lunedì 27 febbraio 2012

Pansa: spiego a Caselli che significa essere contestato


Diventare un uomo ridicolo. Dopo aver tanto lottato contro terroristi e mafiosi, è questo il rischio che corre Giancarlo Caselli, super magistrato e capo della Procura di Torino. Lo corre per un motivo sciocco: considerarsi l’unica vittima di estremisti violenti che contestano i suoi libri e il suo lavoro. Caselli dimentica di essere soltanto l’ultimo dei tanti costretti a fare la stessa esperienza. E adesso gli racconterò il mio caso. Nel 2003 pubblico Il sangue dei vinti, libro che racconta le vendette dei partigiani dopo il 25 aprile, contro i fascisti sconfitti. Nasce un trambusto pazzesco sui giornali e alla tivù. Vecchi amici di sinistra mi accusano di averlo scritto per soldi e su ordine di Silvio Berlusconi, in quel momento al governo. Ma la piazza, o la piazzetta, non si muove. Deve assalire il Caimano e non ha tempo da perdere con un microbo come me. Continuo a scrivere libri revisionisti sulla guerra civile e nell’ottobre 2006 esce La grande bugia. La stagione politica è cambiata. Adesso al governo c’è il secondo centrosinistra di Romano Prodi. Il Cavaliere è sconfitto e può essere lasciato in pace. L’attenzione si sposta sul microbo Pansa. Un testardo che si merita una bella lezione. Il 16 ottobre 2006 si tiene a Reggio Emilia il primo di una serie di dibattiti su quel libro. Il salone di un hotel della città è strapieno. A dialogare con me c’è Aldo Cazzullo, giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Sto per rispondere alla sua domanda iniziale quando nella sala, tra la gente, emerge una dozzina di violenti. Vogliono interrompere la serata e punirmi.

Il capo del gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura. Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato - con l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone.

Aldo Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17 ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.

Soltanto dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro. Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti».

Sempre il 18 ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini. Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla». Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.

L’assalto di Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa. Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».
Presentare un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente. Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando: «Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi: non è per niente così».

Da allora sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi.

(di Giampaolo Pansa)

Cassa integrazione, istituto superato. Impariamo dalla Svizzera


In era preindustriale non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati «servi della gleba» (più correttamente chiamati servi casati) è vero che non potevano lasciare i campi del feudatario, ma non potevano nemmeno esserne cacciati. Nel settore artigiano era proibita la concorrenza (si vadano a leggere gli statuti), la stella polare del sistema nato con la Rivoluzione industriale. Le terre erano divise non secondo il criterio del maggior rendimento ma dell’equità sociale (G. Felloni, "Storia economica dell’Europa dal Medioevo all’Età moderna"). Il concetto di base era che ogni nucleo familiare doveva avere il suo spazio vitale. Non era un sistema particolarmente efficiente ma era umano, non era particolarmente razionale ma era ragionevole.
Ma questi erano gli scandalosi «secoli bui». Oggi noi tutti parliamo tranquillamente di «mercato del lavoro» senza più percepire l’ignominia di questo concetto.

Il lavoro, cioè l’uomo, è diventato una merce come un’altra, che si può vendere e comprare come gli schiavi dell’antichità. Ma finché il sistema è questo, in attesa che crolli da solo (perché un modello che si basa sulle crescite all’infinito, che esistono in matematica ma non in natura, nel momento in cui non può più crescere, e ci siamo vicini, collassa su se stesso) è all’inverno dei suoi schemi che dobbiamo ragionare. In questo senso la cassa integrazione, della cui abolizione si sta discutendo, è del tutto irrazionale. È stata il modo che l’assistenzialismo clientelare ha assunto nel Nord Italia (al Sud prevalevano le pensioni di vecchiaia fasulle e di invalidità false). Quando il mercato tirava l’imprenditore assumeva e si gonfiava come una rana, quando si contraeva metteva i lavoratori in cassa integrazione, scaricandone il costo sulla collettività. Si chiamava, per l’imprenditore, «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite». Ma il sistema faceva comodo anche al lavoratore. Del 1974 feci, per l’Europeo, un’inchiesta sulla prima cassa integrazione in Italia, alla Fiat di Torino. Parlai naturalmente con gli operai e dopo un po’ mi accorsi che, dietro i piagnistei di facciata, tutto volevano fuorché tornare a lavorare in fabbrica. Erano in maggioranza «barotti», operai di origine contadina che avevano conservato i loro campi. Col 90% circa del salario e tutto il tempo a disposizione per coltivare la propria terra chi glielo faceva fare di cercarsi un altro lavoro? Ma nella stessa situazione si trovavano anche gli altri operai che, lavorando in nero, prendeva in pratica, due salari rimanendo però legati all’azienda con un contratto a tempo indeterminato, indissolubile. Ma questa manna la pagava il contribuente.

Nella vicina Svizzera il lavoratore può essere licenziato in ogni momento e prende un alto sussidio di disoccupazione (come il neolaureato o il neodiplomato in cerca del primo lavoro). Nel frattempo può frequentare, gratuitamente, corsi di riqualificazione che lo orientano verso settori della produzione che in quel momento van bene. Dopo un po’ l’Ufficio del Lavoro gli fa una proposta di impiego. E il lavoratore può rifiutarla. Dopo un altro po’ gliene fa una seconda che il lavoratore può rifiutare. Infine gliene fa una terza che il lavoratore può sempre rifiutare. Ma perde il sussidio. Così invece di immobilizzare forza-lavoro dove il lavoro non c’è come avviene con la cassa integrazione, la smista dove il lavoro c’è. Un sistema semplice e logico. Ma la Svizzera è un Paese jansenista, noi siamo invece bizantini.

(di Massimo Fini)

martedì 21 febbraio 2012

I pm e la moglie di Cesare


Una volta tanto sono d’accordo con Giorgio Napolitano e non con Marco Travaglio, nella parte del discorso pronunciato dal capo dello Stato davanti al Csm in cui critica le “troppe esternazioni” dei magistrati e in quell’altra dove si dice contrario all’assunzione, da parte dei magistrati, “di incarichi politici e alla riassunzione di funzioni giudiziarie dopo averli svolti o essersi dichiarati disposti a svolgerli”. Un tempo il magistrato si esprimeva solo “per atti e documenti”. Non mi riferisco all’Ottocento. Nel 1970-71, quando facevo il cronista giudiziario per l’Avanti!, i magistrati non parlavano con nessuno, tantomeno con i giornalisti. Se volevi le notizie su un’indagine dovevi andartele a cercare (mi ricordo la corte che feci al buon Emilio Alessandrini, col quale c’era un’istintiva simpatia, inutilmente).

Del resto il codice di Alfredo Rocco (1931), che sarà stato anche un fascista, ma era un grande giurista (niente a che vedere con gli Alfano e i Nitto Palma), tende a staccare il più possibile, fin quasi a renderla astratta, la persona del magistrato della sua funzione, in particolare per l’attività del Pubblico ministero che è la più delicata perché si svolge nel campo, per definizione incerto, delle indagini preliminari (non a caso il Pm si chiama ‘sostituto procuratore della Repubblica’ e, in passato, era sottoposto a una rigida gerarchia).

Agli stessi criteri rispondeva l’avanzamento di carriera per anzianità. Si sacrificava il merito, e anche l’efficacia, per togliere al Pm la tentazione di pericolosi personalismi. La ragione di tutto ciò è evidente: la persona del magistrato è sempre attaccabile (se non lui, avrà una moglie, dei figli, degli amici), la funzione no. La personalizzazione di Mani Pulite nella figura di Antonio Di Pietro permise a Craxi di calare il famoso ‘poker d’assi’ (che poi erano, al massimo due sei, e come se, tra l’altro, l’eventuale corruzione del Pm sanasse quelle altrui e non si aggiungesse, invece, a esse).

Le ‘esternazioni’ indeboliscono la posizione del magistrato. Il magistrato infatti, come la moglie di Cesare, non solo deve essere imparziale, ma deve anche apparire tale. Se ‘esterna’ e fa trasparire le sue convinzioni politiche (meglio se non ne avesse) diventa facilmente attaccabile. Dice: ma il magistrato è un cittadino e la libertà di manifestare il proprio pensiero è garantita a tutti dall’articolo 21 della Costituzione. Non è esattamente così. Ci sono cariche che limitano questa libertà. Per esempio il capo dello Stato ha un dovere di imparzialità e non può esprimere giudizi su questo o quel partito, su questo o su quell’uomo politico. Così un magistrato non può esprimere giudizi su inchieste in corso, proprie o altrui, ma nemmeno giudizi politici per non minare la sua ‘terzietà’ (anche il Pm, checché se ne pensi, è ‘terzo’, tanto è vero che può chiedere il proscioglimento dell’indagato, cosa che non avverrebbe se fosse solo ‘accusa’). Si deve limitare a valutazioni strettamente tecniche.

Un magistrato non dovrebbe fare politica, perché getta inevitabilmente un’ombra sulla sua attività pregressa, per quanto integerrima e imparziale possa essere stata. Meno che mai, come sottolinea Napolitano, dovrebbe poter riprendere il suo ruolo “dopo aver svolto incarichi politici o essersi dichiarato disposto a svolgerli”. Sono limitazioni pesanti. Ma quello del magistrato, come quello del medico, non è un mestiere come un altro, è, o dovrebbe essere, una vocazione in nome della quale si devono accettare sacrifici estranei agli altri cittadini. Ma mi rendo conto che le mie sono ‘prediche inutili ‘ in un Paese che ha perso tutti ‘i fondamentali’ e Adriano Celentano è un ‘maître à penser’.

(di Massimo Fini)

Così l’Italia fascio-sportiva stregò anche gli Stati Uniti


A confermare l’indole poco italiana del governo Monti è arrivato la scorsa settimana il no alle Olimpiadi a Roma. Il ricordo inverso risale all’Italia democristiana che volle le Olimpiadi nel 1960 e soprattutto al regime fascista che fece dello sport la sua bandiera e celebrò il suo trionfo alle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles, dove fu l’Italia fu prima in medaglie dopo i padroni di casa.

Lo sport dava al fascismo la possibilità di celebrare la volontà di potenza e incarnare il mito del superuomo, esaltare il vitalismo e il culto della giovinezza, concepire la vita come la continuazione della guerra con altri mezzi e mobilitare il popolo, le donne, i giovani nella partecipazione attiva a eventi e parate che creavano coesione sociale e rito collettivo. Con lo sport il fascismo riprendeva il culto classico, greco-romano, dell’agonismo e il mito dell’atleta, come un eroe in tempo di pace, caro agli dei e ai popoli; l’elogio del corpo muscoloso e armonioso, il mito dell’educazione fisica e la nascita degli Istituti, poi Isef, il valore pedagogico della ginnastica. Mens sana in corpore sano.

Ma il fascismo partecipava pure al mito d’epoca, lo sport di massa e il culto del record, la concezione anglosassone poi americana dello sport come grande catalizzatore di energie e di simboli, fattore di coesione sociale e di salute pubblica. Nello sport si celebravano i miti della modernità: il culto della velocità e il corpo liberato, lo spettacolo della forza e la forza dello spettacolo, il primato dell’azione e il pragmatismo, l’emancipazione femminile, il prolungamento della giovinezza e l’esuberanza delle energie vitali. In questo, il fascismo era figlio di quel tempo che aveva ripristinato le Olimpiadi e aveva reso lo sport un formidabile strumento di ricreazione e divertimento. Lo sport inseriva appieno il fascismo nella corrente della modernità, pur nel culto classico dell’atleta. C’è un sottinteso paganesimo nel regime che esalta il corpo, il vigore e la bellezza, la salute e l’ardimento e considera gli eroi dello sport come divi o semidei.

Il culto dello sport ha attraversato le culture civili e politiche del novecento, a cominciare da quelle più rivoluzionarie: difatti, il mito dello sport fioriva nelle società in cui si celebrava il mito dell’uomo nuovo e dell’ordine nuovo. Vale a dire l’americanismo e il nazionalismo, il comunismo e il fascismo; accomunate da quella passione futurista che contagiò Roma e Parigi, Mosca e New York e che fu il pendant artistico-letterario del mito sportivo e dinamico. Anche il consenso al comunismo di Stalin e dei paesi dell’est, di Mao e poi di Castro non è immaginabile senza la mobilitazione agonistica. Le società di ginnastica, i Wanderwogel e i club sportivi furono formidabili incubatrici del nazionalismo in Germania. Sono noti i testi di George Mosse sul nesso tra l’esaltazione e la propagazione dello sport e l’esaltazione e la propagazione del nazismo. Nel culto dello sport si ritrovava l’album ideologico e letterario che aveva portato al fascismo: l’ardito dannunziano e malapartiano, lo spirito nietzschiano e lo stil novo marinettiano, il mito imperiale della romanità e dei circenses.

L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi popolari e valorizzati dal regime e dai suoi mezzi di informazione e propaganda: da Girardengo all’olimpionico Pavesi, mitici eroi a pedali, all’atleta Beccali che trionfò a Los Angeles, il mito di Carnera, le trasvolate atlantiche di Balbo, le imprese di de Pinedo e Locatelli, le gare in auto di Tazio Nuvolari, la Nazionale di Vittorio Pozzo, Piola e Meazza, le dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris. Pozzo faceva cantare negli spogliatoi prima di ogni partita ai calciatori gli inni nazionali e i canti del fascismo. Era la loro cocaina. La Nazionale di Pozzo nell’arco di quattro anni vinse due campionati del mondo e un’olimpiade.

Lo sport si inserisce nell’estetizzazione della politica fascista: l’apologia dello sport, intrecciava vitalismo, culto della bellezza e culto del corpo tornito, muscoloso, senza adipe. Ma nell’esaltazione dello sport vi era anche il tratto etico, quasi platonico, del fascismo, la convinzione di poter educare tramite la disciplina e il gioco, la rinuncia e il sacrificio, la dura ascesi e l’esercizio faticoso. Non solo estetica ma etica. Lo sport diventava così il volto ludico dello Stato etico, in cui la funzione ricreativa e dopolavoristica si univa a quella etica e formativa. L’ideologia plasmava i corpi, la rivoluzione cominciava dalla vita all’aria aperta. Lo sport alimentava poi il senso della gerarchia, l’attenersi alle regole e seguire un ordine; insomma dare un limite, una forma e un’espressione armoniosa alla propria esigenza vitale.

Nell’esortazione allo sport vi era l’ideologia fascista del dovere, del coraggio e del sacrificio, ordine, gerarchia e disciplina. Ma vi era anche un sottinteso riscatto popolare e antiborghese. Lo sport era accessibile a coloro che erano già abituati ai sacrifici e alla vita dura, al lavoro manuale e allo sforzo fisico, dunque adatto ai ceti popolari.

E più ostico ai borghesi panciafichisti, come allora si diceva. Lo sport esaltava chi sapeva sopportare il duro regime atletico e si sottoponeva a esercizi pesanti e a diete ingrate. Così lo sport diventava un formidabile fattore di promozione sociale del proletariato; tramite lo sport trovavano possibilità di emergere anche i figli del popolo.

Lo sport generava una meritocrazia fondata sulle sole risorse personali e sulla disciplina, una specie di socialismo aristocratico, naturale, ardito e ascetico. Abissale resta la differenza tra il culto del corpo tramite lo sport e il mito razzista del sangue.

La mitologia sportiva investe anche Mussolini che figura come un grande atleta e sportivo mentre i gerarchi saltano nel cerchio di fuoco (E per il primo scudetto della Roma si parla di un intervento del regime per celebrare la romanità).
Il culto del Capo era al centro di un olimpo politeista di divi dello sport e del cinema, dell’arte, della guerra e della rivoluzione. Il fascismo voleva dare di sé la rappresentazione di un regime di giganti. Il culto fascista della personalità ammiccava al divismo di marca americana: un tratto di modernità neopagana.

Il fascismo fu un regime sportivo. Cercando la romanità virile e la grecità olimpionica, trovò l'America sportiva e cinematografica. Come piaceva l’Italia fascio-sportiva all’America olimpionica del ’32...

(di Marcello Veneziani)

Fausto Gianfranceschi, ultimo intellettuale reazionario


Fu una festa d’addio quella che facemmo poche settimane fa a Fausto Gianfranceschi, senza dirlo a nessuno, nemmeno tra noi. Si presentava un libro d’arte curato da sua figlia Michela e ci ritrovammo in tanti suoi amici in Biblioteca Casanatense per rivederlo e per salutarlo. Ci avevano detto che probabilmente sarebbe stata l’ultima sua apparizione pubblica, l’ultima volta che avremmo visto Fausto, e noi che lo sapevamo in lotta col male ormai da tanti anni, fingevamo di non crederci. Ma lasciammo cadere altri impegni, e con scuse improbabili, ci presentammo alla serata con quel sottinteso d’addio dissimulato dal piacere dell’evento. Fausto faceva gli onori di casa, con la affabile fierezza che lo distingueva, insieme a sua moglie e sua figlia, benché visibilmente provato. Sua moglie Rosetta mi fece sedere a fianco a lui, mentre ascoltava la sua figlia più piccola, a cui aveva dedicato un dolcissimo libro di padre maturo, L’Amore paterno, quando lei era bambina. Provai a condividere in quel momento i suoi pensieri di padre, la sua implicita cerimonia d’addio, il piacere di ascoltare sua figlia che illustrava con passione l’opera davanti a un bel pubblico. Alla fine lo salutai come si salutano gli amici a cui vuoi bene, evitando ogni solennità ma ben sapendo che difficilmente ci saremmo rivisti.

La notte scorsa Fausto ha smesso di combattere la sua antica battaglia contro la morte. Cominciò quella lotta assai presto, più di trent’anni fa, scrivendo un libro, Svelare la morte, dedicato alla perdita di suo figlio Giovanni in un incidente stradale. Un testo sincero e coinvolgente contro il tabù della morte, nel nostro tempo ribattezzata scomparsa e rimossa dagli spazi pubblici e comunitari. Fausto combattè per tanti anni con coraggio e perfino con sfottente e cristiana ironia, una lotta estenuante contro la sua malattia. E di recente un altro doloroso e intenso libro aveva accompagnato la tragica perdita di un’altra sua figlia, Federica. Ma non vacillò mai la sua fede, nonostante gli agguati impietosi della vita.

Uomo di destra, sanguigno e diretto, cattolico apostolico romano, non per modo di dire, «reazionario» come ebbe a definirsi in un libro recente, aveva curato per molti anni la gloriosa pagina culturale de Il Tempo diretto da Gianni Letta. Ha scritto saggi e romanzi, diresse per primo Intervento, la rivista fondata da Giovanni Volpe. Era stato da giovane un militante della destra rivoluzionaria e nostalgica, aveva patito il carcere per le sue idee contro il suo tempo, ma non cambiò mai idee. Polemista vivace, pubblicò anche un tagliente Stupidario della sinistra (1992). Gianfranceschi fu uno tra i primi miei riferimenti umani e culturali che conobbi sbarcando a Roma quand’ero ragazzo. Avevo recensito il suo Svelare la morte, un libro che andrebbe ripubblicato insieme all’Amore paterno, come un elogio sofferto e vero della famiglia. Nel saggio Il senso del corpo, Gianfranceschi concludeva con una limpida professione di fede nella resurrezione della carne. «L’umiliazione e la sofferenza fatali della mia carne prepareranno, io spero, la mia resurrezione». Così si è presentato ieri Fausto alla pietà del divino.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 20 febbraio 2012

E' morto Fausto Gianfranceschi


Nella sua casa, tra le librerie e i mobili e i quadri d'epoca, la pendola scandiva le ore e lo scrittore correggeva le bozze dell'ultimo libro, di aforismi. Squillava ogni tanto il telefono, qualche amico in visita, le voci care nelle stanze. Lo sapeva anche il parroco che la fine presto sarebbe sopraggiunta, ma ugualmente si stupì della richiesta, spoglia d'ogni patema. Però l'indomani andò ad amministrargli l'olio santo, a confessarlo e a comunicarlo. Poi lo scrittore e il prete si accomodarono e ripresero il filo dei discorsi che negli anni li avevano fatti amici. Il prete, un polacco, conosceva la Fede adamantina di Fausto e la straordinaria padronanza ch'egli aveva di sé e delle sue scelte, talvolta difficili da condividere ma sempre nette e sentite. Soprattutto, era un irriducibile avversario del "pensiero unico". Gli piaceva rovesciare i luoghi comuni, se del caso fino al paradosso.

Tanti anni fa, al tempo del libro Svelare la morte, veleggiando tra il gotico e l'ironico prese di mira anche la "comare secca", sostenendo ch'ella più presto e più crudelmente, come per un'infrenabile eccitazione, colpisce chi più la teme: e che dunque non conviene secondare questa sua predilezione. Egli infatti non la secondò quando, diciassette anni orsono, gli diagnosticarono un microcitoma polmonare che lo avrebbe ucciso in cinque-sei mesi. Si lasciò curare, ma la sfidò continuando a fumare. E divenne un eccezionale caso clinico, che gli oncologi portarono in un congresso scientifico.

Era felicemente poligrafo. Saggista (specialmente con l'iniziale L'uomo in allarme, poi con Teologia elettrica e con Il senso del corpo); narratore (il romanzo Giorgio Vinci psicologo vinse il Premio Napoli e fu terzo allo Strega); autore di pamphlet di grande e silenziato successo, come lo Stupidario della sinistra, puntuale raccolta di sciocchezze e sfondoni, che procurò nemici a Mondadori e divertì Alberto Burri; e autore, ancora, di due libri che raccolsero il suo più alto e puro sentimento, L'amore paterno e Federica, morte di una figlia, quest'ultimo del 2008 e dedicato a un rinnovato strazio: la scomparsa repentina d'una figlia quarantenne, dopo la tragica fine di un figlio poco più che ventenne, Gianni, avvenuta negli anni Settanta.

Come una torre lo scrittore è svettato nel territorio culturale impropriamente detto "di destra". Però una torre senza ponte levatoio, e benvenuto il confronto: questo era Gianfranceschi, bell'uomo, dritto nella persona, tetragono e lieve al tempo stesso, molto somigliante al suo nome, che poteva evocare auspici marcianti al passo del Gattamelata. Irrideva i salutisti e i cultori del body-building, ma ancora oltre i sessant'anni praticava il surf. E da ultimo, quando era già in vista degli ottantaquattro anni e la salute veniva a mancargli, non aveva rinunciato alle sue passioni: i concerti, il teatro, le mostre e l'antiquariato al quale lo aveva iniziato il padre, anch'egli di quei signori romani innamorati delle cose belle: il padre che gli aveva fatto frequentare il "Massimo", dove c'era da misurarsi con la ratio studiorum dei gesuiti. Poi il suo cattolicesimo finì in ombra nei primi anni Cinquanta, quando anzitutto le letture e le frequentazioni del filosofo Julius Evola e di Massimo Scaligero, studioso di tradizioni orientali e seguace di Rudolf Steiner, offrirono orizzonti di rivalsa, sebbene metafisici e metastorici, a una fila di giovanissimi che "non avevano fatto in tempo a perdere la guerra" e che, come se avessero voluto perderla anch'essi, quasi in vista degli anni Cinquanta progettarono di passare all'azione.

Venne poi l'impegno nel Movimento Sociale Italiano, con la fondazione di associazioni studentesche che raccolsero vasto seguito e che vinsero nelle elezioni universitarie in parecchi atenei. Ma la militanza sembrò arenarsi nelle secche della routine politica, e allora sopraggiunse l'impegno culturale. Gianfranceschi piacque all'antifascista Renato Angiolillo, che lo volle a Il Tempo (come volle nel '56 anche alcuni giornalisti che erano usciti dall'area comunista dopo l'invasione dell'Ungheria). E nel Tempo anni dopo succedette a Enrico Falqui e a Carlo Belli nella guida della famosa Terza Pagina, che tenne per oltre un ventennio. Anche sotto la direzione di Gianni Letta e fino al 1988, aprendola a personalità come Augusto Del Noce, Mario Praz, Ettore Paratore, Rodolfo Wilcock; e a giovani collaboratori, com'erano allora, tra gli altri, Franco Cardini, Paolo Isotta, Marcello Veneziani. Del Tempo restò per molti anni illustre collaboratore, finché si ripromise di dedicarsi soltanto ai libri. (Ma chi de Il Tempo lo frequentava, anche ultimamente lo trovava curioso della vita di redazione, che era stata in buona misura la sua vita).

(di Gino Agnese)

Egitto, la rivoluzione a metà e i faraoni dell’integralismo


Negli anni immediatamente precedenti alla cosiddetta «rivoluzione egiziana», Ala al-Aswani, romanziere, fra i fondatori del movimento d’opposizione Kilaya, scrisse una serie di articoli in cui lo sfacelo di un regime e la sua fine prossima ventura venivano analizzati e previsti con impressionante esattezza. Nello stesso periodo, nelle cancellerie occidentali e, più in generale, nei mezzi d’informazione a esse collegate nell’ottica di un cosiddetto interesse di governance internazionale, continuava a essere veicolato il mantra di un Egitto politico le cui pecche non inficiavano però la stabilità del suo governo né il ruolo di fedele alleato e baluardo contro ogni tentazione fondamentalista e antidemocratica. Le stesse leggi «d’emergenza», varate da Mubarak più di un ventennio prima e da allora mai abrogate, venivano disinvoltamente fatte passare per provvedimenti necessari a evitare il contagio estremista in una zona del mondo quanto mai calda, una sorta di democrazia messa a malincuore, ma a ragion veduta, sotto tutela per evitare il peggio... Più che un autocrate o un satrapo, l’ottantenne Mubarak veniva descritto come un anziano padre della patria, un po’ malandato nel fisico, ma fondamentalmente rispettato e amato dal suo popolo... Si sa come è andata a finire.

n termini politologici, l’Egitto non era una dittatura, ma un classico regime autoritario che nel mezzo secolo seguito alla caduta della monarchia, aveva sperimentato un leaderismo da capi carismatici, Nasser, pragmatici, Sadat e appunto Mubarak, alle prese comunque con un Paese a sua volta leader nel mondo arabo per dimensioni, storia, retaggio culturale. L’esistenza di un ceto medio consistente, medici, ingegneri, architetti, professori, scrittori quadri professionali, e quindi scuole, università, editoria, giornali, una forte apertura e commistione con il mondo esterno, una tradizione cosmopolita, avevano di fatto reso pressoché impraticabile una deriva completamente totalitaria, lasciando qui e là sacche di resistenza, libertà e diritti forali, garanzie individuali. Più che perseguitare sistematicamente e apertamente gli oppositori “borghesi”, il regime aveva preferito la strada delle blandizie e delle minacce, della legalità apparente che poteva anche trasformarsi in legalità sostanziale, ma sempre e comunque in virtù di un arbitrio dall’alto.

Consapevole che un tasso limitato di critica non erode il potere, ma semmai lo ammanta di liberalismo, il regime di Mubarak aveva insomma preferito tenere in vita i difensori delle cosiddette libertà borghesi, forte del fatto che il controllo della polizia, della magistratura, delle leve economiche gli garantivano comunque quello dell’intera nazione. Questo spiega perché Ala al-Aswani abbia potuto esporre opinioni fortemente critiche su quotidiani non allineati quali Al-Arabi, al-Dustour, al-Shorouk... E del resto, quando il tono delle critiche oltrepassava quello che dal regime era considerato il livello di guardia, non ci voleva molto per riabbassarlo: si cambiava la proprietà del giornale reprobo, si faceva licenziare un direttore troppo coraggioso, oppure lo si sfiniva attraverso processi e cause assurde.

Ciò che però manca alle autocrazie, specie nel loro trasformarsi in satrapie, governi familiari di padre in figlio, focolai di nepotismi e di cristallizzazione del potere, è la conoscenza del Paese reale. Persi e presi nei loro sogni di ricchezza, di accumulo e di relativo sperpero, catafratti nel loro chiuso universo di privilegi e di abusi, i suoi rappresentanti perdono il contatto con la realtà e questo finisce alla fine con il perderli. La rivoluzione egiziana (Feltrinelli, 263 pagine, 17 euro, traduzione e cura di Paola Caridi) di al-Aswani è illuminante proprio perché è un resoconto dall’interno di quel Paese reale altrimenti sconosciuto, è la denuncia delle angherie, delle umiliazioni, delle miserie e delle assurdità inflitte a un popolo a opera di un casta burocratico-militare. È la condivisione ad accomunare nella rassegnazione prima, nella reazione dopo. E quest’ultima esplode quando la crisi economica da un lato, il moltiplicarsi dell’inefficienza e dell’arbitrio dall’altro, segnano un punto di non ritorno: niente potrà essere peggio di quanto quotidianamente è stato già sperimentato.

Scriveva al-Aswani già tre anni fa: «Gran parte delle rivoluzioni della storia è cominciata con movimenti di protesta che non cercavano in fondo una rivoluzione, perché la rivoluzione non è uno slogan o un obiettivo prioritario, bensì una fase che una società attraversa in un momento dato, quando tutto diventa in predicato per esplodere. Noi siamo senza alcun dubbio in questa fase. Tutti gli egiziani sanno che il vecchio status quo non è più sostenibile né accettabile, e che il cambiamento è in corso, inevitabilmente».
Proprio per aver previsto ciò che è poi avvenuto, l’autore di La rivoluzione egiziana è in grado di analizzare con freddezza la situazione odierna a un anno dalla caduta di Mubarak. Sa bene che il governo dei militari che ne ha preso il posto non ha permesso una nuova costituzione, né ripulito le forze dell’ordine e la magistratura, né celebrato libere elezioni: in sostanza, che una rivoluzione è stata commissariata da un colpo di Stato... «Abbiamo sostituito un dispotismo con un altro» ha scritto sul Financial Times di qualche giorno fa, c’è ancora molta strada da fare per una vera legittimità democratica, ovvero popolare. La rivoluzione egiziana è anche il libro di un romanziere, di uno abituato a sceneggiare storie, caratterizzare personaggi, approfondire psicologie.

Dietro di esse c’è l’impianto di quel Palazzo Yacoubian che all’inizio del Duemila rivelò Ala al-Aswani agli egiziani e al mondo. In quel racconto a più voci delle tante esistenze presenti in un antico stabile del Cairo, era già presente la cartina di tornasole della società egiziana contemporanea: c’era il rispettoso e studioso figlio del portiere dello stabile, più bravo al liceo della media dei coetanei che lo abitano, che si vede sbarrare l’ingresso all’accademia di polizia dalla modesta condizione del padre e, per una sorta di rivalsa morale e sociale, finisce per ingrossare le milizie islamiche e morire in una delle tante azioni suicide. C’era la sua ex fidanzata, che impara a convivere con le molestie sessuali dei datori di lavoro, ma anche con il potere che le deriva dal suo corpo ben tornito. C’era il vecchio gaudente, nostalgico di Faruk e della società euro-araba della sua giovinezza, innamorato della femmina e però rispettoso della femminilità, e il maturo omosessuale, borghese e intellettuale, con il debole per i ragazzi del popolo. C’era l’affarista che si è fatto da solo e ora vuole entrare a tutti i costi in politica per essere ancor più socialmente legittimato e la giovane vedova che cerca nelle carni vecchie di un possidente quella sicurezza economica che la morte del marito le ha negato. Ciascuno di questi personaggi era insomma una sfaccettatura del moderno Egitto dove il malaffare politico, le ricchezze illegittime, le ipocrisie religiose, la corruzione estesa e la sfiducia nella classe dirigente e nelle istituzioni, l’estremismo e la difesa delle tradizioni contribuivano a creare una situazione di contrasti e di scontri, di speranze e di ribellioni, di delusioni e di volontà di cambiamento. Nelle sue tante esistenze individuali, Palazzo Yacoubian raccontava in fondo il fallimento della società politica egiziana e fotografava un Paese in cerca d’identità.
Dieci anni dopo, è saltato il coperchio del regime, ma solo il futuro potrà dirci se con esso è esploso il vecchio Egitto autocratico, familista, corrotto e corruttore.

(di Stenio Solinas)

venerdì 17 febbraio 2012

Tiziana Parenti: «Quei fondi dall’Est su cui non si indagò»


Tziana Parenti, ovvero Titti la Rossa, quella delle tangenti al Pci mai provate, oggi fa l’avvocato a Roma con studio a Trastevere. Venti anni dopo Tangentopoli va col ricordo a quella primavera del ’94, a una fase che segnò la fine di Manipulite. «Berlusconi aveva vinto le elezioni. Stava formando il governo e io ero appena stata eletta deputata con Forza Italia. Correva voce che volesse Antonio Di Pietro a capo della Polizia. Io andai a dirgli che era un errore».

Ma non lo voleva ministro dell’Interno?

Fra noi correva quest’altra voce e ne parlai con Berlusconi. Che non smentì, anzi si arrabbiò. L’uomo, un po’ come i comunisti, non ama esser contraddetto.

Invece lei...

Gli dissi che non era un bel segnale. Lui evidentemente pensava invece che fosse importante in termini di immagine. Mi rispose seccato: «Guardi che non ho nemmeno un’inchiesta». «Ma ore ne arriveranno a decine, vedrà», gli risposi. E fui facile profeta.

Vuol dire che fino alla discesa in campo non c’era ancora traccia di scontro fra Procura milanese e Berlusconi?

Ricordo i giornalisti di Fininvest che venivano a prendere le veline e come si arrabbiavano quando non gliele davano. Ma le telecamere fisse davanti alla Procura dalle reti di Berlusconi le ricordano tutti. Non era una vera direttiva, ma c’era il chiaro orientamento a risparmiare, da un lato le aziende di Berlusconi e dall’altro l’ex Pci. Perché potevano essere utili una copertura mediatica e politica.

Ma sul Pci risparmiato accusano lei. Perché la scelsero?

Ho un sospetto: siccome nel mio profilo avevo dovuto dichiarare la mia passata iscrizione al Pci per tre anni, per come sono andate poi le cose potrebbero aver pensato a me - che avevo chiesto di essere collocata alla Dda - perché avevo il curriculum giusto per archiviare.

Ma che cosa le ha impedito di andare a fondo sulle tangenti all’ex Pci? Quella rogatoria mai arrivata sui 600 milioni versati da Panzavolta sul conto “Gabbietta” di Primo Greganti alla Banca di Lugano?

Che fossero fondi per il Pci è chiaro, già la sola contestualità con i versamenti di tangenti agli altri partiti lo dimostra. Ma era solo un filone, c’era da indagare sulle coop rosse, e soprattutto sui fondi arrivati attraverso la Germania dell’Est.

Di questo non si è saputo niente.

C’era uno scatolone alto così, pieno zeppo di attestazioni bancarie, ma andavano tradotte dal tedesco. Lei pensa sia facile farsi raccontare la provenienza dalle banche della Germania dell’Est?

Poi si è dimessa da pm...

E mi risulta che non ci abbia pensato più nessuno.

Ma perché lasciò?

D’Ambrosio mi disse che l’inchiesta sul Pci era un «vagone staccato». Credo, in realtà, che non si volesse andare a fondo.

Ma Greganti nega e ha dimostrato che quei soldi gli servirono a comprare un appartamento.

E lei ci crede?

Su Berlusconi comunque hanno recuperato con gli interessi...

Da leader politico è diventato un bersaglio, ma credo abbia inciso anche quell’offerta fatta da lui a Di Pietro che, sebbene non andò in porto, indispettì parte della Procura, nel frattempo spaccatasi proprio sulla scelta politica del loro ex collega. Il risultato è che i due filoni risparmiati dalle prime inchieste di Manipulite hanno caratterizzato questo ventennio inconcludente.

Berlusconi e i comunisti...

Si sono fatti la guerra ma erano d’accordo a non fare le riforme, tanto che ora sono stati commissariati dai tecnici. E la corruzione impazza più di prima.

Ha mai visto ai suoi tempi 13 milioni spariti ad opera di un tesoriere?

No, assolutamente. E infatti oggi è peggio. Da avvocato ora mi occupo di un caso che va avanti da sei anni, una compravendita di esami a Roma 3 e alla Sapienza. La corruzione impazza, neanche più con coperture ideologiche. Ovunque ci sia un potere da gestire e un do ut des da utilizzare.

(di Angelo Picariello)

giovedì 16 febbraio 2012

Ad Atene sta bruciando l’Europa


L’Europa rischia di morire dove è nata. Una sorta di un ritorno nel grembo da dove era volata via. La leggenda narra che Zeus rapì Europa e la portò con sé a fecondare il Mediterraneo e poi Esperia, la terra del tramonto. Creta fu il loro nido dove vide la luce la civiltà minoica che sarebbe stata il seme della civiltà europea dispiegatasi poi nell’Ellade, patria di eroi, poeti, artisti, avventurieri, sacerdoti e legislatori. Atene fu il suo cuore. E da essa prese forma il Continente oggi immemore delle sue radici che conquistò il diritto ad esistere contrapponendosi all’Asia. Non una guerra tra civiltà e barbarie si produsse tra le due immense aree rappresentate dai greci e dai persiani poiché questi nulla avevano in termini di cultura da invidiare agli altri. Ma la lotta fu politica e tra concezioni del mondo. La Persia incarnava la monarchia universale, lo Stato totalitario; la Grecia il primato della persona, dell’individuo assoluto che trova la sua dimensione nella comunità organica. Questa eredità è il dono che Atene ha lasciato all’Europa. La battaglia di Salamina fu il suggello eroico di quel legato. Era il 480 avanti Cristo.

Dopo 2500 anni, le tenebre stanno scendendo sul questo antico Continente e si allungano, per una sorta di tragico e beffardo destino, su quel lembo estremo d’Europa che è la Grecia, la sua culla. Infatti i popoli che le tagliano le mani sono gli stessi che quelle mani hanno nutrito. Di cultura, di poesia, di filosofia, di religiosità. Facendo diventare l’Europa ciò che è. Davanti alle vicende ateniesi rabbrividirebbe il vecchio Jakob Burckhardt dalla sua cattedra di Basilea, ammutolirebbero Erwin Rodhe e Friedrich Nietzsche che con Willamovitz-Moellendorf nuotarono nella filologia classica alla ricerca del mito di Europa.

Antiche suggestioni. Eccentriche, incomprensibili forse dalle parti dell’Eurotower di Francoforte e nelle «case della democrazia» di Bruxelles e di Strasburgo. Qui nessuno s’indigna per Atene che brucia. Fanno piuttosto i conti del dare e dell’avere gli «europeisti» tedeschi e francesi, travestiti da statisti. Soprattutto i primi, rigoristi esemplari quando devono mettere mano ai loro portafogli, hanno fatto in fretta a dimenticare ciò che l’Europa gli ha dato prima del 1989 e dopo quell’anno fatale. Compresi i greci i quali, sono sempre stati reputati culturalmente come fratelli maggiori dai tedeschi.

In queste ore si dissolve il sogno della nazione greca, come capitò a metà degli anni ’60 del secolo scorso. Ma con una differenza. Allora l’Europa c’era, si fece sentire, rivendicò la Grecia come parte essenziale di se stessa e non la lasciò nelle mani dei suoi carnefici.

Oggi da Atene si diffonde un contagio propagato proprio da quei sedicenti virtuosi Stati europei, in realtà untori politici, che hanno venduto le loro anime alle banche, all’alta finanza, alle agenzie di rating, agli speculatori d’Occidente e d’Oriente affinché qualche profitto si salvasse sia pure a prezzo della morte di qualche popolo. È questa la morale corrente che sostiene l’idea di Europa.

Un’idea corrosiva, sposata dalla Germania che non ha imparato nulla dalle lezioni che la storia le ha impartito. I suoi governanti, dall’intransigente Schauble alla tetragona Merkel, non hanno capito che la democrazia si fonda sulla dignità dei popoli e sulla tutela dei loro diritti.

Probabilmente di Salamina non sanno nulla. Ma qualcosa dovrebbero ricordare di un Muro indecente che pure deve averli fatti soffrire. Adesso, con la complicità silente di altri Stati, forse al di là delle loro intenzioni, stanno costruendo altri muri, distruggendo di fatto quel poco di Europa che dal 1946 ad oggi eravamo riusciti a mettere insieme. Beninteso, siamo sempre stati dell’avviso che non si realizza un’unità politica prescindendo da una cultura condivisa e coltivando egoismi e particolarismi. Ma neppure è possibile immaginare un’Europa nella quale le sovranità sono state delegate dagli Stati ad organismi burocratici che non rispondono a nessuno, tantomeno ai popoli.

A Salamina contro i persiani come a Belgrado, a Lepanto e sotto le mura di Vienna contro gli ottomani, l’Europa si ritrovò con le sue molte genti, i suoi diversi Stati e le sue culture a difendere la comune civiltà. Malauguratamente essa ha dimenticato, considerandosi continente, di essere una nazione divenuta tale per affinamenti progressivi, commistioni identitarie, amalgama religioso prodotto dal cristianesimo. E le nazioni possono anche collassare quando il loro spirito si affievolisce fino a smarrirsi e soprattutto se non sono sostenute da entità giuridiche, amministrative o statuali. Siamo a una svolta cruciale. Ad Atene non sta bruciando soltanto la Grecia. È l’Europa che si sta incendiando.

(di Gennaro Malgieri)

martedì 14 febbraio 2012

Pansa, l'Istria e le foibe: 300mila italiani traditi dal Pci


Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro».

Nel Giorno del Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia.
Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale.

La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo.

Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000. Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste.

L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre.

Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò.

La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava 34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti.

Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari.

A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!».
La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro onore.

(di Giampaolo Pansa)

lunedì 13 febbraio 2012

La rivoluzione conservatrice, annunciata e mai arrivata

Tra gli ordigni culturali che il Novecento ha lasciato inesplosi al nostro secolo c’è la Rivoluzione Conservatrice. Di cosa si tratta?

La sua definizione fu coniata da due autori, anzi due grandi letterati, che non furono tra i più significativi esponenti della stessa rivoluzione conservatrice e furono anzi due intellettuali «impolitici»: Thomas Mann e Hugo von Hofmannsthal.

Due grandi esponenti del miglior decadentismo europeo. La definizione fu poi riferita a Ernst Jünger e Oswald Spengler, Martin Heidegger e Carl Schmitt. Ne parlarono numerosi autori, da Armin Mohler a Ernst Nolte.

Ma ben presto il riferimento alla rivoluzione conservatrice fuoruscì dai confini tedeschi e mitteleuropei per designare una cultura europea in polemica con il proprio tempo: una polemica biforcuta, potremmo dire, perché da un verso segnava la critica alla modernità nel nome di una tradizione e una conservazione di cui pure avvertiva i segni del tramonto; e dall’altro era una critica al moderatismo borghese, nel nome di una rivoluzione e di una modernizzazione che avvertiva come impellente, inevitabile e anche esaltante. Gli dei vanno in macchina, potrebbe dirsi con una formula riassuntiva l’ossimoro della rivoluzione conservatrice; o per tradurla in termini meno pittoreschi e più rigorosi, la rivoluzione conservatrice era la tradizione pensata dopo le catastrofi della modernità. In breve: la tradizione dopo Nietzsche. Il conservatorismo che non si abbarbica al passato ma si cimenta con il futuro, alla ricerca dell’origine.

Nel 1987 quando il mondo era ancora bipolare, c’era il comunismo all’Est, l’Europa era divisa a cominciare dalla Germania, l’Islam non aveva fatto ancora le sue rivoluzioni e in Italia vigeva la Prima Repubblica, provai a calare la rivoluzione conservatrice nella storia civile e culturale del nostro Paese. Lo feci in un saggio - La rivoluzione conservatrice in Italia. Genesi e sviluppo della ideologia italiana (SugarCo) - che ebbe qualche fortuna anche perché si tradusse su due piani diversi. Sul piano delle idee fu il tentativo di interpretare l’ideologia italiana, la storia nazionale e la rivoluzione-restaurazione del fascismo attraverso un filo rosso che costituiva l’originalità di un pensiero italiano. Sul piano politico il libro fu un tentativo di restituire la destra alla storia italiana, non barricandosi contro il Paese e il suo presente, ma tentando di innestarsi nella tradizione italiana, uscendo dal neofascismo o dal radicalismo, aprendo all’amor patrio condiviso e al socialismo tricolore di Craxi. Il libro ebbe qualche effetto sul piano culturale e politico e poi si tradusse in un progetto che passò attraverso riviste, da Intervento a Pagine Libere, da L’Italia settimanale a Lo Stato.

Sette anni dopo, in un paesaggio completamente mutato, il bipolarismo mondiale caduto, il muro crollato, l’Islam incipiente, la fine della prima repubblica e del craxismo, l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica e lo sdoganamento della destra, La rivoluzione conservatrice in Italia ebbe una seconda edizione accresciuta. Era il 1994 e le neonate Forza Italia e Alleanza Nazionale, con gli ex Dc e la Lega, avevano appena vinto le elezioni. Il clima era davvero fervente, e L’Italia settimanale era stato un battistrada significativo e in vista, di quel cambiamento. Nella nuova edizione c’era, tra gli altri, un capitolo conclusivo dedicato alla nuova rivoluzione conservatrice che si intravedeva in Italia. E che concludeva prudente: «I tempi diranno se i soggetti incaricati di rappresentare questa nuova rivoluzione conservatrice saranno all’altezza del compito oppure no».
Oggi, a vent’anni esatti da Mani Pulite da cui nacque poi la svolta politica, che bilancio fare? A questo giro di boa è dedicata la nuova edizione de La rivoluzione conservatrice in Italia, con un bilancio introduttivo del berlusconismo e un capitolo conclusivo sul patriottismo culturale. Qualunque giudizio si possa dare di questo tormentato ventennio e dei tormentatissimi tre governi Berlusconi - uno di breve e tempestosa durata, uno di legislatura (il più duraturo nella storia della Repubblica) e l’ultimo interrotto dopo tre anni d’inferno - si può onestamente riconoscere che la rivoluzione conservatrice non ci fu; fu una rivoluzione annunciata, denunciata, e abortita. Con tutte le attenuanti generiche e specifiche, ma non ci fu.

Dico la rivoluzione conservatrice, non la rivoluzione liberale, che fu anch’essa annunciata ma poi rimase a mezz’aria. Al di là del giudizio sull’esperienza berlusconiana, su cui si cimenta il saggio introduttivo, si deve convenire che quella scommessa fu perduta. La rivoluzione conservatrice si impernia su due punti: la tradizione, che esprime l’anima di un popolo; e la modernizzazione, che si cura di ringiovanire il corpo di uno Stato. L’ammodernamento dell’Italia, come lo definì Berlusconi, fu solo avviato, con qualche significativa tappa ma interrotta, incompiuta e scollata da una riforma organica. E la tradizione non andò oltre la cresta e la crosta del populismo arcitaliano. Insomma l’Italia in questi vent’anni non ha saputo né fare i conti con la tradizione né con l’innovazione, è rimasta in mezzo al guado, nelle sabbie mobili. Ha continuato a deperire, mentre cresceva il deserto. Quel deserto nel quale oggi ci troviamo ad annaspare, tra le carcasse della destra e della sinistra, la ripresa della corruzione a ogni livello, e l’avvento dei tecnici al governo. Ci sono i professori, non ci sono classi dirigenti, soggetti politici e non c’è popolo. Solo masse di individui spaesati. La rivoluzione conservatrice ha ceduto al suo rovescio, la stagnazione dissolutrice.

(di Marcello Veneziani)

Altro che darci pagelle: i magliari sono gli Usa



Mario Monti sulla copertina di Time , grande settimanale statunitense (e internazionale), è motivo di soddisfazione. Il titolo poi che accompagna l’immagine suona come un complimento per il nostro Paese: «Può quest’uomo salvare l’Europa? ».

Ce lo auguriamo davvero. Ma ci accontenteremmo che riuscisse a salvare l’Italia, cosa niente affatto scontata, visto che la crisi dalle nostre parti è particolarmente grave. Vabbè, sperare non costa niente.

L’accoglienza riservata al premier negli Usa è stata ottima, fa bene al morale, ma non va sopravvalutata. Anche Silvio Berlusconi, d’altronde, quando alcuni anni fa parlò al Congresso venne applaudito a lungo, eppure la cosa non gli portò fortuna. Sappiamo come la sua ultima esperienza a Palazzo Chigi è andata a finire: bruscamente interrotta causa una serie di problemi, primo fra i quali le difficoltà italiane con lo spread, e sorvoliamo sul terremoto borsistico. Ma non è questo il punto.

Ciò che in questi giorni ci ha sorpresi è la sfacciataggine con cui l’America si arroga il diritto di dare le pagelle ad altre nazioni, inclusa la nostra. Come si permette di stare in cattedra, quando sono risapute e accertate le sue colpe nel disastro finanziario globale che ha ridotto a malpartito quasi tutte le economie? O ci siamo dimenticati di quanto accadde a New York nel 2008? Banche che saltavano per aria, titoli tossici che imperversavano suscitando scandalo e preoccupazione, società finanziarie che fallivano, migliaia di funzionari licenziati in tronco che abbandonavano l’ufficio con i loro scatoloni divenuti simbolo di fallimento e disoccupazione.

Il giudizio degli esperti fu unanime: la tragica bolla, provocata da eccessi speculativi e da un capitalismo corrotto e spregiudicato, si era gonfiata ed era esplosa proprio lì, negli Stati Uniti. Altro che finanza creativa. Eravamo di fronte a un fenomeno di cattiva gestione del denaro, a un vero imbroglio su vasta scala, a una specie di catena di Sant’Antonio che penalizzava gli ultimi acquirenti di prodotti avvelenati, pezzi di carta cui era attribuito un valore in realtà inesistente. Anche i nostri istituti di credito avevano abboccato alle lusinghe dei truffatori statunitensi, che promettevano lauti guadagni (interessi elevati) sul nulla, e comprato schifezze poi girate ai loro clienti come fossero pepite. Un disastro illimitato che ha travolto tutto il Vecchio continente, messo in ginocchio l’Inghilterra (con la sua boria di capitale europea della finanza) e via via tutta la Comunità europea, Italia inclusa.

È noto che la responsabilità del crac è degli States, dell’economia basata sul debito, sulle carte di credito usate come cambiali senza scadenza, sui mutui ipotecari concessi a chi non aveva mezzi per pagare le rate. Il peggio del peggio recava il marchio «made in Usa». Con che coraggio, a distanza di qualche anno, gli Stati Uniti si impancano a giudici e distribuiscono attestati di affidabilità a questo o a quel Paese?

Ieri, tra l’altro, il nostro presidente del Consiglio è stato posto sotto esame da Wall Street, come se fosse lui a doversi giustificare dei guai che rendono difficoltosa la ripresa nella Ue. Siamo all’assurdo. Al controsenso.

A rigor di logica sarebbe Monti autorizzato a processare gli americani per i pasticci che hanno combinato, anche a nostro danno, e non viceversa. Non accettiamo lezioni dai magliari. Rifiutiamo di salire sul banco degli imputati se a emettere le sentenze sono coloro che andrebbero condannati.

(di Vittorio Feltri)

domenica 12 febbraio 2012

Craxi, uno Schettino ante litteram


Bruno Vespa ha aperto un Porta a Porta, più o meno in coincidenza con il ventennale dell’arresto di Mario Chiesa avvenuto nel febbraio 1992, con una sua intervista in ginocchio a Bettino Craxi in cui ‘ l’esule di Hammamet’, condannato a più di dieci anni di reclusione per corruzione e finanziamento illecito, cantava il solito ‘ leit motiv’: “I processi di Mani Pulite sono stati processi politici”. E in studio il medium Vespa, nel silenzio-assenso di tutti i presenti (ad eccezione di Giovanni Valentini), chiosava: “A vent’anni di distanza bisogna ammettere che Craxi aveva ragione”.


Buon Dio, si sperava che almeno con certe cose fosse davvero finita. E invece no. Il presupposto dello pseudo ragionamento di Craxi e del suo ventriloquo è il solito: le inchieste di Mani Pulite colpirono solo alcuni partiti, risparmiandone altri, quelli di sinistra. A parte il fatto che finché mi sono preso la briga di contarli erano 283 gli amministratori di sinistra inquisiti, non è colpa del Pool di Milano se altre Procure, poniamo quelle di Firenze o di Bologna, erano state più neghittose (sono “le Procure che lavorano sodo e in silenzio” che piacciono tanto a Berlusconi perché non concludono mai niente). In ogni caso la Magistratura accertò senza ombra di dubbio che in Italia non c’era appalto senza tangente politica e che alla spartizione del bottino partecipavano tutti i partiti in proporzione alla loro consistenza, Pci quindi compreso, anzi impegnato in un poco virtuoso testa a testa con Dc e Psi. Che poi il segretario di quel partito, a differenza di Forlani e Craxi, non sia stato condannato è del tutto irrilevante dal punto di vista politico.

Solo che le destre a furia di battere su questo chiodo han finito per far dimenticare che il Pci era in pieno nella pània della corruzione e della concussione. In quanto a Craxi in quel febbraio in cui fu arrestato Chiesa affermò che era un ‘ mariuolo’, dando a intendere di una ‘ mela marcia ’ in un cesto di mele sanissime. Solo in estate denunciò in Parlamento che la corruzione riguardava tutto il sistema dei partiti. Un discorso che, ancor oggi, viene portato come prova di coraggio. Ed era invece il contrario. Perché a quel punto Craxi era già stato colto con le mani sul tagliere ed era troppo comodo e anche un po’ vile fare solo in quel momento una chiamata di correità generale. Quel discorso Bettino Craxi lo avrebbe dovuto fare nel febbraio del 1992, quando non era ancora stato toccato personalmente dalle inchieste, e allora avrebbe evitato, se non la reclusione, almeno quel discredito che gli è caduto poi addosso, accentuato dalla fuga (“per paura della prigione” come mi disse il fedelissimo Ugo Intini) in Tunisia, protetto dal dittatore Ben Alì.

Si è comportato come uno Schettino qualsiasi. Come un comandante che abbandona la nave che affonda, così un ex presidente del Consiglio non si sottrae alle leggi del proprio Paese, non getta fango sul proprio Paese, non ne delegittima le Istituzioni delegittimando, con ciò, anche se stesso come presidente del Consiglio. Queste cose le scrivevo, con una certa sofferenza devo dire, perché socialista ero e, per il qui e ora, socialista rimango, quando Bettino Craxi era vivo. E oggi me le sarei risparmiate se non avessi ascoltato quella faccia di bronzo di Bruno Vespa cercare di ribaltare, per l’ennesima volta, la realtà dei fatti, trasformando i ladri in vittime e i magistrati nei veri colpevoli del disastro italiano.

(di Massimo Fini)

Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo


“Nessun mondo – scrive Philippe Muray – è mai stato più detestabile di quello attuale”. Ma qual è dunque questo mondo? Dopo l’affondamento del sistema sovietico, si è passati da un mondo diviso in due blocchi ad un mondo dominato da una sola potenza, che tenta d’imporre la sua legge al pianeta intero. Virtualmente, questo mondo non sarebbe altro che un villaggio globale, dove il progresso economico, dal quale si suppone tutti possano trarre giovamento, accrescerebbe l’ineluttabile evoluzione verso un modello politico, la democrazia liberale rappresentativa, della quale gli Stati Uniti costituirebbero il modello più completo. Alla fine, il mondo diverrebbe un vasto mercato popolato da semplici consumatori, sottomessi di volta in volta all’ordine marciante.

Il capitalismo si è deterritorializzato. I raggruppamenti industriali infine hanno dato luogo alla formazione di società transnazionali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli dei singoli paesi. Allo stesso tempo, le nazioni sono state invitate ad abolire le loro barriere doganali, ad aprire le loro frontiere alle persone ed ai capitali, a favorire con ogni mezzo la “libera circolazione” dei prodotti e dei beni. Questo è il senso primario di una globalizzazione che supporta la volatilità dei mercati, le delocalizzazioni, la ricerca permanente di una maggiore produttività, la reificazione generalizzata dei rapporti sociali.

Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l’equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia facente dell’individuo un essere avente come obiettivo permanente il suo migliore interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli “uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici”. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d’acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata.

È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l’umanità propria dell’uomo.

Per contrapporsi alla miseria affettiva ed agli stress materiali che ne risultano, la Forma-Capitale usa strategie differenti. Da un lato, crea senza interruzione nuovi bisogni, moltiplica le distrazioni e i divertimenti, propaga l’idea che non esista felicità se non in un consumo il cui orizzonte è continuamente riposto più lontano. Dall’altro lato, il suo pretesto di lottare contro il “populismo”, il ” comunitarismo “, il ” terrorismo “, rinforza le procedure di controllo e di sorveglianza. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Si instaura la “democrazia delle bocche cucite” (Paul Thibaud). Per smorzare la portata dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, per disarmare le nuove “classi pericolose” e rendere inoperante la loro velleità di rivolta, crea dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, strumentalizza i conflitti culturali e gli urti tra comunità. Come sempre, si divide per comandare. L’obiettivo è quello di instaurare tutto ciò che crea caos per continuare a regnare senza alcuna minaccia.

Dinnanzi ad un simile spettacolo, non si può che avere ovviamente simpatia per un movimento “altromondista”, il quale afferma perentoriamente che “il mondo non è un mercato” e che “un altro mondo è possibile”. Ma questa simpatia non può essere che critica. Non è soltanto il fatto di non avere alternative chiare da proporre che può essere rimproverato al movimento “no global” – non è necessario dover definire ciò che si vuole per sapere ciò che si rifiuta -, né di essere un conglomerato troppo eterogeneo dove si incontrano protestatari emozionali, autentici libertari, “rivoluzionari” d’abitudine e social-democatici “esigenti”. E’ piuttosto l’attitudine ad anteporre l’indignazione alla riflessione. E di non andare fino al fondo delle cose.

Non è in effetti sufficiente denunciare le disuguaglianze nel nome della “giustizia” e della “dignità”, o di appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario. Non è sufficiente parlare di “tolleranza” per riconoscere pienamente la diversità culturale. Non è sufficiente opporre la razionalità etica alla razionalità del denaro. Non è sufficiente, infine, dire “no alla guerra!” per disegnare, di contro all’unilateralismo americano, i contorni di un nuovo Nomos della terra per un nuovo ordine multipolare. Il movimeno “no global” non ha visibilmente idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico. Gli manca un’antropologia che gli permetterebbe di contestare la globalizzazione in nome dei popoli, e non delle “moltitudini” (Antonio Negri), in nome delle libertà, e non dei “diritti dell’uomo”. Si ostina a rimanere, per ciò che concerne la giustizia sociale, nella polarità della morale e dell’economia, che è la medesima alla quale dichiara di opporsi; l’ “altromondismo” rischia di disattendere la sua vocazione e di essere nient’altro che una forma di “movimento” in mezzo a tante altre.

Militare per un “altro mondo” implica la rottura con una matrice ideologica che ha allo stesso modo condotto all’internazionalismo liberale quanto allo “statalismo progressista”. Come scrive Jean-Claude Michéa, “l’idea di una società decente, o socialista, non può riporsi sul progetto di un’”altra” economia o di un’”altra” mondializzazione, progetti che non possono che condurre, in fin dei conti, ad un altro capitalismo [...] Essa è riposta, al contrario, su un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa”. Dunque non si tratta soltanto di correggere le “ingiustizie” di un sistema, o rimanere ad un approccio strutturale dei giochi. Si tratta di finirla con la dittatura dell’economia, il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili. Si tratta di decolonizzare l’immaginario. Di adoperarsi per l’avvento di un altro mondo, che non sia soltanto al di là delle cose, una visione trascendente o utopica, ma un nuovo mondo comune. Prospettiva rivoluzionaria? Non sarà mai tanto rivoluzionaria quanto la Forma-Capitale, che in questo mondo, ha già distrutto tutto.

(di Alain de Benoist)

venerdì 10 febbraio 2012

Le foibe? Caro presidente, furono i comunisti


Presidente Napolitano, mi dispiace, ma non ci stiamo. Ricordando ieri le foibe lei se l’è presa con «le derive nazionalistiche europee», attribuendo a esse l’eccidio di migliaia di istriani, dalmati e dei partigiani bianchi.

Ma le cose, lei lo sa bene, non stanno così. L’orrore delle foibe fu perpetrato dai partigiani comunisti di Tito con l’appoggio del comunismo mondiale e dei comunisti italiani. Lei non ha mai citato il comunismo a proposito delle foibe.

È come se nella giornata della Memoria, celebrata pochi giorni fa, non citassero mai il nazismo ma se la prendessero con il comunismo. Certo, il nazionalismo fu una delle causeche inasprì i rapporti sui confini orientali; così come è noto che l’Unione Sovietica dette una mano a Hitler nella caccia e nello sterminio degli ebrei. Ma in entrambi i casi non si può tacere il principale colpevole e va citato per nome: il nazismo per la shoah e il comunismo per le foibe o per i gulag.

Lo sterminio degli italiani e la loro espropriazione obbedì a una triplice guerra: la guerra del comunismo contro l’Italia fascista, poi la guerra dei proletari comunisti contro i benestanti borghesi, quindi la guerra etnica contro gli italiani. Non salti i due precedenti passaggi e abbia l’onesto coraggio di chiamare i sicari per nome: furono comunisti. Il nazionalismo in questo caso c’entra assai meno, tant’è vero che i collaborazionisti di Tito furono anche i comunisti italiani. Con tutto il rispetto che merita, e persino la simpatia, non ricada nel dimenticazionismo.

(di Marcello Veneziani)

Foibe: io non scordo!

giovedì 9 febbraio 2012

“Le frasi del Governo sul posto fisso? Sbagli di chi non è un politico”


Ad aprire i giochi era stato Mario Monti, mercoledì a Matrix: “Che monotonia un posto fisso tutta la vita”. Hanno rincarato la dose il ministro del Lavoro Fornero (“chi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni”) e quello dell’Interno Cancellieri: “Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città accanto a mamma e papà”. Parole pronunciate mentre si sta discutendo la riforma del lavoro, forse il provvedimento più delicato di cui si sia occupato questo governo dalla sua nascita. Perché queste dichiarazioni, e perché proprio ora? Lo abbiamo chiesto a Marco Tarchi, professore di Comunicazione politica all’Università degli studi di Firenze.

Cosa ne pensa?

Credo che non si sia trattato di espressioni particolarmente felici. Non penso che questo modo un po’ ruvido di affrontare certi argomenti possa avere una ricaduta molto positiva sull’opinione pubblica. Alcuni settori potranno approvare, ma credo si tratti di settori piuttosto limitati.

Secondo lei perché gli esponenti del governo hanno detto queste cose?

Penso che i motivi siano due. Il primo: non si tratta di politici di professione, non hanno lo stesso tipo di rapporto con le reazioni dell’opinione pubblica. Per lo più sono professori universitari e civil servants, abituati a parlare a un altro tipo di pubblico. La seconda ragione è che sanno che al momento non ci sono alternative a questo governo. Sono stati chiamati prescindendo da qualsiasi pressione dell’opinione pubblica e dei partiti, e si ritengono autorizzati a dire esattamente quello che pensano. Non a caso, quando è nato il governo, Monti aveva ordinato ai ministri di non partecipare ai talk show. Temeva che dovessero scontare la loro inesperienza.

Poi però il presidente del Consiglio ha cambiato idea.

E’ tornato indietro perché si può anche essere inesperti di politica, ma oggi come oggi non si può rimanere isolati volontariamente dai grandi canali comunicativi. Non si può svolgere un ruolo di governo senza concedersi a tribune televisive di larga audience. Dopo la chiusura di partenza, credo che scendere a più miti consigli sia stata una scelta obbligata.

Le dichiarazioni sul “posto fisso” arrivano mentre c’è sul tavolo la riforma del lavoro. Il governo usa le esternazioni per accelerare i tempi?

Non credo che ci sia dietro una strategia di questo tipo. Non penso che su questi argomenti ci sia la presunzione di creare una maggioranza di opinione pubblica favorevole. Credo che gli esponenti del governo vogliano apparire come quelli che risolvono i problemi, costi quel che costi. Vogliono dimostrare che non si fanno scrupoli, nel senso che non stanno al traino di nessuno.

Sul lungo periodo che effetto potrà avere questo tipo di dichiarazioni sull’opinione pubblica?

Non credo che la mentalità italiana sia preparata a un cambiamento simile. Si tratta, in un certo senso, dell’ennesimo episodio di americanizzazione dell’Italia: gli Stati Uniti sono il Paese che più di ogni altro considera normale cambiare lavoro da un anno all’altro. Non sarà facile far digerire questo aspetto di quella cultura, come invece lo è stato su altri versanti. Per generazioni il posto fisso è stato considerato un traguardo irrinunciabile, una “conquista di civiltà”. Rovesciare un concetto del genere richiederà molti anni.

Se ciò che hanno detto Monti, Fornero e Cancellieri fosse uscito dalla bocca di Berlusconi, cosa sarebbe successo?

Ci sarebbero state reazioni decisamente più aspre. La carta comunicativa fondamentale giocata da questo governo è l’immagine di assoluta dedizione, serietà, rispettabilità. Tutto questo non veniva riconosciuto a Berlusconi. C’è da immaginare che lo avrebbero attaccato in modo molto più feroce. Quando un personaggio come Padoa Schioppa (che l’aplomb lo aveva) usò il termine “bamboccioni”, ci furono proteste notevoli. Figuriamoci se a parlare fosse stato Berlusconi.

martedì 7 febbraio 2012

Fermarsi a un passo dal disastro



Il veto al progetto di risoluzione della crisi siriana di due dei membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese, ha motivazioni ben fondate.

Russia e Cina, pur senza negare la necessità di prendere una risoluzione in seno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, hanno proposto di renderla il più aderente possibile alla situazione esistente: da questo infatti dipenderà la sua efficacia. Si tratta, in particolare, di non includere nel documento la richiesta, inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale, di allontanare dal potere il presidente, regolarmente eletto, Bashar al Assad, di non addossare tutta la responsabilità del conflitto su una soltanto delle parti, cioè il governo siriano, senza prendere provvedimenti politici contro l'altra parte, e di non emettere sanzioni contro la Siria.

I due Paesi sono inoltre preoccupati su alcuni punti del progetto di risoluzione, avanzati da diversi Paesi occidentali e arabi, i quali, come hanno dimostrato gli eventi in Libia, potrebbero essere sfruttati per giustificare un intervento armato in Siria. Non è difficile immaginare che Cina e Russia non abbiano nessuna voglia di essere ingannati per la seconda volta. Non è passato molto tempo da quando gli Stati Uniti hanno chiesto di non porre il veto alla risoluzione Onu sulla Libia, presentandola come una semplice richiesta di chiusura dello spazio aereo sopra al Paese per evitare attacchi da parte dell'aviazione di Gheddafi che avrebbero potuto ripercuotersi sulla popolazione civile. In quell'occasione, la parte “amorfa” della risoluzione venne impugnata direttamente per rovesciare il regime di Gheddafi.

Cosa c'è dietro alla presa di posizione contro la Siria? La Siria è rimasta vittima, soprattutto, del proprio avvicinamento all'Iran. La destituzione del regime attuale, infatti, fa parte del più ampio progetto di isolamento dell'Iran. D'altra parte, l'avvicinamento tra Damasco e Teheran è avvenuto sotto l'influenza dell'irrisolto conflitto arabo-israeliano. Ricordo come, durante una conversazione con Hafiz al Assad, il padre dell'attuale presidente, mi disse che avrebbe cercato di non restare solo “faccia a faccia contro Israele”. La mancata regolazione del vicino conflitto mediorientale, che ha la tendenza a crescere continuamente verso una fase critica, ha spinto Damasco a creare, per ogni evenienza, un ponte con l'Iran.

Per quale motivo, poi, la maggior parte dei Paesi arabi ha deciso di schierarsi contro Bashar al Assad? Credo che in questo caso il ruolo decisivo sia stato svolto dalle crescenti divergenze tra le due principali confessioni islamiche, quella sunnita e quella sciita. In seguito all'intervento militare americano in Iraq i contrasti si sono ulteriormente intensificati. Il governo siriano è costituito per la maggior parte da alawiti, una corrente vicina a quella sciita. La Lega Araba, che riunisce soprattutto stati sunniti, ha scorto nella situazione venuta a delinearsi il rischio del consolidamento di una potente “cintura sciita” dall'Iraq, attraverso Iran e Siria fino al Libano.

Cosa potrebbe accadere se l'attuale regime siriano venisse rovesciato? Vorremmo che gli autori del progetto di risoluzione Onu appena respinto riflettessero a questo proposito. Esistono già esempi eloquenti delle conseguenze di simili azioni politiche irresponsabili nel Medio Oriente e in Africa Settentrionale. A questo tipo di politica bisogna invece opporre uno sforzo collettivo senza il quale non sarà certamente possibile evitare la degenerazione della situazione verso il caos, le guerre civili e, alla fine, anche verso il fallimento di tutti i provvedimenti necessari per moderare il conflitto arabo-israeliano.

(di Evgenij Primakov, ex-capo dei Servizi Segreti Esteri della Russia (1991-1996), primo ministro del governo russo (1998-1999) (fonte: www.russiaoggi.it)

venerdì 3 febbraio 2012

Casta ladra e arrogante


E' davvero un’ingenua al cubo, la Rosy Bindi. Oppure, al contrario, è corazzata da un’arroganza senza misura. Intervistata ieri da Repubblica sull’affare del tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, si è sentita rivolgere da Giovanna Casadio un’ultima domanda: «Nel momento dell’antipolitica, quanto nuoce al Partito democratico questa vicenda?». La sceriffa di Sinalunga ha risposto scrollando le spalle con sufficienza: «Siamo di fronte al comportamento sbagliato di una persona. Sul banco degli imputati non può essere chiamata la politica». Confesso di aver ammirato la Rosy. Mi era sempre apparsa la più manettara fra i democratici. Sempre alla ricerca ossessiva di qualche colpevole da incriminare, soprattutto quando il fellone stava nascosto nel centrodestra. Se aveva qualche sospetto, la Rosy correva a presentarsi al primo talk show rosso e lì pronunciava la propria requisitoria. Con lo stile della vergine guerriera incaricata di fustigare il peccato e il peccatore. Ma adesso comincio a pensare che fosse tutta una finzione. La Rosy era sì una sceriffa, però a senso unico. Pronta mostrare la stella e la pistola soltanto agli avversari politici. Quando è arrivato il momento di esprimersi sul conto di un vorace margheritone cresciuto nel suo vecchio partito, che ha fatto la ragazza? Si è comportata come il leader politico che aveva più odiato: Bettino Craxi.

Il giorno che la procura della Repubblica di Milano, nella persona del pubblico ministero Tonino Di Pietro, agguantò il primo socialista ladro, Mario Chiesa, il patron della Baggina, vi ricordate ciò che proclamò Bettino? Spiegò che si trattava di un mariuolo isolato, un singola mela marcia capitata nel cesto delle mele sane. Era il febbraio 1992. Fu allora che iniziò a soffiare la bufera di Mani pulite e venne alla luce l’enorme verminaio di Tangentopoli. Non immagino che seguiti abbia la storia del tesoriere della Margherita. Ma so per certo che è l’ennesima campana a morto per i partiti italiani. Stiamo scrivendo sino alla nausea che l’antipolitica sta dilagando. Però lo facciamo dall’interno delle redazioni dei giornali. Senza mettere la testa fuori dal buco per dare un’occhiata a quanto accade all’esterno dei nostri bunker di carta stampata. A me capita di farlo, perché non ho più l’obbligo di stare in redazione. E quel che vedo e ascolto, nel piccolo centro dove vivo, comincia a incutermi un terrore profondo.

L’uomo della strada, l’italiano medio e senza potere, odia i politici. Li considera fannulloni, ladri, parassiti della società alla quale succhiano il sangue. Non li sopporta più e sarebbe pronto a pagare chiunque sia in grado di sopprimerli. Considera tutti i partiti dei clan mafiosi. Giudica il Parlamento un ente inutile che andrebbe cancellato. Qualcuno comincia a domandarsi se non esista qualche forza esterna in grado di disfarsene.

Nella Prima Repubblica si parlava spesso di un colpo di Stato. Soprattutto le sinistre lo temevano, pensando che il rischio venisse dal versante di destra della Democrazia cristiana o da qualche settore dell’Arma dei carabinieri. In realtà era un timore infondato perché non accadde mai nulla di serio. Allorché entrarono in scena le Brigate rosse, una quota consistente di italiani sperò che Curcio e compagni prendessero di mira la partitocrazia nostrana. Non è vero che, quando le Br rapirono e uccisero Aldo Moro, l’Italia intera pianse sulla sorte del leader democristiano. Una parte del Paese, insondata dai media, pensò che Moro avesse ricevuto quel che meritava. E si augurò che la stessa fine venisse riservata a un big della sinistra. Per esempio, a Enrico Berlinguer, considerato il complice di Moro nella politica del compromesso storico.

Oggi le Br sono morte e sepolte, per fortuna. E in Italia non s’intravede nessuno in grado di mettere fuori gioco i partiti. A parte un governo europeo che molti cominciano a considerare un’opportunità per legare le mani alla Casta nostrana. In compenso sono le parrocchie politiche a lavorare contro se stesse. Stiamo assistendo a un fenomeno non ancora studiato dai politologi. È quello dei partiti che, giorno dopo giorno, allestiscono da soli il golpe che li distruggerà. Siamo di fronte a una congiura invisibile e suicida. Come testimoniano le storie del tesoriere ex Margherita e del senatore del Pdl Riccardo Conti, immobiliarista professionale, che in un giorno solo ha saputo guadagnare 18 milioni di euro. «Questi partiti sono pazzi!» sentivo esclamare al bar del mio paese. «Fanno l’impossibile perché la gente si auguri la loro morte».

Tutti i membri della Casta devono stare molto attenti. Sono già stati messi fuori gioco dal governo dei tecnici. Una delle ragioni del successo di Mario Monti e dei suoi professori sta proprio nel lavoro di supplenza che svolgono nei confronti dei partiti in cancrena. Quando sento strillare alla democrazia sospesa, come fa di continuo Di Pietro, mi viene da ridere. Consiglierei al capo dell’Idv di frequentare qualche bar in incognito, come farebbe qualunque commissario Basettoni. Potrà aggiornare la propria strategia politica. Uno che forse dovrà frequentare i luoghi pubblici in abito simulato sarà Francesco Rutelli, ex capo della Margherita sino al 2007, ossia al momento della fusione con i Ds nel Partito democratico. Lo consideravo da tempo un disperso in guerra, a cavallo di un partituccio, l’Api, praticamente sconosciuto. Ma adesso le maledette carte del tesoriere margheritone lo stanno mettendo nei guai.

Ho l’impressione che “Franciasco”, ovvero Cicciobello, si stia difendendo male. Ha scelto una linea senza futuro, quella di sostenere di non aver mai saputo niente dei traffici dell’amico. E temo che si stia cacciando nei pasticci da solo. Lo temo in base all’esperienza professionale, l’unica arma di un cronista anziano. Conosco bene quanto sia fragile questa strategia per averla vista applicare da un altro disperso, Achille Occhetto. Nel luglio 1992 incontrò i quadri milanesi del partito, in pieno choc per aver saputo che Mani Pulite aveva scovato le tangentone incassate dal partito ambrosiano. Al termine di due assemblee molto incavolate, tenute in via Volturno, la mitica sede della federazione comunista e poi diessina, Baffo di ferro si difese, borbottando angosciato: «Io non sapevo. I fatti emersi io non li conoscevo».

Due mesi dopo, era il settembre 1992, venni invitato alla Festa nazionale dell’Unità che quell’anno si svolgeva a Reggio Emilia. Il dibattito era uno dei tanti, sulla crisi della politica. Lo moderava un cauteloso Gad Lerner, il più annoiato nel gruppo sul palco. Pensai di dare una scossa all’ambiente, osservando: «Occhetto sostiene di non aver mai saputo nulla delle tangenti. Però sbaglia, mostrando di essere un ingenuo o un bugiardo. Ma in entrambi i casi non può continuare a guidare un grande partito d’opposizione come l’ex Pci». Pensavo che il pubblico mi avrebbe fischiato. Invece i mille compagni presenti sotto il tendone si alzarono in piedi applaudendo entusiasti. Molti gridavano: «Bravo! Ci voleva qualcuno che lo dicesse!». Per questo mi sento di consigliare a Cicciobello: «Attento a come ti muovi». E soprattutto non partecipare ad assemblee di ex margheritucci.

(di Giampaolo Pansa)