martedì 31 gennaio 2012

Pensare l'impensabile


Crollino le economie, si mettano all'asta intere nazioni, periscano i popoli; ma non si osi mettere in discussione il dogma.

La dottrina contenuta nei sacri testi di Adam Smith - che ha abolito i dazi doganali (mettendo in competizione i nostri salari con quelli cinesi); che ha soppresso qualsiasi limite e freno alla circolazione mondiale del capitale finanziario (regalando un immenso potere alla pura speculazione); che punta a smantellare la più piccola parvenza di stato sociale (i lavoratori la smettano di difendere il proprio salario, si adeguino al libero mercato); che teorizza il divieto assoluto di intervento nell'economia da parte dei governi (sostituiti nelle proprie prerogative dalle banche e dalla loro mano invisibile) - non è una teoria, ma un atto di malafede.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Grecia è già di fatto in default (entro marzo probabilmente se ne prenderà coscienza), a nulla sono valsi gli immani sacrifici che sta patendo: un terzo della popolazione è ormai ridotto in povertà, le medicine scarseggiano, manca il combustibile per il riscaldamento (per difendersi dal freddo, si tagliano e si bruciano gli alberi nelle piazze), la disoccupazione dilaga, la disperazione imperversa (si registra la media di due suicidi ogni tre giorni).

È la fine del miraggio, le illusioni cedono il passo alla realtà. L'Europa benigna che dispensava mutui a basso costo, prestiti a interessi irrisori, crediti facili sta mostrando il suo vero volto. Miseria, sfruttamento e schiavitù i suoi frutti avvelenati. Riacquista vigore la domanda proibita: “Conviene restare in questa Europa? Per cosa abbiamo ceduto la nostra sovranità?”.

Come scrive Maurizio Blondet, i vantaggi essenzialmente consistevano nella “possibilità di indebitarsi a tassi 'tedeschi', ossia bassi”. E nel nostro Paese “ne hanno profittato i politici d’ogni livello, comunali, regionali, statali, per indebitarci ancora di più”, mentre alla Spagna il basso costo del denaro “ha regalato una bolla immobiliare che affonda le sue banche, strapiene di immobili pignorati e invenduti”. “Magari - continua - ci abbiamo guadagnato un po' anche come famiglie, accendendo mutui per comprare appartamenti”, ma in ogni caso questi tempi sono finiti. Terminati per sempre: lo spread è lì a ricordarcelo.

È urgente prendere coscienza dello stato delle cose, perché - sia chiaro - se continuiamo con le amorevoli cure somministrateci dall'eurocrazia (gli enormi e iniqui sacrifici, le tasse ed i tributi palesi ed occulti, la distruzione del welfare) il nostro destino sarà quello greco. È necessario interrogarsi, rimettersi a pensare (immane fatica alla quale non siamo più abituati) senza tabù e censure.
Occorre comprendere che non ha senso svenarsi per decenni con l'unico fine di pagare i creditori. Non ha senso mortificare intere nazioni per qualche generazione solo per servire gli interessi sui prestiti. Non ha senso deprimere la nostra economia e le nostre vite unicamente perché ce lo impone il Pensiero Unico globalista.

Una riduzione massiccia dei debiti sovrani è inevitabile,“non c’è altra soluzione, dati i livelli d’indebitamento raggiunti, e i veti germanici imposti alla Banca Centrale”. Nessuna austerità e rigore otterrà mai alcun risultato. Disoccupati e suicidi non pagano le tasse.

Intendiamoci, ristrutturare il debito non è una passeggiata, non è un colpo di bacchetta magica che risolve d'incanto tutti i problemi. Ma è forse la soluzione meno peggiore.
A sentire l'economista Henri Regnault dell'università di Pau (in Francia almeno si pongono ancora domande), si tratterebbe di “passare a un debito amministrato dal debitore anzichè ad un debito gestito dai mercati strutturalmente inefficienti”. Il docente francese ha studiato a fondo la questione del ripudio controllato e gestito del debito, invece dei vani tentativi di scongiurare l'inevitabile crollo catastrofico e disordinato.

Prima di tutto, ha tentato di dare una risposta al quesito preliminare su quali siano le condizioni nelle quali ad uno Stato conviene fare default senza subire troppi contraccolpi. Per una domanda così censurata, la risposta è banale: quando può fare a meno dei suoi creditori. E quando può fare a meno dei suoi creditori? Regnault risponde: “Quando gli introiti (fiscali) dello Stato coprono le sue spese, al di fuori di quelle dovute per il rimborso del debito e il pagamento degli interessi. Dunque a condizione che il saldo primario delle finanze pubbliche sia nullo o positivo, in altre parole quando non ha bisogno di prendere a prestito se non per onorare il servizio del suo debito”.

Ribadiamo l'ultimo concetto: quando non ha bisogno di prendere a prestito se non per onorare il servizio del suo debito.

Dunque si tratta di capire ora se il nostro e gli altri paesi europei rispettano queste condizioni. Sicuramente l'Italia (con le sue caste statali inadempienti e fancazziste, con la sua enorme spesa pubblica che si configura in sostanza come vero e proprio assistenzialismo di stato, con i suoi enormi sprechi) presenterà un saldo primario negativo, costretta dunque a rivolgersi agli usurai anche per fronteggiare le spese correnti. E invece, sorpresa, non è così.

Il docente universitario dimostra, dati alla mano, come “in termini di attivo primario l'Europa è molto più virtuosa di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti”, avanzando il sospetto - molto fondato - che “tutto il bailamme attorno al debito europeo è largamente unesagerazione fabbricata di sana pianta dagli apprendisti stregoni anglosassoni, per tentare di canalizzare i flussi finanziari mondiali verso il proprio indebitamento, molto più problematico”. Dunque Regnault ci sta dicendo in sostanza che l'intera Eurozona nel suo insieme non si indebita per finanziare le spese correnti.

Ma si spinge ancora oltre. Del resto un dato aggregato potrebbe mascherare le forti disparità esistenti all'interno del vecchio continente, tra un Nord virtuoso ed un Sud parassita. Ma ancora una volta questa tesi così propagandata è smentita dai fatti. L'Italia vanta un avanzo primario (in percentuale rispetto al PIL) addirittura maggiore della Germania (0,6% dei tedeschi contro il 3,3% di noi italici spreconi). Anche la Spagna è in attivo (0,5%), mentre è in leggero disavanzo la Francia (-0,6%)*.

Ricapitolando, quindi, le entrate dello Stato italiano superano le sue spese del 3,3%. Solo dopo aver servito il debito, andiamo in passivo. Dunque, scrive Blondet, “scopriamo che proprio a noi conviene ripudiare il debito, sovranamente e ragionevolmente”. Non abbiamo bisogno dei creditori per sopravvivere. Tutto il terrorismo delle sorelle del rating è solo una truffa condotta per lucrare sulla nostra pelle, ingigantita dai veti di Berlino.

Ovviamente, continua il direttore di EffeDiEffe, il fatto che all'Italia convenga ripudiare parzialmente il debito, non vuol dire che debba farlo. Non significa che sia una soluzione politicamente o socialmente facile: sarebbe più semplice “monetizzare” il debito, ossia costringere la BCE a comprare direttamente i nostri BOT, CCT e BTP a interessi bassi. Il che sembra anche ragionevole, visto il contorto meccanismo attualmente messo in piedi dal suo presidente, il nostro connazionale Mario Draghi, che presta miliardi di euro alle banche al tasso ridicolo dell'1% con la speranza che queste poi comprino i titoli degli stati più indebitati reclamando interessi del 5-6%, realizzandoci sopra grassi profitti. Forse sarebbe più economico ed intellettualmente onesto se la Banca Centrale Europea prestasse denaro direttamente agli stati al tasso dell'1%, evitando loro di andare sui mercati ad implorare prestiti offrendo il 6%, e rischiando con ciò la bancarotta.

Ma la Germania imperterrita continua ad opporre i suoi nein.
Monetizzazione? Nein!
Aiuti diretti agli stati? Nein!
Eurobonds? Nein!

E allora il default è l'ultima carta da giocare. Inevitabile, come spiega Regnault, “trarre le conseguenze dall'impossibilità di onorare integralmente gli impegni dei contratti di prestito” e soprattutto farlo presto, “senza attendere devastazioni irreparabili”. Prima che l'austerità, il rigore, l'iper-tassazione e l'amministrazione controllata dei gestori eurocratici soffochino completamente le nostre economie. Prima che i solerti burocrati del liberismo mondiale prosciughino il patrimonio privato e il risparmio delle famiglie. Prima che la disoccupazione inghiotta del tutto i nostri giovani nella sua morsa paralizzante. Prima che si arrivi comunque, dopo tutto questo, a rendersi conto dell'insostenibilità del debito.

Il default, se gestito con intelligenza (questo solleva la domanda: da chi?), ci permetterebbe di scegliere: ad esempio potremmo rifiutarci di pagare i creditori esteri e continuare invece ad onorare gli impegni presi con i piccoli creditori italiani; si potrebbe ripudiare del tutto il debito vecchio, ossia quello dove il creditore ha ormai lucrato in interessi più del capitale a suo tempo investito; si potrebbero nazionalizzare le banche strapiene di BOT e salvaguardare i correntisti.

È probabile, anzi sicuro, che qualcuno ci rimetterà, che saranno tempi duri (comunque ineluttabili), soprattutto all'inizio. Ma il Paese guadagnerà un futuro, o almeno la speranza in un futuro, oggi completamente e tragicamente negata.

(di Antonio Schiavone)

La moneta creata e la schiavitù del debito


“Il tempo è denaro”. Lo scrisse, nel 1736, Benjamin Franklin (nella foto n.d.r.), uno che del tempo fece un uso incredibilmente consapevole. Tra l’invenzione del parafulmine, un’ambasciata a Parigi e la stesura della Costituzione americana, l’inventore-patriota gettò, con quella frase, le fondamenta del nuovo spirito capitalista che avrebbe penetrato la civiltà moderna. Non a caso Max Weber, il grande sociologo tedesco che indagò la natura del capitalismo, vide in questo padre dell’America, in questo puritano votato agli ideali massonici, una sorta di teorico di quell’etica basata “sull’acquisizione di denaro e sempre più denaro” in maniera quasi “trascendente e assolutamente irrazionale”. E’ raro che una frase riesca a presagire in maniera così chiara la trasformazione della società e dell’uomo. Forse solo il “Dio è morto!” di Nietzsche ha avuto la stessa forza profetica della frase di Franklin. E infatti, eclissi del sacro e dittatura del denaro, sono la trama finita del tempo in cui viviamo.

Franklin fu uno dei protagonisti della lotta d’indipendenza americana e fu strenuo sostenitore del diritto dei coloni a battere una propria moneta, svincolandosi dall’obbligo imposto dalla corona britannica (e dalla Banca d’Inghilterra) di effettuare i pagamenti in oro e argento. La Rivoluzione che portò alla nascita della più grande democrazia del mondo sarebbe nata da due fattori congiunti: eccesso di pressione fiscale e mancanza di sovranità monetaria. Chissà cosa avrebbe pensato lui dell’Euro. Di questa furbizia storica che ha portato ad un’Europa fatta da Stati senza moneta e da una moneta senza Stato.

Ma l’intuizione di Franklin ci consente di comprendere la natura perversa del modello economico in cui viviamo e della crisi che ci sta travolgendo.

Se il tempo è denaro, allora il denaro cos’è? La risposta è semplice: il denaro è tempo. Un tempo concepito come continua proiezione futura, una promessa all’interno dell’astratto meccanismo credito/debito. L’intero sistema capitalistico moderno si basa sul rapporto tra un credito puro e un debito infinito generati da una moneta creata dal nulla. Il denaro, non più legato ad alcun elemento di natura (per esempio l’oro), ha cessato di essere intermediario di scambi e strumento di circolazione di beni. Il capitalismo finanziario, generando la moneta dal nulla, ha trasformato il denaro in valore in sé proiettandolo in un tempo futuro. Un gioco di prestigio che ha reso i banchieri moderni demiurghi delle nostre vite e dei nostri destini.

La moneta creata dal nulla (l’invenzione più importante della modernità) porta con sé un aspetto del tutto nuovo: il denaro che le banche centrali stampano e mettono in circolo è un debito per loro e un credito per chi lo possiede. Ma nello stesso tempo, acquisendo corso legale, quel debito è moneta, cioè pagamento. In altre parole, un debito che non potrà mai essere estinto se non per mezzo di altro debito (cioè altro denaro). Una magia che, come tutte le magie, genera un potere assoluto nelle mani di chi la detiene.

Quando banchieri, economisti e politici espressione delle potenti élite finanziarie ci dicono che la pesante pressione fiscale (da sempre strumento di limitazione della libertà individuale da parte dello Stato) e le manovre “lacrime e sangue”, sono un prezzo da pagare, un sacrificio momentaneo per riequilibrare i debiti sovrani e garantirci il futuro, mentono sapendo di mentire. Perché è proprio del nostro futuro che si stanno impossessando. Il sistema non consente che alcun debito venga estinto perché è su di esso e sulla promessa del pagamento che legittima la sua esistenza. Il debito è la nuova schiavitù cui sono sottomessi i popoli e le generazioni future. Dalla condizione di debitori non si esce (il cittadino nei confronti dello Stato, lo Stato nei confronti delle banche centrali, il cittadino nei confronti della sistema finanziario, il sistema finanziario verso se stesso).

Pochi giorni fa, il suicidio dell’architetto francese davanti all’ufficio delle imposte ha seguito i suicidi degli imprenditori italiani strozzati dalle banche e dal sistema del credito e del debito. L’Europa è attraversata da una disperazione collettiva che gli istituti di sondaggio non colgono e i media del grande potere nascondono. C’è solo una via di uscita: far saltare questo sistema. Ma servirebbe una politica in grado di recuperare la sua missione di governo del bene pubblico. Per ora la politica si è arresa. Dopo essersi barricata per oltre 30 anni nei suoi nascondigli parlamentari, è uscita a mani alzate scortata dagli sgherri del nuovo potere mondiale. Aspettiamo che torni a battere un colpo.

lunedì 30 gennaio 2012

Quelli che vogliono tagliare le nostre radici


Vuoi vedere che il male principale del nostro tempo è il richiamo alle radici? Lo ripetono da troppo tempo troppi intellettuali: nelle radici vi sarebbe l’odio per ogni diversità, per la mobilità e l’emancipazione.

Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria.

A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti).

Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete - atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere - che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero - la pianta, le radici - è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione.

Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace... Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami - affettivi, comunitari, vitali e culturali - intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza.

Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana... l’essere umano ha una radice... Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane».

Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.

Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice - i tuoi famigliari - piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.

E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.

(di Marcello Veneziani)

Denaro, sterco del nulla


Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.

L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.

Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).

Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).

Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.

Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.

(di Massimo Fini)

Quando condannò a morte un uomo: "Colpevole? Non lo so"


Prima di essere politico, Oscar Luigi Scalfaro era stato magistrato. Indossata la toga nel 1943, ancora su giuramento al Duce e al fascismo, il futuro presidente della Repubblica la indossò di nuovo dopo la Liberazione, dopo aver combattuto da partigiano contro i nazifascisti. Nel clima d'odio post 25 aprile, l'allora 27enne Scalfaro fu chiamato a giudicare sei fascisti "collaborazionisti". Furono tutti condannati a morte dalla Corte straordinaria di Assise di Novara e Scalfaro partecipò agli interrogatori. Di uno in particolare, il brigadiere Domenico Ricci, era assai intimo. Vicino di casa, la figlia di Ricci Anna Maria lo considerava addirittura un "secondo papà". Nell'ottobre 2006 quella oscura vicenda torna a galla e Scalfaro non può non ammettere di aver contribuito alla condanna a morte di Ricci e degli altri cinque imputati, anche se nella sentenza si legge: il brigadiere Ricci "insieme al Missiato costituì l' anima della Squadraccia, della quale, poi, pare abbia assunto il comando ufficiale allo scioglimento di essa". Quel "pare" peserà come un macigno sulla coscienza di Scalfaro, e non a caso per tutta la vita continuerà a scrivere ad Anna Maria, come per rimarginare quella ferita.

La sentenza scandalosa - Quando nel 1996 il Giornale pubblicò una foto di Scalfaro del 23 settembre 1945, sul luogo dell'esecuzione di Ricci e degli altri 5 presunti fascisti, la stessa Anna Maria scrisse al presidente per chiedere se pensasse che il padre fosse innocente o colpevole. "Sono certamente io, accanto al canonico Pozzo - spiegò Scalfaro alla stampa -. La sera alle nove, nove e mezza uscivo dall'ufficio e il sindaco mi disse: la fucilazione sarà eseguita domattina. Mi sono alzato alle quattro e sono andato in carcere. Li ho abbracciati tutti, uno per uno. Ho fatto la comunione con loro sul camion". Ma alla figlia di Ricci non potè dare spiegazioni: "Scalfaro una mattina presto mi telefona, un sabato o una domenica - ricorda la donna -, due parole: 'Stia tranquilla perché suo padre dal Paradiso pregherà per lei'. Tutto qua...". Semplicemente, Scalfaro non poteva avere la certezza della colpevolezza del suo vicino di casa, ma da "consulente tecnico giuridico" del tribunale d'emergenza, o meglio "tribunale militare di partigiani", non si sottrasse alla decisione.

sabato 28 gennaio 2012

Quei "compagni" alla corte di Goebbels


È un libro strano e bello L’albero del mondo di Mauro Mazza (Fazi, pagg. 158, euro 16). Saggio e romanzo, è una riflessione storica sulla generazione che, per chi come l’autore e chi scrive ha superato i cinquant’anni, fu quella dei padri, e tuttavia anche un esame di coscienza per la propria, da quei padri segnata, certo, e però alla ricerca di una propria via individuale che nel rispetto e, se il caso, nel disprezzo per ciò che è stato, permetta una volta per tutte l’uscita dal tunnel delle ideologie novecentesche che così duramente segnarono quel secolo.

Il sottotitolo recita Weimar, ottobre 1942, ovvero l’autunno del disincanto per molti degli intellettuali fascisti chiamati a discutere nella cittadina tedesca sullo stato della cultura e dell’Europa, ovvero sul proprio «domani», vincitori o vinti. Dopo le conquiste sfolgoranti dei primi anni, la guerra aveva preso un’altra piega: erano scesi in campo gli Usa, la Wehrmacht si era trovata bloccata a Stalingrado, l’Italia si era rivelata l’anello di latta di un patto d’acciaio non più tale. Che fare? Come comportarsi? A chi credere? Fra gli scrittori italiani presenti a Weimar, Mazza focalizza l’interesse sulla «promessa» Giaime Pintor, germanista di valore a dispetto della giovane età (era poco più che ventenne), e sul più «anziano» Elio Vttorini, trentenne, romanziere, polemista, traduttore.

Gli altri, i Falqui, i Baldini, i Cecchi, appartengono in fondo, per gusti, abitudini, temperamenti, stili di vita, al vecchio mondo liberale che vent’anni prima il fascismo aveva politicamente spazzato via. Sono professori, studiosi di tutto rispetto, ma tutti più o meno conservatori, più o meno reazionari, più o meno codini, più o meno apolitici. Stanno sì con il Regime, ma l’impressione è che starebbero con qualsiasi regime purché venisse loro concesso di zappare il proprio orticello letterario non dando fastidio a nessuno.

Pintor e Vittorini sono generazionalmente un’altra cosa e Mazza lo racconta bene, con un intelligente uso di pubblico e privato: sentimenti e delusioni sentimentali, dichiarazioni di principio e infatuazioni letterarie. Sono nati con il fascismo e nel fascismo e se Elio, allora ragazzino, ha sognato nel ’22 di sfilare con le camicie nere, l’adolescente Giaime si è arruolato per combattere quella Seconda guerra mondiale che in patria viene presentata come uno scontro di civiltà, nazioni giovani contro nazioni vecchie, il sangue contro l’oro...

Quando un giorno ci si deciderà a fare sul serio la storia intellettuale del Ventennio, un capitolo spetterà a chi diede al fascismo molto più di quanto in cambio ricevette, e che dal fascismo si distaccò non tanto nel nome di un generico o convinto dissenso ideologico, ma più semplicemente perché si accorse che il vero «fascismo» era il loro e non quello di un regime codificatosi in una recita dove la gerarchia era una posa, la fantasia un’illusione, l’anticonformismo una colpa.

I Malaparte, i Longanesi, i Berto Ricci, i giovanissimi dei tempi della marcia su Roma come i teorici della cosiddetta «seconda ondata» rivoluzionaria, a lungo si ostinarono a pensare che i loro sforzi intellettuali, libri, riviste, convegni, polemiche, potessero contribuire a fare dell’intuizione di un singolo individuo un patrimonio nazionale. Gli rimase invece fra le mani il combinato disposto di un sistema che sempre meno tollerava la discussione, che sempre più premiava l’acquiescenza, di una dottrina che per codificarsi annullava qualsiasi eresia feconda e si accontentava di una sterile ripetizione.

La guerra si incaricò di mostrare fino a che punto una ventennale costruzione fosse stata rosa dal suo interno, lasciandola apparentemente intatta, ma in realtà priva di senso e significato. Prima e più di tutto, il loro distacco e poi il rifiuto furono il frutto di una delusione. Un anno dopo Weimar, Pintor saltò su una mina mentre faceva da ufficiale di collegamento per conto degli Alleati. Quanto a Vittorini, entrerà nella Resistenza, scriverà il suo più brutto romanzo, Uomini e no, e nel dopoguerra andrà a sbattere contro l’ortodossia comunista. «Credeva fossimo liberali, e invece, guarda un po’, eravamo solo comunisti» ironizzerà Togliatti...
Nel libro Mazza racconta il momento dell’incertezza, quando non si crede più, ma non si sa ancora in cos’altro credere e se sia ancora possibile credere... «Nulla è più difficile che crescere» fa dire al Pintor traduttore di L’infanzia del cuore di René Podbielski.

Occorre di nuovo «aderire alle cose», come il fascista francese Drieu La Rochelle, un altro dei relatori di Weimar, ama ripetere. Bisogna dare un senso, non limitarsi ad accettare ciò che viene. Mescolando testi, diari, lettere, articoli, forzando la cronologia, prestando ai suoi protagonisti pensieri e considerazioni plausibili perché frutto delle riflessioni di un autore che quel clima e quel modo di essere conosce bene, Mazza traccia le coordinate di un mondo in declino, fra dubbi, tormenti e illusioni, il cuore dell’Europa un attimo prima della resa dei conti.

Una citazione di Goebbels, «noi passeremo alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi o come i più grandi criminali», spiega meglio di un libro di storia Hitler, i Campi, il Bunker e una Germania rasa al suolo. Le stesse speculazioni sulla scomparsa di Ettore Majorana, rivale di Fermi affascinato dalla «necessità storica» del nazismo, che Mazza racconta con felicità espressiva unita al talento del cronista di razza, rimandano a un’epoca fluida, dove non c’è il senno di poi a spiegare le ragioni e i torti, il bene e il male.

Lavorando sui destini intrecciati di due fra i più brillanti intellettuali italiani dell’epoca e del più implacabile ministro del Reich, Mazza compie una ricognizione che va dritta al problema: il rapporto fra la cultura e il potere politico, l’idealismo e il realismo che si contrappongono, la sudditanza della prima nel suo allearsi con la seconda, il compito e il ruolo stesso dello scrittore.

A un Goebbels che chiede una letteratura d’evasione «per le donne sole in casa e per i soldati al fronte», Vittorini replicherà che «una pagina può illuminare il senso di un’epoca» e che il non scriverla, ovvero l’accettare quell’invito, fa diventare «complici di questa immane catastrofe»... Anni dopo, a un Togliatti che chiede una letteratura marxisticamente impegnata, replicherà che non ci sta «a suonare il piffero per la rivoluzione». Fra impegno e disimpegno resta lo spazio accidentato, fragile e ambiguo della libertà di pensiero, ma non sempre basta la letteratura per salvarsi l’anima.

(di Stenio Solinas)

Buttafuoco: è Casini-Monti-Passera il ticket del nuovo Pdl


A diciott’anni dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi sul futuro del centrodestra italiano si addensano numerosi interrogativi. Che forma prenderà il Popolo della Libertà dopo l’esperienza del governo dei tecnici guidato da Mario Monti? L’asse del Nord è da archiviare? E chi riuscirà a tenere insieme una coalizione che ha sempre avuto come unico baricentro il Cavaliere? «Non c’è dubbio che in Italia il centrodestra è nato grazie al guizzo geniale e solitario di Silvio Berlusconi – spiega a IlSussidiario.net Pietrangelo Buttafuoco –, altrimenti non avrebbe mai potuto esserci. E questo per una serie di motivi: nel Paese si era radicato infatti un istinto moderato che tutto poteva essere tranne che riconducibile a un’area di centrodestra. Se, ad esempio, dovessimo cercare un alfabeto, un linguaggio che potesse mettere insieme quella storia dovremmo andare molto più in là nel tempo, scavalcando persino il Risorgimento. Ad ogni modo Berlusconi seppe trovare una sintesi, diede contenuto a ciò che era solo un istinto di un preciso blocco sociale, cosa che prima di lui era riuscito a fare solo Bettino Craxi».

Oggi però siamo alla fine di quella stagione politica.

È vero e non credo che a questo punto ci sia la possibilità di continuare nel solco del Pdl, di ciò che è stato e di ciò che sarebbe potuto diventare. Tutto è inevitabilmente legato all’esperienza personale di Silvio Berlusconi. Qualcosa di nuovo nascerà sicuramente, ma se alle sue spalle ci sarà ancora una volta la regia del Cavaliere non potranno che essere dei tentativi.
Il fatto stesso che io e lei ne stiamo parlando dovendoci per forza aggrappare a una meta elettorale la dice lunga sull’attuale possibilità di avere degli argomenti, una sostanza politica e un orizzonte.

Almeno il blocco sociale è rimasto lo stesso secondo lei?

Chi lo può dire? Pensiamo alla Lega. Il Nord ha avuto in questi anni un ottimo strumento che aveva fondato il suo consenso non sulle clientele, come succederebbe per qualsiasi espressione politica al Sud, ma su un blocco sociale costituito da operai, imprenditori e individualità libere che avevano un’idea ben precisa dell’emancipazione nel lavoro e nella società. Questo ha portato a degli esperimenti e a dei successi in ambito politico-amministrativo. Teniamo presente infatti che il Carroccio, pur avendo un personale politico strutturato con un logica leninista, ha dato dei buoni risultati. Cosa che non si può dire rispetto al Popolo della Libertà.

Ci spieghi meglio.

Prima Forza Italia e poi il Pdl sono finiti nel frullato di un’esistenza resa turbinosa dalla personalità di Berlusconi, che non ha permesso che si formasse un ceto politico. Se dovessimo infatti fare il racconto del berlusconismo, infatti, non potremmo non parlare di quell’immenso dimenticatoio popolato da bracci destri, protagonisti di un solo giorno e personalità portate alla ribalta per poi essere cancellate e dimenticate.

È lo stesso destino che secondo lei attende Alfano?

Rispetto a quelli che subirono questa sorte bisogna dire che lui ha il vantaggio di essere radicato in un territorio, il laboratorio siciliano. Un luogo fatto di destini, storie e personaggi che difficilmente possono essere messi tra le parentesi dei sondaggi e delle opinioni volatili. Un orizzonte in cui chi vuole farsi la propria storia se la può fare. Se in Italia infatti le cose possono cambiare dall’oggi al domani, in Sicilia questo può accadere dalla mattina alla sera…

Tra gli interrogativi aperti in questa metà campo, c’è poi quello che riguarda tutta l’area degli ex An, oggi rimasta senza un leader.

Questo è un problema rilevante che qualche giorno fa è stato sottolineato anche da Marcello Veneziani. Manca un leader a una comunità politico-culturale che non è assolutamente infinitesimale in questo orizzonte. Anzi, è forse quella che ha avuto le antenne più dritte in termini di elaborazione politica e culturale. A mio avviso però questo mondo si sta sgretolando, non tanto perché è alla ricerca di un leader (quello verrà da sé), ma piuttosto perché sta tentando di costruirsi una casa.

Cosa intende dire?

Se consideriamo quello che era stato il passaggio fondamentale, non tanto la stagione di Gianfranco Fini, quanto l’impronta data da Pinuccio Tatarella, il percorso di quel mondo era chiaro: costruire una casa dove poter stare. Una “casa degli italiani” che permettesse di uscire da una dimensione di “esuli in patria”.
Alfano, o chi per esso, commetterebbe un grave errore se dimenticasse questo importantissimo tassello, che si salderebbe finalmente con la tradizione socialista e quella cattolica. Per essere chiari, a mio avviso, c’è la necessità di far tornare nella stessa casa Augusto Del Noce, Cesare Battisti e Giovanni Gentile.

Lei pensa quindi a una casa comune, non al ritorno della destra in una nuova An?

Alleanza Nazionale non può tornare. A quel punto in termini di elaborazione culturale, creativa e di fantasia basterebbe Casa Pound, al di fuori degli esorcismi e delle persecuzioni che sta subendo. Quella sì che è una realtà che sa fare elaborazione politica e attraversare i mondi, mandando in pensione definitivamente quella ridicola macchina degli equivoci che è l’estrema destra.
Se invece ragioniamo sempre da un punto di vista elettorale, il discorso è un altro. Su questo piano bisogna intendersi su come potremo dividere nuovamente la destra dalla sinistra.

C’è chi ipotizza che dopo il governo Monti i partiti potrebbero ispirarsi al modello europeo coalizzandosi in due blocchi: il Partito popolare italiano e il Partito socialdemocratico…

Sull’Europa non sono in grado di rispondere perché, per com’è intesa, non mi riguarda assolutamente. L’idea di avere a che fare con una società che si divide tra socialdemocratici e popolari, per replicare lo schema americano democratici-repubblicani, comunque non mi convince.
Già è insopportabile fare i conti con la cultura liberal, che Dio ci scampi almeno quella del Tea Party. Si tratta di semplici isterie. Avere a che fare con uno alla Bruce Chatwin, che gira per il mondo e si chiede “Che ci faccio qui?” o, dall’altra parte, con chi ti può scambiare con un terrorista se non indossi la cravatta non mi interessa. Nessuna di queste due culture è in grado di decifrare il futuro, anzi la realtà. E l’unico fronte politico che saprà decidere, in senso schmittiano, è proprio quello che sarà in grado di farlo.

Dal suo punto di vista, qualunque evoluzione comunque sarà da demandare alla comparsa di un nuovo leader?

Guardi, qualcuno che si sta preparando a diventare leader c’è, ma è ancora più interessante capire chi vuol fare il regista. Nella società moderna infatti il leader è il protagonista di una messa in scena, un contenitore a cui dare contenuti. Uno come Pier Ferdinando Casini, ad esempio, si sta candidando a fare il regista.

E chi sarà il suo leader?

Alla fine potrebbe esserlo anche lo stesso Monti, o Passera. Vedremo poi se anche Berlusconi vorrà fare il regista, ma è comunque difficile immaginare che alla prossima tornata elettorale escano delle facce provenienti dalle officine della politica. La cosiddetta “sobrietà” non è nient’altro che un lapsus del linguaggio, che rivela un retroscena.

Quale?

Si è cambiato passo e registro perché bisogna abituarsi all’idea del “tecnico”. Anche se l’“esercito del bene” e il meraviglioso pubblico di Santoro non sanno che la tessera P2 di Berlusconi, in confronto al combinato disposto di Goldman Sachs e Bilderberg di Monti, fa davvero ridere.
A cambiare la geografia politica quindi non ci ha pensato un nuovo leader, è bastato questo strano “spolverio tecnico”…

(fonte: www.ilsussidiario.net)

giovedì 26 gennaio 2012

Ezra Pound calpestato due volte


Restituite a Casa Pound la possibilità di usare il nome del poeta. Primo, perché se i geni sono universali ognuno è libero di venerare il genio che vuole. Secondo, perché non si tratta di appropriazione indebita o di uso distorto del poeta. Lo dico a sua figlia Mary che è ricorsa ai giudici, lo dico agli intellettuali che hanno firmato il solito 'giù le mani da' Ezra Pound perché poeta universale (ma lo scoprono solo ora, fino a ieri lo dannavano perché fascista). Dov'è lo scandalo se i 'fascisti' si richiamano a Pound? Come potete dimenticare i suoi discorsi appassionati e deliranti - ma i poeti a volte delirano - alla radio a sostegno del fascismo e poi della repubblica sociale, in piena guerra? E dopo la caduta del fascismo, come potete ignorare i versi dei canti pisani su 'Ben e la Clara a Milano', appesi per le calcagna? E i Cantos donati di persona a Mussolini, il libro 'Jefferson e Mussolini', le sue battaglie contro l'usura? Come potete dimenticare quei giorni bestiali nel campo di concentramento di Coltano in cui il poeta fu esposto in gabbia, sotto i fari, costretto pure a defecare davanti a tutti, come una scimmia, proprio perché considerato fascista? E poi fu internato in un manicomio criminale negli Stati Uniti, che lo condusse davvero alla follìa e al mutismo... Persino l'ultimo, vecchio Pound accompagnato da Piero Buscaroli in visita a Ferrara, che accarezza silente i fasci littori di Palazzo Diamanti... Non potete calpestarlo due volte, la prima per fargli pagare il suo fascismo, la seconda per negarlo.

(di Marcello Veneziani)

martedì 24 gennaio 2012

Gli interessi dell’Italia e la «guerra preventiva» degli Usa all’Iran


Un giovane scienziato iraniano, Mostafa Ahmadi-Roshan, 32 anni, che lavorava al sito nucleare di Natanz, il più importante del Paese, è stato assassinato a Teheran da un commando in motocicletta che ha fatto saltare la sua auto, una Peugeot 405.

Con lui sono morti l’autista e un passante. Le autorità iraniane, anche se non al più alto livello, hanno accusato i servizi segreti di Stati Uniti e Israele di essere gli autori dell’attentato. È difficile dar loro torto. Nel giro di poco più di un anno è il quarto scienziato iraniano impegnato nel programma nucleare che viene ucciso, e sempre con le stesse modalità: commando in motocicletta. Non può essere una casualità. Del resto Mossad e Cia ci hanno abituato ad azioni molto «disinvolte», per dir così, che calpestano ogni legalità internazionale e, a volte, la stessa sovranità di Paesi alleati (caso Abu Omar, rapito a Milano da agenti Cia, portato nella base Usa di Aviano e da lì trasferito nell’Egitto dell’alleato Mubarak, per esservi torturato). Ci chiediamo cosa sarebbe successo a parti invertite, se quattro scienziati israeliani fossero stati uccisi a Tel Aviv da agenti stranieri. Come minimo un putiferio diplomatico e mediatico e forse peggio. Ci chiediamo, con un certo sgomento, fino a dove voglia spingersi l’aggressività israelo-americana nei confronti dell’Iran. Si sa per certo che sono pronti da almeno due anni piani di attacchi militari (forse anche con atomiche tattiche) ai siti nucleari iraniani, e che esercitazioni in questo senso sono state svolte dagli israeliani partendo dalla base Usa di Decimomannu, in Sardegna.

La questione, com’è arcinoto, è quella del nucleare iraniano. Questione che, a lume di logica, appare incomprensibile. L’Iran, a differenza di Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, accetta le periodiche ispezioni dell’Aiea che non hanno mai trovato che nei siti iraniani l’uranio sia stato arricchito oltre il 20% che è il limite necessario, e consentito, per gli usi civili e medici (per la Bomba bisogna arrivare al 90%). Che cosa si vuole ancora dall’Iran? Che voglia farsi l’atomica è un puro processo alle intenzioni, che ricalca quella teoria della «guerra preventiva» che Obama sembrava voler abbandonare. Eppure il Consiglio di Sicurezza dell’Onu continua a emanare sanzioni contro la repubblica islamica e Washington sta cercando di forzare la mano alla Ue e ai singoli Paesi europei perché ne vengano varate delle nuove. Ora, l’Italia è il secondo partner commerciale dell’Iran e il suo interscambio petrolifero col Paese degli ayatollah è del 14% (mentre per la Francia, che sta facendo la voce grossa, come in Libia, è solo del 3%). Ha detto, mi pare molto saggiamente, il presidente della Camera di Commercio iraniana, Mihammad Nahavandian; «Considerando la crisi economica in Europa, è un peccato perdere le opportunità di investimento in un mercato emergente come l’Iran. Queste misure ingiustificate finiranno per portare a perdite reciproche».

L’Italia ha o no il diritto di difendere i propri interessi nazionali, o dovrà sottostare per sempre a quelli americani e all’eterno ricatto morale di Israele che, per lo sterminio di 65 anni fa, si sente autorizzato a tutto, anche ad ammazzare cittadini stranieri sul loro territorio?

(di Massimo Fini)

sabato 21 gennaio 2012

Ma quale Cuba libera qui si muore di dittatura


All'inizio di gennaio era toccato a René Cobas, 46 anni, dissidente cubano in carcere, colto da infarto mentre faceva lo sciopero della fame. Adesso arriva la notizia della morte di Wilmar Villar, 31 anni, anche lui detenuto politico: era giunto al suo 50° giorno di digiuno…

È invece viva e vegeta, per fortuna, Yoani Sanchez, la blogger di Generacion Y che Time ha incluso nelle 100 personalità più influenti del pianeta. Tanto influente in patria non deve essere, visto che negli ultimi quattro anni il governo cubano le ha negato per 18 volte il visto per uscire dal Paese... L'ultimo divieto è di questi giorni, nonostante le aperture natalizie del presidente Raùl Castro in materia di espatrio.

Resta in carcere, infine, l'americano Alan Gross, condannato a 15 anni per crimini contro lo Stato: avrebbe aiutato la comunità ebraica cubana a installare una rete Internet «controrivoluzionaria».

Ogni volta che Cuba torna alla ribalta della cronaca, si ha la sensazione del deja vu: da un lato i sostenitori della piccola «isola rivoluzionaria» impegnata a difendere il proprio comunismo nazionale dal vorace e vicino capitalismo yankee forte del suo embargo economico; dall’altro i critici dell’ultimo «gulag» ancora esistente, con gli oppositori sbattuti in galera, la censura e le condanne a morte, la caccia agli omosessuali, la crisi economica per incapacità politica. È davvero così?

Al museo Alejandre de Humboldt, nell’Avana vecchia, fa bella mostra di sé la replica di un dinosauro di cinque metri di altezza e dodici di larghezza ritrovato nel 2001 da paleontologi messicani nel deserto di Coahuila. Castro (Fidel come Raùl) è come quel dinosauro, solo che è un originale e non una copia, un dinosauro immerso nella sua era, alla sua era sopravvissuto. Politicamente a Cuba non c’è il comunismo di Fidel (o di Raùl), ma il fidelismo (e ora il raulismo) del comunismo. Fidel Castro è stato ed è un caudillo latino-americano che si servì del comunismo, inteso come alleanza con l’Urss, per rafforzare e mantenere il potere.

Era un’alleanza per certi versi obbligata, non tanto e non solo dalle circostanze internazionali, ma soprattutto perché una partnership di quel genere era l’unica che potesse far fronte alla incapacità economica da un lato, al pericolo di una contestazione politica dall'altro. «Il costo economico della Cuba castrista - ha scritto Carlos Franqui nell’autobiografico Cuba, la rivoluzione: mito o realtà? - era mostruoso, ma Cuba era il cavallo di Troia del comunismo in America latina, in Africa e nel Terzo mondo, sosteneva il movimento di guerriglia, le guerre africane e costituiva una formidabile piattaforma militare e spionistica a novanta miglia dal territorio degli Stati Uniti. La vita era austera, ma non insopportabile. Dal punto di vista materiale, il crollo del sistema sovietico ha privato i cubani di tutto».

Per chi nel 1959 aveva ereditato un’economia solida, come Castro stesso si era vantato dicendo di aver fatto «una rivoluzione senza esercito, contro l'esercito, in assenza di una crisi economica», non è un bel risultato.

Quello che oggi resta è una gerontocrazia, età media 75 anni, una crisi profonda quanto irreversibile del sistema, l’ipotesi di una «via cinese» (liberalizzazioni, capitalismo di Stato eccetera), ma anche quella di una seconda Haiti, un malcontento generale, o anche una apatia, l'aver fame di tutto, ma non credere in niente, la vita come diffidenza.
Non è un caso che in quella che è stata chiamata la «narrativa del disincanto», ovvero la Cuba narrata dagli scrittori cubani che a Cuba sono rimasti, non se ne sono andati, ad emergere è un’isola colta nella sua glaciazione politica ed ebollizione umana: emarginati, prostitute, arrivisti, mendicanti, emigranti (balseros che se ne vanno e gusanos che ritornano), pazzi, drogati e soprattutto omosessuali (di ogni sesso e tendenza), quasi tutti segnati da scetticismo, scoramento, e a volte dallo squallore più amaro…

La rivoluzione, insomma, è andata a fondo e ciò che rimane a galla sono i relitti del sistema da un lato, i naufraghi dal fallimento dall'altro. Chi si aggrappa ai primi difende lo status quo, non un’idea, chi nuota fra i secondi si preoccupa semplicemente di non affogare. Ciò rende impossibile qualsiasi relazione che vada al di là di una semplice constatazione dei rapporti: chi ancora detiene il controllo ha smesso da tempo di credere nell’indottrinamento, nella convinzione e nell’esempio come arma del consenso, chi ne è succube è consapevole che è comunque il tempo a lavorare in suo favore e si accontenta di durare. Sopravvivere è il suo modo di combattere.

Via via, dunque, che l’attualità da raccontare si rivela sempre più privata e sempre meno pubblica, ovvero si finisce per considerare la res publica come un altro da sé reale, ma non essenziale, l’orizzonte intellettuale si restringe, si fa narcisistico-individuale, non riesce più a essere costitutivo di un’epoca, di una società, di una classe sociale. Negli anni Sessanta, quando Cuba era ancora un esempio e per certi versi un modello, lo scrittore Alejo Carpentier aveva osservato che «nella maggior parte dei romanzi di Balzac i personaggi sono tutti segnati dagli eventi della loro epoca.

Tutti vivono in funzione di qualcosa che è accaduto: la rivoluzione, il crollo dell'impero, la restaurazione della monarchia, i fermenti rivoluzionari». Cinquant’anni dopo, questa sorta di balzacchismo fatto di illusioni perdute, illusioni disattese, illusioni rubate, illusioni sbagliate, ha lasciato il posto all’assenza, più che alla fine delle illusioni stesse: ciò che resta è l'accettazione di una sorta di limbo contemporaneo in cui rifarsi al passato è impossibile, criticare il presente è vietato, sognare un futuro è velleitario e in fondo inutile, perché non c’è nulla su cui farlo poggiare.

Il fatto che ancora oggi Cuba possa esercitare un fascino indipendente dalla miseria politico-ideologica, dalla sua pratica quotidiana, dall'anacronismo di una satrapia familiare cinquantennale, dal contrasto stridente fra una teoria libertaria e una prassi concentrazionaria, la dice lunga sull’incapacità in una certa sinistra di fare i conti con la realtà.

(di Stenio Solinas)

venerdì 20 gennaio 2012

Alla ex destra serve un leader per risorgere


Che fine ha fatto la componente «destra» del Popolo della libertà, quella che un tempo aveva una forte identità di forte minoranza, una grande storia alle spalle e un raggio assai limitato di spazio politico? In ogni società europea e globale c’è un’opinione pubblica di questo tipo e oscilla tra il dieci e il venti per cento della popolazione.

E in alcune situazioni o con leader speciali, può accadere che diventi prevalente. Da noi quel segmento corposo è stato in larga parte domiciliato nel Pdl, in piccola parte nella Lega e il resto disperso in formazioni minori, fughe nell’altrove o nel buco nero dell’astensionismo.

Per molti anni quella destra fu soprattutto l’Msi, ma oltre il nucleo missino c’era l’area conservatrice e cattolica, un tempo incline a rifugiarsi nel ventre democristiano e poi nel berlusconismo. Finì il tempo dell’Msi, finì il tempo di An, finì il tempo del protettorato finiano. Ora sono inquieti, spaesati, scontenti. Vivono ai margini o nella stiva del centrodestra, scarsamente rappresentati, poco visibili e poco influenti, e con la prospettiva di contare ancor meno quando finirà l’esperienza di questo Parlamento e di alcune amministrazioni locali, a cominciare da Roma. Che farà l’ex-destra, mancando l’alibi monarchico del leader gravitazionale, alias Berlusconi? Si scioglierà definitivamente, sopravviverà in piccoli agglomerati o allo stato larvale dentro il Pdl? E il suo domicilio presente diventerà la sua residenza o il suo loculo?

Partiamo da due considerazioni positive e due negative. Le negative: quell’area non ha più un leader di riferimento. Non per alto tradimento ma per basso intendimento: Fini ha mostrato di essere incapace e di non capire i tempi della politica. Oggi sarebbe stato il più quotato successore... E la sua classe dirigente, già di per sé poco spiccata, è dispersa in tre tronconi: i superstiti del Pdl, i frammenti a destra, il cui meteorite maggiore è Storace, e i seguaci di Fini sbarcati in un algido paesaggio lunare, il Terzo polo.

Le positive: al di là di sigle, etichette, collocazioni, leader, esiste ancora un’opinione pubblica sociale, nazionale, statale e tradizionale delle dimensioni europee prima indicate. Entità irriducibile al liberalismo moderato ma anche al popolarismo. Un’area che può allearsi con questi soggetti, ma non può esaurirsi, sciogliersi in loro. Può seguire i suoi interessi immediati ma non può vivere e votare solo sulla base dei suoi interessi immediati. Seconda notazione positiva: l’anno zero dopo il ciclo berlusconiano, l’assenza di prospettive alternative, il deserto di rappresentanza su alcuni temi cruciali della società globale, giocano a suo favore. Non c’è più un nemico incombente, un comunismo occulto che obbliga a fare diga, intrupparsi nel grande centro moderato ed eclissarsi nella subalternità come il male minore; anzi il governo dei tecnici evoca l’esigenza contraria, di riscoprire la politica e il suo primato.

Cosa resta allora da fare a quella area politica proveniente da destra? Innanzitutto un censimento, poi chiamarsi a raccolta, senza limiti di etichetta e collocazione, in una specie di convocazione generale. E qui coniare un documento di riconoscimento e far nascere una fondazione che agglomeri le realtà preesistenti. Magari con una leadership non politica di garanzia, per evitare che finisca tutto in una partitella pre-elettorale o in una guerra egemonica tra gruppi, caporioni e correnti. Quella fondazione deve darsi visibilità, una voce e un portavoce, proiettarsi in una strategia, selezionare un gruppo dirigente, articolarsi in una galassia di realtà periferiche e settoriali.

Insomma uscire allo scoperto. È naturale la sua collocazione all’interno del centrodestra e il suo riferimento, non esclusivo ma prioritario, nell’attuale Pdl. Poi dovrà seguire attivamente gli sviluppi dello scenario politico, senza escludere nulla: per esempio, se mutano le condizioni, doversi costituire in un movimento autonomo, magari alleato ma sovrano in casa sua. Senza però tornare indietro, inevitabilmente postero rispetto alla destra, ai nazionalismi del secolo scorso, e non riconducibile all’alveo liberale.

Area comunitaria, nel senso di tutela e promozione delle comunità in ogni grado: famigliare, locale, nazionale, culturale, religiosa, europea.

Rivoluzionaria e conservatrice, al contempo; ma seriamente rivoluzionaria sul piano degli assetti e seriamente conservatrice nel senso della tradizione. Incentrata sull’Italia ma come civiltà, non come nazionalità. Un patriottismo di civiltà, dove la civiltà non è un territorio ma una visione, un network, una rete; locale, nazionale, sovrannazionale. Un movimento che punti all’educazione, alla meritocrazia, all’autorità e al senso dello Stato, nel quadro di una democrazia comunitaria, decisionista e responsabile.

Penso difficile ma non impossibile la nascita di un movimento del genere. E penso che giovi non solo a se stesso ma anche al centrodestra intero. Ma penso soprattutto che serva oggi all’Italia un moto di passione civile che riparta dall’anno zero per dare un passato e un futuro a un presente troppo assente.

(di Marcello Veneziani)

martedì 17 gennaio 2012

Adesso anche la Chiesa "riabilita" il Gentile teologo


Quando il Papa-filosofo Ratzinger disse che sono più vicini a Dio gli inquieti non credenti che i devoti per routine; quando il cardinal Martini, facendo il verso al papa laico Norberto Bobbio, disse che la vera differenza non è tra chi crede e chi no, ma tra chi pensa e chi no; e quando il teologo Vito Mancuso ha sostenuto che il senso della fede dev’essere stabilito solo dalla ragione, tutta questa santa e illustre comitiva fa un incontro inconsapevole ma imbarazzante: con Giovanni Gentile. Sì, il filosofo del fascismo, ma qui la politica c’entra poco e il fascismo ancor meno. Semmai il filosofo condannato dalla Chiesa per i suoi scritti sulla religione, e questo imbarazza di più.
Potrei citare tutta l’opera gentiliana che coerentemente negli anni esprime la sua posizione su Dio e la religione. Per chi vuole approfondire c’è il corposo La religione (uscito da Sansoni nel 1965) dove sono raccolti i suoi principali scritti e discorsi sulla religione, Dio, il modernismo. Ma tra questi vi invito a leggerne almeno uno: la sua conferenza del 9 febbraio del 1943 a Firenze, La mia religione, che è il condensato del pensiero gentiliano su Dio e la filosofia. Con lo stesso titolo Miguel de Unamuno aveva scritto nel 1910 un testo mistico ed eretico. Raffrontate il discorso gentiliano con il testo di pochi mesi antecedente del suo sodale-rivale Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, una riflessione limpida ma laica sulla religione, considerata più come fattore storico e morale di coesione civile, come per «gli atei devoti». In Gentile, invece, c’è uno spirito fortemente religioso, come notò Del Noce, e un’aperta professione di fede non solo cristiana ma cattolica. E tuttavia, la sua opera fu condannata dalla Chiesa, che non sbagliò dal profilo dottrinario.
Cosa sostiene Gentile? Innanzitutto notate l’approccio personale: come Mancuso premette già nel titolo del suo libro l’Io a Dio, così Gentile premise il pronome possessivo alla religione; la mia religione, il mio cattolicesimo, sempre in prima persona. In secondo luogo, Gentile ricorda alla Chiesa che lo ha condannato che fu lui quando era ministro a reinserire il crocifisso nelle scuole e l’insegnamento della religione; ma la sua idea originaria era che rimanesse nelle scuole di primo grado. Per una ragione filosofica e non didattica: perché per Gentile la religione è la filosofia per l’infanzia, è lo stadio primitivo del pensare, è metafisica per il popolo. La religione deve accompagnare i primi anni di studio, poi tocca alla filosofia. La religione, però, non deve restare in ambito privato, ma farsi pubblica, comunitaria. Sono belli e toccanti, nel discorso fiorentino, i ricordi di Gentile della sua infanzia, la fede inculcatagli della madre, la sua voce che risuona nella sua memoria; e poi del sacerdote don Onofrio Trippodo, precettore dei suoi figli, di cui ricorda una lezione: l’importante è credere in Dio, anche se ciascuno a modo suo. Due ricordi citati per rafforzare la sua idea della religione come educazione morale e spirituale puerile, impartita dalle madri, che da adulti diviene libera professione di fede. A ogni io il suo dio.
È curioso notare che nella sua conferenza Gentile rivendica il diritto, anzi la virtù, del libero pensiero nella religione. Ognuno è cattolico a modo suo, dice Gentile, niente pensiero unico imposto dalla Chiesa. La stessa cosa sostiene ora Mancuso. Gentile lo faceva richiamando la tradizione filosofica cristiana e in particolare la poligonia teorizzata da Gioberti. Peccato però che il Gentile filosofo politico contraddica il Gentile filosofo religioso e sostenga invece che la libertà del singolo qui coincide col volere universale dello Stato. Anche nei Discorsi di religione lo ribadisce: lo Stato è un solo, grande uomo e coincide con il suo popolo. Un uomo, un popolo, uno Stato. Perché lo stesso impianto monistico non vale per la religione - un papa, un’ecclesia, una dottrina e un’istituzione? La libertà che per il cittadino deve identificarsi nello Stato, non s’identifica invece per il credente nella Chiesa. La poligonia religiosa non diventa pluralismo in politica. Bella incoerenza.
***
Secondo Gentile la religione nel suo grado più alto si risolve nella mistica, in cui l’io si annulla in Dio, il soggetto nell’oggetto. La filosofia realizza la sintesi tra soggetto e oggetto, tra Io e Dio; una sintesi che non si compie una volta per tutte, ma è processo incessante dello spirito. «La religione vive dentro la filosofia».

Non più dunque itinerarium mentis in deum, come voleva San Bonaventura, ma il suo contrario: itinerario di Dio nella mente, ossia nella filosofia. Il Dio di Gentile vive dentro la filosofia, che a sua volta vive nella storia dello spirito. Con altro linguaggio Heidegger aveva sostenuto un processo analogo, la religione è come in una matrioska: la divinità rimanda al sacro e il sacro abita nell’Essere. Ma lo Spirito di Gentile, l’Essere di Heidegger, come l’Uno di Platone e di Plotino, cosa sono? Forse il Dio ignoto di una nuova teologia negativa? È come la radice oscura del Dio cristiano e di ogni dio. È trascendente o immanente? Sappiamo che è nel Pensiero, pastore dell’Essere o luce dello spirito. E tuttavia quel Dio gentiliano è l’ospite inatteso evocato dal cardinal Martini, da Bobbio, da Mancuso e perfino da Papa Ratzinger. Un Dio dei pensanti, non dei credenti. Il Dio cercato dagli inquieti, dice Benedetto XVI, e così diceva pure Gentile concludendo il suo discorso: «La vita è ricerca - come poi ribadirà il suo allievo Ugo Spirito in un’opera intitolata La vita come ricerca - e se vi lascio insoddisfatti, benedetta sia l’inquietudine che vi ho data». Aprendo agli inquieti, il papa filosofo mira a ricucire non tanto lo scisma di Martin Lutero, ma l’altro scisma tedesco dell’altro Martin: Heidegger, e con lui la filosofia tedesca. A cui si abbeverò pure Gentile, nel versante idealista. I circoli viziosi ma divini della filosofia con la teologia.

(di Marcello Veneziani)

domenica 15 gennaio 2012

Com’è l’Unione Europea? Peggio dell’Unione Sovietica


Il dissidente russo Bukovsky (nella foto n.d.r.) lo aveva predetto: “Un mostro come l’Urss guidato da burocrati autoeletti e fondato sulle minacce finanziarie”. Eravamo da sempre il Paese più europeista. Fino a un anno fa. In dodici mesi la fiducia degli italiani nell’Unione europea è precipitata. Secondo l’ultimo rilevamento dell’Ipsos ha perso addirittura 21 punti percentuali (passando dal 74 per cento al 53). Un crollo che dovrebbe far riflettere i politici e soprattutto le tecnocrazie europee a cui gli italiani sono sempre più ostili. Anche perché il crollo della fiducia degli italiani non è un fatto emotivo passeggero, né uno stato d’animo superficiale. Al contrario. Il loro europeismo era a prova di bomba.

Hanno accettato di fare sacrifici per entrare nella moneta unica, hanno accettato perfino di farsi spennare da un cambio lira/euro estremamente penalizzante e poi hanno subito – senza fiatare – il sostanziale raddoppio di tutti i prezzi con l’inizio dell’euro (un impoverimento di massa). La loro fiducia è crollata solo davanti alla scoperta che la sospirata moneta unica – che tanto ci era costata – realizzata in quel modo (senza una banca centrale e un governo come referenti ultimi) era una trovata assurda e fallimentare di tecnocrazie incompetenti e arroganti. Grazie a questo incredibile esperimento, l’Italia – un Paese solvibilissimo e che ha la sesta economia del pianeta – sta ora rischiando il fallimento (del tutto ingiustificato visti i suoi fondamentali).

LA PROFEZIA
Quello che gli italiani ignorano è che tale disastro era stato previsto. E pure che la china antidemocratica che l’Ue sta imboccando da venti anni a questa parte era evidente ed era stata denunciata. L’affievolimento della democrazia e dei diritti individuali, la dittatura del «politically correct», è qualcosa a cui purtroppo facciamo meno caso – come si vede in queste settimane in Italia – ma è perfino più grave del fallimento politico ed economico della Ue.

Una delle voci nel deserto che videro in anticipo è quella di un eroico dissidente russo, Vladimir Bukovsky, uno così temerario e indomabile che già a venti anni era inviso al regime comunista sovietico il quale lo rinchiuse nei manicomi politici e nel gulag, torturandolo (infine – pur di disfarsene – lo cacciò via nel 1976 in cambio della liberazione in Cile del leader comunista Luis Corvalan). Ebbene, Bukovsky, in una conferenza nell’ottobre del 2000, riportata di recente su Italia oggi, se n’era uscito con affermazioni che sembrarono allora esagerate, che forse lo sono, ma che – alla luce degli ultimi eventi – rischiano di essere semplicemente profetiche.

Non mi riferisco solo a eventi come il commissariamento dell’Italia e della Grecia e il tentato commissariamento (in corso) dell’Ungheria, ma anche alle cessioni di sovranità dei diversi stati mai sottoposte ai referendum popolari o alle bocciature di tali cessioni (nei referendum o nei parlamenti) che sono state sostanzialmente ignorate. «Per quasi 50 anni», disse Bukovsky «abbiamo vissuto un grande pericolo sotto l’Unione Sovietica, un paese aggressore che voleva imporre il suo modello politico a tutto il mondo.

Diverse volte nella mia vita ho visto per puro miracolo sventare il sogno dell’Urss. Poi abbiamo visto la bestia contorcersi e morire davanti ai nostri occhi. Ma invece di esserne felici, siamo andati a crearci un altro mostro. Questo nuovo mostro è straordinariamente simile a quello che abbiamo appena seppellito». Si riferiva all’Unione europea. Argomentava: «Chi governava l’Urss? Quindici persone, non elette, che si sceglievano fra di loro. Chi governa l’Ue? Venti persone non elette che si scelgono fra di loro».

Bisogna riconoscere che oggi abbiamo addirittura governi non eletti (come quello italiano) con un programma dettato dalla Bce. Diceva ancora Bukovsky: «Come fu creata l’Urss? Soprattutto con la forza militare, ma anche costringendo le repubbliche a unirsi con la minaccia finanziaria, facendo loro paura economicamente. Come si sta creando l’Ue? Costringendo le repubbliche a unirsi con la minaccia finanziaria, facendo loro paura economicamente.

Per la politica ufficiale dell’Urss le nazioni non esistevano, esistevano solo i “cittadini sovietici”. L’Ue non vuole le nazioni, vuole solo i cosiddetti “europei”. In teoria, ogni repubblica dell’Urss aveva il diritto di secessione. In pratica, non esisteva alcuna procedura che consentisse di uscirne. Nessuno ha mai detto che non si può uscire dall’Europa. Ma se qualcuno dovesse cercare di uscirne, troverà che non è prevista nessuna procedura».

Bukovsky arrivava fino a giudizi pesantissimi, sicuramente esagerati, ma chi ha subito ciò che lui ha subito in difesa della libertà di coscienza ha tutto il diritto di essere ipersensibile a ogni violazione della libertà di pensiero e dei diritti individuali: «L’Urss aveva i gulag. L’Ue» aggiungeva Bukovsky «non ha dei gulag che si vedono, non c’è una persecuzione tangibile. Ma nonostante l’ideologia della sinistra di oggi sia “soft”, l’effetto è lo stesso: ci sono i gulag intellettuali. Gli oppositori sono completamente isolati e marchiati come degli intoccabili sociali. Sono messi a tacere, gli si impedisce di pubblicare, di fare carriera universitaria ecc. Questo è il loro modo di trattare con i dissidenti».

Un’esagerazione certamente, ma è la sua stessa vicenda personale a far riflettere sulla libertà del pensiero e della cultura in Europa occidentale. Quanti in Italia conoscono Vladimir Bukovsky, il leggendario dissidente, l’eroico difensore della libertà di coscienza? Eravamo pochissimi isolati che nei primi anni Sessanta ne seguivamo le peripezie (nei manicomi politici e nei lager): i miei coetanei – specie quelli che oggi pontificano dai giornali come giornalisti, opinionisti e intellettuali – avevano come loro mito i vari Mao, Fidel Castro e perfino Stalin. Oggi molti di loro – dopo essersi autoassolti – impartiscono lezioni di liberaldemocrazia dai mass media, ma senza mai aver fatto un vera «mea culpa», infatti continuano a cantare in coro. E continuano ad avere in gran dispetto le voci libere come Bukovsky.

AUTOASSOLUZIONI
Il motivo semplice. Perché mette sotto accusa le élite culturali europee (e anche quelle politiche). Perché è un uomo che – dopo aver sfidato il Kgb e la cappa di piombo del regime sovietico – ha sfidato la cappa di piombo del conformismo «politically correct» occidentale. È uno che nei suoi libri scrive: «Il comunismo è una malattia della cultura e dell’intelletto… Le élite occidentali penso non capissero l’universalità di quel male, la sua natura internazionale e quindi il carattere universale della sua pericolosità».

La sua ha continuato ad essere una voce scomoda e isolata perché – dopo il crollo delle feroci nomenclature comuniste – non ha chiesto vendetta, ma ha pure rifiutato che si autoassolvessero e restassero al potere. Ha scritto in un suo libro: «Noi siamo pronti a perdonare i colpevoli, ma loro non devono assolversi da sé». È chiaro perché uno così, in un paese come l’Italia, è sconosciuto e continua ad essere una voce silenziata. Infatti quante volte è stato fatto parlare in tv o sui giornali italiani?

Parla in Gran Bretagna, in America… Ma in Italia è una voce silenziata. Quali case editrici hanno pubblicato i suoi libri? Prendiamo il volume che ha scritto, dopo il crollo dell’Urss, quando poté tornare a Mosca e pubblicare i documenti degli archivi del Cremlino: chi ha tradotto quel libro in Italia? La piccolissima editrice Spirali. Infatti «Gli archivi segreti di Mosca» è pressoché sconosciuto e ben pochi ne han parlato sui giornali. Eppure riguardava anche noi italiani.

Voci profetiche come quella di Bukovsky devono far riflettere soprattutto in un Paese come il nostro dove ha sempre scarseggiato la sensibilità per i diritti dell’individuo e ha sempre abbondato il conformismo culturale, la prevaricazione delle nomenklature e quella dello stato. L’allarme del dissidente russo sull’Europa ci riguarda e ci deve far riflettere. Oggi più che mai. Ma ancora una volta sono poche le voci che sono sensibili all’allarme sulla libertà.

(di Antonio Socci)

E io urino sulla vostra "civiltà"


La cultura superiore. Piscia sui cadaveri dei nemici uccisi, piscia sui prigionieri, dopo averli denudati, derisi, fotografati, portati in giro in carriola per renderli più ridicoli, piscia sui loro simboli religiosi. Pisciano i soldati della cultura superiore, quasi spurgo simbolico del marciume del mondo cui appartengono, ma non sanno più combattere. Per questo il più potente, moderno, sofisticato, tecnologico, robotico esercito che abbia mai calcato la scena, dopo dieci anni di occupazione sta perdendo la partita in Afghanistan ed è costretto a pietire dal nemico una qualsiasi ‘exit strategy’ che mascheri la vergognosa sconfitta. Che oltre, e prima, che militare è morale.


I Talebani sono feroci e crudeli in battaglia, certo, ma non pisciano sui nemici uccisi, non pisciano sui prigionieri ma li trattano, finché conservano questo status, con rispetto e, se sono stranieri, come ospiti. Possono uccidere, e uccidono, ma non torturano. Hanno conservato il senso di sé e della propria e altrui dignità, valori prepolitici, prereligiosi, di cui la cultura superiore si è completamente svuotata. Hanno provato a corromperli in tutti i modi, i Talebani, ma non ci sono riusciti. Sulla testa del Mullah Omar, il loro capo indiscusso, pende una taglia di 25 milioni di dollari, ma in dieci anni non si è trovato un solo afghano disposto a tradirlo per una cifra che è enorme in sé e quasi inconcepibile da quelle parti. Nella cultura superiore uomini ricchi e potenti si vendono per un soggiorno in albergo, per un affitto, per un viaggio in aereo, per una nota spese mentre le donne, libere donne non oppresse dalla necessità, si fan comprare per 1.000 euro o poco più.

La Cia è arrivata al ridicolo di offrire agli anziani capi tribali afghani, che han molte mogli, il Viagra. A questi livelli si è abbassata la cultura superiore. Gli occidentali son sempre pronti ad accusare i propri nemici di perpetrare stupri (nel caso dei Talebani cosa ridicola, esclusa proprio dalla loro sessuofobia) ma non fanno che proiettare, come si dice in psicoanalisi, la propria ombra. Se i Talebani sono sessuofobi, gli occidentali sono sessuomani, ma non per un eccesso di virilità, bensì per il suo contrario, per impotenza, per estenuazione e son costretti a volare a Phuket per trarre, violando bambine, dal loro membro floscio, oltre che piscio, una goccia di sperma.

Gli occidentali, affogati nella grascia del benessere, non sono più abituati al combattimento in senso proprio. Il sudore e la ferocia del corpo a corpo gli fa orrore, la vista del sangue, se non è televisivo, li manda in deliquio. Appena possono i loro soldati evitano il combattimento. Usano quasi esclusivamente i caccia e i bombardieri contro un nemico che non ha aerei né contraerea ed è quindi inerme. E se in qualche caso vengono coinvolti in uno scontro ravvicinato, e subiscono le pesanti perdite che quotidianamente, con tranquilla coscienza, infliggono agli altri, lo sentono come un affronto, una slealtà, una vigliaccata, qualcosa di cui sdegnarsi, un atto illegittimo e immorale. Per la cultura superiore è morale invece che aerei-robot colpiscano e uccidano teleguidati a diecimila chilometri di distanza da piloti che non corrono alcun rischio, nemmeno quello di infangarsi le scarpe. Dall’altra parte ci sono, all’opposto, uomini, armati quasi solo del proprio corpo, del proprio coraggio, della feroce determinazione a difendere i propri valori, giusti o sbagliati che siano, e che, per questo, si implicano totalmente. Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha detto: “Se potessi farei combattere solo i robot per risparmiare le vite dei nostri soldati”. Ma è il combattente che non combatte a perdere ogni legittimità, ogni dignità e onore. Questa è la cultura superiore. Io ci piscio sopra.

(di Massimo Fini)

«Dietro queste bocciature ci sono interessi americani»


La tregua in Borsa è durata solo un giorno. Ventiquattr’ore e poi la sindrome spread è ripartita. «Non torneremo più ai periodi di pace economica e finanziaria a cui eravamo abituati in passato» è la malinconica constatazione di Giovanni Manghetti.

Nel racconto di questo banchiere, già presidente dell’Isvap e oggi a capo della Cassa di Risparmio di Volterra, c’è la consapevolezza che una nuova stagione di instabilità si è aperta e che non potremo uscirne senza un’azione concertata a più livelli: dai governi alle autorità internazionali, dalle banche alle imprese sino all’opinione pubblica, mondiale e nazionale.

Ecco perché la nuova bocciatura di Standard & Poor’s ai Paesi della zona euro va letta in una prospettiva diversa rispetto a quelle precedenti: è come un segno dei tempi, il simbolo di un attacco inedito a tutto il Vecchio continente.

«Le agenzie di rating in questo momento hanno occhiali per vedere più le debolezze del sistema politico europeo, che i suoi punti di forza. Si rendono conto che le nostre economie sono molto fragili e colpiscono duramente il debito dei Paesi sovrani. Ma non dimentichiamo quali sono gli interessi che rappresentano».

A cosa si riferisce?


Dietro a S&P ci sono gli interessi americani, che rischiano di inquinare sempre di più l’autonomia delle società di valutazione internazionali. E gli Stati Uniti non sono certo spettatori disinteressati di quanto sta accadendo in Europa. Il 2012 sarà un anno elettorale negli Usa e non si sa fino a quando la loro opinione pubblica potrà accettare un dollaro così debole nei confronti della moneta unica.

Per l’Italia non è il primo downgrading, per la Francia invece sì. Che effetti ci saranno?


Abbassare il giudizio sulla capacità di solvibilità di un Paese significa, a catena, declassare le grandi banche e le grandi imprese. Serve subito una risposta coerente e decisiva da parte dell’Europa, innanzitutto a livello politico. In tre direzioni: rafforzamento immediato del Fondo salva Stati, accelerazione sul via libera agli Eurobond e provvedimenti radicali a favore della crescita.

La Germania si è salvata dal ciclone di S&P. Non c’è il rischio che questo finisca per accelerare il suo desiderio di staccarsi dal resto d’Europa?


Anche a Berlino pesano molto gli equilibri interni e in questi mesi le preoccupazioni tedesche sono state comprensibili. Ma ora è sempre più in gioco l’unità dell’Europa e la costruzione stessa della moneta unica. Non è l’ora delle barricate, è l’ora della responsabilità. Con le mosse delle agenzie di rating, si finisce per minare ulteriormente la stabilità dei mercati e questa debolezza si ripercuoterà su Stati come il nostro, con debito alto e crescita zero.

Un altro segnale di sfiducia resta la liquidità "parcheggiata" in quantità crescente dalle banche presso la Bce. Perché?

Le banche negli ultimi mesi hanno fatto alcuni errori di tipo strategico, sottovalutando l’importanza del mercato interbancario. Riversando a Francoforte la liquidità in eccesso, hanno dimostrato di non fidarsi le une delle altre. Per questo andrebbe creato un prestito overnight di 24 ore, in grado di rilanciare la fiducia tra i diversi istituti attraverso accordi bilaterali.

(di Diego Motta)

lunedì 9 gennaio 2012

Afghanistan: trattativa allo scoperto tra Usa e Mullah Omar


Nelle more della crisi economica mondiale è passata quasi inosservata una notizia che potrebbe avere sviluppi clamorosi.

Zabibullah Mujiahid, portavoce del Mullah Omar, il leader storico dei Talebani, ha reso noto di aver raggiunto un accordo preliminare col Qatar per aprire a Doha una sede diplomatica dell’Emirato islamico d’Afghanistan (così era denominato l’Afghanistan nei sei anni, 1996-2001, in cui fu governato dai Talebani). Recita il comunicato: «Siamo ora pronti ad aprire un ufficio politico oltremare al fine di arrivare a un’intesa con la comunità internazionale. A questo riguardo abbiamo raggiunto un accordo preliminare col Qatar». Cosa significa? Che le trattative più o meno segrete che gli americani stanno conducendo da due anni con i Talebani per trovare una «exit strategy» dignitosa dall’Afghanistan, dove sono in guerra da dieci anni, diventano ora ufficiali e che gli Stati Uniti, dopo i vari tentativi falliti di prendere accordi con qualche scartina del movimento talebano, si sono decisi a «bere l’amaro calice» e cioè di trattare direttamente col Mullah Omar, il capo indiscusso degli insorti, sul quale pende tuttora una taglia di 25 milioni di dollari ma che è anche l’unico che ha l’autorità per fermare la guerriglia.

La storia delle trattative comincia nel 2008 quando in Arabia Saudita, sotto il patrocinio del re Abdullah, uomini di Omar si incontrarono con emissari del presidente-fantoccio dell’Afghanistan, Hamid Karzai. In quell’occasione Omar fu durissimo: promise a Karzai solo un salvacondotto per lui e la sua cricca. Karzai sarebbe stato ben felice di filarsela negli Stati Uniti con la montagna di soldi rapinati al suo Paese. Ma gli americani glielo impedirono e cercarono, con le elezioni-farsa del 2009, di trovare un altro presidente, più presentabile, ma non lo trovarono. Ultimamente Omar si era fatto più morbido con Karzai e gli aveva proposto due opzioni. 1) Tu sei per gli americani il legittimo presidente dell’Afghanistan, democraticamente eletto. In questa tua veste pretendi che le truppe straniere lascino immediatamente il Paese. 2) Unisciti a noi, alla guerriglia, riscatterai dieci anni di collaborazionismo con gli americani e poi potrai avere ancora un ruolo in Afghanistan. Karzai era lì lì per per accettare («Se le truppe straniere continuano a comportarsi con questa arroganza finisce che mi alleo con i talebani»). Questo ha convinto gli americani a rompere gli indugi e a trattare direttamente col Mullah Omar, tagliando fuori Karzai (che non è stato messo nemmeno al corrente delle trattative in Quatar).

La trattativa conviene a entrambe le parti, la situazione è infatti di stallo: i talebani, che godono ormai dell’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione che non ne vuole più sapere degli stranieri, hanno riconquistato l’80% del Paese, ma non sono in grado, per l’enorme sproporzione militare delle forze in campo, di prendere le grandi città. Gli americani, con la crisi economica, non possono più permettersi di spendere 40 miliardi di dollari l’anno per una guerra senza senso né scopo che può durare all’infinito («la guerra che non si può vincere»).

La trattativa si presenta difficilissima. Gli americani vogliono comunque mantenere in Afghanistan basi aeree e un contingente di terra sia pur molto ridotto. Il Mullah Omar ha posto come condizione che alla fine delle trattative non un solo soldato straniero rimanga sul suolo afgano. Non ha combattuto metà della sua vita (dieci anni contro gli invasori sovietici, due contro i «signori della guerra», altri dieci contro gli occupanti occidentali) per vedersi imporre, alla fine, una «pax americana».

(di Massimo Fini)