Pisq) c'è l'uranio. La svolta nell'inchiesta - aperta a metà gennaio dalla Procura di Lanusei per fare chiarezza sui numerosi casi di linfoma di Hodgking che hanno colpito la popolazione e alcune malformazioni negli animali - è arrivata sabato, al termine delle ispezioni ordinate dal procuratore Domenico Fiordalisi in due magazzini nella base e a Capo San Lorenzo, dopo che la pioggia aveva fatto affiorare dal terreno parti di missili e di radiobersagli.

CINQUE CASSETTE - Sono state sequestrate cinque cassette metalliche dove i rilevatori hanno registrato valori di radioattività cinque volte superiori alla norma e l'intero deposito dove erano custodite. Sono stati portati via anche tutti i documenti (disposizioni interne, ordini di servizio, turni di lavoro, regolamento dei magazzini) con i quali si potranno accertare responsabilità, soprattutto sul fatto che sia all'ingresso del magazzino, sia sopra le casse, non erano stati posti i segnali necessari a distinguere la presenza di materiale radioattivo. Sabato mattina una squadra di poliziotti e vigili del fuoco specializzati, accompagnati dalla dottoressa Maria Antonietta Gatti (responsabile del Laboratorio dei biomateriali del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Modena e Reggio Emilia) e dal fisico nucleare professor Paolo Randaccio hanno fatto un sopralluogo nella base militare facendo la scoperta che forse apre definitivamente uno squarcio sull'intera vicenda. Il materiale è ora nel bunker dell'Università di Cagliari.

ORDIGNI IN MARE - Da un primo esame, il materiale potrebbe essere stato usato dall'Aeronautica tedesca durante esercitazioni effettuate negli anni '60-'70 e poi interrato dopo la bonifica, ma spetta ora agli specialisti analizzare più approfonditamente i reperti. Due settimane fa il procuratore Fiordalisi aveva ordinato il sequestro probatorio dei fondali marini davanti all'area di addestramento marino del Salto di Quirra. Sul fondale i subacquei avevano individuato numerosi ordigni a pochi metri di profondità. L'inchiesta è stata avviata per accertare se vi siano relazioni fra le esercitazioni militari effettuate nella zona e i casi di tumore e malformazioni.

DUE MILITARI - I controlli nei due magazzini sarebbero stati decisi dopo le deposizioni testimoniali di due militari, un siciliano e un campano, che hanno lavorato per due anni al Pisq, con mansioni di magazzinieri nei depositi dei materiali speciali. I due si ammalarono di linfoma non Hodgkin quando erano ancora in servizio. Sottoposti a chemioterapia, erano rientrati in servizio ma sono stati riformati dopo una recidiva delle malattia. I due ex militari avrebbero segnalato agli inquirenti anche i nomi di altri colleghi colpiti dalla stessa malattia dopo il servizio al Pisq.

Obama vuole il petrolio libico


Tutto iniziò l'11 settembre 2001, ma il quadro era oscuro. James Clapper , responsabile dell'intelligence di Hussein Barak Obama, come altri esponenti statunitensi di primo livello, accredita i terroristi Fratelli Musulmani come organizzazione laica, persino stabilizzatrice nella fascia nordafricana.

Chi si domanda dove vogliano arrivare Hussein Barak Obama e i servizi inglesi, ha la risposta dai cori islamici cui fanno da contrappunto Barak, Hillary Clinton e Catherine Ashton, responsabile, figuriamoci della politica estera Ue. Gli inglesi, dal canto loro, dopo l'uscita di scena di Tony Blair, hanno accentuato, con l'agenzia Reuter in testa, le blandizie verso Teheran e Hamas, riservando a Israele molta ostilità e tanta indifferenza. «Ben Ali vai via», gridano le folle aggrumate dai mullah. «Ben Ali togliti di mezzo» contrappuntano Obama, Clinton e Ashton, dopo aver ammorbidito l'oligarchia che sosteneva fino a quel momento Ben Ali, il quale, capita l'antifona, toglie l'incomodo.«Mubarak vai via» gridano le folle aggrumate dai mullah. «Mubarak togliti di mezzo» contrappuntano Obama, Clinton e Ashton dopo aver ammorbidito l'oligarchia che sosteneva fino a quel momento Mubarak, il quale, capita l'antifona, toglie l'incomodo.

Così un'evidenza affiora, sporca e brutta come una chiazza di greggio sul mare cristallino: la santa alleanza fra una parte dell'Islam fondamentalista e Obama. Clapper, tesseva le lodi dei Fratelli mussulmani. Lo faceva anche in presenza di parlamentari statunitensi, scombussolati dalle amicizie spericolate della Casa Bianca. Che ha fatto un patto col diavolo.

Provano anche a destabilizzare l'Algeria e il Marocco, gli va male. L'importante tuttavia è il controllo dei confini tunisini ed egiziani con la Libia, per destabilizzarla. L'ammiraglio Michael Mullen è venuto due volte in dieci giorni nel Mediterraneo e da queste parti circola pure D.C., un distinto signore, gabellatosi per fuoriuscito dalla Cia, che è a capo d'un team di reclutatori di contractors, i mercenari. Dall'Egitto e dalla Tunisia fuoriescono profughi misti a marmaglia?

Nessun problema per D.C., anzi. Egli ha a libro paga una schiera di giovanotti mussulmani balcanici, afghani e irakeni, da ovunque vi siano «operazioni di pace». D.C. mette al servizio dei veterani i nuovi reclutati provenienti da Egitto e Tunisia, a loro volta diretti dagli agenti senussiti, collegati alle forze speciali inglesi, con vasta disponibilità di armi e addestrati. Così organizzati, i nuclei, apparentemente di facinorosi spontanei, accendono le mischie e infiammano la folla, sparando anche sugli inermi per innescare reazioni furibonde e propiziare l'intervento «umanitario» della comunità internazionale. Lo hanno fatto a Tirana, tentando di destabilizzare Sali Berisha.

Non è la prima volta che utilizzano questi metodi. Cinque febbraio 1994, l'attenzione internazionale sul conflitto bosniaco stagna. Nel mercato coperto di Sarajevo una bomba uccide 68 civili e fa 200 feriti. L' orrore arriva in diretta coi tg. «Non consentiremo lo strangolamento di Sarajevo» disse il marito di Hillary Clinton. Si scoprì dopo che quella bomba era mussulmana. Che importanza ha oramai? Mezzo milione di morti e, fra questi, anche non pochi soldati italiani mandati lì in missione di pace e tanti tornati ammalati. Che importanza ha ormai?

Si dimentica che le folle non combattono, tutt'al più s'aggregano se, per esempio dai minareti, c'è chi le riunisce. In quanto a combattere, lo fanno solo quelli che sono armati e addestrati. Questo macello, apparentemente cominciato a fine gennaio nella piazza centrale del Cairo, ha l'obiettivo di abbattere Gheddafi, odiato dagli inglesi, cui consegue possesso dei pozzi petroliferi e rincaro del greggio.Scopo strategico? Destabilizzare Mediterraneo ed Europa senza limiti di tempo, lo ha scritto George Friedman, affinché la Cina commerci solo con gli Usa. Mons. Innocenzo Martinelli, Vescovo di Tripoli:»Io resto. Restano anche le suore. La situazione è calma i media ne raccontano di balle.

Si sentono spari solo la sera e la notte». Le Sette Sorelle producono e esportano indisturbate, come negli anni '90 quando in Algeria scannavano francesi e italiani ma non un inglese o statunitense fu infastidito.

La Bbc: «Con oltre un centinaio di cittadini britannici 'in pericolo' nel deserto libico, il governo di David Cameron sta valutando l'invio delle forze speciali in Libia». In realtà sono già lì da tre settimane. Ultim'ora: centinaia di consulenti militari Usa, britannici e francesi, inclusi agenti dei servizi segreti, sono già in Cirenaica per aiutare i rivoltosi.

Lo rivelano fonti vicine ai servizi israeliani. La presenza dei francesi significa l'isolamento politico dell'Italia. Adesso Silvio Berlusconi deve scegliere se passare alla storia per Ruby Rubacuori o per lo statista che ritira l'Italia dal dispositivo militare della Nato e i nostri contingenti dalle missioni internazionali. Così avremmo pure come pagare le spese per gli immigrati che ci stanno accollando.

(di Piero Laporta - fonte: www.italiaoggi.it)

venerdì 25 febbraio 2011

E il generale disse: "A me gli occhi, please"


Come convincere i politici americani che in Afghanistan servono più soldi e truppe? A me gli occhi, please, risponderebbe William Caldwell, il generale protagonista dell'ultima, incredibile forma di pressione che ha molto poco a che fare con quelle operazioni di lobbyng che pure sono permesse negli Usa: la parapsicologia. Proprio così. E che fior di personaggi sono finiti nel mirino, è proprio il caso di dirlo, del generale ipnotizzatore, su cui il comandante David Petraeus ha aperto adesso un'inchiesta. Dall'ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti, John McCain, allo stesso capo di stato maggiore, Mike Mullen. Dal senatore Joe Lieberman, l'attuale indipendente che Al Gore aveva scelto come suo braccio destro, al capo della commissione esteri Carl Levin. Pezzi grossissimi. Contro cui il generale avrebbe organizzato, durante le loro visite in Afghanistan, quella guerra di pressione (para)psicologica che ricorda la storia raccontata da George Clooney in "L'uomo che fissa le capre", 1 il film tratto dal reportage di Jon Ronson sulle tecniche paranormali dell'esercito e della Cia.

In America le chiamano ancora "psy-ops", che sta per "psico-operazioni", anche se la definizione si è portata dietro così tante polemiche che da pochissimo è stata dismessa per la più militarmente corretta IO, Information Operation. Ma più che informare, i corpi specializzati in questo particolare tipo di servizio ricevono l'ordine di influenzare, con tutti i mezzi, i loro obiettivi. Una tecnica che sarebbe ammessa in teoria solo per le truppe nemiche ma che il generale Caldwell, desideroso di rovesciare le sorti della guerra infinita che l'Occidente combatte contro i Taliban, avrebbe rivolto contro gli stessi vertici americani.

La rivelazione arriva da un reportage di Rolling Stone, firmato da quel Michael Hastings che raccogliendo le confessioni e le sparate di Stanley McChrystal contro la Casa Bianca portò al licenziamento del comandante supremo delle truppe in Afghanistan, che Barack Obama sostituì con David Petraeus. E adesso naturalmente il Pentagono prova a smontare il casotto accusando Hastings di astio nei confronti dell'esercito.

Ma il generale viene incastrato dal suo sottoposto, il colonnello Michael Holmes, che ha raccontato al giornale di aver cercato di opporsi agli ordini. "Il mio compito in queste psy-ops è di manipolare la testa delle persone" ha ammesso candidamente "cioè di far pensare al nemico quello che noi vogliamo. Ma mi è proibito di fare la stessa cosa con la nostra gente. E quando ti chiedono di fare operazioni del genere sui senatori, sugli uomini del Congresso, beh, è chiaro che stai passando la linea".

La linea sarebbe stata passata eccome. Tant'è che il capo di staff di Caldwell, alla vigilia della revisione della strategia in Afghanistan di Obama, nel novembre del 2009, sarebbe sbottato col povero Holmes: "Ma come facciamo a convincere questa gente che ci servono più truppe? Che cosa dobbiamo piantare nelle loro teste?".

Le psico-operazioni del generale in Afghanistan costerebbero 6 milioni di dollari al contribuente americano. Ma da Bagdad a Kabul la sua squadra si è fatta già conoscere per una serie di tecniche border-line: tra cui anche quella di "correggere" e piegare le voci di Wikipedia al vangelo del Pentagono.

E adesso? Caldwell nega ovviamente e "categoricamente che abbia mai usato le Information Operations per influenzare i visitatori eccellenti". E Bing West, un ex assistente del ministero della difesa, dice al sito Politico che il generale "è una persona meravigliosa e non farebbe mai niente che potrebbe far male agli Stati Uniti d'America, mai". Infatti. Ha sempre fatto tutto per il loro bene: per far prevalere i nostri in questa maledettissima guerra. Più soldi, più truppe. E, magari, qualche migliaio di morti in più.

Quando la sinistra risciacqua i suoi razzisti


La sinistra italiana dispone di due aziende storiche: la fabbrica del fan­go per sporcare chi vuol distruggere e l’impianto di depurazione per ripulire il passato sporco dei suoi nuovi alleati e affiliati. Le due aziende sono di antica data: per la fabbrica del fango ricordere­te, tra i tanti, il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, massacra­to e infangato dal gruppo Repubblica­­l’Espresso e risultato poi innocente. Per l’impresa di pulizia del passato vorrei raccontarvi una storia sconosciuta ed esemplare nelle tresche tra giudici e sini­­stra, tra Corte Suprema e giustizia rossa e smemorata.

C’era una volta un illustre giurista cam­pano, Gaetano Azzariti, che fece gran carriera prima e durante il fascismo, poi firmò il becero «Manifesto della razza» contro gli ebrei e diventò il primo presi­dente del becero Tribunale per la Razza. Caduto il regime, l’Azzariti, dopo un pe­riodo di riciclaggio nel governo Bado­glio, si legò a Palmiro Togliatti che lo por­tò con sé come eminenza grigia al mini­stero di Grazia e Giustizia. E da allora la sua carriera nell’Italia repubblicana e antifascista riprese alla grande, dimenti­cando il nero passato. Fino a diventare, con la benedizione di Gronchi e di To­gliatti, il primo presidente della Corte Costituzionale (dopo il breve preludio di Enrico De Nicola). Carica che tenne fino alla sua morte, il 1961. Nessuno mai lo contestò da sinistra per il suo passato «infame».

Vite stroncate per una frase razzista e carriere luminose per chi gui­dò il tribunale contro gli ebrei. Pensate, il primo presidente della Corte suprema della Repubblica italiana è stato il primo presidente del tribunale della razza. Ma tutto è permesso se ti ricicli a sinistra e ogni accusa è possibile se viceversa sei suo avversario. Fior di fascisti furono ria­bilitati dalla sinistra e fior di galantuomi­ni coerenti furono condannati, anche a morte. Il Pci non c’èpiù da un pezzo; ma la sinistra che toglie i peccati dal mondo è viva e lotta con noi. Poi dite che la sto­ria non insegna nulla. Che sinistra di raz­za... (Piccola storia dedicata a Eco, ai giu­dici e a chi usa i paragoni del passato per colpire il presente).

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 23 febbraio 2011

Sia lodata la vanità, motore del mondo


E se la vanità fosse il motore virtuoso del mondo? E se tutto ciò che di più nobile realizza l’uomo - l’arte, la poesia, il pensiero, la scienza, la politica e perfino la santità - provenisse dalla vanità? Vanità è il piacere di farsi piacere ma è anche il sentimento del vuoto, dell’inanità del mondo e delle cose. E se l’uomo privo di vanità si spegnesse, o degradasse al rango di vegetale, anzi di minerale, perché le piante forse sono esse pure vanitose? E magari anche i rubini, anche gli ori e i diamanti, sono a loro modo affetti da vanità...

Ho sentito l’impulso a difendere la vanità leggendo il libretto a lei dedicato da Mario Andrea Rigoni, leopardiano contemporaneo. Ho vanamente inseguito questo libretto per circa due mesi. L’ho cercato prima che uscisse, l’ho poi vanamente richiesto all’editore Nino Aragno, dopo mi sarò distratto un attimo ed era già esaurito. Infine, dopo averlo vanamente ordinato a più librerie, l’ho trovato. Forse è questa vana ricerca che mi ha fatto crescere il desiderio e il gusto di leggerlo. Parlo di Vanità (pagg.107, 10 euro), copertina nera come si addice ad un fratello minore di Cioran e a un discendente umorale di Leopardi. Di Rigoni segnalo pure lo splendido saggio, anch’esso nero-pece, Il pensiero di Leopardi, uscito l’anno scorso dallo stesso Aragno. Un saggio più bello del più recensito Leopardi di Pietro Citati, uscito nel contempo da Rizzoli.

È un libretto di pensieri brevi, quello di Rigoni, in verità decrescente: molto bello il primo capitolo, bello il secondo, meno bello il terzo, dedicato in prevalenza agli snob, infine annegato in un’ampia antologia di citazioni a cui manca forse l’epigrafe regina in tema di vanità. Quel: fama? fumus, homo? humus, finis? cinis, che è davvero il necrologio di ogni vanità.

Ho letto il libretto di Rigoni su uno scoglio dell’Algarve laddove finisce l’Europa, bevuta dall’Atlantico. Ero assediato dalle onde, sperduto sull’orlo dell'Oceano e notavo che la felicità più bella è la più vana, perché non si lega a nulla fuori di se stessa, la pienezza di un istante rubato all’eternità. Leggendolo lì, coricato sulle rocce, giungevo agli antipodi delle conclusioni di Rigoni, coniugando la vanità alla felicità e la vacuità alla essenza nobile della vita.

Nella sua prosa disperata godevo lo spettacolo dell’intelligenza che spalanca l’animo. Uno spettacolo vano ed esaltante, che trovo anche gioioso, tutt’altro che sepolcrale. E poi fa piacere incontrare uno più pessimista di te, ti fa sentire allegro e fiducioso al paragone...

Rigoni giudica il mondo un frutto vano della vanità di Dio. Ma ritiene che la vanità sia il desiderio di resistere alla morte, di essere e non sparire. Non morire! Non morire! fu il sogno supremo che Miguel de Unamuno riconobbe dietro la sua stessa scrittura e filosofia. Non morire è il sogno pietoso della vanità; ma la percezione di assurdità del sogno, lo rende tragico, nobile e vero. Rigoni segue la metafisica del niente di padre Emanuele Tesauro, e torna al nichilismo seduttivo di Cioran, una disperazione che riesce a sublimarsi in letteratura, in estetica, distillata nella magìa della parola. E allora va distinta la vanità rivolta al fatuo compiacersi dalla vanità intesa come sentimento del vano ed esercizio operoso dell’inutile. La prima vanità degrada l’uomo a fiore, come nel mito di Narciso; invece la seconda specie di vanità eleva l’uomo perché l’inutile è il blasone dell’anima ben nata. «Coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide» dice Platone.

In Rigoni c’è l’Ecclesiaste con la sua vanitas vanitatum, c’è forse traccia della Gnosi e del suo mondo creato da un demiurgo funesto. Ma c’è soprattutto Leopardi e la sua strage di illusioni. Splendido quel suo Leopardi brutto, pallido e deforme ma con un sorriso angelico ed una passione infantile per la cucina. Della vita di Leopardi colpiscono varie cose; a me colpì quasi quanto i suoi canti e i suoi pensieri, l’immagine di lui morente che si delizia avidamente in Napoli con i gelati. Ho visto nella mente Leopardi ingoiare voracemente una granita di limone prima di spirare; un uomo vecchio di 38 autunni, ma con un volto che, stando al calco mortuario esposto a Recanati, era somigliante a quello di Bobbio novantenne. Ma in quel vano e famelico gustarsi la granita si coglieva il nesso struggente tra un’infanzia avariata, sul punto di morire, e un estremo attaccamento alla vita e alle sue puerili golosità. Il pensiero della morte aveva dominato la sua vita; ora, finalmente giunto al suo cospetto, voleva assentarsi, perdersi nel piacere bambino, infimo e assoluto di una granita. Avrei voluto vederlo come gustava l’ultimo gelato; solo a immaginarlo, avido e morente, gli occhi si appannano di lacrime. In quel gesto vedo l’espressione più acuta della vanità, laddove il frivolo e il tragico si sciolgono tra le scaglie dolci e agre di una limonata.

(di Marcello Veneziani)

martedì 22 febbraio 2011

Noi ci stiamo allontanando troppo, in tutti i campi, dalla natura


La Corte di Cassazione pur respingendo la domanda di una donna di Genova che chiedeva di adottare una bimba russa che vive con lei da cinque anni, ha invitato il Parlamento a varare una legge che consenta l’adozione anche ai single. Maurizio Gasparri, Pdl, ha parlato di "invasione di campo". Sono pienamente d’accordo. I tribunali devono limitarsi a emanare sentenze, non è loro compito fare proposte di legge, che spettano al Parlamento.

Ma non condivido neanche il merito di quanto affermato dalla Cassazione. Un bambino, almeno sulla linea di partenza, ha diritto ad avere una madre e un padre. Così detta la Natura. È chiaro che il problema dell’adozione si pone (anche se non sempre) quando a un bambino mancano i genitori naturali. Questa situazione può essere in parte sanata affidando il bambino a una coppia formata da un uomo e una donna. Non si tratta di difendere la famiglia, come vuole la concezione cattolica, ma il bambino, il quale ha diritto di avere come punti di riferimento sia la figura materna che quella paterna. Un single può anche essere un bravissimo educatore, ma al bambino mancherà sempre il contrappeso, indispensabile, della presenza di un genitore dell’altro sesso.

Non mi convince nemmeno la formulazione del neuropsichiatra infantile Gabriel Levi: «Il bambino ha diritto di essere allevato al meglio». Perché è ambigua e ha consentito troppe volte di strappare il bambino ai genitori naturali considerati "inidonei" perché indigenti o comunque non in grado di provvedere adeguatamente all’educazione dei figli. Non è lo Stato che deve decidere qual è l’educazione migliore. Lo Stato deve solo limitarsi a cercare di ripristinare, quando manchi, una situazione il più possibile vicina a quella naturale, cioè con un bambino che possa contare sia su una figura materna che su una paterna. Anche perché è difficilissimo, se non impossibile, sapere quali sono le condizioni perchè un bambino sia "allevato al meglio". C’è il caso clamoroso, accaduto in Francia, di un padre che si è visto portar via i tre figli, per affidarli a un Istituto, perché non li mandava a scuola ma preferiva educarli nella natura abitando nei boschi. Chi può dire quele fosse la scelta migliore? Non è nemmen detto che il cattivo esempio dei genitori porti sempre frutti peggiori della famiglia "Mulino Bianco". A volte stimola una reazione opposta. Comunque sia in queste cose lo Stato deve mettere becco il meno possibile.

Né esiste alcun "diritto", né di coppia né di single, ad avere figli. Questi sono diritti inesistenti, come il diritto alla felicità o alla salute, che solo la Modernità poteva inventarsi, rendendoci così "ipso facto", tutti infelici e malati o comunque "a rischio". In nome di questo presunto "diritto" ad avere figli abbiamo, in altri Paesi, grazie al traffico di ovuli, di uteri, di sperma, a bambini con due madri o con due padri o con due padri e due madri, cioè con quattro genitori, con quale equilibrio psichico può crescere un bambino conciato in questo modo?

Noi ci stiamo allontanando troppo, in tutti i campi, dalla Natura. Io non faccio un mito della Natura, ma la Natura ha elaborato le sue leggi in milioni di anni e se ha voluto che un figlio nasca con un padre e una madre qualche ragione cisarà. Non aggraviamo ulteriormente le cose introducendo il diritto di un single, per lenire la propria solitudine, per desiderio di possesso, per "status symbol" o per altri mille motivi, anche generosi, di adottare un bambino. Perché prima dell’interesse dell’adulto viene il diritto del bambino a iniziare la propria vita nelle condizioni il più possibile vicine a quelle naturali.

(di Massimo Fini)

lunedì 21 febbraio 2011

I «boia chi molla» di Reggio Calabria? Stranieri in patria


La mattina del 18 febbraio del 1971 una colonna di carri armati e mezzi blindati entrava nel quartiere Santa Caterina di Reggio Calabria. La scena evocava l’invasione sovietica di Praga o i golpe sudamericani. È l’atto finale della cosiddetta «rivolta di Reggio Calabria», la sommossa popolare iniziata il 14 luglio del 1970, l’unica vera rivolta popolare della storia dell’Italia repubblicana. Sette mesi in cui la città calabrese era stata teatro quotidiano di scontri, barricate, bombe, tritolo, incendi e attentati. L’Italia di quegli anni ha già conosciuto la tragedia di piazza Fontana, a Milano, ma non è ancora entrata nel tunnel degli «anni di piombo».

A scatenare Reggio in quella che verrà definita «la rivolta dei boia chi molla» è la decisione presa a Roma di assegnare a Catanzaro il titolo di capoluogo regionale, uno schiaffo per i reggini i quali, non senza fondati motivi storici e geografici, ritengono la propria città la più rappresentativa e attrezzata della Regione. La città sullo Stretto paga lo scarso peso politico fra le correnti democristiane e socialiste che si dividono gli strapuntini del potere. Uno scippo, anche perché sin dalla nascita dello Stato unitario tutti i documenti ufficiali indicano Reggio Calabria quale capoluogo. La questione del capoluogo non era solo «pennacchio», come scrissero in molti, perché in un Sud che viveva di burocrazia amministrativa il ruolo di capoluogo significava convenienze economiche e posti di lavoro. «Una sollevazione popolare urbana, lunga e drammatica», la definisce Domenico Nunnari che ai fatti di Reggio ha dedicato da tempo accurati studi raccolti nel volume La lunga notte della rivolta (Laruffa editore, pagg. 168, euro 23). «La rivolta, somiglia ad un’enclave, straniera in patria, incompresa e abbandonata, in un isolamento deprimente e insostenibile». Significativa è la ricostruzione che Nunnari offre dell’atteggiamento dei grandi giornali nazionali che all’inizio snobbarono i fatti di Reggio come una rivolta cialtronesca. Sarà l’intensità dei fatti, l’attenzione della stampa internazionale a far mandare a Reggio decine di inviati. L’escalation è rapida: «Dopo le prime vampate di guerriglia urbana, la protesta divenne inarrestabile. Si alzarono le barricate sulle strade, con calcinacci, carcasse d’auto e vecchi mobili. Per transitare da un quartiere all’altro bisognava valicare i “checkpoint”, punti di passaggio. I capi della rivolta chiedevano i documenti». Giovanni Spadolini, all’epoca direttore del Corriere della sera, scriveva: «C’è nella tragedia di Reggio, la protesta di una città che ha un reddito pro capite tra i più bassi della penisola, la dolorosa illusione di un antico centro glorioso che crede di trovare la sanatoria ai propri problemi di sviluppo economico nell’evasione spagnolesca di una capitale regionale».

Nelle prime battute la rivolta è spontanea, non ha connotati politici, viene prima snobbata e poi osteggiata dal Pci, il partito che pure, in quegli anni, in tutta Italia muove consistenti forze sociali. La rivolta sfugge agli schemi classici delle contestazioni studentesche e operaie mosse dalla sinistra. A cavalcarla è il Msi, partito che di lì a un anno avrebbe incassato una consistente vittoria elettorale e che al Sud disponeva di un forte radicamento urbano e sottoproletario. In poche settimane il sindacalista Cisnal Ciccio Franco assume la leadership dell’insurrezione, e Adriano Sofri è costretto a definirlo come un efficace capopopolo, colui che fa adottare il motto degli arditi della Prima guerra mondiale «boia chi molla». Per settimane Reggio è controllata dai rivoltosi che quasi si danno una forma di autogoverno. Si spegnerà dopo dure lotte, con un triste bilancio di vittime, per effetto di interventi pesanti delle forze dell’ordine e per il varo del cosiddetto «pacchetto Colombo»: una serie di misure compensative, peraltro mai veramente attuate. Come molte pagine della storia d’Italia, questo episodio è stato per decenni derubricato a rivolta fascista, a una vicenda di cronaca. Solo da qualche anno la sinistra intellettuale che in questo Paese si ritiene depositaria della verità ha cominciato ad ammettere i suoi errori.

(di Gennaro Sangiuliano)

La destra col complesso della sinistra


La politica italiana non è nuova a invenzioni ossimoriche per trovare una via d’uscita a situazioni che sulla carta sembrerebbero senza sbocco. Degna di entrare nel Guinness dei primati quanto a inventiva la celebre formula partorita dalla fervida fantasia di Aldo Moro delle «convergenze parallele»: un non-sense che voleva dare senso a una formula di governo che senso faticava a trovare nella logica comune: l’alleanza tra opposti (Dc e Pci) che tali erano stati, rimanevano e sarebbero rimasti, ma che dovevano pur trovare una giustificazione al loro improbabile ritrovarsi uniti in un abbraccio governativo. Nell’immaginifica formula morotea gli avversari storici della Repubblica tali si confermavano (in quanto parallele che non s’incontrano mai) ma al contempo potevano divenire alleati (in quanto convergenze). Quel che la logica politica faticava ad avere senso trovava, in tal modo, una sua spendibilità almeno propagandistica.

Nel campionario degli ossimori inventati con fervida immaginazione e un indubbio gusto per a provocazione, annoveriamo ora una new entry, cioè Il fascista libertario. Questo è il titolo di un libro (sottotitolo Da destra oltre la destra tra Clint Eastwood e Gianfranco Fini, Sperling&Kupfer, pagg. 256, euro 17), a metà tra il pamphlet storico-autobiografico e il manifesto politico, scritto da Luciano Lanna, giornalista e storico, oltre che appassionato sostenitore della «svolta liberale» intrapresa da Futuro e libertà.

Sulla scorta di un lungo excursus sulla produzione intellettuale degli «irregolari» di destra del Novecento (da Pound a Céline, da Spirito a D’Annunzio, da Brasillach a Drieu La Rochelle), contraddistinti tutti da un indubitabile e sincero attaccamento al valore della libertà, e poi della vicenda esistenziale e culturale della generazione dei ragazzi, come lui, cresciuti e partecipi della contestazione giovanile sessantottina: sulla scorta di questo conforto storico e di questo bagaglio morale, Lanna propone un nuova soggettività politica, caratterizzata dall’associazione degli opposti: fascismo e libertarismo, appunto.

Il viaggio attraverso il passato recente e lontano, i pensatori anticonformisti degli anni Venti e Trenta e i contestatori del ’68, serve all’autore per argomentare la sua tesi di fondo: ossia che il futuro è di quanti si lasciano alle spalle le appartenenze culturali e politiche del secolo delle ideologie e hanno il coraggio di procedere non secondo la logica dell’«aut... aut», ma quella dell’«et... et», non attraverso la logica delle distinzioni, ma quella delle contaminazioni, per cui Péguy o Mounier, Pasolini o Pavese possono stare accanto alle icone tradizionali della destra. Una contaminazione come, appunto, è quella di fascismo e libertarismo.

Lanna non è il primo a testimoniare con la vita, sua e di larga parte della sua generazione cresciuta negli «anni di piombo» e perciò costretta dalla violenza e dall’intolleranza a «tornare nelle fogne» per ripararsi e restare fedele al suo credo politicamente scorretto. Un credo più utile ad alimentare un’identità e un orgoglio che non frutto di un’adesione ragionata e convinta al fascismo. Il loro immaginario, la loro sensibilità, le loro letture, i loro cantautori erano, per il resto, non troppo dissimili dai coetanei di sinistra: Flaiano, Vittorini, Camus, De Andrè, Gaber, Jim Morrison. Insomma, il loro era un mix di fascismo e di libertarismo. Qualcosa che stride certo col cliché del fascista picchiatore, intollerante e violento, ma che risulta molto credibile, oltre che vivo e vitale. Dove lo scarto tra l’immagine consolidata del militante di destra e la proposta di Lanna si fa sbrego è quando da esperienza personale e generazionale essa è trasposta ad archetipo politico.

L’ossimoro, la contraddizione, la contaminazione sono esperienze correnti nella vita delle persone. Non così quando li si vuole far assurgere a fondamenti di una proposta politica di partito. Un singolo può essere nostalgico e tollerante, ma un partito non può essere fascista e libertario. Almeno se le parole hanno ancora un senso. Liberalismo e autoritarismo sono, infatti, opposti che si negano. L’operazione tentata da Lanna, a dire il vero, non va giudicata sul terreno della coerenza né della plausibilità teorica, ma piuttosto per quel che vuol essere: un tentativo di conferire spessore storico e legittimità politica all’operazione messa in cantiere dal Fli di costruire una destra «liberale, plurale, moderna» in alternativa alla destra etichettata come «populistica, bigotta, intollerante» di Berlusconi.

L’ossimoro può reggere se accosta un passato (il fascismo) a un presente (il liberalismo), non se li associa senza che si provveda a smaltire le tossine autoritarie del primo, senza cioè che lo si storicizzi rielaborandolo criticamente.

L’amazzonemachia


Sul finire delle orge, quando, nello svaporare delle nausee l’anima vaga alla deriva, ogni uomo già vede i più meritati castighi. Succede quando sente la notte diventargli pece, morsicata dai rimorsi ma nessuno, anche tra i più lazzaroni, saprebbe immaginare un baratro, un guaio, una sventura simile a quella che sta per capitare a Silvio Berlusconi. Il noto peccatore, infatti, che non vogliamo credere colpevole di consumata sfrenatezza, non fosse altro per tutte le ragazze vestite da Babbette di Natale, poco appropriate perciò agli intrecci lacoontici, sta per affrontare quello che per ogni maschio è un incubo: ritrovarsi a fare i conti con tutte le donne della propria vita.

Donne. Tutte le donne. Che è come dire vedere sfilare tutte le femmine con cui si ha avuto a che fare, tutte in un colpo. E tutte insieme, alleate, come nelle “Ragazze di San Frediano”, il libro di Vasco Pratolini dove c’è Bob, il rubacuori di quartiere, che proprio quando pensa di averla fatta franca nel far credere a cinque ragazze contemporaneamente di essere innamorato e fidanzato esclusivo di ognuna, una volta scoperto da tutte loro, da tutte quante viene messo nel sacco.

Donne. Tutte le donne. E non al modo struggente dell’“Uomo che amava le donne”, nella sceneggiatura di François Truffaut, dove l’uomo, adagiato sul catafalco, riposa circondato dalla foresta di gambe di tutte le femmine avute e godute. Ognuna getta un pugno di terra sulla sua bara, un tumulo che per ciascuna non è una pietra messa sopra a una storia ma un modo per rimboccare le coperte a quel seduttore elargitore di emozioni giunto al suo meritato eterno riposo. Donne, quindi. E neppure alla maniera, eroica e superiore di un altro straordinario sciupafemmine, Drieu La Rochelle, suicida sulle pagine ardenti dei Veda. E’ “l’uomo coperto di donne”. Al suo funerale accorrono velate le dame, tutte sue innamorate, di una Parigi la cui pioggia è un pianto e un commiato.

Donne. Solo donne. E solo da morto un uomo può sopportare di incontrare le proprie storie d’amore e riceverle tutte insieme. Un mio amico, trionfante nel tabbuto, diede uno spettacolo magnifico di sé quando, una volta spalancata dalla morte la porta di casa sua, si ritrovò nella stessa scena di Truffaut ma non con l’aspersione della terra, piuttosto con uno svelamento o, meglio: un a-letheia. Fu il dis-velamento che, in un pomeriggio leccese, lo fece spoglia tra le spogliate di ogni segreto. Chi prendendogli una mano, chi l’altra. Chi baciandogli la fronte, chi, sognante sul suo petto e chi, consolando un’altra per farsi consolare, in una confusione di signore che lo pianse contendendosi con estremo riguardo la salma fattasi sorniona a furia di baci e pianti, al mio amico capitò il trionfo dell’uomo molto amato e se ne andò al camposanto sotto la lapide dell’unico coro: “Amore mio, grandissimo stronzo!”. Un amore che non somiglia affatto al comune amore è quello che descrive il destino di un uomo disperso tra le donne e perciò forse resta stronzo, fatalmente stronzo, ma capace di grandissimo amore.

Donne e solo donne. E donne, amazzoni, si diventa. E cosa ne possono capire di Tantra, di Lussuria e di amazzonismo quelle rubizze bonarie Babbette di Natale raccontate da “Chi” alla festa del Noto Peccatore? Hanno lo stile ordinario che è perfetto per le reclute in libera uscita ma inadatte a chi, per portafoglio, e per charme, potrebbe consentirsi partouze con top model. Una scena, quella sì, da serata elegante, tipo “Eyes wide shut” che se solo il Noto Peccatore l’avesse fatta una cosa così, con stangone che stanno a calcagno alto senza bisogno di stiletto, pure il Santo Padre non avrebbe avuto da ridire. Figurarsi Gustavo Zagrebelsky.

Sono molto pagnottine queste povere ragazze, provengono da territori esteticamente disagiati e anche quando hanno una Nicole Minetti a far da esempio, questa stessa, pur di lingua madre inglese, intervistata dalla Cnn rivela un accento della periferia est di Londra. Come dire: ’nnamo, ’ffamo, ’ddimo. E’ il dettaglio rivelatore che traccia il solco e c’è poi l’estetica che lo smutanda, ovvio, ma la Minetti per fortuna veleggia oltre gli obblighi del bovarismo. Gioca per sé, è già amazzone, sta tenendo botta malgrado la minaccia di una condanna, non morale, bensì carceraria, è una femmina fuoriclasse, coriacea e inesorabile, ma se si sono aperte le tane e stanno uscendo tutte quante, tutte improbabili, la guerra è alle porte.

Ciascuna, infatti, è pronta a reclamare il suo di un uomo i cui pezzi, a metterli insieme, non riuscirebbero a ricomporre un destino di bravo bigamo, di un saggio trigamo o di un generoso poligamo, ma di un batrace la cui arte di enfiar l’ego ha prodotto solo una spaventosa esplosione. Un vero guaio, la disintegrazione di un’esistenza che – nel dettaglio, nel caso specifico del Noto Peccatore – è anche pubblica. Roba da far proprio il grido di Rambaldo Melandri, l’architetto di “Amici miei” e, con lui, dire sgomenti: “Ma perché non siamo nati tutti froci?”.

E sono amazzoni diventate erinni, nemiche in luogo di amiche, signore che accuratamente sono state tenute lontane l’una dall’altra, a due a due, a dieci a dieci ma anche a tre a tre. Come nella regola di Milan Kundera. Quella ove si prescrive che un uomo debba avere tre donne, per non capitolare innamorandosi di una o, soccombere alla decisione, dovendo scegliere tra due. Nell’affollarsi di femmine la vita di un uomo si moltiplica nel racconto di ognuna. Uno, nessuno e centomila deriva da qui, non da chissà quale incursione esistenzialista, deriva dal qui e ora che è l’urgenza di un uomo di esplorare se stesso specchiandosi in tutte le sue donne: fino a morirne. L’uscita di scena auspicabile. E far combaciare i pezzi di quest’uomo non sono mai passeggiate, ma danni fatti sopra altri danni da fare.

E’ l’amazzonemachia, questa battaglia di femmine, quella che sta per portarselo via il Noto Peccatore. E di amazzonemachia trattasi se le inquirenti che lo tallonano femmine sono. Così le giudicanti, femmine appunto. E gli avvocati, una delle quali di nome Ippolita, sono altre femmine scese in torneo tra altre femmine. E le spettatrici, poi, solo femmine. E così le piazze, piene di femmine. E le testimoni infine, femmine, seppure bonarie, vestite da Babbette di Natale e non discese dalla tradizione di quelle sante e solenni scopate, sono femmine radunate dal raccogliticcio di serate sfumate su per il camino dell’esofago col Sanbitter e non di quelle che sanno strofinare il sommo della pancia con le mammelline ardenti. Magari lui, il Noto Peccatore, è uno che mangia per frutta la rosea fragola di una poppa, ma non è nemesi, come ha voluto rimpinzarsi di così laborioso concetto il giornale cattolico Avvenire. Il Noto Peccatore è solo un martire, magari di se stesso per non aver frequentato top model ma solo sciacquette, ed è solo un’amazzonemachia questa sua sventura laddove il batrace, ranocchio incolpevole, nel gracidar dell’ego ha enfiarsi una sorta di quadruplice pappagorgia e non il sommo dello stomaco. Fino ad esplodere.

Donne. E solo donne. Tutte accorse in questa vicenda italiana che nessun sceneggiatore avrebbe saputo immaginare. Donne che nessuna canzone del rimorso (nessuna gratitudine) potrà far recedere dal proposito di cucinarlo, il ranocchio, fino al punto di lasciarci presagire di vederlo, il ranocchio, in compagnia dei suoi fedelissimi nell’atto di tendere la mano come mendichi, bisognosi di scampo in questa storiaccia dove le donne, amazzoni, fanno colare giù dai loro occhioni feroci, rimproveri bituminosi e una sentenza già scritta: “E’ finita”.

Se non peggio di una secca sentenza. L’oscuro e ricolmo grembo terrestre si è da troppo tempo ritratto per muovere adesso scacco al ranocchio. E questo è il guaio. Se non ci fosse il rischio di essere individuati quali equivoci e raffigurarsi così complici potremmo cavarcela adesso con una lettura di Johann Jakob Bachofen, precisamente “Le Madri e la virilità olimpica”, quella storia segreta dell’antico mondo mediterraneo dove l’amazzonismo è analizzato in connessione al sentimento dell’onta subita. E’ la lesione del diritto della donna a suscitare la sua resistenza e ad armare la sua mano, dapprima per sua difesa, poi per una vendetta cruenta. Là dove l’abuso dell’uomo l’ha degradata, la femmina sente dapprima il desiderio di un’esistenza più sicura e più pura. Ecco un assaggio: “Il sentimento dell’onta subita e la forza della disperazione destano poi in lei la resistenza armata e la trasformano in una di quelle figure guerriere che, mentre sembrano esulare dal mondo di una femminilità normale, pure nascono dal bisogno di realizzare proprio questa femminilità su di un piano più alto”.

L’amazzonemachia ha preso possesso della scena. Una pm, le giudicesse, le testimoni, trasformate in “parte lesa”, la piazza convocata a far da coro, le avvocatesse strette intorno al fragile batrace di siffatta amazzonemachia chiamate a officiare una liturgia tutta da scrivere perché un affaraccio così non è contemplato in letteratura. Né in quella giuridica né, tantomeno, in quella del dispettoso groviglio del contrappasso fatto favola. Il Noto Peccatore cui non perdoniamo solo le crostine scelte, le Babbette di Natale, avendo infatti denari per procurarsi il meglio, è uno che ha sempre vissuto sulla corda del suo spirito e non, come un ragno, sul filo della propria bava, e merita perciò la pietas che un martire si merita. Certo, colpa sua se non ha mai letto Guido De Giorgio, dovrebbe attardarsi sulle sue pagine e sulla rivista Heliodromos, ne ricaverebbe un’assai edificante illuminazione quando il filosofo, il cui nome segreto è Havismat, della donna così scrive: “La donna non è una ‘cosa’, ma è un animale e, quel che è peggio: ora sta diventando un burattino, perché all’uomo è piaciuto così. L’avversione per la donna, con quella benedetta mania di ‘volere’, è una ossessione moderna”. E poi: “La donna è, di fronte all’uomo volgare, un essere la cui superiorità è palese in una zona in cui l’uomo è poverissimo: libertà – seppure senza luce e senza coscienza, come nei bimbi –, assenza di pregiudizi, nettezza miracolosa e sorriso in quel che l’uomo chiama ‘male’; non affermazione, ma scrollata di spalle là dove l’uomo borghesemente edifica; essere capace di tutto, pervia a tutto, ricettacolo di tutto, senza fondo, simbolo della matrice cosmica, insaturabile”.

La donna, tutta la donna, anche l’amazzone, non è come l’uomo l’ha costruita. La donna, di suo, ha quella miracolosa natura che è la danza: il ritmo dell’anca, il canto, il sorriso che le torna in volto nell’amplesso, quel disegno di virgola fatto in cielo che l’uomo non ha tra le lenzuola sfatte ma che la donna possiede. La donna che nuota e si svuota nel cosmo è l’indicibile, la donna ridotta a cosa, invece, spinta nella vita, senza il velo, prostituita in vetrina è posta là dove non dovrebbe essere: “Nel letamaio”.

Ma la donna torna femmina. La donna è dunque femmina e ogni fissazione del moderno, su di lei, si ribalta nell’esatto contrario. Come nell’essersi adesso vestita delle armature dell’amazzonemachia. A che servirebbe la forza se non ne abusassero? Scrive ancora De Giorgio che la dice lunga e meglio di ogni Roberta De Monticelli: “I popoli anglosassoni hanno voluto ciò: e da noi, con quell’ottusità che ci spinge verso la spazzatura, si sta seguendo l’esempio di quei bestioni. Un’ultima osservazione”, scrive ancora De Giorgio, “la danza è unica (danza orientale: danza del ventre): l’Europa ha distrutto anche questo e ha introdotto la coppia. Se si seguisse il filo di questa constatazione si andrebbe molto lontano nella visione del pervertimento occidentale. Forse fu per questo che la famosa “danzatrice del ventre”, assai imbarazzata, se ne scappò via dal bunga bunga?

La donna è tutte le femmine. Capelli biondi da accarezzare, labbra rosse sulle quali morire. E sempre nel numero di dieci. E volentieri sforare il numero di dieci. Ed è per questo che un uomo fa la cerca fino a disintegrarsi nell’incubo: ritrovarsele tutte quante, in un solo colpo, davanti. Dopo averle godute, amate, cercate e collezionate. Ognuna cercando un pezzo di quel maschio ridotto a pezzi. Ed è questa la fine delle fini, non quell’immagine biblica di Adamo ed Eva nudi, con le mani incrociate sulle vergogne a reclamare pudore. Nel cosmo l’uomo è solo. E senza neppure lo scudo di una madre. E l’uomo, solitario, appare di propria forza solo negli effetti che da lui si generano, nel degradare da potenza a sfinimento.

Certo, in tutto questo non ha più avuto seguito quello che il Noto Peccatore, in una delle sue apparizioni brezneviane, aveva accennato: “Ho una relazione stabile con una signora che non consentirebbe certe cose di cui vengo accusato”. Non se n’è avuta più notizia. Ed è come fecondare la propria distruzione, ed è questa la fine di ogni cosa: giustificarsi, trovare uno straccio di giustificazione. Con tutte quelle Babbette di Natale, poi. E neppure sul finire delle orge. Ma sempre ai margini di un vassoio. Generoso di ottimo Sanbitter. E fare i conti con tutte le donne della propria vita, proprio una dura vita.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

sabato 19 febbraio 2011

Un presidente senza nobili Fini


Non s’era mai visto un presidente della Camera pretendere le dimissioni del presidente del Consiglio, e Fini lo ha fatto. Non era mai accaduto che l’inquilino di Montecitorio si facesse promotore di una crisi extraparlamentare, e Fini lo ha fatto.

Non era mai successo che la terza carica dello Stato, super partes per definizione, dichiarasse defunto il partito più rappresentativo in Parlamento, e Fini ha fatto pure questo. Ci mancava che dileggiasse i deputati e senatori che hanno deciso liberamente di abbandonarlo per completare il profilo di un uomo politico al posto sbagliato. Abbiamo visto anche questo e crediamo che le sorprese non siano finite. Il leader di Fli ci ha abituato a tutto negli ultimi mesi, trascurando quel che ha fatto e ha detto dal 2008 in poi. E ci ha dimostrato come si possa cancellare una reputazione politica ritenuta inossidabile. Fini ha sbagliato tutto da quando ha mollato gli ormeggi dal suo mondo ritenendo di poterne costruire un altro dal nulla, servendosi non delle idee ma delle parole. E queste sono diventate pietre che anche quanti le avevano accolte con generosa disponibilità d'animo, hanno dovuto ammettere che nascondevano il vuoto. È questo ciò che resta della più inconsistente, livida e livorosa esperienza politica degli ultimi decenni. Culminata con l'anatema scagliato contro coloro i quali l'avevano assecondata, rimettendoci molto: prima avventurosi esploratori di strade sconosciute, poi traditori soggiogati dal potere seduttivo e finanziario del Cavaliere. Questa la conclusione di Fini al quale non passa neppure per la mente di aver sopravvalutato la sua esposizione ritenendosi davvero il fondatore di una nuova èra, anticipatore di una «primavera politica», come ha detto del discorso funebre al congresso «fondativo» di Fli. E neppure in queste ore si chiede che cosa non ha funzionato nel suo progetto, ma scarica tutto sui «traditori» e su chi avrebbe aperto la solita borsa contenente i trenta denari. Il livello del conflitto politico è di questo tenore. Non saprei se più grottesco o deprimente.

Di sicuro imbarazzante istituzionalmente. Poiché da che mondo e mondo, mai il presidente di un'Assemblea rappresentativa si è permesso di insultare dei parlamentari asseverando in tal modo la richiesta di dimissioni formulata da tanti, anche a lui vicini, fin da quando ha assunto un ruolo politicamente attivo. Nella sua intemerata Fini curiosamente se l'è presa anche con i «gerarchi del Pdl». L'ira gli ha impedito di ricordare che proprio molti quei «gerarchi», provenienti da An e formatisi come lui nel Msi, lo hanno sostenuto per decenni; alcuni hanno contribuito in maniera determinante a spianargli la fulgida carriera fino al piano nobile di Montecitorio, qualche altro, non ritenuto degno di ottenere i gradi di ufficiale superiore, lo ha seguito lealmente sulla soglia della più confusa operazione politica che poteva mettere in piedi. Ma a tutto c'è un limite oltre il quale a nessuno si può chiedere di andare. Soprattutto quando nell'altrove non c'è che il nulla. Cosa consegna Fli a chi volesse impegnarsi nelle sue file? La discontinuità con una storia, il rogo di certe idee, l'abiura di alcuni valori reputati indisponibili? Forse i delegati a Rho si attendevano una qualche risposta a queste domande. Hanno assistito, invece, a guerre intestine scatenate attorno ad organigrammi squilibrati. Un po' poco per annunciare venti di primavera. L'aria è piuttosto quella dello tsunami.

(di Gennaro Malgieri)

venerdì 18 febbraio 2011

Amici miei, futuristi immaginari, ve lo ricordate il camerata Marinetti?


Chiuso il congresso fondativo del partito con lo sfondo di una immagine identica a quella ecologica scelta (chissà perché) dalle Poste e Telegrafi, spiegato che il partito va a destra e non si vuole mescolare se non tatticamente con la sinistra; deciso che il presidente sarà Fini e che Fini si “autosospende” per non dimettersi da presidente della Camera; affidata la vicepresidenza a Italo Bocchino, che ne sarà dunque il volto ufficiale e il braccio esecutivo; è stato confermato il nome derivato dal libro firmato da Fini: “Futuro e libertà per l’Italia”. Di conseguenza, perdurerà purtroppo il vezzo giornalistico di sintetizzare e gli esponenti o aderenti a Futuro e libertà continueranno a venire chiamati dalle cronache politiche scritte e televisive semplicemente “futuristi”. Non credo che Filippo Tommaso Marinetti e i suoi seguaci ne sarebbero molto soddisfatti.

Il riferimento al futurismo è sempre stato presente negli scritti degli intellettuali e dei politologi che – veri apprendisti stregoni – hanno creato il “caso Fini” in funzione antiberlusconiana; ma che c’entra il Futurismo con il Fli? Che c’entrano la sua storia, le sue idee, i suoi valori con quelli di Futuro e libertà e in specie del suo presidente autosospeso? Il movimento marinettiano fu inizialmente fiancheggiatore del fascismo e poi culturalmente e politicamente confluì in esso. Addirittura certi futuristi hanno sostenuto durante e dopo il Ventennio che le idee-base del fascismo provenivano da quelle del Partito politico futurista e che sotto certi aspetti Mussolini si ispirò a Marinetti.

Di conseguenza, definire per ragioni di comodità lessicale “futuristi” i rappresentanti del Fli, e soprattutto il loro autodefinirsi tali, è paradossale e grottesco insieme considerando la netta condanna del fascismo e del suo capo sanzionata senza mezzi termini dal duce del Fli. Direi quasi inconciliabile con la parabola politica di Marinetti stesso. Gli esponenti finiani dovrebbero essere fieramente antifascisti, fieramente resistenziali se dobbiamo credere alle lapidarie affermazioni del loro presidente: la gran massa dei futuristi-doc non lo fu affatto: Marinetti fu sansepolcrista e poi accademico d’Italia, appoggiò l’imperialismo italiano politico e culturale, andò volontario in Russia, aderì alla Repubblica sociale, morì a Venezia nel 1944 e volle essere sepolto in camicia nera. Tutto questo dovrebbe far rabbrividire di orrore i neo-antifascisti del Fli.

Il motto dei futurismi era “Marciare non marcire”. Il motto degli intellettuali finiani pare sia “Misticanza non militanza”. Un abisso, dato che costoro teorizzano l’abbandono di qualsiasi identità e ideologia, per approdare a un miscuglio post-ideologico anodino dove c’è spazio per tutti eccetto che per i fascisti e i berlusconiani (sempre prendendo per tavole della legge le esternazioni del gran capo).

Ci si può ridurre a questo? Sembra di sì. Purtroppo quei “fascisti immaginari” di un fortunato e originale libro di qualche anno fa si sono trasformati in “futuristi immaginari”. Chiamiamoli, dunque, come volete: finiani, filliani, fillini, finistei, furbisti, bocchiniani, ursini, granateschi, brigugli, ma per favore no, ma proprio no, futuristi.

(di Gianfranco de Turris)

Luciano Lanna. Il fascista libertario


Ogni libro nasce sempre come risposta. Ogni libro racchiude in sé, nello snodo e nell’intreccio, nell’attenta inventio, nella ordinata dispositio, nella ricercata elocutio una risposta organica ad una sequela di domane ritenute essenziali. Così se Il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler si interrogava su quale fosse il destino dell’Europa, Il trattato del Ribelle di Ernst Jünger quale la maniera di agire imperturbabili nei «paesaggi plutonici della tecnica» così Il fascista liberario (Sperling & Kupfer, pp. 255, € 17,00) di Luciano Lanna risponde ad una domanda ben precisa con tanto di preciso questionante: «Potrà una ‘destra’ davvero essere ‘nuova’, al punto di essere: non gerarchica, non totalitaria, non conservatrice, non antimoderna, non razzista e via dicendo…Ma è forse destra questa? O, forse, come destra, essa non esiste più: in quel momento essa sarebbe davvero un’altra cosa» chiedeva Giorgio Tassani.

Per rispondere Lanna si affida ad un attento processo a un tempo storico ed interpretativo. Interrogando l’immaginario di sessant’anni di vita neofascista, non disdegnando i ricordi del ventennio, ritrae un tipo antropologico dai contorni sfumati e porosi radicato nella vicenda nazionale.

Ciò che viene fuori è un accurato schema intessuto in storie di personaggi eretici, dissidenti dell’esistente e stranieri dalla realtà. Protagonisti di un fascismo libertario inteso non come adesione ad una precisa ideologia ma piuttosto un ethos, rivendicante qualcosa che la modernità ha sottratto alla vita: la libertà.

Lanna non esita a definire il fascista libertario un ribelle, un brigante pronto a muoversi nelle selve infiammate dei totalitarismi e negli angusti spazi asettici e normalizzati delle democrazie liberali: waldgänger jüngeriano, viaggiatore nichilista e senza meta come i protagonisti dei più celebri romanzi di Kerouac e Céline ma anche cavaliere solitario ed ultimo individualista come Eastwood nelle pellicole di Leone.

Ogni eresia dal sapore libertario, insoddisfatta della contingenza ma assetata di assoluto, familiare alle inquietudini della modernità popola l’immaginario di un neofascismo altro. Fautore di una decisa rottura degli steccati ideologici, ma intrappolato negli stereotipi diffusi che, lentamente, vanno fratturandosi grazie anche ai così detti strappi finiani: ultima incarnazione del fascismo libertario come idea di società. Ma attenzione a non compiere l’errore di catalogare il libro di Lanna come la giustificazione del percorso interno al “finismo”. Il progetto del direttore del Secolo d’Italia è ben più ambizioso: ricostruire il senso di una storia andato smarrito nei meandri della propaganda. Mistificato dall’esistenza diffusa di una destra decisamente becera e incolta, tanto da offuscare, e trascinare nel baratro con sé, anche i ragionati progetti di ampia parte di quel mondo posto sotto la stessa etichetta.

Il fascista libertario gradualmente si disvela come una figura che ha puntellato la cultura italiana dentro e fuori la destra ufficiale, sospeso in un perpetuo limbo tra il rifiuto della modernità e l’accettazione delle sue sfide più estreme. Eroico perché solidale, radicato fortemente eppure in viaggio perpetuo, onirico e poetico seppur impiantato nel concreto, identitario e nazionale in quanto aperto alla contaminazione. Non contraddizioni o contrapposizioni, forzate dalle logiche estremistiche del dibattito sempre più demagogico, ma forze poderose in quanto ossimori capaci di foderare un progetto politico donandogli forma.

Un progetto politico proprio alla tensione tra individuo e comunità: binomio inscindibile in quanto si è solo in rapporto agli altri; la realtà del soggetto è quella del suo tessuto sociale e delle trame simboliche e sacrali che compongono il suo paesaggio di riferimento. Contro l’atomizzazione come mezzo di controllo sociale allora la comunità come permeabile e dinamica entità capace di rispondere alla modernità proponendo un’ ardua difesa della libertà di ognuno entro un tessuto cooperativo capace di riconoscersi negli stessi valori.

Sarebbe ingeneroso omettere che l’identità di questo fascista (ma cosa vuol dire ancora chiamarlo fascista?) è la contaminazione deliberata, la volontà del confronto con altri volta ad arricchire se stesso nella difficile competizione del pluralismo. Un politica, che dire non razzista, limiterebbe la potenza di una mira posta intenzionalmente contro qualunque forma di razzismo: Lanna elenca decine di aneddoti a supporto dell’esistenza di questa destra indirizzata all’integrazione e all’accoglienza del diverso e dello straniero.

Ma ciò che si debba invocare, a mio avviso, non può essere solo l’integrazione, spesso soggetta a semplici soluzioni omologanti e ancor più spesso prodotto dell’indifferenza alla diversità, vero e proprio olocausto culturale. Coincisa sovente con una disastrosa perdita della ricchezza primordia e della pluralità quale tratto tipico dell’umano. Sarebbe auspicabile invece coltivare, anche in senso politico, la volontà della tra-duzione della lingua, intesa come un cifrario simbolico dotato di senso e valore per l’individuo e la sua comunità di riferimento, altrui nella propria. Dando così valore alla differenza sostanziale e ineludibile, al fine di porla su un piano di comprensione condiviso, senza svilire la vicendevole provenienza specifica, in uno sforzo costante di comprensione dell’altro da se, affrontando senza remore il difficile processo di interazione con l’irriducibile alterità, come sostiene e suggerisce la filosofa Caterina Resta. Una fatica incessante di penetrazione e condivisione che al contempo non svaluti le differenze ed eviti il dramma più proprio al moderno: la reductio ad unum del patrimonio dell’Umanità.

(di Nicola Piras - www.mirorenzaglia.org)

S’allontana il sogno di una destra anti-Cav.


Come tutte le fughe negli eserciti improvvisati, anche quella dei parlamentari che lasciano Fini per tornare berlusconiani è precipitosa e disordinata. Scappano senza sapere bene come saranno accolti da coloro, ma soprattutto da Colui, che mesi fa hanno lasciato, ma sentono che una battaglia si è conclusa e devono trovare immediato riparo.

C'’è l’attore ansioso di scritture e contratti, il giornalista che nuovamente si separa dai celebri figli, i deputati e senatori delusi nelle loro aspettative, c’è per tutti il sogno della sopravvivenza politica nel castello governato con mano ferma da un principe munifico e minaccioso. Lui, Gianfranco Fini, osserva cupo l’esito della sua ultima svolta ma ha scelto, in un editoriale che oggi pubblicherà “Il Secolo d’Italia”, di tener duro sulla linea tracciata a Milano anche se forse sarà costretto a fare i conti con le sue illusioni e i suoi errori. La diaspora dei finiani potrebbe non rappresentare la fine dell’ultima impresa del presidente della camera. Il nuovo partito si regge su un marchio in cui è stampato il suo nome, gli altri non contano, ma sicuramente l’abbandono di tanti seguaci oscura in modo evidente la sua immagine. La storia dei parlamentari che lo stanno lasciando è sicuramente un nuovo clamoroso esempio di trasformismo e di quell’anarco-servilismo che il linguista Raffaele Simone indicava fra le caratteristiche degli italiani con la vocazione al servaggio volontario che comincia con la “libido adsentandi”, “la smania di dire sempre sì”, e si conclude con l’illusione di essere diventati più liberi, “falsa specie libertatis”. Se Tacito ci aiuta a capire i moti dell’anima di questi benestanti boat–people che sfuggono al controllo del vecchio gerarca per gettarsi nelle mani del Duce supremo, solo la politica può spiegare quello che sta accadendo. Proviamo a farlo.

I transfughi temono lo scioglimento delle Camere e cercano la rielezione. Alcuni di loro si sono lanciati nell’impresa di Futuro e Libertà senza aver capito bene quel che stavano facendo. Si sono affidati a Fini. Fuggono da Fini. C’è in questa ultima scelta la rottura di un antico sodalizio. Hanno seguito Fini perché hanno sviluppato nel tempo un forte legame verso la sua persona, perchè credevano di dar vita a un altro partito di destra, perché pensavano che la stella di Berlusconi stesse tramontando velocemente. Lo lasciano sancendo una rottura umana, una delusione politica e un calcolo cinico sull’immediato futuro. Fini è stato messo in discussione come uomo e come leader. Se i vecchi colonnelli non lo avevano seguito in quest’ultima avventura perché da tempo si erano accasati negli accampamenti berlusconiani, alcuni degli ultimi seguaci si sono trovati all’improvviso di fronte a un capo che è sembrato irriconoscibile. Alcuni di loro sono stati tratti con grande durezza e declassati brutalmente nel nuovo organigramma, altri hanno scoperto che l’abbandono della casa madre avrebbe potuto rappresentare la rinuncia alla destra per come se la sono immaginata. Anche alcuni intellettuali finiani si sono distaccati per questa ragione. Pensavano di spostare all’indietro le lancette dell’orologio dando vita a un nuova An priva di tutta la zavorra di prima, Gasparri e Larussa compresi, si sono accorti che la “destra moderna” di cui avevano parlato in infiniti dibattiti televisivi assomigliava tremendamente a un partito di centro.

Il personaggio più drammatico di tutta questa storia è proprio lui, Gianfranco Fini. L’uomo è duro e diffidente, i suoi sforzi di darsi un’immagine più accattivante sono falliti anche se ha goduto di una larga popolarità. Soprattutto è mancato nel punto preciso in cui si costruisce una vera leadership, cioè la capacità di connettersi al suo popolo. In due momenti ha mancato l’appuntamento. Quando ha deciso di strappare con il suo partito facendosi espellere prima di aver preparato questa eventualità. Quando si è affidato interamente al gioco politico culminato nel 14 dicembre e lì finito. Sulle sue spalle gravava un compito immane. Comunque vada a finire la sua storia, la rottura con Berlusconi resta un gesto politico che resterà nei libri di politica perchè ha cambiato la storia della destra. Tuttavia se il suo itinerario confuso di questi sedici anni ha un filo rosso, dalla svolta di Fiuggi alla kippa gerosolimitana alla frattura con il premier, va identificato nel tentativo, che culminò nel patto con Segni, di far diventare la destra missina una destra liberale, quello che Fini ha sottovalutato, come molti a sinistra, è la berlusconizzazione del popolo di destra.

Fini in tutti questi anni ha creduto probabilmente che fra destra e berlusconismo vi fosse un matrimonio di convenienza non avendo colto che invece c’è stata una rifondazione della destra stessa. Lui lavorava per una destra di tipo europeo, il suo socio maggiore gli sfilava da sotto il naso la sua gente. La sua rottura, “quel mi cacci?”, che voleva essere la rivendicazione di una democrazia di partito, incontrava un popolo che aveva scelto un leader ed era indifferente alla democrazia. Non a caso anche Giuliano Ferrara ha concluso la sua milanese intemerata “liberale” chiedendo al capo di essere più capo. La destra, in pratica, non c’è più, si è impastata con il berlusconismo e solo quando questo sarà sconfitto potrà cercare di trovare una propria strada. Forse la frettolosa scelta di aderire alla alleanza di centro, al cosiddetto “polo della nazione”, conteneva la consapevolezza di Fini di dover cercare un’altra collocazione e un altro popolo. Con l’articolo di oggi sul “Secolo” a questa prospettiva allude quando cerca di ridurre l’ìmpatto delle fughe dal suo nuovo partito. E’ il Fini dell’accordo con Segni che torna a fare capolino. Gli errori nella conduzione del congresso fondativo, un tratto umano complicato, e la paura del domani hanno spinto molti dei suoi a lasciare il barcone già pieno di acqua. Il presidente della Camera considera, da quel che abbiamo letto sul suo giornale, questo prezzo inevitabile. Tuttavia rischia di perdere non solo una manciata di deputati e senatori ma anche la reputazione politica. Il tema ossessivo della sfida personale con il premier lo ha portato in un vicolo cieco. Ora cerca deve raccogliere le forze che ha e mettersi in cammino verso l’ultimo viaggio, il più duro, il più lungo perché non prevede blitzkrieg, cioè guerre lampo, (anche la sinistra non si illuda), quello più esposto all’accusa di tradimento ma anche l’unico che potrà restituirgli un ruolo nella crisi del berlusconismo che neppure le fughe di Barbareschi, Guzzanti e tanti tremuli ex camerati potranno fermare.

(di Peppino Caldarola)

Sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra


“Ho l’impressione che il “popolo di piazza Tahrir” se lo stia prendendo in tasca. Dalla rivolta egiziana che, pagando il tributo di un centinaio di morti, ha cacciato il dittatore Mubarak, non è uscito qualcuno che l’abbia capeggiata, come fu Lech Walesa nel 1988 in Polonia, o un oppositore del regime di lungo corso come lo scrittore Havel in Cecoslovacchia, ma dal cappello a cilindro è saltato fuori il coniglio delle Forze armate. Una rivoluzione popolare si è trasformata in un golpe militare. Ora, in questi trent’anni, l’esercito è stato il principale sostegno di Mubarak e lo ha abbandonato solo all’ultimo momento quando glielo hanno ordinato i suoi padroni americani. Dagli Stati Uniti il pletorico esercito egiziano (460 mila uomini) riceve 3 miliardi di dollari l’anno e i suoi generali non godono solo di un’infinità di privilegi, ma sono i veri padroni dell’economia del Paese. Il fedelmaresciallo Tantawi, che sembra essere “l’uomo forte” della Giunta militare, anche se la situazione ai vertici del potere è ancora molto confusa e si chiarirà solo col passar delle settimane, era chiamato “il barboncino di Mubarak” e nei giorni convulsi della rivolta ha telefonato cinque volte a Robert Gates, il capo del Pentagono, per sapere come doveva comportarsi. Insomma il popolo egiziano ci ha messo la sua rabbia, la sua energia, il suo sangue ma questo grande, generoso, sforzo ha finito per essere pilotato dagli Stati Uniti ad uso dei loro interessi. Che sono che l’Egitto rimanga il loro principale alleato non occidentale nella regione in funzione pro-israeliana e anti-iraniana.

Il popolo egiziano è riuscito a liberarsi di un odioso dittatore, fino a ieri vezzeggiato e onorato dalle democrazie occidentali (e ha un significato, sia pur piccolo, che mister Berlusconi quando voleva tirar fuori dai guai se stesso e Ruby, interrogata dalla polizia, l’abbia spacciata per una “nipote di Mubarak”) che, come ogni dittatore, aveva instaurato uno Stato di polizia. Ma gli sarà molto più difficile liberarsi del “burattinaio” che tira i fili della politica del Cairo. E finché l’Egitto rimarrà sotto la pesante e pelosa tutela americana non sarà mai uno Stato libero né veramente libera la sua gente.

Le rivolte in Egitto, nel Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco), in Albania, nello Yemen sono certamente rivolte per la libertà contro dittatori patentati o mascherati in salsa democratica (è il caso di Berisha, molto simile a quello italiano) o monarchi assoluti, ma sono anche “rivolte per il pane” cui ha fatto da propellente una situazione economica divenuta, per una buona parte della popolazione, insostenibile (sarei molto più cauto sulle manifestazioni anti-regime in Iran perché sono anni che gli Stati Uniti, che difendono tutti i dittatori, anche i più criminali, quando gli fa gioco, da Batista a Pinochet al patinato e infame Scià di Persia per arrivare a Mubarak, soffiano sul fuoco per scalzare gli ayatollah, facendo finta di dimenticare che la teocrazia non è la democrazia, ma non è nemmeno il potere concentrato, a vita, nelle mani di un solo uomo). E in quei Paesi la situazione economica è precipitata o sta precipitando a causa della globalizzazione che è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra Stati che passa sul massacro delle popolazioni del Terzo mondo, innanzitutto sui Paesi più deboli, e comincia a intaccare anche il nostro mondo, di noi europei costretti, quasi da un giorno all’altro, a buttare alle ortiche il welfare dalla peggiore, perché anonima, perché inafferrabile, di tutte le dittature: la dittatura del mercato. È esperienza di decenni che il capitalismo, industriale e finanziario, crea sperequazioni fortissime fra Paese e Paese e all’interno di ogni Paese. L’esempio più evidente ci viene dagli Stati Uniti, il Paese più ricco, più potente del mondo, che ha potuto ritagliarsi formidabili rendite di posizione dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, dove vivono 33 milioni di poveri che sono tali non secondo gli standard americani, ma poveri e basta, anzi miserabili, homeless, clochard, barboni. O dalla Russia dove, oltre a ricchezze stratosferiche, la popolazione è ridotta incondizionitali che le oneste povertà dell’era sovietica appaiono fasti di un tempo felice (e le belle ragazze russe, laureate in biologia, in economia, in sociologia, che vengono a prostituirsi qui da noi ne sono una conferma). Eppure sulla globalizzazione sono tutti d’accordo, a destra e a sinistra. In un Wto del 1998 il presidente americano Bill Clinton ha detto: “La globalizzazione è un fatto e non una scelta politica”. E, in quello stesso Wto, Fidel Castro, di rincalzo: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Il che è vero se noi al centro del sistema mettiamo l’economia, come dopo la Rivoluzione industriale hanno fatto sia i liberisti che i marxisti (tutto il resto è “sovrastruttura”). Ma sarebbe vero anche se noi al centro del sistema mettessimo uno spillo. Tutto dovrebbe ruotare intorno ad esso. Io mi chiedo e chiedo da un quarto di secolo (La Ragione aveva Torto?, 1985) se questa focalizzazione sull’economia abbia un senso.

Un senso umano, dico. Se al posto della competizione non debba essere messa la “cooperazione” com’era nei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo (la Fiat, si strilli o meno, finirà per collocare le sue risorse in altri Paesi, giustamente se la logica è quella della globalizzazione e della competizione). Io credo che sia venuto il momento, se vogliamo, tutti, popoli del Primo e del Terzo mondo, salvare la ghirba, di una Controrivoluzione industriale che riporti l’uomo al centro di se stesso e releghi economia e tecnologia al ruolo marginale che hanno sempre avuto. Finché l’uomo ha avuto la testa.”

(di Massimo Fini)

mercoledì 16 febbraio 2011

Progressisti puri in un paese di ladri?


«L’Italia non è berlusco­niana » ha scritto il professor Luca Ricolfi sulla Stampa di ieri. Non lo è sul piano del co­stume: «Un recente sondag­gio di Mannheimer certifica che il sogno di carriera nel mondo dello spettacolo atti­ra effettivamente solo una ra­gazza su 100». Non lo è sul piano del consenso elettora­le: «Il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi ­è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre al 20 per cento». Non so a voi, ma a me sem­bra una bella notizia. Final­mente la sinistra non è più la minoranza virtuosa del Pae­se, quella che bacchettava gli appetiti volgari della destra, ma doveva arrendersi al de­stino cinico e baro di una maggioranza di italiani sen­za mutande.

Resta solo da chiedersi perché questa sini­stra post-marxista, antagoni­sta, democratica, giustiziali­sta, legalitaria, ambientali­sta, ex catto-comunista, ecce­tera, eccetera, al momento delle elezioni faccia fiasco. La politica ha questo di bel­lo: dovrebbe spingere a ragio­nare. Se uno perde, pur aven­d­o in teoria i consensi per vin­cere, dovrebbe chiedersi do­ve sta sbagliando e perché. Capisco che il clima di questi giorni non aiuti, ma se inve­ce di limitarsi alla bava alla bocca, sia pure una bava kan­tiana, si facesse uno sforzo, sarebbe tutto di guadagnato: per il Paese, per l’opposizio­ne, per la maggioranza stes­sa, che può persino permet­tersi di essere mediocre per­ché gli altri sono peggio.

La tesi di Ricolfi è che la let­tura di un’Italia traviata nel­l’ultimo quindicennio dal berlusconismo, antropologi­camente mutata e corrotta, è una balla. Non è una balla nuova, per la verità, perché l’idea di una nazione compo­sta di italiani e di «italioti» da­ta, senza scomodare l’antifa­scismo, da almeno mezzo se­colo. Solo che un tempo la presenza del Pci come parti­to popolare e di massa, ne permetteva un’interpretazio­ne diversa, tirava dentro il grande capitale e le multina­zionali, la Chiesa e la Cia, la reazione perennemente in agguato e l’odio verso il pro­gresso e teneva così insieme due cose. L’essere una mag­gioranza a cui la congiura in­ternazionale dei poteri forti impediva l’accesso alle stan­ze del potere. Caduto il Muro, dissoltosi il comunismo, la sinistra ha trovato la sua ragion d’essere nel considerarsi l’avanguar­dia intellettualmente colta ed eticamente pura di un po­polo di lazzaroni. Così facen­do non si è resa conto, o non ha voluto rendersi conto, che c’era una vasta area di scontento, astensioni e sche­de nulle durante le elezioni, che la parcellizzazione al suo interno non favoriva le alle­anze, ma le indeboliva, che il populismo (ovvero una lea­d­ership forte con capacità de­cisionale), ritenuto un peri­colo da tenere fuori la porta di ogni sincero democratico, rientrava dalla finestra muta­to di valore.

Vendola, Di Pie­tro, Grillo che cosa sono se non dei mini-leader populi­sti costretti a fingersi qual­cos’altro? La «narrazione» del primo, le «mani pulite» del secondo, «le cinque stel­le » del terzo non sono altro che i vizi travestiti da virtù di cui parlava La Rochefou­cauld... Se, dunque, seguendo Ri­colfi, l’Italia non è berlusco­niana, ne derivano due corol­lari; il primo è che il ritratto di un Paese «moralmente de­pravato » è peggio di un delit­to intellettuale: è un errore politico a cui non c’è rime­dio. Il secondo è che le capa­cità di appeal dell’ Union sa­crée antiberlusconiana sono, nei confronti di quell’eletto­rato non schierato pregiudi­zialmente con il Cavaliere, minori rispetto a chi viene ad­ditato come il Male assoluto. Detto in termini più sempli­ci, una buona parte del Paese non crede che la sinistra fa­rebbe meglio della destra, e quindi non la vota. Sogno o incubo, il berlusco­nismo rappresenta insom­ma qualcosa, e l’anti-berlu­sconismo non è sufficiente per batterlo.

L’atteggiamen­to sprezzante, elitario, virtuo­so e qualunquisticamente un po’ razzista (un popolo di evasori fiscali e di maniaci sessuali) dei suoi maîtres-à­penser intellettuali e politici, peggiora il quadro e rende impossibile ogni opera di convinzione. Berlusconi non vince perché convince, ma perché gli altri sono tutto tranne che convincenti. Ci vorrebbe meno Kant e più umiltà.

(di Stenio Solinas)

martedì 15 febbraio 2011

Che cosa odia Gianfranco Fini


Gianfranco Fini detesta il lavoro, le masse e il partito. E’ così da una vita, da quando Giorgio Almirante gli ha inflitto la responsabilità del Movimento sociale italiano, poi trapiantato in An, quindi divenuto un terzo del Pdl, ora lievitato nella ciambella agrodolce di Futuro e libertà. La presidenza della Camera si addice a Fini per il solo fatto che non richiede sforzi professionali prolungati. Quanto alle masse, sono carne da comizio e nulla più: materia eccitabile da un’oratoria maratonesca e consumata come quella finiana. Infine il partito, che nell’orizzonte di Fini è come dire il lavoro. Ne ha sempre colto la necessità tattica, lo ha sempre amministrato come un condominio nel quale gli inquilini facevano massa critica, ma in fondo lo ha sempre disprezzato.

Come in An, così in Fli le correnti sono al tempo stesso i canali di scolo delle tensioni interne – la cui manutenzione, a forza di valvole di sfogo e tortuose ingegnerie idrauliche, è indispensabile per evitare tracimazioni – e una cloaca maxima da costeggiare turandosi il naso. Perché di liquami si tratta e Fini ha sempre voluto mantenere le scarpe pulite, pur d’illudersi di calpestare un giorno i prati all’inglese ben tosati dai giardinieri dell’establishment.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 14 febbraio 2011

"Moriamo abbracciati" La proposta indecente di Gianfranco al Cav


Su, moriamo abbracciati. È questa la proposta costruttiva che Fini ha saputo fare a Berlusconi, come quegli uxoricidi-suicidi. Io mi dimetto se tu ti dimetti, dice Fini, ma dietro il kamikaze si nasconde il furbetto: se si dimette Berlusconi si va alle urne, le Camere si sciolgono e loro, i presidenti, vanno comunque a casa. Il suo appello sa di falso. E pure di indecente, quando si appella all’etica.

La parabola incresciosa di Fini sembra quella di un Nicolazzi della Seconda Repubblica. Chi di voi ricorda Nicolazzi, uno degli ultimi segretari del sole malato, come da noi a Sud si chiamava l’estrema stagione del Partito socialdemocratico? Forse nessuno, ed è una ragione in più per accostarlo alla parabola di Fini. Un alleato minore, di basso profilo. La parabola di Fini ricorda quasi un racconto di Buzzati: da direttore a vice, da vice a impiegato, da impiegato a usciere. Da delfino di Berlusconi a vice di Casini, da leader della destra a iscritto del partito di Bocchino, da riferimento per un terzo degli italiani a riferimento per un trentesimo dei medesimi, stando alle previsioni a lui favorevoli. Fini somiglia davvero a Mariotto Segni, che, come tutti dissero, vinse la lotteria ma perse il biglietto vincente. Al di là dei suoi meriti, Fini era destinato per la legge del vuoto e del video a diventare l’erede di Berlusconi. Era stato con lui per sedici anni e la sua scelta di sciogliere An e di confluire, di malavoglia, nel Popolo della libertà, diversamente da Casini, lasciava intuire un ragionamento: stringo i denti perché poi toccherà a me. Certo, non tutti sarebbero stati d’accordo, a cominciare dalle Lega, ma il numero 2 del Pdl, anche nei sondaggi, era comunque il favorito. Anche perché si era tolto di mezzo il concorrente diretto, Casini. E invece cominciò a rendere vistosa e radicale la sua opposizione interna. Attacchi inconcepibili da chi aveva sottoscritto tutto quel che fino allora si era fatto.

Eccetto una critica, a mio parere fondata, all’evanescenza del Pdl, che poteva essere un buon punto di partenza per ricucire il dissidio, dandogli ragione e chiedendo a lui di occuparsi del partito, lasciando immune il governo e la leadership. Ma i due ormai non si sopportavano più e il lato personale prevalse sul calcolo politico.

Ora la collocazione extraterrestre del Fli, il suo forzato alloggio in un seminterrato del Terzo polo, i suoi ondeggiamenti tra la sinistra e la ritirata, fotografano un partito avvitato nella tattica e incapace di strategia. Diviso in quattro-cinque correntine, peggio dei vecchi partitini, con Granata che gode perché così «ci liberiamo della zavorra»: ma sì, continuate a liberarvi della zavorra, fino alla scissione finale, quella dell’atomo. Il distacco di alcuni intellettuali lo conferma; ma anche il giudizio critico che della creatura finiana danno tutti i più significativi esponenti della destra pensante e della nuova destra. I più motivati del Fli, e vorrei dire i migliori, sono tutti di estrazione antifiniana, exrautiani, vecchi seguaci della nuova destra, tardivi sessantottini, trentennali sognatori di andare al di là della destra e della sinistra... C’è chi spolvera un nemico storico di Fini, il grande Beppe Niccolai, e lo usa per dare nobiltà al rancore; chi si impossessa di Giano Accame che con Fini non ha nulla da spartire, c’è chi ruba a Giorgio Pisanò la definizione di fascismo e libertà e viene elogiato dal Corriere della sera; c’è chi scippa a Generoso Simeone la paternità dei campi hobbit degli anni Settanta... E c’è persino chi aderisce a Fini nel nome di colui che è dal profilo umano, etico e ideale la sua Antitesi Radicale: Berto Ricci... Tutto un piccolo mondo antifiniano che, approfittando della proverbiale vacuità del suo leader, crede di poter riempire la scatola vuota finiana di ciò che a loro piace. Tra loro c’è anche gente di qualità e in buona fede, che identifica il berlusconismo con l’americanizzazione, il consumismo, il degrado del tempo nostro e lo avversa. Ma combattere una battaglia di civiltà sotto Fini, con Casini e Rutelli, e inevitabilmente dentro la santa alleanza antiberlusconiana, con Vendola e Bersani, con Di Pietro e Santoro, e contro un popolo misto ma nel complesso destrorso, mi pare una follìa. Le scelte realiste, dal loro punto di vista, a me sembrano due: proiettarsi nel futuro, e lavorare nel centro-destra perché dopo Berlusconi vi sia una presenza significativa di quelle idee che An di Fini non ha saputo rappresentare. O ritirarsi dalla politica perché il degrado è generale e non lascia speranze. Ma scegliere Fini, liquidatore di tutte le destre e manovrato da loschi burattinai, ieri alleato del Male Berlusconiano e oggi complice del Peggio Antiberlusconiano, mi pare idiota. Fini persegue un suo disegno e un suo rancore personale. Lasciatelo friggere. Quando parlava Fini è salito un mitomane sul palco. Ho avuto l’impressione che i mitomani sul palco fossero due.

(di Marcello Veneziani)