mercoledì 31 agosto 2011

Per uscire dalla crisi gli Stati tornino a stampare moneta


Fisiologicamente, in economia, la moneta ha la stessa funzione dell'acqua nell'organismo umano: entrambe pertanto debbono essere pubbliche poiché svolgono la funzione di pubblica utilità. La "Teoria del Valore Indotto della moneta", enunciata da Giacinto Auriti, confermata dalla successiva denuncia dei patti di Bretton Woods sin dal 15 agosto 1971 da Nixon, hanno definitivamente stabilito che “il valore della moneta è conferito dai cittadini che la utilizzano” e non dalle banche centrali che l'approntano. L'attuale crisi economica ed occupazionale, lungi dall'essere superata, è stata realizzata con la violenta sottrazione di liquidità dal mercato, dalla massa debitoria generata con l'attuale emissione monetaria, ad opera dei banchieri privati e dal pagamento dei relativi interessi passivi. A tutto ciò va aggiunto la liquidità che è stata fatta sparire a privati e Pubbliche Amministrazioni con il giochino dei bond tossici.

L'ultimo patto di stabilità europeo ci impone il rientro del debito pubblico di un ventesimo ogni anno dell'importo che eccede il 60 % del PIL, circa 45 miliardi di Euro ogni anno (il doppio della già pesante finanziaria in corso). Un simile salasso da cavallo che si aggiunge alla manovra in corso ed al pagamento degli interessi passivi (già in aumento), il nostro "Sistema Paese", fortemente debilitato non è in grado di poterlo sostenere. A nulla serve contrarre l'attività sociale, salari e stipendi mediante i prelievi direttamente nelle tasche dei cittadini. Per mitigare gli effetti della crisi e rilanciare i processi produttivi ed occupazionali abbiamo l'assoluta necessità di poter disporre della liquidità per sostenere investimenti e ricerca, senza indebitarci ulteriormente verso i banchieri privati, ai quali è stato conferito oltre all'emissione monetaria, anche il potere di poter aumentare i tassi a proprio piacimento, che loro stessi incassano. Occorre agire rapidamente per bloccare la crisi come quelle imposte a Islanda, Irlanda e Grecia, poiché dopo Portogallo, Spagna e Belgio, ora tocca a noi. Lo Stato Italiano deve smettere d'indebitarsi per monetizzare il proprio mercato o per pagare i suoi titoli di debito in scadenza, che vengono quotati in borsa e valutati dalle società di rating secondo le desiderate della cricca bancaria e monetaria. Dovrebbe essere comprensibile per tutti l'impossibilità di estinguere un debito accendendo un altro debito.

Se i titoli di debito dello Stato sono buoni e valgono, al punto da essere accettati e scontati dagli avveduti, prudentissimi ed esosi banchieri privati, debbono valere anche i titoli monetari emessi dallo stesso Stato. Vantiamo in tal senso una positiva e centennale esperienza di emissione monetaria diretta da parte dello Stato, dal 1874 al 1975. Occorre che il mondo della produzione e dei consumi, abbandonati dalla "politica" in balia dei banchieri, si coalizzino per costringere la Pubblica Amministrazione a riassumere il ruolo che le compete per la tutela degli interessi dei cittadini tutti, mediante la guida economica dell'intera Nazione che non può essere disgiunta da quella monetaria, sciaguratamente affidata alla "cupola" dei banchieri privati. E' opportuno smettere di non vedere che la politica è riuscita a mettere i topi a guardia del formaggio. Poiché quando si hanno i topi in casa non si può guardare al colore dei gatti, è opportuno che tutte le categorie economiche e produttive, i soggetti politici di qualsiasi colore, nell'interesse generale di tutti, si apprestino a fornire i propri gatti dai colori più variegati, affinché si possa con una azione comune realizzare la derattizzazione nelle "Casse dello Stato" di proprietà di tutti i cittadini. Lo Stato deve tornare a battere moneta in nome e per conto dei propri cittadini; acquisirne la proprietà a titolo originario e con essa rilanciare economia, occupazione e ricerca come da centennale positiva esperienza già effettuata. Ciò ha consentito, subito dopo l'unità d'Italia di realizzare tutte le infrastrutture necessarie al nuovo stato nazionale, compreso i famosi palazzi e quartieri "umbertini", ancora esistenti e funzionanti, senza imporre tasse e senza accendere debiti. Successivamente utilizzando sempre la stessa emissione monetaria si sono realizzate una miriade di opere pubbliche dalle inconfondibili linee architettoniche, tipica quella "razionalista" e quelle del Piacentini, sempre senza aumentare le tasse e senza aumentare il debito pubblico che anzi, sino al 1940 era rimasto stabile al 20 % (tra i più bassi della storia d'Italia) per passare poi nel 1945 al 25%, dopo una guerra persa. Successivamente lo Stato continuò a battere moneta sino al 1975.

Gli introiti dovuti al signoraggio così incamerati hanno seriamente contribuito alla ricostruzione del territorio nazionale devastato dagli eventi bellici (all'inizio degli anni 70 il debito pubblico era sceso al 20 %). Tutto ciò a conferma e dimostrazione che il debito pubblico è generato dall'emissione monetaria dei banchieri privati. Giova trarre profitto dalle esperienze altrui: in Islanda hanno cacciato i vecchi governanti e hanno già messo sotto processo otto banchieri, gli altri sono fuggiti. L'unica lotta vera alla consorteria bancaria-monetaria si realizza con il togliere ai banchieri i privilegi che derivano dall'emissione monetaria e riconferirli allo Stato. Qualsiasi altra manovra o proposta, spesso suggerita dagli agenti del sistema bancario, proprio per depistare, risulta utile solo alla cupola bancario-monetaria per mantenere lo status quo.

Da "Scelta di Campo del 28 agosto: (Luca Davi, Il Sole 24 Ore, del 24 agosto). L'ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, per quanto screditato, la sa lunga e afferma: «L'euro si sta dissolvendo - questa è la causa delle difficoltà del sistema bancario europeo . E' evidente che questa terapia shock, più che per salvare l'Italia, è concepita per salvare l'euro. Dissanguarsi per tenere in vita l'euro non è solo ingiusto, è del tutto irrazionale".

Il ritorno all'emissione monetaria da parte dello Stato ci mette al riparo dalle sempre più probabili tempeste monetarie e legittima la speranza di non lasciare ai nostri figli un mondo peggiore di quello che abbiamo trovato.

(di Savino Frigiola)

Libia: petrolio di sangue


Il fascino antimoderno della montagna


«Sulla montagna sentiamo la gioia di vivere, la commozione di sentirsi buoni e il sollievo di dimenticare le miserie terrene. Tutto questo perché siamo più vicini al cielo», così Emilio Comici, uno dei massimi esponenti dell’alpinismo italiano tra gli anni trenta e quaranta insieme a Cassin e Carlesso, nel suo libro “Alpinismo eroico”, sintetizzava quello che la montagna può trasmetterci.

E sono proprio queste le sensazioni che si provano quando si va in alto. L’incontro con le vette riesce a regalare orme indelebili e durature. Quando si inizia un sentiero, non importa quanto si sale o la difficoltà che si affronta, tutto diventa magico. Il frastuono delle città moderne viene lasciato alle spalle e il silenzio ci accompagna nella salita. I rumori della natura diventano musiche e pensieri che riescono a non far sentire la stanchezza.

Julius Evola in “Meditazioni dalle vette”, sosteneva che la montagna potrebbe agire come simbolo per avviare una realizzazione interiore: «è dall'irrazionalità di impressioni, visioni, di inesplicabili slanci e inesplicabili, gratuiti eroismi che egli viene portato avanti, lungo vie di un ascendere, che alla fine giunge inavvertitamente ad agire anche in termini d'interiorità. E in sede di subcoscienza che egli si trova inserito in una realtà più vasta e che da essa riceve non solo trasfigurazione in senso di calma, sufficienza, semplicità, purezza, ma anche un afflusso quasi sovranormale di energie, insuscettibile ad essere spiegato con i fallaci determinismi della fisiologia, una indomabile volontà di procedere ancora, di sfidare nuove altezze, nuovi abissi, nuove pareti, poiché appunto in ciò si traduce la inadeguatezza dell'azione materiale rispetto al significato che ormai la anima, la trascendenza dell'impulso spirituale rispetto alle condizioni esterne, alle imprese, alle visioni, alle audacie che ne hanno propiziato il risveglio e che ancora costituiscono la materia necessaria per la estrinsecazione concreta di quell'impulso stesso».

L’ascensione alla vetta, dunque, non è solamente una prova fisica, ma soprattutto una prova spirituale e mentale: «la montagna per essi non è più né novità d'avventura, né romantica evasione, né sensazione contingente, né eroismo per l'eroismo, né sport più o meno tecnicizzato. Essa si lega invece a qualcosa, che non ha principio né fine e che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura, come qualcosa che si porta con sé ovunque a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana».

Molto probabilmente la montagna conosciuta da Evola, da Comici e da molti altri, non è più la montagna di oggi. Una montagna sempre più popolata da “alpinisti” della domenica, da persone che credono che avere l’attrezzatura più tecnologica possa bastare per affrontare la natura e la solitudine delle immense pareti rocciose. Non è così. Renè Daumal su “Il monte analogo” scrive: «Con un pò di soldi, si arriva comodamente a trarre dalla civiltà ambiente le poche soddisfazioni corporee elementari. Il resto è falso. Falsità, trucchi, tic, ecco tutta la nostra vita tra il diaframma e la volta cranica. Il mio Superiore aveva detto bene: io soffro di un bisogno inguaribile di capire. Non voglio morire senza aver capito perchè ho vissuto. E lei, ha mai avuto paura della morte?»

La purezza e la verità di questi mondi solitari e luminosi non ha eguali. Non a caso, sin dall’antichità, la montagna era sede di nature divine e di eroi, axis mundi.

(fonte: www.ilsitodiperugia.it - di Fabio Polese)

Superiori anche nel malaffare

La Repubblica italiana ha cono­sciuto due forme storiche di cor­ruzione politica, quella come indole e quella come missione. I primi erano mariuoli allo stato puro, per avidità, per voluttà di privilegio, per famili­smo immorale. Era la corruzione case­reccia, ad uso domestico, dell'era democristiana (ma cominciò la sinistra Dc a finanziare la corrente con le tan­genti del Parastato). I missionari della corruzione erano invece i comunisti e le sinistre in genere, che non rubava­no per sé ma per il Partito, coop e din­torni e si autoaccusavano pur di non inguaiare il partito.

L'alibi dei primi era pensare ai figli e ai nipoti. La mis­sione dei secondi era servire il Dio in Terra e il Partito-Patria, quando ven­nero meno i finanziamenti sovietici. Moralmente erano più spregevoli i pri­mi, politicamente erano più devastan­ti i secondi, perché la loro corruzione era un sistema.

I socialisti ibridarono i due generi di corruzione, perché da un verso finanziarono i costi della politica, dall'altra si fecero gli affari pro­pri. La corruzione bipartisan di questi giorni ha queste doppie stimmate di provenienza. Ma oggi a sinistra i Mis­sionari non rubano solo per la Causa ma anche per se stessi e i loro cari. So­no vitazzuoli e non vogliono farsi man­care nulla. Non so se sia più grave la ca­sa di Scajola o le tangenti di Penati; penso che la prima sia moralmente più sfacciata e pittoresca, ma la secon­da sia stata più dannosa al paese e an­che eticamente ripugnante. Con un' aggravante: l'ipocrisia di sentirsi mi­gliori e di dare lezioni al mondo.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 29 agosto 2011

Il tragico fallimento della guerra in Afghanistan


Non si può lasciare una guerra perché un soldato è caduto in battaglia. Sarebbe grottesco: se si interviene in una guerra, bisogna accettarne i rischi. È quanto accaduto al caporal maggiore David Tobini ucciso in un agguato talebano, molto ben congegnato, nella vallata del fiume Murghab, nel nord dell’Afghanistan.

I caduti italiani in Afghanistan sono ora 41. Cifra che presa d’amblè, può far impressione, ma che, in dieci anni di conflitto, non è particolarmente rilevante. I danesi, con un contingente che è un quarto del nostro, ne hanno avuti altrettanti. Gli inglesi 386 su 9500, proporzionalmente il quintuplo dei nostri. Del resto i britannici sono stati gli unici a battersi sul campo senza far uso sistematico dell’aviazione che è certamente utilissima dal punto di vista militare ma devastante sotto quello politico perché colpisce più i civili che i guerriglieri andando così ad aumentare l’appoggio agli insorti. Gli altri contingenti, pur superiormente armati, sul terreno non sono in grado di battersi alla pari con i talebani come dimostra anche l’episodio di Murghab dove gli italiani, per sottrarsi a perdite ancora maggiori, sono stati costretti a chiedere l’intervento dell’aviazione Nato. È che i giovani occidentali non hanno, anche quando sono militari ben addestrati, la vitalità necessaria per affrontare sanguinosi corpo a corpo. Il benessere li ha fiaccati. Inoltre troppo diverse sono le motivazioni. Da una parte c’è gente che si batte per liberare il proprio Paese dall’odiosa occupazione dello straniero, dall’altra soldati che non sanno per che cosa combattono.

Ad ogni caduto italiano i ministri Frattini e La Russa ripetono talmudicamente che «la missione continua». Ma che senso abbia oggi questa missione né Frattini né la Russa né alcun altro è in grado di spiegarcelo. Affermare che i soldati italiani in Afghanistan stanno difendendo la Patria e l’Occidente dal terrorismo internazionale è ridicolo, se non fosse tragico. Il terrorismo internazionale, quaedista, waabita, non sta, con tutta evidenza, in Afghanistan. Quel che resta di Al Quaida è trasmigrato da anni altrove. Lo stesso Al Zawahiri, che formalmente ha sostituito Bin Laden, ha affermato che cellule di Al Quaida esistono in Somalia, in Yemen, in Egitto, i Giordania, ma non ha nominato l’Afghanistan. Perché in Afghanistan non c’è Al Quaida, ma un’insurrezione contro lo straniero che ha come punta di lancia i talebani che coinvolge ormai quasi tutta la popolazione.

Il presidente Napolitano, ex comunista pacifista diventato guerrafondaio «in senectute», continua a ripetere, come un disco rotto, che «l’Italia deve rispettare i propri impegni internazionali». Ma quali impegni? Siamo in Afghanistan da più di dieci anni e invece di indebolire il talebanismo lo abbiamo rafforzato. Gli olandesi se ne sono andati nell’agosto del 2010. I canadesi, i francesi e i polacchi lo faranno entro il 2012. Gli stessi americani stanno trattando (ci sono stati incontri in Europa e a Dubai) col Mullah Omar improvvisamente promosso al rango di «talebano moderato». Solo noi dobbiami rimanere a fare i servi degli Usa, sciocchi come tutti i servi e ad ammazzare e farci ammazzare senza un vero perché?

(di Massimo Fini)

domenica 28 agosto 2011

Rosso di Romagna


Se qualcosa non funziona nella vulgata di quei “terzisti” che periodicamente si ambasciano per la presunta mancanza di reciproco “riconoscimento” tra le parti in lotta nella politica è, sostanzialmente, per l’incapacità di un’analisi impostata alla luce dell’antropologia e dell’immaginario politico di lungo radicamento. Un approccio che è invece essenziale per afferrare la complessa ma reale relazione intercorrente tra eredi del fascismo ed eredi del socialismo (come anche del comunismo). Un rapporto che ha conosciuto, dalla marcia su Roma delle camicie nere del 1922 fino alla guerra civile ’43-45, la più determinata e violenta contrapposizione ma anche significativi tentativi di dialogo, avvicinamento e attraversamenti di campo, sia nella stagione dell’entrismo sia alla fine degli anni Trenta quando le nuove leve clandestine di giovani comunisti entrarono nelle organizzazioni e nei giornali del regime mussoliniano (per tentare di orientarne a sinistra l’azione di massa), sia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando le porte del partito togliattiano furono aperte in modo dichiarato a migliaia e migliaia di ragazzi che nelle organizzazioni giovanili fasciste si erano formati e avevano militato. Per non dire anche dei rapporti tra il fascismo repubblicano di Salò e personalità socialiste come il socialista Carlo Silvestri o, nell’immediato Dopoguerra, l’interlocuzione tra il direttore dell’Avanti! Ignazio Silone e il giornalista ex fascista Alberto Giovannini. Erano gli anni in cui Botteghe Oscure arrivò persino ad appoggiare e a finanziare una frangia dissidente di neofascisti e la loro rivista, il Pensiero nazionale diretto da Stanis Ruinas. Percorsi sotterranei incrociati che in realtà risalgono, a volerla dire proprio tutta, molto più indietro, addirittura ai primi anni Venti, quando la pianura padana era infiammata dalle lotte per i patti agrari e da altre grandi contese sindacali, guidate da un Partito socialista dove emergevano giovani leader rivoluzionari come Pietro Nenni e Benito Mussolini, con i braccianti rossi e le loro leghe, da un lato, e, dall’altro, non solo gli agrari ma anche tanti coloni e mezzadri che troveranno, poi, nel ruralismo fascista la matrice di una autoidentificazione sociale. “La canzonaccia degli anni dello squadrismo – ha annotato Mario Pirani – aveva una premessa strapaesana che ben rifletteva la realtà: ‘Fascisti e comunisti / giocavano a scopone / e vinsero i fascisti / con l’asso di bastone…’. Insomma una contrapposizione interna, di famiglia, radicata tra gente che si conosce bene e che si tramanderà fino ai giorni tragici della guerra partigiana e dei ragazzi di Salò”.
Questa lettura è una conferma di quanto spiegato a suo tempo da Giuliano Ferrara, secondo cui, a leggere in profondità la nostra storia, “la destra non è mai solo una destra e la sinistra non è mai solo una sinistra. Non esistono distillati puri e chimismi non contaminabili nelle culture politiche: basti pensare a quanto di protofascista ci fosse nel socialismo di Benito Mussolini e a quanto di socialista ci fosse nel suo fascismo”. Tutto questo viene adesso rappresentato e restituito alla più completa verità storica in un bel libro di Giancarlo Mazzuca e Luciano Foglietta: “Sangue romagnolo. I compagni del duce” (Minerva Edizioni, pp. 254, euro 18), in cui si racconta insieme la vicenda di quattro figure chiave della prima parte del Novecento politico italiano: Benito Mussolini da Predappio, Nicola Bombacci e Leandro Arpinati da Civitella di Romagna e Torquato Nanni da Santa Sofia di Romagna. Quattro figure che dimostrano, al di là delle scelte diverse che compiranno in vita, quella complessa ma comune matrice da cui siamo partiti e la cui comune fine tragica, non a caso inserita e celebrata in entrambi i casi in due passi significativi di quella Odissea del Novecento che sono i “Cantos” di Ezra Pound, può in qualche modo essere assurta a metafora della drammaticità del cosiddetto “secolo breve”. I nostri quattro personaggi, più volte definiti “i quattro moschettieri” da Mazzuca e Foglietta, sono tutti nati verso la fine dell’Ottocento in un preciso fazzoletto di terra della Romagna, un triangolo di una ventina di chilometri per lato, diviso a metà tra le terre già papaline e quelle che avevano fatto capo ai granduchi di Toscana, nell’arco temporale tra il 1879 e il 1892: coetanei, esponenti di una generazione particolare. “Una ‘grande’ generazione – la definì nel 1970 Mario Tedeschi introducendo il libro “Il giovane Mussolini rievocato da un suo compagno di scuola”, scritto dal giornalista Rino Alessi – che fu, praticamente, composta dalle prime leve, come direbbero i militari, dello stato nazionale unitario: i primi italiani cresciuti ed educati nel regno che si stendeva dalle Alpi alla Sicilia, dopo aver piegato il potere temporale dei papi”. Ma il saggio di Mazzuca e Foglietta – due giornalisti entrambi romagnoli doc, uno dei quali imparentato per via materna con Nanni – aggiunge senz’altro qualcosa in più. Sui quattro coetanei di “Sangue romagnolo” sono stati infatti scritti fiumi di inchiostro ma nessun libro li aveva finora messi così strettamente in relazione. “Eppure le loro vite, che si accavallano e si intrecciano, si allontanano per poi, improvvisamente e incredibilmente, ricongiungersi, hanno – leggiamo nella premessa – la stessa unica matrice: sono tutti figli di quel socialismo anarcoide che si è imposto in Romagna a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e che ha prodotto anche altre figure di spicco, a cominciare dal faentino Pietro Nenni (finito in carcere, a Forlì, con Mussolini, dopo le proteste per la spedizione italiana in Libia). I quattro imboccheranno, poi, strade diverse ma si ritroveranno, alla fine, assieme, due a due, strane coppie davvero, nel momento culminante della loro vita”. Nel giro infatti di pochissimi giorni, in quel drammatico aprile del 1945, Mussolini e Bombacci vengono fucilati a Dongo e poi appesi per i piedi a piazzale Loreto, Arpinati e Nanni, che aveva cercato di fare da scudo a Leandro, vengono uccisi nella tenuta agricola di Malacappa. E tutti e quattro, al di là dello loro diverse biografie politiche, muoiono sotto il fuoco dei partigiani.

Ma come mai è proprio la Romagna a rivelarsi terra d’elezione di questa vicenda dai tratti di tragedia greca? Già all’inizio dell’Ottocento George Byron aveva avuto modo di sperimentare, durante il suo lungo soggiorno a Ravenna, la particolarità di quella terra di ribelli e proprio lì il poeta, che morirà da eroe a Missolungi per la libertà dei greci, si sentì e si disse “carbonaro”. Così come anche lo scrittore e uomo politico Massimo d’Azeglio comprese che i romagnoli altro non erano che amanti della libertà, refrattari ai governi dispotici. La Romagna era stata d’altronde il teatro dell’epopea di Stefano Pelloni detto il Passatore, il fuorilegge che imperversò tra il 1849 e il 1851 tra le province pontificie, tenendo in scacco le polizie austriache e papaline. Sarà il futurista Bruno Corra a celebrarne la figura in un romanzo del 1929 e l’ultima lettera del Passatore immaginata dallo scrittore forse descrive al meglio tutto uno stato d’animo: “Quando la riceverete – sono le parole del brigante – io sarò morto: dite al mio babbo e alla mia mamma che Stefano Pelloni è morto a testa alta, senza una sola svanzica da parte. I denari che ho preso dalle tasche dei signori, li ho sempre passati nelle tasche dei poveri. E io non avrei mai fatto questa vita se non avessi trovato sulla mia strada un pretaccio velenoso e due porche spie”. Lo scrittore Raffaele Nigro, che alla figura dei fuorilegge ha dedicato un brillante studio – “Giustiziateli sul campo” (Rizzoli) – individua proprio nella vicenda del Passatore l’archetipo di un preciso ribellismo di tipo politico, spiegando che furono i protagonisti del Risorgimento a costruirne la popolarità: “Soprattutto Garibaldi, il più byroniano dei ribelli politici: da New York, dove è fuggito per scampare alle minacce di morte, Garibaldi fa sapere agli italiani che Pelloni è un patriota e in questo modo instaura un clima di simpatia che durerà per tutto l’Ottocento e oltre, fino a Giovanni Pascoli che conierà nella poesia ‘Romagna’ l’immagine del brigante ‘cortese / re della strada, re della foresta’…”.

In questo humus fu più che naturale un crescendo di sovversivismo protonovecentesco confuso tra il repubblicano, l’anarchico e il socialista. Non a caso Mussolini e Bombacci frequenteranno, anche se in anni diversi, il convitto magistrale di Forlimpopoli intitolato a Giosuè Carducci e il cui direttore era il fratello del poeta, Valfredo, mangiapreti che aveva chiesto l’assenza dell’insegnamento religioso. In questa stessa Romagna il popolino celebra la figura di Amilcare Cipriani, l’uomo più incarcerato d’Italia, il libertario romagnolo che aveva partecipato alla Comune di Parigi, e un certo anarchismo popolare trova adepti soprattutto nella classe artigianale, come nel caso di Alessandro, il fabbro papà di Mussolini. Lo stesso Benito ricorderà più volte i mesi trascorsi in prigione da lui (a Forlì con l’amico Pietro Nenni, dopo lo sciopero generale del 1911), ma anche dal padre Alessandro, ben due volte, e dal nonno Luigi, facendo capire che ogni rivoluzionario deve avere alle spalle un periodo passato in galera. Il leader del fascismo ci teneva a sottolineare – lo preciserà in più occasioni – che veniva da due generazioni di ribelli finiti dietro le sbarre.

Su questo particolare scenario “Sangue romagnolo” intreccia le vite dei quattro amici. Tutti e quattro abbracciano nell’adolescenza la causa socialista cercando di realizzare il proprio sogno comune: la speranza di cambiare la misera realtà in cui erano nati, l’orgoglio di vivere una vita degna di essere vissuta e di realizzare un mondo diverso. Poi, negli anni dell’interventismo, le loro strade si dividono e, dopo la Grande Guerra, le camicie nere di Mussolini deridono nelle loro canzoni Bombacci, amico e allievo di Lenin e fondatore a Livorno nel 1921 del Partito comunista d’Italia.

Leandro Arpinati, a sua volta, da militante socialista e sindacalista diventa un fascista della prima ora, assumendo l’incarico di podestà di Bologna e di sottosegretario mentre il suo fraterno amico Torquato Nanni, non abbandonerà mai l’originaria e adolescenziale scelta socialista. E se Mussolini aiuta economicamente il comunista Bombacci e ne verrà aiutato per far in modo che l’Italia fascista fosse il primo stato a riconoscere l’Urss e a stabilire con Mosca rapporti economici, il fascista Arpinati salva il socialista Nanni che stava per essere linciato dagli squadristi fiorentini. Non solo: lo stesso Torquato Nanni scriverà nel 1915 la prima biografia di Mussolini, quando il duce aveva solo 32 anni. D’altronde, il fascismo delle origini era un movimento di contestazione extraparlamentare nel cui programma si reclamavano “cose di sinistra” come la repubblica, la costituente, le otto ore lavorative, le libertà sindacali, il voto per le donne e persino l’abolizione della proprietà privata. Bombacci verrà però espulso dal Partito comunista. Mussolini sarà costretto a scelte geopolitiche dubbie e in contraddizione con la sua formazione ideale. Arpinati si opporrà alla deriva conformistica e illiberale del regime in nome “delle ragioni rivoluzionarie del fascismo oltre che delle proprie idee liberal-libertarie”. E anche lui verrà espulso dal suo partito, finirà al confino e, nell’ultima fase della sua vita, si ritirerà come Cincinnato nella sua tenuta agricola di Malacappa. Poi, per tutti e quattro, anche per il “sempre socialista” Nanni, che morirà da eroe per caso solo per fedeltà a un’amicizia, il tragico epilogo dell’aprile 1945.

Negli anni del secondo Dopoguerra i vecchi redattori dell’Avanti! raccontavano spesso del turbamento di Pietro Nenni di fronte a quei fatti. Quando, il 28 aprile del ’45, un giornalista entrò nella sua stanza di direttore del giornale del Psi per annunciargli la morte del suo amico di gioventù (e compagno di cella) Benito Mussolini, lui ammutolì e guardò a lungo nel vuoto. “Direttore, è tardi, bisogna fare il titolo”, gli ricordarono. E Nenni, assente e con un filo di voce, rispose: “Ah, sì, provate con ‘Giustizia è fatta’…”. Ma non ne sembrava affatto convinto. Triste, si rinchiuse in silenzio nella sua stanza, senz’altro rievocando le battaglie comuni della loro giovinezza e forse pensando, dopo quei giorni di tragedia, al futuro possibile di quel loro comune impasto di passione politica in una Italia che si stava apprestando a diventare democratica e repubblicana.

(di Luciano Lanna)

sabato 27 agosto 2011

Intervista al professor Cardini, tra appoggio occidentale alla rivoluzione e un futuro tutto da decifrare


La situazione libica domina i media di tutto il mondo. La frenesia degli ultimi accadimenti e le incertezze sul futuro concorrono a creare uno scenario poco chiaro su quello che capita nel Paese nordafricano. PeaceReporter ha intervistato Il professor Franco Cardini, storico e saggista, docente di Storia medievale all'Istituto italiano di Scienze umane a Firenze ed esperto di Medio Oriente e Islam, che commenta quello che succede in Libia, alla luce dei fattori storici, politici - interni ed internazionali - e culturali che hanno portato al collasso, o quasi, del regime di Gheddafi.

Come si è arrivati, in Libia, alla situazione attuale?

La situazione attuale in Libia si è generata in seguito alle oscillazioni del colonnello Gheddafi in politica internazionale e per la scarsa chiarezza delle sue posizioni, con i continui spostamenti rispetto ai possibili protagonisti della scena mondiale e rispetto al potenziale petrolifero libico. Anche, forse, per la situazione geopolitica generale, sia africana che mediterranea. Voglio dire che non ci si può continuamente spostare da simpatie panafricane ad ammiccamenti con quelli che noi, a torto o a ragione, riteniamo fondamentalisti, passando per atteggiamenti superficialmente filo Nato o filo statunitensi dell'ultima ora e poi, come ha fatto Gheddafi a partire dallo scorso anno, dopo esserci avvicinato ai paesi della Nato e soprattutto alla Francia, tornare sui suoi passi.
Come è accaduto in passato con Saddam Hussein, amico dell'Occidente, osannato e foraggiato in chiave anti iraniana, anche se sapevamo benissimo che sterminava i curdi, scaricandolo subito dopo quando ha minacciato di sostituire l'euro al dollaro come unità monetaria di riferimento nelle transazioni petrolifere irachene, abbiamo scoperto che era un dittatore quando non ci faceva più comodo. Questa volta non abbiamo commesso l'errore fatto in Iraq, con un intervento diretto, ma abbiamo sostenuto un intervento indiretto.

Cosa intende per intervento indiretto?

All'inizio del 2010 Gheddafi ha scoperto le carte, allontanandosi dalle potenze occidentali, lanciando segnali di vicinanza al blocco che si contrappone all'egemonia statunitense.
Le differenze con i blocchi della Guerra Fredda, con schieramenti molto netti, sono tante. In primo luogo il fatto che il potere decisionale è molto più nelle mani delle lobbies economiche che in quelle dei governi. Le divisioni, però, esistono. La Russia, la Cina, l'Iran, il Venezuela, piuttosto che paesi emergenti come Brasile e India, rappresentano un blocco alternativo rispetto a quello egemonizzato dagli Stati Uniti. Non si può parlare di Guerra Fredda, certo, ma una divisione esiste. E' un mondo che si muove, i blocchi interstatali e sovrastatali esistono e contano ancora. La Nato, ad esempio, esiste ancora e non sono neanche troppo chiari i suoi fini. La Cina, parlando chiaro, si sta mangiando l'Africa. La Libia, in questo gioco, con le sue riserve petrolifere, non poteva lasciare indifferente i paesi occidentali. Come nel 1956 a Suez. Per chi ha memoria di storia della diplomazia del Mediterraneo la similitudine con l'intervento anglo-francese contro il panarabismo di Nasser è evidente. Sono intervenuti anche questa volta. Con i finanziamenti, con i media, con la politica. Hanno sostenuto il movimento degli insorti in Libia, nato a Bengasi, dove è partita la rivolta. Gheddafi ha pagato la sua svolta dell'inizio del 2010, il suo ultimo cambio di campo. A caro prezzo. Francia e Gran Bretagna sono intervenute - e qui c'è un altro parallelismo con il 1956 - contro o senza l'assenso degli Usa. Le prove di questo appoggio ai rivoltosi ci sono, anche se in Italia non ne parla nessuno. La stampa francese, invece, lo sta denunciando con chiarezza. Lo scenario non è roseo. Potrebbe arrivare la guerra civile. Ma senza l'appoggio della Nato, che ha fatto la forza d'interposizione solo per un paio di giorni, poi è passata a bombardare unilateralmente i lealisti, non ce l'avrebbero mai fatta.

E l'Italia?

i nostri osservatori, ammesso e non concesso che ne abbiamo di validi, sapevano già come stavano andando le cose. Quando abbiamo firmato il Trattato di Amicizia, che poi altro non è che un trattato di non aggressione, e lo abbiamo fatto per una serie di motivi contingenti che ci hanno portato anche a tollerare le sue buffonate a Roma, sapevamo che stavamo cercando un piccolo vantaggio per le nostre imprese petrolifere, per un certo nostro business, pur consci di essere su un piano inclinato.
Quel trattato, firmato nonostante tutto, è stato disatteso. La nostra posizione attuale è quella di un Paese che dopo aver firmato un trattato di amicizia l'ha rotto unilateralmente e non bisogna dimenticarsene facendo finta di niente. Quando si parla di fedeltà alla parola data e agli impegni non si può privilegiarne alcuni rispetto ad altri, Noi siamo membri della Nato, ma siamo un Paese sovrano e avevamo stipulato un patto con la Libia governata da Gheddafi. Oggi il tiranno è in prima pagina, ma nessuno può dire che non si sapeva cosa faceva Gheddafi. L'abbiamo sempre saputo. Non sono d'accordo con il presidente della Repubblica Napolitano, e mi spiace, perché lo stimo molto, ma citando la nostra fefeltà ai trattati si dimentica che ancora una volta, come nel 1915 e nel 1943, l'Italia è venuta meno a un impegno internazionale. Come cittadino italiano mi sento in imbarazzo, in difetto.

Ma la Libia quanto è davvero un Paese unito?

La Libia non è mai stato un Paese unitario. I turchi lo sapevano benissimo e, fino all'aggressione militare italiana del 1911, tenevano ben distinti i governatorati di Tripolitania e Cirenaica. Il resto non è storia, sono chiacchiere. Tripolitania e Cirenaica son due cose diverse, nel mezzo c'è la Sirte, un deserto che separa queste due realtà molto più di quanto non farebbe un braccio di mare. La Cirenaica è un'appendice dell'Egitto, la Tripolitania è già area berbera, è già Maghreb. Son due cose distinte, diverse, abitate da tribù diverse. Se una vita nazionale condivisa in Libia c'è mai stata, è esistita solo durante il governo di Gheddafi. Adesso sta andando in onda il solito film della fine del tiranno, sempre uguale. Dietro questa storia c'è la solita retrobottega di smemoratezza. Dietro l'unità della Libia c'è quell'ufficiale affascinante, il bell'uomo che all'epoca della Rivoluzione stregava il mondo e che oggi è quel grottesco vecchietto in fuga. Sono la stessa persona. Per anni, in tutto il mondo arabo, Gheddafi ha goduto di un consenso secondo solo a quello goduto da Nasser. La Libia è, in definitiva, un Paese abitato da tribù arabe e berbere. Prima della rivoluzione era una terra di pastori e città costiere con un minimo di attività commerciale. Una borghesia libica non esisteva, se non nella componente ebraica della società, influenzata per vicinanza dall'Italia e dall'Egitto. Meno della Francia, attraverso la Tunisia. La Libia non è mai stata una nazione indipendente, con una sua identità forte. Poi è arrivato prima Graziani con i crimini di guerra, altro che 'italiani brava gente', e in seguito Balbo con una politica più accorta, a creare la Libia unita. Un regime coloniale, non uno Stato unito. La stessa parola Libia è una definizione moderna. Si tornerà alla situazione dell'impero turco? Non credo. Dopo il 1945 le potenze vincitrici hanno assegnato la Libia al Gran Senusso, il leader della famiglia tribale che godeva del prestigio religioso, i Senoussi, appunto. E' diventato il re della Libia. Una monarchia fasulla, che si reggeva su un sentimento religioso abbastanza condiviso, ma politicamente debole appoggiata soprattutto dagli inglesi. Fino alla rivoluzione socialista di Gheddafi. Se la Libia esiste come Paese, e forse non esiste neanche adesso, lo si deve alla rivoluzione. Tutto questo è stato travolto, perché anche il socialismo arabo è fallito.

Alla fine della guerra che Libia ci sarà alle porte dell'Europa?

Difficile dirlo. Quello che gli stati occidentali stanno cercando di fare è appoggiare un governo di coalizione tra le diverse anime e le diverse tribù della Libia. Ci sono elementi vicini all'Occidente, ma anche elementi che guardano con favore a un Islam radicale, compresa quell'area che un po' genericamente da noi viene definita al-Qaeda. In questo momento, tutte queste forze hanno un interesse comune, un nemico comune. La fine di Gheddafi, qualunque sia, è l'obiettivo condiviso. Ucciso, processato, suicidato non è importante...è finita. Difficile che non vada così. Dopo? Nessuna analisi seria è stata fatta fino a ora. Una borghesia illuminata, nella storia della Libia, manca. Nessun paragone con le società civili di Tunisi, del Cairo, di Damasco o di Amman. Siamo davanti a uno dei paesi arabi più arretrati da questo punto di vista. Anche perché, come detto, la Libia non è mai esistita prima della colonizzazione italiana. C'è una gran confusione e ciascuno tenta di accaparrarsi quello che può della Libia del futuro. In questo brilla la Francia di Sarkozy, senza intralci di sorta da parte dell'opposizione. Le potenze occidentali tenteranno in tutti i modi di tenere unite queste anime, per non far scivolare il Paese nella lotta tra bande. Anche se, in questi giorni, alcune fazioni dei ribelli si sparano già tra loro. Ma di questo sulla stampa italiana non c'è traccia. Lo scenario più probabile è quello di un governo di coalizione, a grandi linee filo occidentale e - almeno per i nostri mass media - democratico. Che si occuperà di spartire le ricchezze del Paese, come dimostra l'Italia, che in tutta fretta ha voltato le spalle a Gheddafi. Riusciendo, come l'Eni, a raccogliere le briciole lasciate dai francesi.

(fonte: www.peacereporter.it - di Christian Elia)

L'equivoco della "Destra di sinistra", anticattolica


Un giovane studioso che non proviene in alcun modo "da destra", Giovanni Tarantino, ha ricavato dalla propria tesi di laurea un pregevole volume su una componente sotterranea ma influente della Destra e della vita politico-culturale italiana: Da Giovane Europa ai Campi Hobbit. 1966-1986 Vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra (Controcorrente, Napoli 2011).

La matrice del fenomeno descritto nel volume è la Giovane Europa del pensatore belga Jean Thiriart (1922-1982), detto "l’occhialaio di Bruxelles" per la professione con cui si guadagna da vivere, non senza successo tanto che diventa presidente dell’Associazione degli Ottici Europei. Proveniente dalle fila socialiste e filosovietiche, durante la Seconda guerra mondiale Thiriart propone una grande alleanza in funzione antiamericana fra Sinistra europea e Terzo Reich, finendo così in prigione come collaborazionista dopo la caduta del nazismo. Nel 1960 fonda il Movimento di Azione Civica (MAC), da cui nasce nel 1963 Giovane Europa. Il nome è ispirato all’analoga organizzazione fondata da Giuseppe Mazzini (1805-1872), per cui l’ammirazione del pensatore belga non verrà mai meno. Il programma di Thiriart è chiaro: rivendicare l’identità e la centralità dell’Europa contro gli Stati Uniti, sganciandola dall’atlantismo e stringendo legami con i regimi - non importa se comunisti, purché critici nei confronti dell’imperialismo - più coerentemente antiamericani, dalla Cina comunista alla Jugoslavia di Josip Broz Tito (1892-1980), dalla Romania di Nicolae Ceausescu (1918-1989), all’Egitto di Gamal Abdel Nasser (1918-1970), poi anche all’Iraq di Saddam Hussein (1937-2006).
Thiriart non otterrà mai un significativo successo politico, ma influirà sulla successiva corrente culturale della Nouvelle Droite, la cui prima manifestazione pubblica può essere fatta risalire alla fondazione nel 1968 in Francia - cui partecipa Alain de Benoist - del GRECE, il Gruppo di ricerca e di studi sulla civiltà europea.

Il libro di Tarantino rintraccia la diffusione in Italia - uno dei Paesi dove Thiriart, nella quasi assoluta indifferenza dei grandi media, diventa più popolare - delle idee e, almeno inizialmente prima che sia distrutta da dissensi interni, della stessa affiliazione alla Giovane Europa, che unisce personalità così diverse come il futuro leader delle Brigate Rosse Renato Curcio - per breve tempo capo della sezione di Albenga dell’organizzazione -, il futuro deputato europeo della Lega Nord Mario Borghezio - al centro di un gruppo thiriartiano nato al Liceo Classico Cavour di Torino in contrapposizione alla Sinistra studentesca che dominava il liceo classico tradizionalmente rivale, il D’Azeglio -, il futuro vignettista del Giornale Alfio Krancic, il futuro vicesindaco socialista craxiano di Torino Enzo Biffi Gentili e lo storico cattolico Franco Cardini. Lo stesso Cardini - che da qualche tempo torna spesso nei suoi articoli e interviste a Thiriart e a idee che afferma di non avere mai rinnegato - firma la prefazione del volume di Tarantino, mentre la postfazione è di un altro accademico proveniente da Giovane Europa, Luigi de Anna, che la carriera universitaria - ma anche una sorta di volontario esilio - ha portato fino alla lontana Finlandia. I due accademici, de Anna e Cardini, fanno parte di coloro che non hanno rinnegato le idee giovanili, pur vedendone oggi qualche limite; ma - come nota lo stesso de Anna - qualcosa continua a unire tutti coloro che negli anni 1960 hanno camminato insieme a Thiriart, così come - si potrebbe dire - dall’altra parte dello spettro politico italiano qualcosa unisce chi ha a suo tempo militato in Lotta Continua.

Gli italiani che aderiscono a Giovane Europa importano dalla Francia e dal Belgio un simbolo che rimarrà presente in una certa destra fino a oggi, la croce celtica. Iniziano un difficile rapporto con il Movimento Sociale Italiano, cui molti di loro s’iscrivono e di cui aderenti di Giovane Europa come Marco Tarchi diventano importanti dirigenti giovanili. Dopo l’alluvione di Firenze del 1966 stupiscono i pochi giornali disposti a interessarsi di loro andando a collaborare al recupero dei libri e delle opere d’arte in pericolo e lavorando come "angeli del fango" a fianco di volontari cattolici e comunisti. Nel 1968 un buon numerò di loro aderisce alla contestazione studentesca considerandola un movimento anti-imperialista, antiborghese e antiamericano, manifesta contro la guerra del Vietnam e s’innamora del rivoluzionario argentino-cubano Ernesto "Che" Guevara (1928-1967). Dapprima incuriositi, i sessantottini di sinistra finiscono per reagire con la violenza contro questi compagni di strada che, dopo tutto, rimangono "fascisti".

Giovane Europa, così, termina la propria esistenza in Italia come organizzazione unitaria e si spacca in tre componenti. Una, prevalente nelle regioni più meridionali, torna all’anticomunismo e a un progetto di unità di tutta l’estrema Destra contro i "rossi". Un’altra, nel Centro-Sud, si concentra sui temi economici, s’ispira al populismo del presidente argentino Juan Domingo Perón (1895-1974) e influirà sull’incubazione della successiva "Destra sociale". La terza, «rappresentata - scrive Tarantino - dai gruppi del Centro-Nord e da buona parte dei quadri dirigenti», continua nonostante tutto a perseguire «l’unità con i maoisti e propone Ho Chi Minh (1890-1969) e [Fidel] Castro come modelli da seguire». Tra chi compie questa scelta un nome noto è quello di Claudio Mutti che, dopo avere teorizzato il nazi-maoismo, finisce per convertirsi all’islam.

Ma qualcosa sopravvive. Nel 1974 molti di coloro che avevano aderito a Giovane Europa si ritrovano nella fondazione del giornale satirico La voce della fogna, che riprende ironicamente e "al contrario" lo slogan delle manifestazioni antifasciste, «Fascisti carogne tornate nelle fogne». Il giornale diventa famoso per fumetti di qualità di cui sono autori Jack Marchal, enfant prodige della Nuova Destra francese e "Gamotta", cioè Gilberto Oneto, che più tardi aderirà alla Lega Nord. Attorno a La voce della fogna nasce una controcultura di destra sensibile alle nuove forme espressive: la grafica, le radio libere, il fumetto, le nuove forme musicali, con la nascita di complessi come La Compagnia dell’Anello, il cui percussionista - Adolfo Morganti - anni dopo darà vita con Cardini all’associazione Identità Europea. Anche la prima generazione di Giovane Europa resta vicina all’ambiente de La voce della fogna, dove Cardini e de Anna, scrive Tarantino, sono «rispettivamente "l’Amilo ke sai" e "Il Re di Thule"», mentre con lo pseudonimo di Anfitrione scrive Biagio Cacciola, allora presidente dell’organizzazione universitaria del MSI, il FUAN, all’Università di Roma, il FUAN-Caravella.

Nel 1977 la nuova ondata della contestazione porta l’ambiente che proviene da Giovane Europa a un ulteriore tentativo di collaborazione con le rivolte studentesche e con gli "indiani metropolitani". Quello della partecipazione rilevante di giovani di questo ambiente all’episodio saliente della contestazione del 1977, la cacciata del dirigente sindacale Luciano Lama (1921-1996) dall’Università di Roma, è secondo Tarantino in gran parte una leggenda urbana abilmente costruita, ma è sintomatica del clima di allora. Tra i protagonisti dell’episodio - o della sua invenzione - c’è Umberto Croppi, la cui vicenda - che passerà per i Verdi e per la fondazione dell’associazione contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino prima di approdare all’assessorato alla cultura della prima giunta Alemanno a Roma fra il 2008 e il 2011, poi a Futuro e Libertà - è emblematica di una delle sensibilità che animano la cultura ex Giovane Europa, quella ecologista.

Questa sensibilità è ben presente nel primo Campo Hobbit, tenuto l’11 e 12 giugno 1977 a Montesarchio (Benevento) e organizzato per iniziativa di Generoso Simeone, che all’epoca collabora con il dirigente del MSI Teodoro Buontempo - oggi con La Destra di Francesco Storace - alla radio e rivista romana L’Alternativa. Buontempo non condivide molte idee di matrice thiriartiana ma prende sotto la propria protezione un gruppo che gli sembra in grado di portare aria nuova nel partito. I giornalisti di sinistra che vanno a Montesarchio scoprono con loro sorpresa una "Destra" movimentista e postsessantottina che ama la cultura "alternativa", detesta gli Stati Uniti e diffida dell’atlantismo del segretario del MSI Giorgio Almirante (1914-1988). Il riferimento agli eroi di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) non allude tanto al cristianesimo dello scrittore britannico quanto alla sua paradossale popolarità tra gli hippie, che in quegli anni in America scrivono sui muri «Frodo è vivo».

Ma qual è la prospettiva politica di questo gruppo? Un uomo politico italiano che si pone la domanda è Bettino Craxi (1934-2000), che ne recupera individualmente alcuni componenti, tra cui uno dei membri del nucleo originario vicino a Thiriart, Biffi Gentili, che diventa a partire dal 1980 prima assessore e poi vicesindaco per il PSI nelle giunte di sinistra che reggono il Comune di Torino. Altri - più direttamente ispirati alla Nouvelle Droite francese - organizzano a partire dal 1980 convegni annuali per una "Nuova Destra" italiana, il cui principale ispiratore è Tarchi. Le tensioni con Almirante - che già nel 1977 al congresso dell’organizzazione giovanile del MSI Fronte della Gioventù aveva imposto come segretario Gianfranco Fini, benché Tarchi fosse stato il più votato dall’assemblea - si fanno sempre più forti, finché nel 1980, dopo che il terzo Campo Hobbit era stato organizzato nonostante il divieto del segretario del MSI, Tarchi è espulso dal partito.

I convegni della "Nuova Destra" italiana continuano - cercando sponde, o almeno interlocutori, in un mondo vasto e disparato che va dai Verdi a Massimo Cacciari e a Comunione e Liberazione -, ma il movimento che era nato dai discepoli italiani di Thiriart è alla fine. Le sue varie generazioni si ritroveranno però a firmare manifesti contro gli Stati Uniti e le guerre in cui sono impegnate le Amministrazioni americane, dal Kosovo all’Iraq. E una parte del mondo che aveva percorso l’itinerario descritto da Tarantino o talora solo le sue ultime tappe - Flavia Perina, Carmelo Briguglio, Fabio Granata, lo stesso Croppi - aderirà, per evidenti anche se non complete affinità, all’esperienza di Futuro e Libertà dell’ex nemico Fini. Relativamente pochi esponenti della corrente studiata da Tarantino aderiranno al PDL - fra questi l’attuale senatore Emiddio Novi - mentre altri, come il futuro sottosegretario DS Massimo Brutti, già cofondatore della formazione filosessantottina di destra contigua ai gruppi thiriartiani denominata "Forza uomo" - passano direttamente al PCI.

L’eccellente volume di Tarantino ha a mio avviso una lacuna. Sottovaluta la carica anticristiana e, specificamente, anticattolica che era al centro della Nouvelle Droite francese e in particolare del pensiero di de Benoist ai tempi del GRECE, che recuperava spunti anticristiani da fonti disparate che andavano dal neopaganesimo al neopositivismo. Avendo dedicato il mio primo saggio di un certo impegno - GRECE e Nouvelle Ecole, apparso sul periodico Cristianità nel dicembre 1977 - alla sistematica ricognizione e denuncia dell’anticristianesimo della Nouvelle Droite e di de Benoist sono particolarmente sensibile al tema, e persuaso che l’avversione alla Chiesa non fosse marginale ma centrale in questa corrente.

Com’è possibile dunque che cattolici discepoli a Firenze di un tradizionalista come Attilio Mordini di Selva (1923-1966) - di cui Tarantino rievoca un incontro fiorentino con Thiriart - abbiano abbracciato con entusiasmo una corrente di questo genere? È una domanda che il volume non si pone, ma cui si può tentare una risposta. L’insufficiente giudizio critico sul fascismo di Mordini - che pure ha scritto belle pagine su più di un tema - rese forse i suoi discepoli impreparati a valutare per quella che era non solo la lontananza, ma la pericolosità per il cristianesimo di Giovane Europa e poi della Nouvelle Droite.

Cardini, nella prefazione, ci rivela la chiave che permette di comprendere questo percorso. Il punto di partenza è una «destra tradizionalista e antigiacobina» che apprezza l’Europa tradizionale, cristiana e corporativa del Medioevo, ritenendo però che questa Europa sia stata non solo ferita ma uccisa dalla modernità, dalla Rivoluzione francese e dal conservatorismo liberale borghese del secolo XIX. Quello che viene dopo non ha più nulla a che fare con l’Europa tradizionale e cristiana, anzi ne è il nemico, insieme agli Stati Uniti che rappresentano secondo questa prospettiva la quintessenza dello spirito borghese, anti-tradizionale e massonico. Semmai, lo spirito della tradizione sopravvive nel mondo islamico e nei popoli in lotta contro l’egemonia imperialista statunitense. Di qui, scrive Cardini, un processo per cui questa "Destra" finisce «con l’incontrarsi, se non con il fondersi, con frange della sinistra» - secondo la ricostruzione dello storico israeliano pacifista Zeev Sternhell -: un incontro che si esprime «in alcuni ambienti sia pur marginali del "movimento" fascista» - da non confondersi con «il regime [che] si lasciava largamente imprigionare e gestire dalle istanze conservatrici-liberali» -, dell’Action Française, del falangismo spagnolo e dei movimenti della «rivoluzione conservatrice» in Germania e altrove. A guerra perduta, a chi condivideva questa visione della storia non restava che sposare «una politica europeista e socialista», anzitutto antiamericana alla scuola di Thiriart: «plaudimmo a Nasser e a Castro, c’innamorammo del "Che" Guevara», scrive Cardini nella prefazione, che conclude affermando di non avere «nulla di cui vergognarci, nulla di cui pentirci, nulla da rinnegare. Hasta siempre, comandante».

Qui sta il punto di separazione radicale fra questa corrente - che Cardini ammette essere rimasta sempre molto minoritaria e sostanzialmente priva di prospettive politiche - e la "Destra" come comunemente la s’intende, e tanto più con una Destra cattolica convinta che l’Europa - dopo le tragedie del protestantismo e della Rivoluzione francese - sia ferita, ma non sia morta; che le sue radici siano sepolte in profondità, ma ancora esistenti e vive; che il socialismo e il comunismo - compresi Castro e Che Guevara - siano una logica conseguenza all’interno dello stesso processo rivoluzionario, non un’alternativa, al liberalismo della Rivoluzione francese. Che all’interno del mondo islamico viva un fondamentalismo che intende distruggere quanto dell’Europa ancora resta, e che non è un modello - come pensano "tradizionalisti" più o meno influenzati, anzi forse tanto più influenzati quanto più negano di esserlo, dall’esoterista francese convertito all’islam René Guénon (1886-1951) -, ma un avversario. E che gli Stati Uniti d’America - una realtà plurale, così che ci sono molte Americhe, e l’Alabama non è uguale a Hollywood o a Manhattan - abbiano molti difetti, ma - come ha affermato Benedetto XVI nel suo storico viaggio a Washington nel 2008 - siano nati da «un modello fondamentale e positivo», che ha voluto costruire, pur tra luci e ombre, «un paese in cui la religione e la libertà sono "intimamente legate"», le cui carte di fondazione si fondano sul diritto naturale e su «un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore», forgiando una nazione che «ha fiducia in Dio e non esita ad introdurre nei discorsi pubblici ragioni morali radicate nella fede biblica».

Due piccoli episodi descritti da Tarantino sono indicativi dei problemi della corrente da lui studiata. Quando Almirante espelle Tarchi dal MSI, l’oppositore interno di Almirante - Pino Rauti, della cui corrente Tarchi è sostanzialmente il numero due - non lo difende, anzi ne avalla l’espulsione. Un rapporto, stilato qualche tempo dopo da "fedelissimi" rautiani e - secondo Tarantino - condiviso dal giovane Gianni Alemanno, allora segretario del Fronte della Gioventù di Roma, denuncia in tutto l’ambiente ex Giovane Europa non solo fremiti «filopalestinesi, khomeinismi, in qualche caso addirittura mussulmani» ma anche «germi anarcoidi e libertari» e una deriva «dichiaratamente abortista». Al di là delle beghe interne del MSI di allora, il documento coglie nel segno. E ricorda pure che, per impostare correttamente la questione di che cosa sia un’autentica "Destra", questioni come quella dell’aborto non possono essere liquidate come secondarie ma sono, al contrario, essenziali.

Il secondo episodio riguarda la partecipazione del politologo cattolico-democratico Giovanni Tassani a un convegno organizzato da Tarchi a Firenze nel 1982, cioè dopo la sua espulsione dal MSI. Tassani, che pure si sforza d’interloquire con il mondo di Tarchi con un vero dialogo, pone in quel convegno, forse in modo provocatorio, una questione fondamentale: ormai - afferma - la "Nuova Destra" si pone come una realtà che vuole andare al di là della Destra, verso un «mitico altrove». Lo stesso de Benoist, come ricorda Cardini in una recente intervista a Megachip del 17 luglio 2011, ebbe quello che per lo storico fiorentino è il merito di «avere "rotto" con la massima chiarezza con qualunque equivoco "di destra", proponendo di non parlare più di "Nuova Destra" bensì di "Nuove Sintesi"». Senonché, obiettava Tassani già nel 1982, l’altrove oltre la Destra è soltanto "mitico". Oltre la Destra c’è qualcosa, c’è da sempre: e si chiama Sinistra. Quando, come fa Cardini nella stessa intervista, si afferma che le proprie posizioni si «identificano largamente» con quelle del guru della Sinistra radicale statunitense Noam Chomsky, quando s’inneggia a Che Guevara o al leader palestinese Yasser Arafat (1929-2004), che senso ha continuare a palare di destra? Per dirla con un proverbio degli odiati statunitensi, se qualcosa cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra è molto probabile che sia un’anatra. E se qualcuno marcia con la Sinistra e parla come la Sinistra, è molto probabile che sia di sinistra.

(di Massimo Introvigne)

La favolosa guerra dei media



Il figlio di Gheddafi che viene catturato e poi ricompare baldanzoso nella notte. Tripoli che insorge, mentre invece la città è assalita da combattenti venuti da fuori. Festeggiamenti a Bengasi fatti passare per l'esultanza dei tripolini. Un regime dato per finito che dopo tre giorni continua a bombardare il centro della città. Inviati in elmetto che mettono in posa i combattenti per riprenderli. Dirette dalla battaglia in cui si vedono solo tetti e il fumo in lontananza...

Più che di «nebbia della guerra» si dovrebbe parlare di una guerra televisiva che ha ben poco a che fare con quello che succede, ma rientra in una strategia mediale mirata a confondere le acque sia agli occhi dell'opinione pubblica occidentale, sia a quelli del regime di Tripoli. D'altronde si sa che al Jazeera è la voce dei regimi arabi moderati, a partire dal Quatar, molto attivo sul campo nell'assistenza (anche militare) ai ribelli libici, e che i conservatori inglesi hanno strettissimi rapporti con Murdoch, il padrone di Sky. Fatti i conti, è chiaro che gran parte dei media racconta una guerra immaginaria, mentre i loro sponsor, Cameron, Sarkozy e Obama incrociano le dita sperando che la guerra vera vada proprio come sperano.
Ma la guerra vera è tutt'altra cosa da quella raccontata in prima pagina. Basta analizzare i servizi più meditati sulle pagine interne dei grandi quotidiani internazionali.

L'avanzata dei ribelli è stata resa possibile (al 70 per cento, dice il Corriere della sera) dalla Nato, con tanto di istruttori e forze speciali in prima linea (francesi, inglesi, americani, quatarioti: la conferma è venuta ieri da «fonti» dell'Alleanza atlantica citate dalla Cnn). Quelli dell'ovest hanno ben poco a che fare con i bengasini, guidati da gente come Jalil e Jibril (e forse Jalloud), che se mai Gheddafi fosse processato, si troverebbero al suo fianco sul banco degli imputati (ed ecco spiegata la taglia sul Colonnello). E poi, anche se i gheddafiani smettessero domani di combattere, nessuno ha un'idea di quelle che succederebbe dopodomani, con un paese diviso in fazioni armate, inferocito, pullulante d'armi, con una quantità di conti da regolare con i perdenti e tra i vincitori (l'eliminazione dell'ex-comandante Younes insegna).

Come tutto questo sia fatto passare, anche a sinistra, per una mera lotta di liberazione o un risultato della primavera araba si spiega solo, anche da noi, con la confusione che regna in un'Europa preoccupata da un'economia traballante e guidata da un paio di leader ossessionati dalla rielezione (Sarkozy) o che hanno le loro gatte da pelare (Cameron).

Saranno bastati i bombardamenti «mirati» o umanitari, come straparlano gli Henry-Levy o i giustizialisti da prima pagina di casa nostra, a gettare le premesse di una società civile o democratica in Libia? Non c'è da crederci molto.

Ci rallegriamo quando cade un dittatore, certamente. Qualsiasi cosa è meglio di Gheddafi, forse. Ma, come ha scritto ieri un commentatore sul Guardian, se i mezzi sono sbagliati, questo alla fine influisce sul risultato. Inglesi e americani hanno creato un'instabilità senza fine in Iraq. La Nato si è impantanata in Afghanistan. In attesa che qualche anima bella proponga di intervenire in Siria, ecco che si suggerisce a mezza bocca la permanenza di forze Nato in Libia per «stabilizzare» il paese.

Tutto questo ha a che fare con la «rivoluzione»? Ma non è solo una questione di parole. Quello che semmai stupisce è che, a parte qualche conservatore d'esperienza come Sergio Romano, ben pochi in Italia, e soprattutto a sinistra, si interroghi sulle prospettive di questa crisi libica. E cominci a interrogarsi sull'incredibile distonia tra una guerra magnificata dai media e quella vera, in cui gli uomini muoiono, anche se non ne sapremo mai il numero.

(fonte: www.ilmanifesto.it - di Alessandro Dal Lago)

venerdì 26 agosto 2011

Il Foglio non è più solo: la “favolosa guerra dei media” demistificata dal Manifesto


Conforta sapere, grazie ai compagni del Manifesto, che non siamo i soli ad avere eccepito sulla spedizione di Libia anche per come ce la raccontano i maestri cantori della liberazione dal tiranno di Tripoli. L’abbiamo definita “guerra stupida”, perché senza capi né code di comete a tracciare una prospettiva nel cielo delle strategie occidentali; ovvero “guerra profumata”, perché spruzzata di conformismo umanitarista anglo-francese per coprire il fondo limaccioso degli interessi elettorali e petroliferi coltivati dai volenterosi europei (quel profumo era talmente adulterato che non ha convinto nemmeno un principe delle guerre profumate come Barack Obama). Si può parlare anche di circo mediatico-militare, come ha scritto il Foglio settimane fa, e bensì di “favolosa guerra dei media” secondo la formula usata sul Manifesto di ieri da Alessandro Dal Lago, intellettuale di una sinistra troppo avveduta per bersi “una guerra televisiva che ha ben poco a che fare con quello che succede”. Tanto per rendere l’idea, è quel Dal Lago che ha dedicato alla banalità del robertosavianismo un pamphlet pressoché definitivo.

Ora l’intellò del Manifesto denuda il ruolo anti veritativo della narrazione libica proveniente da al Jazeera e da Sky, vale a dire gli arabi miliardari del Qatar infeudati con i servizi segreti di mezzo mondo e gli australo-britannici protettori di David Cameron. Si aggiungano le prefiche dell’Eliseo sempre in assetto di guerra umanitaria (Bernard-Henri Lévy e dintorni) e si otterrà il ritratto d’una confraternita di contrabbandieri. Di che cosa? Anzitutto di un’epica immaginaria alimentata dai fotogrammi sulle finte fosse comuni d’inizio rivolta (vecchi cimiteri nemmeno disordinati), dai proclami sulle sorti di Gheddafi (morto, ferito, circondato, fuggito, spacciato, da ultimo acquattato in una buca come Saddam prima dell’epilogo) e dei suoi figli, dal censimento delle città e dei quartieri nemici conquistati dai ribelli (e spesso invece nelle mani dei lealisti). Per non dire della reale qualità ideologica e militare delle tribù insorte in Cirenaica, tanto magnificate quanto dipendenti dalla Nato e dalle forze speciali europee per unità d’intenti e consistenza bellica, o dei loro capi fratricidi dal curriculum specchiatamente gheddafiano. E in effetti questa meccanica informativa è parsa subito limpidamente speculare alla disinformazione del regime di Tripoli. Ma allora dov’è il sovrappiù morale della comunicazione democratica?

Dal Lago rafforza la sua analisi volgendo lo sguardo ai leftist inglesi del Guardian: “Se i mezzi sono sbagliati, questo alla fine influisce sul risultato”. Poi rivolge un quesito retorico al mondo che gli è consanguineo, come cioè “tutto questo sia fatto passare, anche a sinistra, per una mera lotta di liberazione o un risultato della primavera araba si spiega solo, anche da noi, con la confusione che regna in un’Europa traballante e guidata da un paio di leader ossessionati dalla rielezione (Sarkozy) o che hanno le loro gatte da pelare (Cameron)”. E non è ancora chiaro come si potrà colmare, senza prima caderci dentro, il dislivello tra la guerra percepita e lo smarrimento per gli effetti del conflitto reale.

(di Alessandro Giuli)

domenica 21 agosto 2011

«Viva l'Italia!» stretta tra Destra e Sinistra


Viva l'Italia! Viva l'Italia della Nazione e non della fazione, viva l'Italia dei vincitori e dei vinti, viva l'Italia non più avvelenata dalle memorie divise ma risanata dalle memorie condivise. Viva l'Italia pacificata. Viva l'Italia, così intelligente, così adulta, da poter cantare insieme «Giovinezza» e «Bella ciao», perché l'una e l'altra fanno parte della nostra storia e del nostro immaginario, e se è vero che fascisti e partigiani ne hanno fatto le loro contrapposte «chansons de geste», è altrettanto vero che la prima nasce come inno goliardico composto nel 1909 dai torinesi Adolfo Oxilia e Luigi Blanc, e che l'altra ha le sue belle origini nazionalpopolari nei canti delle mondine e di tutti i lavoratori impegnati nel duro «mestiere di vivere».

Viva l'Italia che non ha paura e che sul palcoscenico di San Remo le presenta tutte e due, le racconta, le canta senza tremori nella voce. Promessa non mantenuta, per «fifa blu» di polemiche e minacce, e chissà se si ripresenterà un'occasione del genere… Noi apprezziamo molto Aldo Cazzullo, «firma» tra le più civilmente impegnate del «Corriere» e speriamo proprio che stasera, nell'ambito di «Cortina InConTra», dia sostanza viva a sogni-bisogni molto più diffusi di quanto non si creda. Anche perché il suo libro («Viva l'Italia», Mondadori) non è soltanto una ricognizione storica e culturale tra poeti-profeti che vaticinarono identità ed unità, ed eroi che ad essa si immolarono, ma è anche un appello, se si preferisce, un «manifesto», che ammonisce gli Italiani a non disperdere la loro «eredità di affetti», esortandoli anzi a ritrovarla e a tonificarla, perché Patria è tutt'altro che una parola vuota e priva di senso, al di là della retorica celebrativa con tanto lacrimucce e battiti di cuore «come da copione».

Insomma: viva l'Italia perché l'Italia è viva. Ovviamente, a dispetto di errori e orrori di una classe dirigente che non sa dirigere e di una opposizione che non si sa opporre. E ancor più a dispetto di chi coltiva mire secessionistiche, con un bel muro che separi i nordisti dai sudisti. Viva l'Italia.

Ma indubbiamente grande è la confusione sotto il cielo. Cazzullo lo sa bene, perché tante volte si è occupato dei problemi del «Paese reale» così malamente o distrattamente o contraddittoriamente governato dal «Paese legale» («legale»? Mah...). Viva l'Italia.

Lo diciamo insieme a Cazzullo, con uno sventolante «cuore tricolore». Ma bisogna anche dire «attenti! Qui è tutto da rifare!» visto che nel nostro Paese al posto della certezza del diritto c'è quella del delitto (la quasi- certezza, mettiamola in questo modo, che il delitto, «in grande», resta impunito o che le punizioni ci sono o non ci sono). Ma siccome, caro Cazzullo, eravamo partiti dalla storia patria che non è, non può essere mai storia di parte, meno che mai storia della parte vincente che bolla i vinti come brutti, sporchi e cattivi da qui all'eternità; bene, lasciamo un attimo l'attualità politica, facciamo finta di non vedere gli scenari disastrosi a cui gli «esperti» parrebbero voler incatenare il nostro futuro, e poniamoci solo questo piccolo interrogativo: l'abbiamo festeggiata davvero l'«Unità»? A noi non sembra. Tutti belli e splendenti i santi nel Pantheon delle glorie nazionali- Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II - come se le cose dette e fatte li vedessero sempre d'amore e d'accordo, ma ben poche considerazioni, almeno da parte di una ufficialità propensa soprattutto a gigionerie e giaculatorie, sul fatto che ognuno aveva in testa un'Italia tutta «sua» e che non pochi furono i battibecchi e le scaramucce sanguinose sul fronte «unitario».

E chi stava dall'altra parte? Ormai ce ne sono a iosa di saggi «revisionisti» sul Sud piuttosto «conquistato» che «liberato», e sulla sanguinosa guerra civile che ne seguì: eppure, una parola su quei «vinti non convinti», capace di spiegare chi erano, in che cosa credevano, per che cosa si battevano; una parola del genere non è venuta né dalla sommità del Colle né da altri piani meno elevati. Chissà se stasera la spenderà proprio Cazzullo. E chissà se ci parlerà anche di un'altra guerra civile ancora non risanata: quella che tra il '43 e il '45 divise gli Italiani e ancor oggi li divide. Viva l'Italia.

Ma se parliamo di Resistenza, raccontiamole tutte le «resistenze», ad esempio quella di Francesco De Gregori (zio dell'omonimo cantautore). E poi, visto che il Francesco De Gregori cantante ha composto non solo una sua «Viva l'Italia» ma anche «Il cuoco di Salò», perché non provare a leggere le lettere dei condannati a morte della RSI, insieme a quelle dei condannati a morte della Resistenza? Sapete, dall'una e dall'altra parte, le più belle si concludono con un appassionato, unificante «Viva l'Italia!».

(di Mario Bernardi Guardi)

L'estrema unzione a Zapatero

Papa Ratzinger ha dato l’estrema unzione al governo di Luis Zapa­tero forse alla sua ultima comparsa pubblica. La Spagna di Zap ha perso la vitalità dei decenni precedenti e ha saputo solo rompere con la sua storia e la sua indole, i suoi legami civili, reli­giosi, nazionali e popolari. La Spagna olandesina di oggi cede il passo alla Spagna di ieri e di domani. La parabo­la di Zapatero è il succo concentrato della sinistra europea e atlantica. Co­me Obama, Zap ha goduto di consen­si e appoggi mediatici e internaziona­li enormi, ma ha tradito pure le spe­ranze della sinistra.

In quasi tutta Eu­ropa la­ sinistra al governo non ha pro­mosso giustizia sociale, tutela dei più deboli, vera accoglienza, primato del­l­a politica sull'economia e della socie­tà sulle oligarchie, ma è stata anzi la guardia del corpo di quel sistema, in versione politically correct . In com­penso ha contribuito a spezzare i le­gami che tengono unita una società: la famiglia, le nascite, il senso religio­so, nazionale e naturale, le tradizio­ni, i limiti e i sacrifici.

Da decenni op­pone figli a padri, donne a maschi, gay a etero, ambiente a gente, islami­ci a cristiani, immigrati a compatrio­ti, vite e morti artificiali a vite e morti naturali. Dell'emancipazione ha col­­to il lato conflittuale, figlia com'è del­la lotta di classe. Una pseudo-destra sbracata l'ha seguita a ruota, crescen­do sulle sue devastazioni. Ora che urge un rinato legame so­ciale per fronteggiare la crisi non sa dove andarlo a prendere. O va a costi­tuirsi col rosario al meeting di Cl con il benemerito Napolitano.

(di Marcello Veneziani)

Il vero deficit è dei valori


In un articolo pubblicato sul Corriere il 17 agosto (“Il vero disavanzo delle democrazie) il settantenne Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia contemporanea all’Università Vita-Salute del San Raffaele (curiosa parabola per uno che era partito comunista e si è scoperto, al momento opportuno, liberale e forse anche pio), storico che non ha mai scritto un libro di storia, risvegliandosi da un letargo durato quasi mezzo secolo, da quando era un giovane e promettente collaboratore dell’Einaudi, scopre che il deficit dei sistemi democratici sta nella loro mancanza di valori o, per usare il suo linguaggio contorto, nella loro “unidimensionalità economicista”. Geniale.

Nel mio spettacolo teatrale del 2004 Cirano, se vi pare… dicevo: “La democrazia è un metodo, un sistema di forme e di procedure, non è un valore in sé e non produce valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato sul quale la democrazia è nata, mentre facevano ‘tabula rasa’ dei valori precedenti, non sono stati in grado, in due secoli, di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili”. In realtà nella pièce riprendevo concetti espressi quasi un quarto di secolo prima ne La Ragione aveva Torto? e ribadite poi in Denaro. Sterco del demonio (1998), nel Vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (2002) e in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (2004).

In realtà la democrazia, almeno così come si è storicamente determinata, non è che l’involucro legittimante del modello di sviluppo basato sul mercato. E il mercato, che è uno scambio di oggetti inerti, non può produrre valori, né laici né di qualsiasi altro tipo. L’unica divinità veramente condivisa è il Dio Quattrino. E la vera debolezza dell’Occidente democratico (in questo Della Loggia ha ragione, anche se arriva fuori tempo massimo), lo vediamo in rapporto con altre culture, Islam in testa, proprio in questo vuoto di valori.

Bisogna aggiungere che la democrazia, perlomeno quella rappresentativa, non solo non aiuta a costruire valori condivisi, ma sembra il sistema perfetto per demolirli. La liberal-democrazia si è infatti venuta strutturando, contro le intenzioni dei suoi padri fondatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis de Tocqueville), come un sistema di partiti in competizione fra di loro. I partiti per conquistare consensi hanno bisogno di apparati (il voto di opinione, secondo lo stesso Norberto Bobbio, gran studioso e strenuo difensore della democrazia, “è solo quello di coloro che non votano”). Per mantenere gli apparati hanno bisogno di soldi, per procurarseli li drenano illegalmente dal settore pubblico, di cui si sono impossessati, o da quello privato tenendo l’imprenditoria sotto ricatto (o mi dai la tangente o non vincerai mai un appalto). Essendo abituati a corrompere o a farsi corrompere per superiori esigenze di partito, i dirigenti politici diventano, quasi sempre, dei corrotti in nome proprio. Questa corruzione pubblica trascina fatalmente con sé i cittadini (se rubano loro perché non dovrei farlo anch’io?) spazzando così via tutta una serie di valori, onestà, lealtà, dignità, che tengono insieme una comunità.

A ciò si aggiunge che i partiti, pur di non scontentare i rispettivi elettorati, perdono completamente di vista l’interesse nazionale. E questo non è un vizio solo italiano se in America, Paese che deve le sue passate fortune a un fortissimo senso di appartenenza nazionale, repubblicani e democratici si stanno scannando da mesi mentre il loro Impero rischia di crollargli sotto i piedi. Per cui sento di poter dire che l’attuale crisi economica non è solo il segno del fallimento di un modello di sviluppo ma anche del suo involucro legittimante: la democrazia.

(di Massimo Fini)

venerdì 19 agosto 2011

Strage di Bologna: indagati due terroristi tedeschi


Dopo 31 anni, potrebbe essere arrivato il momento di riscrivere la storia della strage di Bologna. L’inchiesta bis aperta sulla bomba che il 2 agosto 1980 sventrò la stazione uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200 è infatti a una svolta clamorosa. Per la prima volta ci sono due nuovi indagati, che appartengono ad ambienti opposti rispetto al terrorismo nero di Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, condannati in via definitiva per l’eccidio. Il procuratore Roberto Alfonso e il pm Enrico Cieri, a pochi giorni di distanza dall’ennesimo, doloroso, anniversario, hanno iscritto sul registro degli indagati i terroristi tedeschi di estrema sinistra Thomas Kram, 63 anni, e Christa Margot Frohlich, 69. Entrambi legati al gruppo del famigerato terrorista internazionale Carlos lo Sciacallo, al secolo Ilich Ramirez Sanchez, attualmente detenuto in Francia.

Il nuovo scenario che prende corpo è quello della cosiddetta ‘pista palestinese’, secondo cui la strage fu una vendetta del Fronte popolare per la liberazione della Palestina contro l’Italia, che aveva arrestato un suo dirigente. Per farlo, i palestinesi si sarebbero serviti del loro braccio armato, cioè il gruppo di Carlos. Kram il 2 agosto era a Bologna, all’hotel Centrale. La Frohlich, secondo alcuni testimoni, in quei giorni alloggiava all’hotel Jolly. La loro presenza in città, assieme ad altri elementi raccolti con certosina pazienza dalla Digos, ha convinto gli inquirenti a indagarli. La mole di atti raccolta è enorme: perizie sugli esplosivi, corpose traduzioni dei dettagliati rapporti della Stasi, l’ex polizia della Germania Est che pedinava il gruppo di Carlos, deposizioni, verbali, informative. Tutto contenuto nel rapporto finale che la Digos ha consegnato in Procura e che ha convinto i magistrati a procedere sull’impervia strada della ‘pista palestinese’.

Il tutto mentre Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime del 2 agosto, ha sempre bollato come falsità quella pista chiedendo, anche tramite due esposti, che si indaghi invece per trovare i mandanti, finora ignoti, di Mambro e Fioravanti. Ma la teoria della rappresaglia palestinese annovera diversi sostenitori. Il primo fu l’ex presidente Francesco Cossiga, che in quel terribile agosto ’80 era presidente del Consiglio. Più di recente, chi si è sempre battuto a favore di quella pista è stato il deputato di Fli Enzo Raisi, membro della commissione parlamentare Mitrokhin, dai cui atti è nata l’inchiesta bis della Procura, partita nel 2005. E ancora: il giudice Rosario Priore, che da tanti anni indaga su Ustica.

Non sarà facile, per i magistrati, far luce sui misteri della strage. I due tedeschi, già sentiti come testimoni, si sono rifiutati di rispondere. Se ora verranno interrogati come indagati, probabile che tacciano di nuovo. Carlos, dalla sua prigione parigina, parla addirittura di un terzo scenario e dice che fu la Cia mettere la bomba. In Procura nessuno vuole parlare. Si temono i contraccolpi mediatici. I prossimi passi saranno decisivi. In un senso o nell’altro.

(di Gilberto Dondi)

mercoledì 17 agosto 2011

Ma che cos'è questa cultura


Nelle prime battute di un interessante quanto gradevole libro intervista, Tullio De Mauro, precisa come da tempo in Italia sia preminente una «accezione restrittiva» del termine cultura, nel senso che questo termine indica quasi sempre solo la «cultura letteraria», o meglio la cultura "letterario-filosofica", per giungere molto spesso a una cultura «letterario-ideologica». Tullio De Mauro lamenta l'assenza di una «dimensione tecnica, tecnologica, operativa delle culture intellettuali». Si tratta di una preoccupazione fondata che merita di essere meditata e che coinvolge una problematica più vasta, quella attinente al rapporto fra una cultura universale e la cultura nazionale, tra idee globali e riferimenti identitari. Nondimeno è aperto il tema del rapporto che quotidianamente si instaura fra le influenze culturali che vengono dall'ambiente esterno e la rielaborazione soggettiva che fa ciascuno di noi, tema che implica l'origine stessa della cultura umana che Freud in Totem und tabù inquadra nella relazione tra sviluppo individuale e sviluppo umano.

Se già a fine Ottocento si era delineato un contenuto socio-politico del termine cultura, il primo Novecento italiano fu segnato dagli sforzi di definire una nozione di cultura aperta alle grandi trasformazioni della società industriale e di massa. Gramsci soprattutto con i Quaderni lavorò alla valorizzazione di un concetto di cultura che superasse un ambito ristretto per diventare cultura popolare e sociale, mutuando una parte della lezione di Pareto, e precisando che la cultura deve muoversi «dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente». Giuseppe Prezzolini (nella foto n.d.r.) che scrive il saggio "La cultura italiana" importa una visione bergsoniana della cultura, che auspica una «vita intellettuale». Si delinea in quel periodo una storia della cultura che racconta la vicenda umana in parallelo con la storia degli Stati. Benedetto Croce offre la costruzione filosofica di un idealismo che vuole modernizzare la cultura attraverso una «morale della Storia» destinata a offrire coesione a quelli che definisce «spiriti di popoli» (Völkergeister). Non è un caso che Norberto Bobbio titolò un suo saggio Profilo ideologico del Novecento italiano proprio per indicare un viaggio nelle culture politiche.

Carl Schmitt pose la famosa distinzione tra Kultur e Zivilisation, la prima a cui assegna una matrice continentale e tedesca, la seconda oceanica e anglo-sassone. Il giurista tedesco evidenzia i limiti di una cultura solo formale che vuole "rappresentare" prescindendo dal valore. Mentre l'assunzione di un valore (Wertbehauptung), che è molto di più di un elemento direzionale, conferisce alla cultura un contenuto sostanziale e comunitario. Lo Schmitt lega la cultura al «nomos della terra», un luogo che ha origine in una presa di possesso (nemein) ma che si consolida attraverso il mito in cui si riconosce un popolo. La cultura condivisa all'interno del nomos è fondamento di sovranità.

Da posizioni diverse che riflettono la sua natura di economista, il Nobel Friedrich von Hayek, auspica l'utilizzo individuale di conoscenze disperse e paragona la cultura al mercato nel senso di lasciare intatta una pluralità di conoscenze, anche se «incomplete» e «sotto forma di frammenti», poiché ciò è garanzia di libertà. L'economista austriaco rigetta ogni forma di controllo della cultura insistendo sul fatto che il tratto della civiltà è dato dalla possibilità che tutti hanno di utilizzare ed elaborare le «conoscenze disperse». Ortega y Gasset aveva auspicato un dinamismo che ponesse in equilibrio valori vitali e culturali, perché – sotto l'influenza simmeliana di Goethe – afferma che «la vita dev'essere colta, ma la cultura dev'essere vitale», una posizione propedeutica all'affermazione di un pluralismo culturale che si oppone a chi ha la presunzione di far coincidere l'idea con la realtà.

La cultura ideologica è l'eredità del Novecento, allo stesso tempo nobile e pericolosa, ancora oggi la contrapposizione tra elitarismo e democrazia riflette quella tra cultura ideologica e cultura diffusa. La differenza tra chi crede in una cultura univoca, preordinata e diretta dalle élite, e chi, invece, auspica sempre un pluralismo storico-culturale che mostri attenzione verso il discontinuo e il differente. Per certi versi resta intatta la denuncia di Augusto Del Noce che condannò la pigrizia intellettuale degli italiani, attardati a ragionare secondo le categorie di progressivo o reazionario, e non secondo le categorie più moderne di vero o falso.

La grande rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni offre strumenti prima impensabili per la condivisione del sapere, ogni angolo, anche il più remoto del pianeta, può essere un punto di acquisizione e rielaborazione. Alla critica di Tullio De Mauro a un'«accezione restrittiva» del termine cultura, nel senso di uno scarso approccio a una dimensione tecnica, si può associare la denuncia di una cultura ancora pienamente ideologica, troppo dominata da quello che fu definito da Prezzolini come partito degli intellettuali. Da tempo, altre culture, si pensi a quella americana o a quelle asiatiche, pur salvaguardando e rafforzando il connotato identitario, hanno abbandonato le costruzioni ideologiche per attenersi al metodo della verifica vero o falso.

Più di tutto appare incisivo quello che scriveva, nel 1974, Pier Paolo Pasolini: «Noi intellettuali tendiamo a identificare la "cultura" con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l'ideologia con la nostra ideologia. Questo significa: 1) che non usiamo la parola in senso scientifico, 2) che esprimiamo, con questo, un certo insopprimibile razzismo verso coloro che vivono, appunto, un'altra cultura».

(di Gennaro Sangiuliano)

domenica 14 agosto 2011

La farfalla e i kalashnikov


Quello che è suonato in queste settimane è stato il gong del quattordicesimo round. Il prossimo sarà l’ultimo e metterà fine al match. Una volta si diceva che il battito d’ali di una farfalla in Giappone poteva provocare una catastrofe nell’emisfero opposto. Era un’iperbole per esprimere il concetto che l’eco-sistema-Terra è integrato e ogni sua componente è interdipendente. Un battito d’ali di farfalla sposta dell’aria che muove un moscerino che cambia la sua traiettoria e quella di un passero che gli faceva la posta e così via. Rimaneva comunque un’iperbole perché la forza d’attrito a un certo punto spezzava queste concatenazioni.

Nel mondo globale invece l’iperbole si è realizzata in economia, attraverso il denaro che, essendo virtuale, non conosce l’attrito. Enormi masse di denaro si spostano ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da una parte all’altra del mondo senza trovare ostacoli. In un mondo integrato e globale il battito d’ali di una farfalla americana, per restare alla nostra metafora, può avere conseguenze devastanti in ogni angolo del pianeta. Ne restano fuori solo quelle popolazioni, ormai delle mosche bianche, che, o per rifiuto consapevole o per altro, non sono entrate nel mercato internazionale (certamente gli indigeni delle Isole Andemane possono farsi un baffo di questi tsunami monetari).

Lo abbiamo visto con la crisi dei “subprime” americani del 2008 che è rimbalzata in Europa provocando il default dell’Irlanda e della Grecia e che poi, come un’onda di ritorno, ha colpito di nuovo gli Stati Uniti mentre in Europa le defaillances irlandese e greca hanno intaccato il Portogallo, la Spagna, hanno aggredito l’Italia e domani, probabilmente, tutto il vecchio continente.

Ma il contraccolpo colpisce anche i paesi cosiddetti emergenti dell’Asia. La cosa più inquietante, anzi disperante, è il senso di impotenza che dà questo sistema. Nessuno, individuo o Stato, è più arbitro del proprio destino. Tu puoi aver lavorato una vita, con fatica e con coscienza, e basta un battito d’ali in una qualsiasi parte del mondo per distruggere, d’un colpo, il tuo lavoro, la tua fatica, i tuoi risparmi (che sono “forza-lavoro”, energia tesaurizzata e messa da parte). Ma le leadership mondiali si ostinano a parare ogni nuova crisi immettendo nel sistema altro denaro inesistente (nel senso che non corrisponde a nulla, questo è il senso dell’innalzamento legale del debito pubblico americano, che è come se uno che ha tutti i parametri del sangue sballati decidesse di essere guarito perché li ha portati a un livello più alto) che va ad aumentare lo tsunami della massa monetaria che, al prossimo colpo, si abbatterà su di noi con una violenza ancor più devastante. Finché, fra non molto, arriverà il colpo del ko che nessun trucchetto contabile riuscirà a mascherare.

Possibile che sia così difficile da capire che non dobbiamo più crescere ma decrescere, che non dobbiamo modernizzare ma smodernizzare, che dobbiamo allentare la morsa dell’integrazione globale? Il mondo occidentale (inteso in senso lato perché ormai quasi tutti i paesi sono coinvolti nel modello di sviluppo a crescita esponenziale partito dall’Europa, in Inghilterra, a metà del XVIII secolo) si rifiuta di capire, perché considera irrinunciabili gli standard di benessere acquisiti. E allora si droga di denaro. Non comprende che se non pilota una decrescita graduale di questo benessere lo perderà tutto d’un colpo per quanti sacrifici, e massacri, possa pretendere dalle popolazioni. Quando la gente delle città, crollato il sistema del denaro, si accorgerà che non può mangiare l’asfalto e bere il petrolio, si riverserà alla ricerca di cibo nelle campagne dove si saranno rifugiati i più previdenti, provvedendosi dell’autosufficienza alimentare oltre che di un buon numero di kalashnikov per respingere queste masse di disperati.

(di Massimo Fini)