giovedì 30 giugno 2011

L'Italia, il Paese dove a comandar è un signor "Nessuno"


Luigi Bisignani, allora oscuro cronista dell’Ansa, comparve all’onor del mondo quando nel 1981 il suo nome fu trovato fra i quasi mille iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Un peccato, anche se non innocente, di gioventù (aveva 27 anni), perché sono sempre stato convinto che la P2 fosse un’associazione a delinquere solo nei suoi vertici (Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din) mentre per il resto si trattava, per lo più, di una framassoneria di stracciaculi per fare carriera alla svelta.

Dieci anni dopo troviamo però Bisignani in una vicenda che non è framassonica o paramafiosa ma penale. Divenuto nel frattempo capo delle relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi (Raul Gardini/Sam) è colto con le mani nel sacco nella supertangente Enimont («la madre di tutte le tangenti») e condannato a due anni e otto mesi di reclusione. Una brillante carriera spezzata. Mi stupii quindi quando lo rividi ricomparire nella cosiddetta «Tangentopoli 2» ascoltatissimo consigliere di Lorenzo Necci, l’amministratore delegato delle Ferrovie, la più grande azienda di Stato italiana, poi condannato per vari reati. Pensavo infatti che nei confronti di tipetti alla Bisignani scattasse una sorta di sanzione sociale e che almeno nella Pubblica amministrazione nessuno volesse averci a che fare. Invece Bisignani era sempre lì, più riverito che mai, ricevuto in tutte le case che contano.

La settimana scorsa ho aperto il giornale e ho letto: «Ricatti, arrestato Bisignani». Arieccolo. Se la cosiddetta «P4» sia un’associazione a delinquere lo giudicherà la magistratura, ma mi ha colpito la definizione che di Luigi Bisignani ha dato il Gip di Napoli: «Ascoltato consigliere dei vertici delle più importanti aziende controllate dallo Stato, di ministri della repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali... un personaggio più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali con forti collegamenti con i servizi di sicurezza».

«È amico di tutti» ha detto Gianni Letta, per giustificarsi. Ma proprio questa è la cosa grave. Altro che «sanzione sociale». Questa non opera per le mele marce, inserite in tutti i gangli dello Stato, con un crescendo impressionante negli ultimi trent’anni, che si annusano, si fiutano, si riconoscono e si cooptano, ma per quelle sane, temutissime perché non sono ricattabili. Vade retro Satana. È con i Bisignani che ci si intende.

L’Italia è davvero uno strano Paese. Nel 1981 scoprimmo che il vero burattinaio non stava né a Roma né a Milano né a Torino ma a Castiglion Fibocchi, non abitava i Palazzi della politica, era un modesto dirigente della Permaflex oltre che uomo volgarissimo e di un’ignoranza quasi comica (Angelo Rizzoli mi raccontava che «manager» lo pronunciava «managè» e, piccandosi di parlar francese, diceva «debals» al posto di «debacle»). Si chiamava Licio Gelli. Chi era costui? Gli italiani non ne avevano mai sentito parlare. Ma quelli che contano sapevano benissimo chi fosse e quanto potesse. Tutti. Se è vero che persino Indro Montanelli sentì il bisogno di andare in pellegrinaggio da lui all’hotel Excelsior di Roma, dove teneva base. Oggi, 2011, scopriamo che chi determina i presidenti e gli amministratori dei grandi Enti di Stato, decide chi deve dirigere la Rai, influenza ministri e sottosegretari più che Silvio Berlusconi è un signor Nessuno, noto alle cronache solo per squallide vicende giudiziarie, di nome Luigi Bisignani.

(di Massimo Fini)

Razza e nazismo, ecco il Céline maledetto

Da tempo ormai sappiamo, sulla base di documenti, di ricerche d’archivio, di riscontri incrociati, di epistolari rimasti a lungo sepolti, che la qualifica di «collaboratore», per Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l’aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l’aver chiesto un’alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all’ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta recisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo Sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se n’ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente.

Fra il 1941 e il 1944 scrisse una trentina di lettere, oggi per la prima volta tradotte in Italia, compresa quella relativa alla separazione geografico-razziale della Francia già ricordata, e che non venne pubblicata perché ritenuta «eccessiva» dalla direzione di Je suis partout; rilasciò una dozzina di interviste, ripubblicò i suoi pamphlet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perché non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perché la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perché in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese di conti epocali, perché si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perché alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.

Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e a fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un’idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, anti-moderna e mitica.

Scrittore anti-materialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano che egli propugna, l’abbiamo visto, fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l’altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!».

Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. L’ebreo, nell’allucinazione celiniana, finisce però col perdere un’identità razziale precisa, finisce con il trasformarsi in un simbolo: ebreo è il clero bretone, ebreo il conte di Parigi, ebreo è Maurras, ebreo il Papa, ebrei i re di Francia, ebrei gli atei, ebreo Pétain. Gli ebrei sono tutti, anche Céline.... È l’opposto di quell’«uomo nuovo», di quel «barbaro ritrovato» di cui si fa alfiere... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come la lettera su Marcel Proust alla Révolution nationale di Lucien Combelle, del febbraio 1943, mette bene in evidenza: «Lo stile Proust? È semplicissimo. Talmudico.

Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti eccetera, in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

(di Stenio Solinas)

giovedì 23 giugno 2011

Gianfranco Fini ha fatto storia, ma non farà il futuro


Due giorni fa quando si è scontrato in aula con Fabrizio Cicchitto sembrava ritornato il Fini battagliero dell’ultimo anno ma quando il ringhioso capogruppo del Pdl, a fine seduta, gli ha stretto la mano si è capito che perfino l’abito del più risoluto avversario del Cavaliere ormai gli sta largo. Vale per lui la frase lapidaria che Thomas Fowler, l’anziano protagonista del romanzo di Graham Green, Un americano tranquillo, rivolge al suo ambiguo amico, l’idealista incendiario Alden Pyle: “Non ho mai conosciuto un uomo che aveva motivi migliori per tutti i guai che ha causato”.

Gianfranco Fini alla destra e al berlusconismo di guai ne ha causati tanti. Questo “italiano tranquillo” nasconde dentro di sé un furore iconoclasta che forse deriva dalle antiche contraddizioni familiari con quel nonno comunista a fianco del padre fervente repubblichino. Arrivato come Veltroni alla politica dal cinema, a lui avevano impedito a Bologna di vedere Berretti verdi con John Wayne mentre all’ex leader dei democrats avevano propinato dosi massicce di Kubrick, Gianfranco Fini si era fin da ragazzo instradato in una carriera sicura. Due vecchi lo avevano preso in custodia, ispirandolo e forse costringendolo ai passi decisivi. Giorgio Almirante che lo aveva imposto ai vertici del Msi come prova vivente dell’esistenza del prototipo del “camerata in doppio petto” lontano dalle nostalgie autobiografiche degli sconfitti di una volta, e Pinuccio Tatarella, il fantasioso ministro con le macchie di sugo sulla giacca, che lo aveva spinto a sciogliere l’Msi per fondare Alleanza nazionale. Ma né Almirante né Tatarella avevano compiuto il miracolo di far diventare candido l’anatroccolo nero. La trasformazione cromatica e mediatica l’ha compiuta Silvio Berlusconi scegliendolo come partner privilegiato di governo e affiancandolo a Pierferdinando Casini nella gara infinita per la propria successione.

Alla sua destra l’allievo di Almirante in rapida ascesa fa ingoiare molti bocconi amari come quando a Yad Vashem, nell’atmosfera raccolta del museo della Shoa, si fa ritrarre con la kippa in testa e pronuncia frasi definitive sul fascismo. L’opinione pubblica lo scopre e lo premia con sondaggi che clamorosamente lo mettono in testa a tutte le classifiche. Nel suo partito si dilaniano i colonnelli rampanti, entrano e escono a giorni alterni la Mussolini e la Santanchè, perfino il tosto Tremonti deve fare i conti con la sua durezza nel regolare i conti nella Casa della Libertà. Fini sembra incontenibile. Quando Berlusconi sale sul predellino imponendo lo scioglimento e l’annessione dei partiti alleati lui dapprima lo sfotte poi, a differenza di Casini che va per la sua strada, lo affianca liquidando la sua creatura che tutti danno ormai ai minimi storici elettorali. È l’ultimo miglio che lo separa dall’incoronazione. Fini ci crede e gli dà dentro cominciando a martellare l’antico alleato. Vede la vetta ma non si accorge del dirupo.

Si arriva così all’ultimo anno con la sfida aperta fra i due capi del centro-destra, quel “che fai, mi cacci?” che sembra l’inizio di una nuova storia e soprattutto l’accelerazione di una carriera. La rottura con Berlusconi lancia Fini nell’Olimpo della politica. È lui l’uomo nuovo, quello che può spingere al ritiro il vecchio tycoon e dimostrare l’irresolutezza delle vecchie opposizioni di sinistra. Attorno a lui si fa il vuoto dei colonnelli, in gran parte rimasti con Berlusconi, ma la guardia regia dei suoi sostenitori è piena di giovanotti rampanti, da Bocchino a Urso e a Ronchi, mentre sulla sua onda acquistano la ribalta giovani intellettuali di destra che piacciono alla sinistra, da Alessandro Campi a Filippo Rossi a Sofia Ventura la cui intemerata contro le veline di governo sembra aver provocato la reazione di Veronica Lario contro il dissoluto consorte.

Tuttavia Berlusconi non si fa mettere nell’angolo e reagisce con la clava delle rivelazioni giornalistiche sulla casa di Montecarlo e il rapace cognato del presidente della Camera. La conta parlamentare premia il Cavaliere, emerge nella società una nuova sinistra movimentista, il popolo di destra si divide e spesso si allontana dalla politica. Un anno dopo è tutto finito. Berlusconi ha pagato cara la scissione dei seguaci del presidente della Camera e iscriverà questo inizio d’estate del 2011 fra le date infauste della sua vita ma Fini, l’uomo che ha scosso l’albero, sembra infilato definitivamente nel cono d’ombra. Il suo partitino viaggia intorno al 3%, Urso e Ronchi se ne vogliono andare, gli intellettuali lo hanno lasciato, Bocchino continua a imperversare mentre il presidente della Camera guarda con nostalgia preventiva quell’aula che presiede consapevole che se non lo riporterà in Parlamento il Terzo Polo alle prossime elezioni, se dovrà contare sulle proprie forze, gli toccherà star fuori da tutto.

L’elenco dei suoi errori riempie i notiziari dei cronisti politici. Molti tornano a scoprire in lui quel mix di irresolutezza e di improvvisi furori che lo hanno trasformato in una scheggia impazzita della politica italiana. Senza più padrini ha fatto tutto da solo e si è fatto male. Il merito di aver infranto l’unanimismo dell’universo berlusconiano si accompagna alla colpa di aver diviso la sua gente. I “motivi migliori per tutti i guai che ha combinato” lo consegnano alla storia politica ma lo hanno cancellato dal futuro del paese. Forse quando nascerà una destra non berlusconiana si ricorderanno di lui. Chissa allora dove sarà.

(di Peppino Caldarola)

L'esile ponte tra Pound e Luciani


«Nei primi anni della mia presenza a Venezia, ho avuto modo di vedere, qualche volta, il poeta Ezra Pound fermo a metà del ponte dell’Accademia, appoggiato al parapetto che guarda verso San Marco. Un giorno lo incontrai ai piedi del ponte, mi vide, mi salutò togliendosi il cappello, lo salutai. Era pallido, magro, camminava come fosse estraneo e assente dalla realtà che lo circondava». Sono parole che Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, consegnò alla discrezione di padre Francesco Saverio Pancheri, al tempo in cui era patriarca di Venezia, tra il 1970 e il ’78. Al religioso, direttore del Messaggero di Sant’Antonio del quale era prezioso collaboratore, il cardinale Luciani confidò di conoscere il dramma vissuto da Pound, come uomo e letterato. E di certo aveva letto qualche pagina dei Cantos, se si sentiva interpellato da quel vecchio con la barba bianca, che sostava sul ponte assorto nei suoi pensieri, come se provenisse da un mondo lontano, messaggero del mistero e dell’ignoto. I due patriarchi, attraversandosi con lo sguardo per un istante durato l’eternità, specchiarono i loro animi l’uno nell’altro lasciandovi l’impronta di un interrogativo e, forse, di una risposta.

La testimonianza del pontefice che regnò soltanto 33 giorni, e che è passato alla storia come il «papa del sorriso», riapre la discussione sui rapporti tra l’autore dei Cantos e le religioni storiche, specie il cristianesimo. Rapporti non risolvibili in una frase a effetto, perché il poeta statunitense rifiutava ogni conclusione scontata nell’approccio alla fede. Innamorato di Confucio, Pound, figura di moderno profeta gettato come un ponte tra l’antichità dei classici e il nostro tempo, ha concluso la sua traversata nel deserto proprio in quella Venezia, cattolica e pagana, universale e intima, spirituale e secolare, che costituì per lui un’irresistibile richiamo giunto dai territori profondi dell’anima.

Una Venezia che, proprio negli anni del suo crepuscolo (il poeta chiuse gli occhi nella Laguna, dove è tuttora sepolto, il 1° novembre 1972), era spronata dall’insegnamento di un vescovo che avvertiva in modo particolare la presenza della comunità degli artisti. In verità, la figura di Albino Luciani e quella di Ezra Pound possono apparire talmente lontane da troncare sul nascere ogni discussione. Eppure, il poeta e il futuro papa avevano in comune una idiosincrasia per i meccanismi perversi del potere finanziario: se l’uno tuonava nei suoi scritti contro l’usurocrazia, il sistema che produce denaro con il denaro, l’altro ingaggiava una solitaria battaglia di moralizzazione delle banche cattoliche che aveva come obiettivo un radicale ritorno alle origini, ovvero allo spirito mutualistico delle casse sorte per tesaurizzare i risparmi della povera gente, costruiti con il sudore.

È noto infatti che, fin da quando era vescovo di Vittorio Veneto, nel 1962, Luciani reagì con un coraggio che sarebbe piaciuto a Pound allo scandalo finanziario che si abbatté sulla sua diocesi. Due sacerdoti, implicati in speculazioni per quasi due miliardi di lire, vennero severamente rimproverati dal loro vescovo, il quale, pur non essendone affatto tenuto a norma di legge, decise di risarcire i truffati mettendo in vendita immobili e terreni della curia. Tuonò il futuro Giovanni Paolo I: «Nessuno deve lamentarsi di essere truffato nemmeno di un solo centesimo dalla Chiesa».
Che cosa, d’altro, accomunava Luciani e Pound? A unirli era anche l’amore per la letteratura.

Don Albino scrisse epistole immaginarie ai grandi del passato: tra essi, molti erano scrittori e poeti, come Chesterton, Peguy, Petrarca, Manzoni e Trilussa. Ma il porporato che non studiava da papa, e che si abbandonò totalmente alla volontà del Padre che lo aveva chiamato alla missione per lui umanamente inconcepibile di guidare il popolo di Dio, responsabilità immensa, insisteva su quella dottrina sociale cristiana che costituiva un architrave della terza via tra capitalismo e marxismo che anche l’autore dei Cantos vagheggiava. Tutto quanto l’insegnamento di Luciani culmina nella contestazione di un quel sistema nefasto che è il capitalismo senza regole e l’attaccamento dell’uomo al denaro. Addita anzi a esempio moralmente riprovevole una grande figura dickensiana, l’usuraio Scrooge.

Dunque, chiedo alla figlia di Pound, Mary de Rachewiltz, se suo padre può essere considerato un antesignano dei no global. "Sì e no. È vero che condividerebbe la rivolta contro la suprema mercificazione dell’uomo. Ma era assolutamente contrario alla violenza e noi abbiamo assistito a manifestazioni cruente".

E dell’incontro tra Pound e Luciani, che dice? «Non ne sono stata testimone diretta, ma penso che non fosse difficile che i due personaggi potessero accostarsi, a Venezia, che è un salotto. Pur senza frequentare i riti, mio padre entrava nelle chiese e aveva simpatia per le funzioni religiose condotte bene. Nei Cantos esorta alla preghiera, ma non nel senso ristretto, beghino. Diceva che se avesse potuto scegliere i propri santi, sarebbe stato cattolico. Di recente, ho saputo che anche il successore di Luciani, l’attuale patriarca Angelo Scola, ha citato una poesia di Pound in un suo intervento».

Mary de Rachewiltz conduce una sua battaglia contro l’utilizzo strumentale della figura del padre da parte di centri sociali antagonisti di estrema destra che si sono appropriati del suo nome. Scandisce: «Pound va letto come si legge Dante, cioè come un classico, e per comprenderlo bisogna partire dalla conoscenza della sua opera poetica, i Cantos. Mi dispiace per ragazzi in buona fede che si lasciano coinvolgere facendo dimostrazioni di tenore politico in nome di Pound». Si giunge al tasto dolente: all’autore dei Cantos, viene ancora oggi rimproverata la sua ammirazione verso Mussolini, che pagò duramente con i tredici anni di internamento al manicomio criminale Saint Elizabeth di Washington.

Riconosce la figlia: «Sì, è vero, ripose molte speranze nel Duce, ma alla fine dovette dolersene perché quella di Mussolini fu una rivoluzione mancata. Non per nulla, Pound consacrò l’ultima parte della sua vita al silenzio, il biblico tempus tacendi, che segue il tempus loquendi. Una forma, quasi, di penitenza, da osservarsi dopo che ci si è fatti trascinare dall’ira, come fanno i profeti. A me piace pensare che l’incontro con Luciani fosse avvenuto senza parole. Perché negli esseri superiori c’è una sensibilità superiore».

(di Roberto Festorazzi)

mercoledì 22 giugno 2011

Quale futuro per la destra? L'evoluzione è già avvenuta. Con Silvio


Le risposte che cerca, Alessandro Campi se le dà da solo. Precisamente quando scrive che il mondo politico-culturale post missino è stato «fagocitato da Berlusconi, che l’avrà pure “sdoganato” e legittimato come forza di governo, ma al prezzo di trasmutarlo geneticamente, finanche sul piano del linguaggio e dei comportamenti». Ecco, quel che lui descrive con toni apocalittici è, in realtà, quanto di più positivo sia accaduto alla destra in questi anni.

Intanto, va notato che i dirigenti di An non sono stati ingurgitati da Berlusconi contro la loro volontà, ma hanno aderito a un progetto (e gli sono rimasti fedeli). Veniamo poi alla «mutazione genetica». Per giorni autorevoli commentatori si sono misurati con il - parziale, a mio parere - deficit di modernità dell’area. Beh, ma che cosa ha rappresentato l’alleanza con il Cavaliere se non una forma di modernizzazione? Il nucleo dirigenziale del fu Movimento sociale ha dato prova di poter governare, di sapersi misurare col Palazzo e - dove necessario - col compromesso che, quando si è minoranza, è fin troppo facile deprecare in nome della purezza.

La destra non è sparita - tanto che i suoi rappresentanti sono ben identificabili - bensì si è evoluta, ha accolto istanze più liberali e moderate provenienti dal berlusconismo e con i berlusconiani ha condiviso alcuni dei propri valori. Con Giulio Tremonti, per esempio, la trinità Dio-Patria-Famiglia che Camillo Langone su queste pagine indicava come ancora fondativa di un intero universo ideale e politico. Con la Lega ha riscontrato affinità nella difesa dell’identità e nella lotta all’immigrazione, per poi rivendicare il proprio nazionalismo e la fedeltà al Tricolore quando il localismo padano ruggiva più del solito. Il fatto che sul nostro giornale siano intervenute personalità dalle sensibilità differenti e dal retroterra vasto è un buon segno. Significa che la destra non è diventata marginale, semmai che ha allargato il proprio spettro, entrando a far parte di un grande contenitore che non solo non l’ha cancellata, ma le ha pure concesso di esprimersi in tutte le sue sfaccettature.

Ed eccoci al settarismo rimproverato da Campi a tanti esponenti politici. Caro Alessandro, ma non è settarismo il volere a tutti costi un partito che rappresenti unicamente i post missini? Se un’operazione settaria c’è stata, semmai, è quella di Gianfranco Fini di cui anche tu sei stato partecipe e responsabile. L’insofferenza al berlusconismo - che rappresentava appunto il cambiamento e, in parte, l’adattamento al presente - non è stato forse un riflesso condizionato tipico della sindrome del ghetto? Infatti è finita male: con un partitino (Fli) che avrebbe dovuto incarnare la destra del futuro ed è finito a scodinzolare dietro a Casini e a fianco di Rutelli.

Certo, problemi ce ne sono. Ma forse è il momento di rendersi conto che i cambiamenti non si decidono a tavolino o nelle tavole rotonde, bensì nella pratica quotidiana della politica. E la pratica ci ha regalato una destra (in parte) berlusconiana.
Chi ha rifiutato questo dato di fatto si è gettato fra le braccia della sinistra, si è fatto fagocitare e modificare geneticamente. Salvo poi, come ogni nostalgico che si rispetti, lamentarsi della propria inconsistenza politica.

(di Francesco Borgonovo)

Quale futuro per la destra? Continuo a non vederlo


Rifondare la destra? Non era francamente la mia intenzione principale nel momento in cui ho ragionato sulle cause che ne hanno prodotto l’implosione dal punto di vista politico-partitico. In ogni caso, prima di ricostruire una casa bisognerebbe capire perché essa è crollata. Il meritorio dibattito avviato da Libero ha risentito - se posso esprimermi con franchezza - del limite tipico d’ogni discussione à l’italienne: si parte, all’apparenza, da una tesi o da un ragionamento, che andrebbe criticato ed eventualmente inficiato nel merito, ma in realtà ogni intervenuto si sente in diritto di andare per la sua strada. E pazienza se tra il punto di partenza e quello d’arrivo, se tra l’oggetto di contesa e il suo sviluppo dialettico, non ci sia alcuna connessione.
Mi trovo dunque costretto a reiterare la mia posizione, nella speranza che appaia finalmente chiaro ciò che intendevo dire allorché ho parlato di una catastrofe politico-antropologica, di un colossale fallimento umano ed esistenziale, come causa principale della pubblica irrilevanza, anticamera di una sostanziale scomparsa dalla scena, cui mi sembra condannata la destra italiana.

Per cominciare non ho ragionato del centrodestra, del governo Berlusconi o del berlusconismo, ma appunto della destra e segnatamente della destra politica, intendendo con quest’espressione una realtà assai particolare: il gruppo dirigente che nel 1995, dopo la fine del Movimento sociale italiano, diede vita ad Alleanza nazionale, a sua volta confluita nel 2009, quasi compattamente, nel Popolo della libertà, sino alla diaspora di quel medesimo gruppo fedelmente registrata dalle cronache nell’ultimo anno.

Da poco mi sono interessato al tema cosiddetto della “cultura di destra”. Tema in realtà vecchiotto e generico, che da sempre si presta ad equivoci e truismi, a scontate polemiche giornalistiche e a ripetitivi elenchi di nomi e parole d’ordine. Può darsi che esista una destra intellettuale diversa e autonoma da quella politica, come tale destinata a sopravvivere alle miserie di quest’ultima. È sicuramente vero che di destre culturali, indigene e forestiere, ne esistono un’infinità, tra di loro non sempre compatibili. Altrettanto certo che incasellare le idee secondo categorie politiche, peraltro sempre più logore, non ci fa intendere il loro reale significato e valore. Ma non è di questo, ripeto, che mi sono occupato nel mio contributo.

IL NOSTRO DESTINO

Il mio ragionamento era riferito, banalmente ma in modo assai concreto e diretto, al singolare destino di una comunità politica (la destra ex-nostalgica, d’estrazione missina, post-fascista, nazionale, ognuno la chiami come crede, l’importante è capirsi) che nei cinquant’anni circa in cui ha vissuto ai margini della società e della politica ha dimostrato un’indubbia compattezza, è stata animata da robuste passioni ideali ed è stata capace di grandi fermenti anche intellettuali, mentre nei vent’anni scarsi in cui ha goduto di pubblica considerazione, di crescenti consensi elettorali, di inediti spazi d’azione e di quote non irrilevanti di potere ha messo in mostra una totale inconsistenza progettuale e una sostanziale incapacità a incidere sul piano politico e degli equilibri sociali, al punto da disperdere le proprie energie in mille rivoli e da condannarsi ad una subalternità assai maggiore di quella sperimentata nel passato.

Cosa ha prodotto un esito tanto rovinoso? Una ragione “esterna”, da non trascurare affatto, è che quel mondo, senza nemmeno accorgersene, è stato progressivamente fagocitato da Berlusconi, che l’avrà pure “sdoganato” e legittimato come forza di governo, ma al prezzo di trasmutarlo geneticamente, finanche sul piano del linguaggio e dei comportamenti.

NIENTE DI NUOVO

Ma c’è una ragione tutta interna, sulla quale ho inteso richiamare l’attenzione, che ha a che fare con l’incapacità a rinnovarsi - sul piano personale e conseguentemente su quello delle idee - della classe dirigente della destra italiana, che dal 1993-’94 ad oggi, salvo inneschi sporadici ben presto espulsi alla stregua di corpi estranei, è rimasta praticamente immutata e immobile.

È questa tendenza a rinserrare i ranghi nel nome dello spirito di militanza, paradossale per un partito che pure ha visto triplicarsi la sua storica base elettorale e che così tante speranze di cambiamento aveva suscitato all’epoca della svolta di Fiuggi, la causa principale dello sfascio cui oggi assistiamo. Senza contare il permanere, all’interno di quel gruppo di inamovibili dignitari, di riflessi mentali già ben presenti nella loro precedente esperienza politica, quando venivano trattati da “esuli in patria”: un atteggiamento di costante polemica e risentimento verso il mondo esterno, un approccio sempre strumentale alla cultura e alla produzione intellettuale, il prevalere del sentimentalismo e della retorica nei loro discorsi pubblici, la tendenza a percepirsi come una minoranza sempre assediata, la sindrome ricorrente del tradimento tipica dei gruppi settari.

Una classe dirigente rimasta tanto chiusa e autoreferenziale non poteva che implodere e disperdersi nel momento in cui, venute nel frattempo meno le ragioni ideali e ideologiche che l’avevano cementata all’origine, rimosse o occultate senza alcun vaglio critico solo per darsi una patina di pubblica rispettabilità, si sono anche esaurite le motivazioni d’ordine personale, amicali e affettive, che ancora la tenevano unita. Da qui i litigi, i risentimenti, le piccole ripicche e rivalse, il cumulo di ambizioni individuali e antipatie a lungo soffocate, che hanno scandito l’ultimo anno e mezzo di storia della destra italiana, evidentemente giunta alla conclusione del suo ciclo.

OLTRE LE ROVINE

Questa la mia tesi riferita a una vicenda specifica, probabilmente peregrina o errata. Ma nel caso mi piacerebbe sapere, soprattutto dai diretti interessati, per quali ragioni e sulla base di quali argomenti contrari. Di tutto il resto di cui s’è discusso in questi giorni in risposta al mio intervento - della destra divina, del conservatorismo di Burke, del libertarismo, dei provvedimenti del governo Berlusconi, di come questa stessa destra possa eventualmente rinascere dalle sue rovine - parleremo, in un’altra occasione. La questione stavolta era un’altra e mi sembra che nessuno l’abbia affrontata nel merito, come forse avrebbe meritato.

(di Alessandro Campi)

Conservatori? Sì grazie. Hanno tenuto insieme il mondo ma in Italia non sono di moda


Essere conservatori non è difficile e neppure eccentrico. Basta saper riconoscere la banalità del bene nelle cose semplici, come i precetti non scritti del diritto naturale. E difenderli di conseguenza, costruendoci sopra una politica, un sistema, un'organizzazione sociale. A presidio di tutto, ovviamente, non può che esserci lo Stato. Non il padre-padrone, il Leviatano oppressivo, ma l'innocente regolatore delle umane pulsioni, il soggetto riconoscibile capace di prevenire le crisi di legalità e di legittimità nella sfera del potere e del conflitto travi diritti individuali. Niente di più e niente di meno. È una dottrina? Non saprei: me lo chiedo da quando ero ragazzo. Che sia un sentimento anche politico, ne sono convinto. Perciò non smetto di stupirmi quando, nel nostro Paese, si attribuisce al conservatorismo una valenza negativa. Come se fosse sinonimo di regressione. Curiosamente è stata proprio una certa destra, in taluni momenti nostalgica ed isteronazionalista, a molestare le coscienze dei moderati facendogli credere che l'essere conservatori era poco meno di una perversione. Ed eccola qui, ora, questa destra un po' disfatta, piuttosto malmessa, alla ricerca di un'identità che non riesce a trovare perché ha smarrito i fondamentali inseguendo una modernità priva di sostanza, vale a dire il nocciolo duro che dovrebbe contenerla: la tradizione.

Mi è venuto in mente tutto questo (e molto altro ancora che vi risparmio) astraendomi per qualche minuto dalle pessime cronache italiche attratto dalle recenti prese di posizione del primo ministro britannico David Cameron. Conservatore, ma appartenente a quella scuola conservatrice che non considera staticamente la posizione politica che rappresenta e cerca di farla vivere in connessione con i mutamenti del tempo. Come fece Margareth Thatcher agli inizi degli anni Ottanta, come interpretò Ronald Reagan il lascito di Barry Goldwater. E nel lungo percorso sono stati accompagnati da Edmund Burke, irlandese poliedrico, capace di sezionare i grandi fenomeni della sua epoca, come la Rivoluzione francese, alla stessa stregua di entomologo che si appassiona alla vita degli insetti.

Non so quanto sia consapevole Cameron nel rappresentare un riferimento concreto per quanti in Europa cercano una nuova via, ma è certo che la sua biografia dice molto di più di quanto possano dire le sue prese di posizione politiche e giornalistiche. Infatti, è la conseguenza di una formazione familiare e poi sociale la sfida lanciata al progressismo che si è dimenticato dei padri e, dunque, della famiglia, qualche giorno fa, in occasione della festa del papà, dalle colonne del «Sunday Telegraph». I padri assenti, quelli che non si occupano dei figli, incuranti del loro principale compito di educatori, sono come alcolisti che si mettono alla guida di un'automobile, ha detto. Quindi ha rincarato la dose: «I padri che se ne vanno dovrebbero vergognarsi fortemente. Non è accettabile che madri single si occupino da sole di allevare i figli». E sono ben un milione e settecentomila nel Regno Unito, che tra mille difficoltà devono provvedere alla prole che rischia di crescere male, sbandata, confusa. E, dunque, incapace di formare a sua volta famiglie «normali» intorno alle quali promuovere lo sviluppo di una società sana.

La famiglia è la «pietra angolare» della comunità nazionale, la «roccia sulla quale poggia la nostra vita», il «punto di riferimento» irrinunciabile, ha detto Cameron che ha fatto appello ai padri affinché si occupino dei figli, quale che sia la loro condizione matrimoniale, se vogliono evitare che «la vergogna li sommerga», convinto com'è che senza la figura paterna difficilmente possa venir fuori un ordine civile fondato sul riconoscimento dell'autorità primaria, costituita appunto dai genitori. Che poi il primo ministro abbia intenzione di introdurre sgravi fiscali per le coppie sposate, al fine di dare sostanza alla politica che viene chiamata «family friendly» è un dettaglio, per quanto importante, nell'economia del progetto della costruzione della cosiddetta Big Society che è il cuore della rivoluzione conservatrice di Cameron.

Nella citata intervista, a conferma dell'interazione tra fattori privati e logiche politiche e sociali, cui si si ispirano i nuovi Tories, il premier ricorda suo padre, morto pochi giorni prima della nascita della sua ultima figlia Florence. E dice: «Da mio padre ho imparato a riconoscere le responsabilità. Vederlo alzarsi prima dell'alba per andare al lavoro e non vederlo tornare fino a tarda notte ha avuto un forte impatto su di me». C'è un modo più efficace di invocare l'amore paterno, tenerselo stretto e nel caldo abbraccio riconoscere il principio della vita protetta, spiritualmente s'intende? I figli hanno bisogno dei padri. Ecco dove il diritto naturale incrocia il sentimento primario su cui si fonda la famiglia. Le distrazioni sollecitate dall'affermazione professionale, dalla disperazione economica, dall'avidità, dall'indifferenza non sono da sottovalutare, ma non possono costituire giustificazioni all'assenza lamentata da Cameron. Perciò buone leggi che asseverino questa visione della famiglia e della ricomposizione della società civile, sono indispensabili.

Cameron proporrà nelle prossime settimane una riforma dell'organizzazione Child Maintenance and Enforcement Commission, con l'obiettivo di rendere più agevoli le pratiche per il mantenimento dei figli di coppie separate. L'obiettivo è chiaro: rinsaldare i vincoli familiari allo scopo di tutelare la prole, non lasciare sole le donne, responsabilizzare i padri. Un ritorno al passato secondo l'ottica permissiva che da circa mezzo secolo si sta impegnando per dissolvere la famiglia tradizionale? Neppure per sogno. Se «la famiglia è l'associazione istituita dalla natura per provvedere alle quotidiane necessità dell'uomo», come si legge nella «Politica» di Aristotele, è inevitabile che essa deve comporsi con gli elementi naturali che la connotano rispetto a tutte le altre organizzazioni umane. E se è altrettanto vero che «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno», secondo Montaigne, vuol ben dire che senza un padre che provveda ai propri figli diventa addirittura impossibile tenerla unita, quali che siano le ragioni dell'allontanamento.

(di Gennaro Malgieri)

martedì 21 giugno 2011

Coraggio, andiamo a cercar la bella destra


Cosa resta dopo Pontida? Resta un vuo­to. Manca qualcuno, qualcosa che bi­lanci Bossi e la Lega sul versante destro. Lo dico, sì, da uomo di destra, ma lo direi anche da uomo di centro, di governo o berlusconiano. Un leader deve avere ai suoi fianchi due alleati forti e speculari: da un lato chi spinge, legittimamente, per tutelare le opinioni e gli interessi del fede­ralismo, del Nord, dell’Italia che produ­ce. E dall’altro lato qualcuno che rappre­senti chi ha a cuore le sorti dell’unità, il senso dello Stato, Roma Capitale, il Sud, e rappresenti l’anima nazionale, mediter­ranea e cattolica del nostro Paese. Un tri­dente così darebbe più forza e compiutez­za al centrodestra. Perché allargherebbe l’offerta politica ed elettorale, darebbe rappresentanza a quella destra che oggi è tornata più che ai tempi del neofascismo nella semi-clandestinità marginale; e da­rebbe allo stesso leader la forza di bilan­ciare le spinte opposte, rafforzando la sua centralità, senza essere costretto a inse­guire il suo partner leghista in quanto uni­co alleato. Credo che la prima operazione politica da farsi oggi sia quella: riequili­brare il centrodestra ripristinando l’arto fantasma. Poi viene il resto; anzi, è un mo­do per prepararsi al resto, compresa la fi­ne di un ciclo.

Le modalità di questa apertura posso­no essere differenti: si può scomporre il Popolo della libertà prima che si sfasci ro­vinosamente, o, meglio, salvaguardarlo a livello parlamentare ed elettorale, ma concepirlo come una confederazione più che un monolite. O quantomeno far na­scere al suo interno un’area, una fonda­zione, una realtà riconosciuta e riconosci­bile, in grado di captare quel versante sco­perto o sommerso.

Leggo di Cameron e delle sue coraggio­se leggi in favore della famiglia inglese e penso all’assenza di posizioni analoghe in Italia, almeno visibili. Fino al grottesco inseguimento di alcuni esponenti della destra per compiacere trans e gay nel va­no tentativo di legittimarsi e avere un trat­tamento più umano sui giornali. E invece continuano ad essere massacrati. So che quell’area partirebbe senza leader, ma l’impresa va tentata. Coraggio, andate a cercar la bella destra.

(di Marcello Veneziani)

Luciano Lanna. Intervista sulla politica


Il magmatico universo culturale, che in questi ultimi anni ha ruotato intorno a Gianfranco Fini, ha avuto una sua voce nelle colonne del Secolo d’Italia. Il vecchio giornale del Movimento Sociale, infatti, si è posto come interprete di una nuova sensibilità libertaria, capace di rompere definitivamente con gli schemi del passato. Proiettata verso una contaminazione con le forze della sinistra, alla ricerca di nuove sintesi più efficaci della politica stantia respirata in questi ultimi anni. Uno dei prodotti più interessanti venuti fuori è stato, senza dubbio, il libro del direttore Luciano Lanna, Il fascista libertario. Un racconto esistenziale, intessuto in ricordi e in fascinazioni, che spiega il percorso, spesso frainteso, della destra che riconosce in Gianfranco Fini il proprio epigone.

Il percorso esistenziale raccontato ne Il fascista libertario da un’idea del neofascismo italiano assolutamente irriducibile sia all’immagine che normalmente si ha del fascista nel dopo guerra, sia al neofascismo istituzionale rappresentato dal MSI. Quasi la storia di quei fascisti eretici che trovarono casa nella corrente rautiana: i movimentisti del MSI.

In realtà non è neanche così. Come tu hai visto, io inizio l’introduzione in prima persona, raccontando di quando ho cominciato a fare il liceo, insomma di quando ho iniziato a interessarmi della vita pubblica. Racconto questa mia storia che in realtà è irriducibile alla storia del Movimento Sociale o delle sue stesse correnti interne. Volevo raccontare la storia di tante persone che sono state pensate come fasciste ma in realtà erano dei libertari, la chiave del libro sta proprio qua.

In un’intervista di qualche tempo fa Umberto Croppi ricordava proprio come l’esperienza missina vissuta dall’interno fosse assolutamente diversa da quella percepita dall’esterno. Fuori vi vedevano come fascisti, ma in realtà eravate qualcos’altro.

Certo, la mia storia personale, quella di cui parlo nel libro, è proprio una testimonianza di questa frattura tra immagine esterna del fascista in democrazia e ciò che in realtà era nella vita quotidiana. Tutta la mia famiglia votava il Movimento Sociale, ma poi nel loro modo di essere, nel loro vivere, nelle loro passioni non erano affatto persone di destra, tutt’altro. Avevano una sensibilità degli anni sessanta, se vuoi, tra virgolette, progressista, aperta, dinamica. Votare il Movimento Sociale non escludeva di essere per i diritti civili, dalla parte di una società che in quegli anni stava cambiando velocemente. Questa è una percezione che non è neanche partitica. Buona parte dell’elettorato reale era così.

Il partito, anche nell’immagine che tendeva a darsi in pubblico, era proprio un’altra cosa rispetto a voi..

Esisteva una certa confusione, il MSI utilizzava questi voti per una sua logica: condizionare da destra la Democrazia Cristiana. Però poi in tutte le grandi crisi della storia della prima repubblica, penso al sessantotto, al referendum sul divorzio, il MSI non è riuscito a trascinare il suo stesso elettorato su posizioni reazionarie.

E il tuo libro è come una narrazione collettiva di tanti che pur votando il MSI, erano qualcos’altro.

Sì, il libro non è tanto la storia di una corrente interna al Movimento Sociale. Ma affronta piuttosto il problema di rappresentare una sensibilità diffusa in Italia, anche se non maggioritaria, anzi forse probabilmente minoritaria. Ma esistente di fatto. La storia di persone che pur approcciandosi al MSI, ma non necessariamente, anche gente che leggeva Il Giornale di Montanelli, al di là di questa loro esteriore etichetta di destra, nelle loro propensioni culturali, cinematografiche, musicali erano dei libertari. Il libro vuole mostrare la contraddizione di quel mondo, tra la sua immagine pubblica e la sua reale natura. Sancendo la scissione definitiva tra queste persone, che propugnavano ideali libertari, e la destra.

Contrapposta a questa diffusa sensibilità libertaria, che va certamente oltre la destra e la sinistra, ne esiste un’altra, altrettanto radicata e trasversale, rigidamente autoritaria. Anzi, spesso si ritrova proprio tra i sedicenti progressisti e liberali. Sei d’accordo?

Voglio fare degli esempi concreti a questo proposito. Frequentavo, quando ero ragazzo, delle famiglie di amici dei miei genitori collegate al PCI e alla CGIL. Ecco, i loro erano valori reazionari: erano per l’indissolubilità del matrimonio, per un certa morigeratezza dei costumi, contro l’immigrazione. Questo è indicativo, perché dimostra che il vero scontro non è tanto tra destra e sinistra, ma tra libertari e autoritari. Molte persone che vengono da un esperienza fascista erano in realtà, poi, dei libertari veri e propri, a differenza di molti comunisti in realtà rigidi e autoritari!

Possiamo dire che Latina sia stato un esperimento in questo’ottica: mettere da un parte tutti i libertari, contrapponendoli agli autoritari?

Latina è stato un esperimento come quello di Ferrara e della sua lista contro l’aborto. Volevamo, anche noi, fare un operazione mediatica per far venire fuori certi contenuti. Quest’operazione evocava la possibilità che questo vento libertario, che ha attraversato anche la destra, oggi dovrebbe sparigliare la partita politica sulle questioni concrete. Mostrando la vera contrapposizione esistente: o si è libertari o si è autoritari, o si è democratici o si è populisti, o si è conservatori o si è riformatori.

In quest’operazione quel è il ruolo di Gianfranco Fini?

Il ruolo di Fini è fondamentale in questo percorso. Io registro il fatto che, dopo una destra che in Italia ha sempre vissuto nella schizofrenia, per cui dentro viveva una certa sensibilità libertaria, mentre all’esterno sosteneva certe cose molto discutibili, con Fini ha risolto definitivamente quest’ambiguità.

In che maniera?

Fini, dal 2003 in poi, ha scardinato gli stereotipi della vecchia destra populista e conservatrice. Lui, che era stato autore di una legge, se vuoi liberticida, come la Bossi-Fini, a un certo punto rovescia la situazione e propone il diritto di voto agli immigrati. Ed ecco il primo strappo. Immediatamente il secondo, altrettanto importante, cioè la revisione del giudizio sul sessantotto. Fini ha ammesso che, per la destra, il sessantotto è stata un’occasione perduta. Non era una rivolta di sinistra ma di rinnovamento generazionale. Ovunque nel mondo ha portato alla lotta per i diritti civili, questione non solo di sinistra. Il terzo strappo è stato quando Gasparri e La Russa lo hanno portato a vedere Il Mercante di Pietre. In quell’occasione si è espresso chiaramente: il film era solo becera propaganda anti islamica, insomma spazzatura. Questi tre fatti simbolici, che sono poi la premessa della rottura di Fini con Berlusconi e con il PdL, sono il presupposto per leggere e comprendere la vicenda finiana. Quello che auspico è che Fini faccia un’autocritica anche sul G8 di Genova, rompendo definitivamente con una destra classica, sbirresca e conservatrice. Sarebbe straordinaria una destra sempre dalla parte dei diritti!

Secondo te l’alleanza con Casini e Rutelli va in questa direzione? Non li definirei propriamente dei libertari.

Solo se andiamo oltre, rispetto ai tatticismi del politichese, e allarghiamo la prospettiva ai grandi scenari, possiamo capire le ragioni di questa alleanza. Oggi Fini, da persona di destra, gioca la stessa partita con Rutelli, un ex radicale, che è stato leader dei verdi. Questo avvicinamento tra due mondi diversi, potrebbe portare a una nuova contaminazione positiva. Stesso discorso vale anche per Casini. L’UDC può dare un importante contributo cattolico, diverso da quello conservatore. Non dimentichiamoci, ad esempio, che sulla questione dello scontro di civiltà, Casini, si è sempre dimostrato lontano dalle tesi oltranziste portate avanti dal PdL. Stiamo attenti quindi alla quotidianità del politichese, cerchiamo piuttosto di intercettare percorsi di lungo periodo. In una prospettiva come questa, è giusto inserire anche la giunta di Cacciari e quella di Pisapia. Portatori non di valori di sinistra tout-court, ma della nuova sensibilità libertaria di cui parlavamo.

Si configura l’ipotesi di una grande alleanza, allora, per sconfiggere la destra populista e autoritaria, insomma Berlusconi..

Il berlusconismo ormai è un cadavere. Ma la questione non è quella di creare una grande alleanza partitica. A questo proposito mi è piaciuta una frase di De Gregori, quando diceva che finora la politica è stata concepita come appartenenza, bisogna invece concepirla come una scelta sulle questioni concrete, di volta in volta sul singolo problema decido con chi schierarmi. Una volta posso stare con Pannella, una volta con Casini. La politica non è un appartenenza, è una scelta. Il fatto che io stia dentro tale contenitore non vuol dire che mi debba scontrare con l’altro a prescindere. Per accorgercene basta guardare al risultato del referendum e al risultato di Milano alle amministrative. Sono segnali di qualcosa che sta cambiando. La gente sta insieme perché vuole un serio cambiamento.

Certo, il referendum e le amministrative di Milano hanno sancito una sonora sconfitta per Berlusconi.Bocciato il programma di governo e sconfitta in casa, a Milano, cuore di una Lombardia da sempre feudo del PdL.

Tutti sono andati a votare, oltre i partiti, oltre le categorie destra-sinistra. È una novità e, attenzione, non ha vinto il Pd, il centro sinistra, ha vinto la voglia dei cittadini di dire la propria. Gli italiani, anticipando di fatto la politica, hanno trovato una sintesi su quattro specifiche questioni. Il referendum del 13 giugno rappresenta simbolicamente l’esatto opposto di quello che poteva essere l’8 settembre, in cui tutti si tappavano in casa. Ora tutti vogliono partecipare. Stesso identico discorso vale per Milano. Con Pisapia non ha vinto la sinistra, ha vinto la Milano della borghesia illuminata, delle associazioni, di una certa chiesa, di buona parte del terzo polo, qualcosa di nuovo che sta nascendo.

Qual è l’obbiettivo di questa nuova Italia, di questi cittadini che scelgono Pisapia, che votano quattro si al referendum, ma che provengono da storie politiche contrapposte, spesso addirittura antitetiche?

L’obbiettivo prossimo deve essere far perdere i poteri a questa nomenclatura che chiamiamo centro destra. Avviare una legislatura che inauguri un clima rinnovato in Italia. Si deve realizzare una nuova costituente, come è stato nel ’46, in cui la vera classe dirigente del Paese, non quella dei parlamentari eletti con il porcellum, costruisca e stabilisca insieme le regole di una democrazia nuova. In cui gli eredi del fascismo e gli eredi del comunismo, con tutta l’evoluzione che c’è stata, ristabiliscano una nuova repubblica. Questo è il grande obbiettivo storico.

In quale maniera si dovrebbe inaugurare la nuova stagione? Come si potrebbe marcare una distanza tra la seconda Repubblica e la terza?

Io non parlo di seconda o terza Repubblica, sono schemi che non mi sono mai piaciuti. Secondo me c’è stato in Italia un modello di Repubblica, che è quello delineato alla costituzione del ‘46, che ha funzionato sino al ‘92-‘93. Poi è subentrata la cosiddetta transizione, cioè un casino totale. Uno spazio pubblico occupato da una politica virtualizzata, fatta di Berlusconi ma anche di Prodi, basata su modelli elettorali sbagliati. Ha ridotto tutto a uno scontro di una parte contro l’altra. Ma ha creato solo confusione, ha allontanato la gente dalla voglia di partecipare. Bisogna saltare dalla prima repubblica, quella storica, a una nuova repubblica da costruire insieme.

Dare avvio a un nuovo modello di militanza politica?

Questa è un’altra cosa, io come anche Goffredo Fofi, sono contrario alla cosiddetta militanza. Che è una forma di impegno concepibile come militarizzazione della politica. Io, essendo libertario, credo nella persona, nel singolo, nell’impegno concreto del cittadino. Non bisogna pensare per partiti strutturati, per organizzazioni, per militanti che portano avanti il quorum di quel partito-chiesa. Noi dobbiamo ricominciare a puntare sulle persone. Auspicare che scendano in piazza, che si incontrino sulle singole questioni. Basti pensare al sessantotto per capire la nocività della militanza. Diventando, da movimento libertario, un movimento organizzato di militanti, è morto. Il partito diventa un comitato elettorale, dobbiamo rompere definitivamente con questo schema e creare un diverso meccanismo

Ovvero?

Bisogna ripartire dalle elite, quelle vere, fatte da gente vera. Vadano a fare questa costituente, vadano in parlamento e decidano. Il problema italiano è che le persone che sono portatrici di soluzioni sono lontane dalla sfera pubblica. Noi dobbiamo ristabilire questo rapporto interrotto. Pensa ai costituenti del ’46, piaccia o meno, erano vera classe dirigente, erano persone importanti, professori universitari, gente capace e coraggiosa. Oggi, invece, abbiamo una classe politica che risponde alla logica dei comitati elettorali, da una parte e dall’altra.

Ma questa classe politica corrotta, autoreferenziale, incapace, non potrebbe essere lo specchio di una società degenerata?

No, io a questo non ci credo. È uno schema inventato dalla stessa classe politica, oggi al potere, per auto legittimarsi. Certo, se tu non dai la possibilità alla gente di decidere la situazione rimarrà questa. Il porcellum è una follia, non puoi neanche scegliere un parlamentare del tuo collegio. Autotutela e autoproclama una classe politica che è quella di cui parli.

Che alternativa esiste a questa politica?

L’incontro e la contaminazione tra aree politiche un tempo distanti. Tra figure come Fini, come Cacciari, come Marramao e come tanti altri. Possono costruire una nuova classe politica seria, responsabile e dignitosa.

Una responsabilità e una dignità che questo governo non ha dimostrato. Penso soprattutto alla sua ondivaga politica estera. Anche se certi accordi energetici, mi riferisco a South Streem, sarebbero stati di grande lungimiranza.

L’Italia ha una sua storia di politica estera, da Crispi arrivando fino a Moro e a Craxi. Esiste una continuità e una vocazione euro mediterranea, che anche Berlusconi ha portato avanti. Gli accordi di cui parli gli avrebbe stipulati qualunque governo, anche Prodi. La vera questione di politica estera è che Berlusconi ci ha fatto fare delle brutte figure in tutto il mondo. L’ultima con Obama. L’Italia è passata dall’essere un paese rispettato, come ai tempi di Bettino Craxi, ad essere lo zimbello dell’Occidente.

Hai accennato alla figuraccia con Obama: la solita sceneggiata sui giudici comunisti, sulla giustizia pilotata politicamente. Bisogna ammettere, però, che un problema percepito esiste: l’Italia si divide tra forcaioli folli da una parte, che vorrebbero Piazzale Loreto ovunque, e permissivisti, innocentisti sempre e comunque dall’altra.

Fermo restando che io sono un garantista doc. E che sono non da oggi, ma da sempre, per la separazione delle carriere. Detto questo, ho i miei dubbi che Berlusconi e i suoi partiti abbiano espresso una posizione garantista. Se non una posizione di garantismo peloso, interessato soltanto ad alcuni processi e non ad altri. La mia impressione è questa: Berlusconi non doveva fare una campagna sui suoi processi, ma sul caso Cucchi, sul caso di Gabriele Sandri, sul caso di Giuliani. Questo sarebbe stato un discorso serio. Il garantismo si fa dalla parte delle vittime dell’ingiustizia, non dei potenti che vogliono restare impuniti. Io, ora, voglio dire, in un Paese civile, in un Paese democratico, una personalità pubblica, che è esteticamente colpita da una brutta figura, si dovrebbe automaticamente dimettere. Per un fatto di immagine, punto e basta. La giustizia non c’entra. Del caso Ruby non mi interessa il lato giudiziario, ma dato che c’è stata questa situazione che esteticamente è squallida, un leader politico coraggioso dovrebbe dimettersi e lasciare il campo ad altri. I cosiddetti giustizialisti, essenza dell’antipolitica, da Di Pietro in poi, vorrebbero una sconfitta di Berlusconi sul piano giudiziario. Berlusconi, invece, deve essere vinto alle elezioni, dal voto della gente, perché in vent’anni ci ha promesso tante cose, ma non ha mantenuto i patti.

(di Nicola Piras - fonte: www.mirorenzaglia.org)

lunedì 20 giugno 2011

Adesso è troppo facile sparare su Berlusconi senza alcuna pietà


Vittorio Feltri, il miglior direttore della sua generazione, sembra essere stato colto dalla sindrome che colpì Indro Montanelli negli ultimi anni in cui fu alla guida del Giornale. Montanelli, espressione di un’Italia vecchia, ottocentesca, liberale, l’Italia della grande borghesia e dei notabili, passabilmente ipocrita, bacchettona, morente, non capì che ne stava nascendo una nuova, non capì la Lega e nemmeno Mani Pulite, che erano una reazione salutare al corrotto vecchiume partitocratico e mentre crollava la Prima Repubblica Il Giornale da lui diretto teneva ancora come punto di riferimento Arnaldo Forlani.

Così oggi Feltri addebita la bruciante sconfitta referendaria alla paura per il nucleare scatenata da Fukushima, senza rendersi conto che non solo l’affluenza alle urne per nucleare e legittimo impedimento è stata la stessa (57%), ma che il no al nucleare (94,7%) è stato addirittura inferiore al no al legittimo impedimento (95,1%) che ha un’intonazione chiaramente antiberlusconiana. Non ha capito che un sogno a lungo sognato da buona parte degli italiani (un incubo per l’altra) è finito per sempre. Berlusconi è stato un illusionista straordinario facendo credere agli italiani, per 17 anni, a un miracolo che non si è mai avverato. Sfido infatti chiunque a dire che l’Italia di oggi sia migliorata di un ette rispetto a quella del 1994, mentre, come ho scritto tante volte su questo giornale, il lascito più devastante e duraturo del berlusconismo è l’aver tolto agli italiani quel poco di senso della legalità che gli era rimasto.

Tuttavia a me non è mai piaciuto picchiare sul perdente. Mentre cadeva Bettino Craxi e improvvisati fiocinatori, spesso gli stessi che lo avevano adulato, si accanivano sulla balena ferita a morte, io che lo avevo avversato dal 1979 e che per questo mi ero meritato dal leader del Psi la simpatica definizione di "giornalista ignobile che scrive cose ignobili", scrissi per l’Indipendente di Feltri, scatenato allora nel suo forcaiolismo ("il cinghialone", i figli di Craxi tirati in ballo, Carra in manette sbattuto in prima pagina) un editoriale intitolato "Vi racconto il lato buono di Bettino" ricordando agli smemorati che c’era stato anche un altro Craxi che aveva suscitato speranze in molti.

In questi giorni io non penso al politico Berlusconi, ma all’uomo. Penso a quanto deve essere stato traumatico per uno che ha sempre inseguito sogni scontrarsi, alla fine, col duro principio di realtà. Penso come deve essere amaro per un uomo che, per un insanabile inferiority complex, ha sempre avuto l’ossessivo bisogno di sentirsi amato da tutti, dover ammettere: «Mi sono accorto che la gente non mi ascolta più, che pochi mi vogliono bene» (che ricorda la canzone delle giovani camice nere di Salò: «Le ragazze non ci vogliono più bene...»). Penso alla sua solitudine, che era palese da tempo. Anche l’affannoso circondarsi di ragazze era una disperata, infantile, ingenua richiesta di affetto oltre che l’impossibile ricerca di una giovinezza perduta da tempo che nessun lifting gli potrà mai più ridare. Adesso le sanguisughe che per anni hanno succhiato le sue enormi energie si smarcheranno, piano piano, lentamente, per non dare troppo nell’occhio e trovarsi al momento opportuno sufficientemente vicini al carro dei nuovi vincitori per potervi salire. E lui rimarrà solo davanti a se stesso.

Dal punto di vista penale non gli deve essere scontato nulla. Perché l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge è la base della democrazia. Ma se gli italiani dimostrassero un po’ di pietà per l’uomo, si rivelerebbero, per una volta, diversi da quella masnada di maramaldi che sono sempre stati e a cui la berlusconiana mistica del "vincente" voleva definitivamente ridurli.

(di Massimo Fini)

domenica 19 giugno 2011

Rifondare la destra / 4: Sbagli, il Governo ha fatto molto


Il centrodestra rischia oggi di somigliare a un genitore che ha dimenticato il bambino in macchina sotto il sole. Discute, si agita, parla al telefono, moltiplica gli appuntamenti, fa riunioni, e non si ricorda dell’essenziale. La moglie lo chiama, gli chiede se è tutto a posto, e nemmeno questo lo fa tornare in sé: il bambino, cioè l’aggancio alla realtà, resta sotto chiave e chi dovrebbe occuparsene pensa ad altro.

Da prospettive differenti, due osservatori di quella realtà ieri su Libero si sono calati nella parte della moglie che dà la sveglia; uno, il prof. Campi, senza riporre molta speranza in una reazione; l’altro, Camillo Langone, confidando che da questa parte qualcuno ci senta. In una fase di scoramento, quale è quella che viviamo, il punto di partenza non è - e non può essere - auto consolatorio; ma non può neanche far ignorare quello che finora ha fatto il centrodestra, e al suo interno chi ha una storia propriamente di destra.

Quando, tanti anni fa, ho iniziato a interessarmi di politica, sentivo parlare di “maggioranza silenziosa”, e del tradimento delle sue istanze a causa di un sistema politico bloccato. Uno dei risultati più significativi del berlusconismo è stato di aver dato voce, anche grazie all’ingresso della destra nell’area di governo, a una maggioranza rimasta in silenzio nei decenni precedenti, ponendo in sintonia, sia pure con mille limiti, la gran parte degli italiani e chi li rappresenta (come nella Prima Repubblica era accaduto solo alle elezioni del 1948).

Concordo con Langone che esistono tante ambiguità e disattenzioni; ma risponde o no alla destra del “legge e ordine” avere in questi anni contrastato nei fatti e con successo il crimine mafioso, averne colpito le infiltrazioni economiche, aver ridato fiducia a comunità prostrate indicando delle vie di uscita dal pizzo? Si avvicina o no al solidarismo “di destra”, più che alla tutela dei privilegi propri di certa sinistra lavorista, quanto accaduto qualche mese fa a Pomigliano: col sostegno attivo dell’esecutivo, si è realizzata la sintesi fra gli sforzi di una grande azienda che prova a restare italiana e la responsabilità di una parte significativa di un sindacato che punta al lavoro vero. È o non è nel proprio (pur se non in esclusiva) della destra la tutela della vita di fronte alla prospettiva eutanasica, con un governo che è arrivato alle soglie di una crisi istituzionale pur di salvare la vita di Eluana? E infine, nel lavoro svolto in sede europea, chi ha operato la difesa “laica” del Crocifisso, quale segno di civiltà, e la lotta contro l’eurocommissariamento delle politiche nazionali?

Poi ci sono le ambiguità. L’intervento in Libia non è solo questione di spreco di risorse in cambio di più immigrati; a più di tre mesi dal suo avvio, restano gravi perplessità sugli obiettivi della missione militare, sui tempi e sui modi per perseguirli, sul rispetto dei limiti contenuti nella risoluzione Onu, sui danni per la popolazione civile, sui contraccolpi negativi per gli interessi italiani. E mentre permane quest’impegno in Libia, non hanno seguito le gravi violazioni dei diritti nell’intera area mediorientale, i costi umani pesanti che tanti civili pagano in Yemen, nel Barhein, in Siria, l’aggressione alle comunità cristiane sopravviventi in tali Paesi, il deterioramento dei rapporti col mondo arabo e con le comunità musulmane.

E ci sono pure le disattenzioni; prima fra tutte, quella sul futuro demografico dell’Italia, e sul di più che va fatto, senza ritardo, per invertire un trend di suicidio della nostra nazione per carenza di figli. Un trend che appare inarrestabile, e di cui il recente europride appare l’esaltazione più sgradevole e volgare.

Il padre distratto ha ancora il tempo per riaversi? Guai a dubitarne. Ma va ricondotto alla realtà. Fra i primi dati di realtà di cui convincersi è che c’è futuro per il centrodestra, perché il consenso nei suoi confronti non è scomparso né è passato dall’altra parte: nelle ultime settimane, fra Amministrative e referendum, è rimasto a casa, in attesa di tempi migliori e di maggiore credibilità. Langone non ha torto; la gran parte degli italiani da tempo si chiede: ma noi che apparteniamo a famiglie normali, che non rivendichiamo i matrimoni per gli omosessuali, che vorremmo vivere in quartieri in cui la sicurezza non sia posta a rischio dai clandestini, noi che siamo cristiani, per lo meno quanto a tradizione, e che pensiamo che sulla vita non vadano operate sperimentazioni, che facciamo: chiediamo scusa? Dobbiamo sentirci in colpa?

È un po’ quello che lamenta da anni, rivolgendosi a chi fa politica, un Uomo anziano e vestito di bianco «l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più sé stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro». Proprio perché ha alle spalle un passato difficile e coraggioso, oggi la destra politica italiana è chiamata a metterci del suo perché il nostro mondo torni ad amare sé stesso. Continuate a suonare la sveglia: è necessario!

(di Alfredo Mantovano)

sabato 18 giugno 2011

Rifondare la destra / 3: Cari amici, dovete evolvervi


Ho letto con molto piacere l'intervento di Alessandro Campi, di cui apprezzavo il lavoro di suggeritore intellettuale fatto nei confronti dell’ultimo Gianfranco Fini, un lavoro il cui fallimento lui lealmente dichiara in termini estranei tanto al politichese quanto alle tirate narcisistiche di Camillo Langone: «Una vera e propria catastrofe politico-antropologica, una sorta di collasso emotivo-caratteriale che ha finito per coinvolgere, al centro come alla periferia, un’intera comunità politica», così ha scritto il professor Campi. Di quella “comunità”, come ciascun lettore di Libero sa, non ho mai fatto parte. Tutt’altro. Epperò da almeno trent’anni la rispetto, cerco di capirne le dinamiche e i valori trainanti, conosco e sono talvolta amico di alcuni dei suoi attori protagonisti.

Campi l’ho conosciuto poco, ma conoscevo benissimo e amavo Giano Accame, sono amico fraterno di Stenio Solinas e di Giuseppe Del Ninno, sono stato a cena (assieme a Massimo Cacciari) a casa di Gianfranco de Turris quando una tale cena era tabù dal punto di vista del politically correct; quanto a Marcello Veneziani, amicalmente dissentiamo su quasi tutto da un’infinità di anni, ma è un dissenso per me utile e stimolante.

IL COLLANTE DI UNA COMUNITA'

Ebbene che cosa resta oggi a identificare e fare da collante di quella “comunità”, oggi che siamo a quasi vent’anni dalla distruzione della Prima Repubblica e dunque dalla resurrezione politica di quello che era stato il Msi e divenne An? Esiste oggi nelle venature del nostro Paese una realtà antropologica e culturale che ti fa dire che quello o quella è “di destra”?

Eccome no, dice Langone, basta appigliarsi e dondolarsi alla triade fatale «Dio, Patria e Famiglia». Bastasse questo a farci felici, sarebbe tutto molto più facile. Nell’Italia del terzo millennio le cose sono dannatamente più complicate. Dio sta ovviamente al centro di un Paese di identità cristiana come il nostro, solo che i problemi cominciano subito dopo. Che fare e come atteggiarsi nei confronti di quelli che a Dio non credono o che ne hanno un tutt’altro di Dio? E dunque l’immigrazione di massa, se sì o no consentire agli islamici di pregare in un luogo di devozione a loro destinato, e poi quella faccenda di Eluana che dopo 17 anni di coma era ridotta a una corteccia e non restava che chiuderla ufficialmente la pagina della sua vita, una vita di cui non c’era più la benché minima traccia, e io sono rimasto allibito quando ho letto su questo giornale un qualche raffronto tra Eluana e il caso del mio amico Lamberto Sposini che è vivissimo adesso ma che lo era anche al momento più terrificante della sua tragedia.

UNA PATRIA TROPPO LACERATA

E quanto alla Patria, ne trovate pochi oggi di cretini che non la tengano in gran cale, epperò è un fatto che è una patria lacerata, divisa all’estremo tra Nord e Sud, tra il centro delle città e le loro periferie, tra chi paga il cento per cento delle tasse dovute e ne viene strangolato e chi riesce evadere la metà o più del suo reddito.

E la famiglia? Ma come non rendersi conto che il “moderno” ha travolto l’unicità della famiglia tradizionale, che nella vita di molti di noi di famiglie ce ne sono tre o quattro, e poi ci sono le famiglie non santificate dal sacramento (vivo da vent’anni con una donna che è la mia cara compagna, ma non siamo sposati e per il momento non ci pensiamo neppure un minuto).

E poi, scandalo!, le famiglie che conosco e sono fra le più intensamente “famiglie” che io conosca, e dove c’è un lui e un altro. Che ne dite di tutto questo cari amici di destra? Come lo giudicate? Il fatto è che già vent’anni fa, quando il mondo della destra uscì dalla «fogna» (espressione di Marco Tarchi, uno dei padri della nuova destra) dov’era stato costretto dalla guerra civile strisciante post-1945 - guerra civile strisciante durata almeno una quarantina d’anni contro i due che era durata la guerra civile vera -, l’esser di destra aveva perduto la gran parte del suo profilo.

L'INTUIZIONE DI GIANFRANCO FINI

E questo Fini lo aveva capito nitidamente, anche se di tanto la sua fragilità culturale lo spingeva verso l’una o l’altra gaffe. Vi ricordate il suo augurio che i ragazzi delle scuole elementari e medie non avessero un insegnante omosessuale? Davvero non so quali siano state le stimmate politico-culturali di An durante i quindici anni di alleanza con Silvio Berlusconi.

Per parlare di cose concrete, mi ricordo la volta che An fece resistenza contro un qualche timidissimo tentativo dell’ala liberale della coalizione di rendere meno rigida e intoccabile la condizione del pubblico impiego, lì dove il posto è sicuro e dove si torna a casetta alle 14 (non tutti, lo so). Solo che il pubblico impiego di elettori ad An ne forniva tanti, e andavano coccolati.

UN TENTATIVO DI CAMBIARE

Il Fini ultimo (e dietro c’era Campi) è stato un tentativo di disegnare sulla pelle degli uomini di destra delle stimmate atte al presente. Da cui la sua posizione in materia di immigrati, posizione che correggeva profondamente il suo pur recente curriculum in materia. E poi c’era che per la prima volta nella coalizione di centro-destra si levava una voce dissonante rispetto a quella del Gran Capo e del Gran Dominus della coalizione.

Molto più che non le raffiche di articoli sulla casa di Montecarlo (una brutta faccenda, certo), sarebbe stato prezioso un confronto sui contenuti all’interno di quella coalizione. Comincia da lì il «disastro» politico e antropologico di cui scrive Campi, un disastro di cui è sotto gli occhi di tutti che non riguarda solo Fini. Riguarda tutti ma proprio tutti della coalizione di centrodestra. Le identità da inverare nel presente. Il che fare e mentre va a pezzi un equilibrio politico-economico mondiale, e nella lista dei malati noi siamo subito dopo la Grecia. Se sia possibile allentare la corda del boia fiscale e mentre non c’è una lira in nessun cassetto.

Basta pronunciare che i magistrati d’accusa sono malati di mente, perché ogni volta ne vanno via voti a caterve. Tutto questo è di sinistra o di destra o di centro? Me ne sbatto al massimo delle mie possibilità.

(di Giampiero Mughini)

Rifondare la destra: / 2 Ripartiamo dai doveri


La destra ha un futuro, in questo crepuscolo del berlusconismo? Alessandro Campi, studioso di politica e consigliere di Gianfranco Fini al momento della fondazione di Futuro e Libertà (alla storia il compito di dirci se la colpa (è stata più del consigliere o del consigliato), afferma che non ce l’ha. Sarebbe facile rispondere che l’avvenire più in bilico è proprio quello del Fli (perfino Campi se n’è accorto, dissociandosi recentemente), ma vorrei prenderla un po’ più alta.

Anche perché la domanda sulle sorti della destra non è una domanda da poco, non preoccupa solo finiani ed ex-finiani, ma angoscia tanti amici, tanti lettori avviliti dalle ripetute batoste subite dal governo. Io però non sono preoccupato più di tanto e provo a spiegare i motivi. Innanzitutto perché nel Berlusconi IV tutta questa destra non ce la vedo. Non bisogna fermarsi alle apparenze, alle dichiarazioni. Mi piace quello che dice Daniela Santanché, donna di destra dura e pura, però non mi sembra che il suo tardivo ingresso come sottosegretaria a-non-ho-capito-bene-che-cosa abbia spostato di un millimetro l’azione (o l’inazione) del governo. Mi sono quasi commosso quando Tremonti evocò con riverenza la triade Dio-Patria-Famiglia, ma, a parte che sono passati tre anni (non è che nel frattempo ha cambiato idea?), il sistema fiscale continua a punire i genitori con prole e a far pagare due volte (con le tasse e con le rette) chi manda i figli nelle scuole cattoliche, le uniche capaci di insegnare ai pargoli non dico a vivere ma almeno a farsi il segno della croce.

Ignazio La Russa ha indubbiamente la faccia feroce e in questo mondo di ladri è uno dei pochi sinceri amici delle guardie, e in generale degli uomini in divisa, purtroppo il suo entusiasmo per l’insensata guerra di Libia ci ha regalato sbarchi che contribuiscono alla islamizzazione d’Italia. Potrei continuare a lungo questo elenco di parole senza fatti, o con fatti di segno contrario. Potrei anche completarlo citando alcuni personaggi (soprattutto personagge, e passatemi la licenza poetica) che nel governo di centro-destra fin dall’inizio si sono comportate da quinte colonne, da infiltrate. Penso a Mara Carfagna che propugna una legge contro l’omofobia, ovvero contro la libertà di espressione e di giudizio, una legge che mette una spada di Damocle sopra l’intero cristianesimo dalle prediche domenicali alla Bibbia, libro che i sodomiti li seppellisce sotto una pioggia di fuoco. Penso a Stefania Prestigiacomo che alle Pari Opportunità ha dato il suo zelante contributo alla distruzione della figura paterna e da quando governa l’Ambiente non ha fatto nulla per smontare i miti sinistri del surriscaldamento globale, dell’effetto serra, delle energie rinnovabili, anzi li ha fatti propri.

Penso alla ministra Brambilla e alla sottosegretaria Martini, instancabili combattenti del più fanatico animalismo, incrocio fra paganesimo e buddismo che mira a distruggere tradizioni antichissime e meravigliose come la caccia, il Palio di Siena, la pastissada de caval. Ecco perché non sono preoccupato oltremisura: di destra ne perdiamo davvero poca con la caduta prossima o lontana del governo Berlusconi. E che dire del centro-destra non governativo bensì amministrativo? Me la sa spiegare Campi la differenza tra una Polverini ansiosa di applaudire Lady Gaga e un Pisapia che appena insediatosi a Palazzo Marino ha pensato che per risolvere i problemi di Milano la cosa più essenziale fosse patrocinare l’Europride? Per non parlare di Alemanno, ambiguo come si pensava potessero essere solo certi democristiani, che forse non l’ha capito nemmeno lui se voleva sostenere il sabba omosessualista oppure no. Sono d’accordo, una destra simile non ha alcun futuro, se non altro perché nemmeno l’elettore meglio disposto riesce ormai a identificarla, a distinguerla dalla sinistra. Ripeto però che su questa faccenda non ci sto perdendo il sonno perché l’habitat naturale della destra è sempre stato prepolitico, extrapolitico, metapolitico, incrociando solo occasionalmente i riti superstiziosi della democrazia (compresa la superstizione più primitiva di tutte rappresentata dai referendum, istituto reso ostaggio delle plebi dalla sua natura brutalmente meccanica e numerica).

La destra, la vera destra, è divina, come scrisse Pasolini nella poesia in cui pochi giorni prima di morire si dimetteva da cattocomunista. Racchiuse un grande programma in un solo verso: «Difendere, conservare, pregare». Secondo me oggi la destra ha un futuro se ricorda di avere una funzione, e una funzione ce l’ha eccome: in questo momento soltanto lei può difendere l’idea antinichilista che una società sussiste solo basandosi sui doveri (verso i propri figli, i propri padri, la propria terra...), non sui diritti.

Profetizzo quindi una stagione di battaglie ideali, durissime e bellissime. Di minoranza o di maggioranza? Non conta, perché «la maggioranza non può essere il principio ultimo, ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di abrogare». (Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, 2004).

(di Camillo Langone)

Rifondare la destra / 1: nel deserto dell'ex Msi


L’oggetto di quest’intervento (...) dovrebbe essere il futuro della destra italiana. Ma esiste ancora in Italia una realtà politica minimamente omogenea che possa essere definita con questo termine? Si può immaginare il futuro di qualcosa che forse ha cessato di esistere? Da qualche tempo, ragionando sulle vicende che hanno portato, all’incirca un anno fa, alla traumatica rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, alla successiva diaspora del gruppo dirigente che era confluito nel Popolo della libertà provenendo da Alleanza nazionale (e prim’ancora dell’Msi) e infine alla nascita, dopo un lungo travaglio, di una formazione a tutt’oggi dai contorni incerti quale Futuro e libertà, mi sono convinto che quello che molti osservatori hanno provato a descrivere come un processo di irreversibile divaricazione determinatosi all’interno di quel gruppo a partire da scelte, orientamenti e interessi che erano divenuti con tutta evidenza inconciliabili, in realtà si configuri - soprattutto se osservato a posteriori e con un relativo distacco - come una vera e propria catastrofe politico-antropologica, come una sorta di collasso emotivo-caratteriale che ha finito per coinvolgere, al centro come alla periferia, un’intera comunità politica, la cui conseguenza estrema rischia di essere, per l’appunto, la definitiva scomparsa della destra politico-culturale dalla scena pubblica nazionale.

In che senso la parabola della destra italiana, per come si è realizzata negli ultimi mesi, in un crescendo di scontri, divisioni e incomprensioni, può essere rappresentata alla stregua di una catastrofe antropologica invece che come un fenomeno, per certi versi persino fisiologico, di metamorfosi e trasformazione politica o, nel peggiore dei casi, come un esempio nemmeno molto raro nella storia di disgregazione e consunzione storica? Di culture, famiglie e tradizioni politiche entrate in crisi e poi scomparse, perché dimostratesi non più in grado di reggere le sfide della storia e di risultare attrattive e convincenti agli occhi dei loro stessi sostenitori di un tempo, ne abbiamo conosciute diverse, anche nel corso della recente storia italiana. Basti pensare agli anni terminali della cosiddetta Prima Repubblica, che furono per l’appunto caratterizzati dalla crisi di credibilità, dalla perdita di legittimazione sociale e dalla successiva rapida scomparsa di tutte le famiglie politiche (dalla democristiana alla liberale, dalla socialista alla repubblicana) che per un cinquantennio circa avevano costituito il fondamento, sul piano dei valori e dell’azione di governo, del nostro sistema politico-istituzionale.

Al tempo stesso, nel corso della storia, inclusa quella nazionale, abbiamo conosciuto fenomeni assai interessanti di adattamento, trasformazione e cambiamento, in alcuni casi anche parecchio radicali. Ciò è avvenuto tutte le volte che un partito, una comunità politica o una tradizione ideologica si sono trovati dinnanzi ad un tornante della storia ed hanno dimostrato di saperlo affrontare mettendo in gioco se stessi: le proprie basi dottrinarie come i propri orientamenti programmatici, il proprio stile d’azione e finanche il proprio linguaggio. È in virtù di un profondo processo di revisione, per fare un esempio, che il movimento laburista britannico è riuscito, sotto la guida di Tony Blair, a diventare una forza di governo credibile ed autorevole dopo il lungo domini o del partito conservatore e dopo che per decenni esso era rimasto inchiodato alla sua matrice tradizionalmente marxista. Qualcosa di analogo, con riferimento all’Italia, fece Craxi quando ruppe - in una prospettiva riformista-liberale e modernizzatrice - con una certa tradizione di socialismo massimalista che aveva condannato quest’ultimo ad una perpetua subalternità al comunismo. Insomma, un movimento politico-ideologico può, da un lato, scomparire brutalmente dalla scena, quando con ogni evidenza ha esaurito il suo ciclo vitale o visto affievolirsi le ragioni ideali che lo giustificavano dinnanzi alla storia, oppure, dall’altro, può assumere (...) una configurazione inedita, all’altezza dei tempi e delle esigenze nuove che la società pone continuamente alla politica, il che significa riuscire a contemperare il cambiamento con una relativa continuità nel tempo, la forza (necessaria) dell’innovazione con la salvaguardia (altrettanto necessaria) della tradizione.

La realtà alla quale ci stiamo riferendo - la destra post-missina arrivata negli ultimi mesi al suo punto massimo di disgregazione e dispersione - non rientra in nessuna di queste due categorie. Non si può dire, ad esempio, che la sua sia una crisi di identità frutto di un cambio repentino del clima storico-culturale oppure l’esito inevitabile di una eccessiva permanenza al potere. Al contrario, la destra italiana è entrata con un ruolo da protagonista nel “grande gioco” della politica solo all’indomani della traumatica scomparsa dei partiti storici dell’Italia repubblicana. Può perciò essere considerata una forza relativamente giovane, tutt’altro che logorata dalla routine, non foss’altro perché è rimasta per decenni estranea agli equilibri di potere - sociale e politico - che hanno caratterizzato il precedente regime “partitocratico”. Per di più ha potuto sfruttare a proprio favore il cosiddetto “vento della storia”, vale a dire quel vero e proprio cambio epocale rappresentato dal tracollo irreversibile dell’utopia comunista e, più in generale, dalla crisi della cultura in senso lato progressista.

Ma nemmeno si può dire che le sue fibrillazioni odierne, la confusione di strategia e di identità della quale la destra italiana attualmente soffre, siano il frutto di un qualche radicale e doloroso processo di revisione de i suoi orientamenti culturali di base o del suo storico patrimonio politico . Non c’è dunque una crisi di trasformazione o di crescita, con le inevitabili tensioni che ciò comporta, che possa giustificare il marasma nel quale essa è attualmente piombata, sino a disperdere le proprie energie in mille e infruttuosi rivoli. È vero, a suo tempo, nell’ormai lontano 1995, c’è stato il lavacro purificatore di Fiuggi, che all’epoca è sicuramente servito alla destra italiana per liberarsi agli occhi degli italiani dalle scorie del nostalgismo fascista; ma a conti fatti quell’episodio si è risolto in null’altro che in una gigantesca operazione di rimozione del passato e di azzeramento della propria memoria storica. La destra liberale, conservatrice, nazionale, riformista che all’epoca fu annunciata non è mai venuta alla luce con una qualche compiutezza, e ciò per la semplice ragione che alla revisione effettiva dei propri modelli e riferimenti culturali da allora in avanti si è preferito giustapporre uno stile politico, che ci si è compiaciuti di definire pragmatico e post-ideologico e che invece è stato soltanto mimetico e opportunistico. Quanto al più recente, e ben più serio, tentativo fatto da Gianfranco Fini di definire i contorni di una destra effettivamente “nuova” - il che altro non poteva significare che dare finalmente corpo e sostanza a quanto a Fiuggi era stato (...) annunciato - si è scoperto, ora che anche questo tentativo sembra essersi arenato, che dal mondo della destra politico-culturale d’estrazione missina esso è stato vissuto alla stregua di un’avventura solitaria e priva di costrutto, rispetto alla quale si è preferito alzare un muro di indifferenza e fastidio, quando non si è scomodata, per liquidarlo, la categoria sempre ricorrente del tradimento.

Insomma, se la destra oggi rischia di scomparire dalla scena - di diventare socialmente, politicamente e culturalmente irrilevante e sterile dopo essere stata per un cinquantennio una realtà marginale ma a suo modo vitale e piena di fermenti - non è a causa dei travagli intellettuali e dei contrasti ideali che l’attraversano (che anzi si è cercato di sfuggire per quanto possibile senza rendersi conto che solo grazie ad essi questa stessa destra si sarebbe potuta trasformare in qualcosa di realmente nuovo senza per questo dover perdere o forzatamente rinnegare le sue più antiche e autentiche matrici); e non è nemmeno perché gli elettori o la storia le hanno repentinamente voltato le spalle sino a renderla superata e condannata ad una inevi tabi le senescenza. Anzi, all’ombra del potere berlusconiano, che per quanto incrinato resta tuttavia ancora solido, parte consistente di questa destra si sta godendo da anni una stagione di crescenti e perduranti successi mondani, come mai era accaduto nella sua storia.

E allora cosa è accaduto che possa spiegare perché, ad esempio, all’interno stesso del mondo berlusconiano quelli che fino a qualche tempo fa erano considerati alleati affidabili e compagni di strada con i quali si era condivisa un’esaltante avventura politica vengano oggi sprezzantemente liquidati come “fascisti” o come esponenti, sempre più scomodi e sgraditi, di un mondo che si considera rimasto irrimediabilmente legato al passato, quasi che per essi vent’anni di storia siano trascorsi invano? Come è possibile, per fare un altro esempio, che le posizioni innovative di Fini, che sino a qualche tempo fa riscuotevano plausi e attenzioni ed erano valutate come il segno di un processo di cambiamento profondo e al tempo stesso autentico, oggi non riscuotano più alcun interesse e siano anzi guardate con crescente sufficienza? Come è possibile, per chiudere questa amara carrellata, che la destra rimasta organica al mondo berlusconiano, pur godendo di importanti spazi d’azione e di grandi responsabilità a livello governativo, non riesca a rendersi minimamente riconoscibile e visibile agli occhi dell’opinione pubblica e si trovi dunque costretta a inseguire o a subire in silenzio le battaglie e la campagne propagandistiche della Lega? La spiegazione che mi sono dato, sul filo della psicologia politica, è che nell’arco degli ultimi dodici mesi ciò a cui abbiamo assistito è stato il collasso per così dire nervoso, il cedimento emotivo e caratteriale, di un gruppo dirigente rimasto lungamente autoreferenziale e preda della deriva settaria che da sempre condanna all’estinzione i piccoli movimenti che basano la propria forza sulla chiusura verso il mondo circostante.

Non avendo operato al suo interno, nel corso degli ultimi vent’anni, alcun sostanziale cambiamento, avendo rifiutato o rigettato qualunque innesto ricostituente dall’esterno, questo gruppo ha finito per consumarsi (...) in un crescendo di lotte fratricide e di contese dettate sostanzialmente da antichi livori personali e da ripicche spesso infantili. Quella che risulta (...) è una prova collettiva di immaturità politica che alla fine si è tradotta, più che in divisioni ideologiche e in differenti orizzonti d’azione, in litigi personali e nella rottura traumatica dei legami di solidarietà (e in alcuni di vera e propria amicizia) che erano stati il loro vero cemento.

Se da un lato ha dunque negativamente pesato il logoramento indotto da un eccesso di frequentazione e confidenza (...), dall’altro ha invece giocato un ruolo altrettanto negativo il permanere di riflessi mentali, di atteggiamenti e modi d’agire che, nei vent’anni in cui la destra italiana s’è trovata al ricoprire un ruolo pubblico eminente, sono in realtà rimasti i medesimi di quando essa costituiva un universo tenuto ai margini dalla politica ufficiale (...). Il consumarsi dei rapporti tra persone che all’improvviso (...), hanno semplicement e scoperto di non avere più nulla da dirsi di interessante si è insomma sovrapposto al perdurare di vecchi e rovinosi tic: il settarismo, di cui si è detto, vale a dire la tendenza a frazionarsi e dividersi in gruppi sempre più minuscoli; il senso di alterità e di diffidenza verso un mondo esterno sempre percepito come estraneo e minaccioso; lo spirito di rivincita e il risentimento tipici di chi ha introiettato nel profondo del proprio animo la condizione dello sconfitto e del perdente; la disabitudine a intrecciare relazioni sociali paritarie con chi non provenga da un percorso formativo analogo al proprio; una postura sempre aggressiva e polemica che è caratteristica notoria delle persone insicure (...) ; e da ultimo un modo di impostare le proprie battaglie, politiche e culturali, sempre sul filo del dilettantismo e dell’improvvisazione (...).

Ecco, è in questo senso che parlo - forse esagerando - d’una catastrofe politica, d’una crisi di identità e di strategia della destra italiana che mi sembra motivata più che altro da una somma di ma lumori personali e complessi stati d’animo, dall’esaurirsi della fiducia in se stessi proprio nel momento in cui essa si è trovata a capitalizzare il massimo dell’attenzione e dei consensi, dal rifiuto quasi patologico da parte del suo gruppo dirigente a mescolarsi col mondo, a mettersi seriamente alla prova dinnanzi ad una società in rapida e radicale trasformazione, a rimuovere le incrostazioni di un passato con il quale i conti non sono mai stati fatti sino in fondo.

Le oscillazioni odierne della pattuglia finiana, che sonda ogni possibile strada senza decidersi a imboccarne nessuna, i silenzi e le indecisioni del medesimo Fini, l’obiettiva subalternità e la sostanziale mancanza di un progetto politico-culturale di quella parte di destra che ha deciso di affidare le proprie chance di sopravvivenza al perdurare del blocco di potere costruito da Berlusconi, la cattiva prova di sé, nel segno della disinvoltura se non del carrierismo (...), che in questi mesi hanno dato molti singoli esponenti di questo mondo: tutto ciò sembra suonare davvero come la “fine di un mondo”, come la pessima conclusione di una storia politica che avrebbe potuto avere ben altro corso se invece che perdersi in accuse reciproche di tradimento, in liti da fanciulli e in meschine vendette personali, come è accaduto, ci si fosse dimostrati per davvero (...) gli eredi di una tradizione che non ha mai disdegnato il rischio, l’avventura o l’andare controcorrente e che non ha mai anteposto il tornaconto dei singoli al bene comune e all’amor di patria.Suona ironico (...) l’individualismo esasperato di cui hanno saputo dar prova, nei momenti decisivi, coloro che per anni si sono riempiti la bocca di appelli allo spirito comunitario e al senso di appartenenza! Il futuro della destra italiana? Oggi, pensando le cose che ho detto, dinnanzi ad un fallimento che mi sembra umano prima che politico, davvero non saprei quale possa essere.

(di Alessandro Campi)