venerdì 27 luglio 2012

Quello che resta di An tra fondazione congelata e scontri per il patrimonio


Giorgio Almirante non avrebbe potuto immaginarlo neanche lontanamente. Altrimenti non avrebbe mai lasciato a chi considerava come figli un patrimonio oggi trasformatosi in un caso e in un motivo in più di dispute e ripicche fra ex  tanto da finire in tribunale. Ma come accade anche nelle migliori famiglie i soldi diventano tutto. Patrimonio immenso, quello di An, che prima dello scioglimento del partito aveva come amministratoreunico Donato Lamorte, che gestiva le società Immobiliare Nuova  Mancini srl e Italimmobili srl che si occupavano dei beni immobiliari. La storia poi si è evoluta in maniera diversa: quando il 21 e il 22 marzo 2009 si tenne il congresso di scioglimento di An, a una settimana dalla fondazione del Pdl, furono approvate delle determinazioni congressuali nelle quali si diceva che il patrimonio di An continuava a essere destinato agli scopi che An aveva perseguito come partito, ma con veste giuridica diversa, la fondazione appunto. Per questo furono creati due organi: un comitato di gestione e un comitato dei garanti, che avrebbero dovuto traghettare il passaggio da An partito ad An fondazione. Qualcosa però non andò per il verso giusto, e il patrimonio di An, dopo il dito alzato di Fini e la rottura definitiva con il Pdl, è diventato motivo di scontro violento.

Alcuni, poi confluiti in Fli nel 2010, hanno cominciato ad interpretare queste determinazioni congressuali obiettando che le persone che in quel momento facevano parte del comitato di gestione e del comitato di garanti non potevano amministrare liberamente il patrimonio ma si dovevano comportare come liquidatori di un'associazione che era il partito (interpretazione confermata dall’On. Buonfiglio, uno dei protagonisti insieme all’On. Raisi del ricorso al Tar). Si sono quindi rivolti al Presidente del Tribunale di Roma che il 7 febbraio scorso ha nominato due commissari liquidatori, un commercialista e un avvocato. Ma prima che il Presidente rendesse effettivo il loro insediamento, il precedente comitato di gestione ha disposto la costituzione di una fondazione eseguendo una serie di trasferimenti patrimoniali.

Intanto il Tar del Lazio questa settimana ha sospeso il riconoscimento giuridico della validità della Fondazione. Ovvio che la questione del patrimonio di An tocchi nervi oramai scoperti da un bel po’ di tempo, ma come ribadisce al Foglio.it l’onorevole Buonfiglio (che ora non è più in Fli) “indipendentemente dal partito in cui siamo adesso, noi abbiamo posto sin dall’inizio che durante la liquidazione non si possono disporre atti dispositivi e dunque non si potevano finanziare campagne elettorali. Un conto è trasferire tutti i beni che facevano già parte del patrimonio di An – prosegue Buonfiglio – altro conto è trasferire l’intera somma che deriva dai rimborsi elettorali. In questa fondazione sono finiti anche 55 milioni di euro che derivano dalla legge sui rimborsi elettorali dei partiti”.

Forse anche l’affaire Montecarlo ha inasprito i rapporti, e sicuramente una questione che poteva dirimersi con il codice civile dovrà ora risolversi in Tribunale. Quando gli si chiede quale ruolo abbia avuto l’ex Presidente di An in questa storia del patrimonio, il commento di Buonfiglio è laconico: “E’ stato altalenante: all’inizio il primo ricorso era stato fatto insieme, poi abbiamo preso strade diverse probabilmente dettate dalle diverse concezioni che avevamo su questa storia. Fini avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo in Alleanza Nazionale: una volta chiusa quell’esperienza l’ha consegnata con questo patrimonio compresa la casa di Montecarlo in bilancio”.

Il 26 febbraio 2009 Franco Pontone, tesoriere del partito fino al 6 ottobre 2010, scriveva che il rendiconto di gestione al 31 dicembre 2008 evidenzia un soddisfacente risultato di avanzo di gestione pari a 10 milioni 335 mila 573 euro e una situazione di liquidità disponibile di 30 milioni 685 mila 260 euro. Risultati che confermano la solidità della situazione patrimoniale di An. Solidità perduta nel tempo, solidità che alla fine è come se avesse seguito le sorti del suo partito e del suo Presidente. In effetti è quasi inutile avere tutte queste case se il padrone di casa  non ha nemmeno  le chiavi, e nemmeno avere un giornale serve più se si ha poco da dire. Poi ognuno pone la questione su un “ è affare di principio” ma questo principio è costituito da 70 milioni di euro in contanti più 600 milioni di immobili. Il Tar ha congelato An come fondazione, per il partito ci hanno pensato tutti gli altri.

(di Graziella Balestrieri)

giovedì 26 luglio 2012

Marco Tarchi: il grillismo? Tutta colpa dei partiti


Quando analizza la situazione italiana è un po’ il signor-no. Contesta i luoghi comuni della politica tanto per cominciare la distinzione destra-sinistra che ritiene da molto tempo ormai categorie superate. Attento più all’evoluzione del pensiero e soprattutto, ai mutamenti intervenuti nella società, osserva in modo più scientifico che passionale il degrado della lotta politica nazionale e ne trae conclusioni che hanno finito per renderlo al tempo stesso protagonista di incontri con i pensatori più attenti e critici della sinistra e mal sopportato a destra.

È a Marco Tarchi, docente universitario a Firenze, al quale abbiamo chiesto una visione riflessiva e critica del presente e del futuro del Paese.

Professor Tarchi, destra, sinistra e centro sono categorie politiche che oggi sembrano avere il fiato corto. Quasi 30 anni fa, era il novembre 1982, lei, con una delle figure più critiche della sinistra, Massimo Cacciari, gettò il ponte della discussione per superare quelli che allora si chiamavano ancora steccati fra destra e sinistra. Che cosa è rimasto di quel seme? Quali prospettive ha di essere ripreso e rivitalizzato vincendo le opposte ritrosie?

«La situazione odierna è molto più difficile, soprattutto in Italia, perché il sistema elettorale adottato nel 1993 e la riammissione nel gioco delle coalizioni governative degli ex neofascisti hanno cristallizzato, nel gergo politico e nella mentalità di molti cittadini, le nozioni di sinistra e destra, che trent’anni fa davano chiari segni di obsolescenza. Le due etichette si sono trasformate in paroletalismano: spesso chi non ne fa uso si sente a disagio. Mi chiedo però se le linee di frattura socio-culturale che avevano dato vita al discrimine sinistra-destra, e che fenomeni come la crescita delle preoccupazioni ecologiche e la fioritura di tematiche post-materialiste sembravano condannare all’anacronismo, abbiano ritrovato nel frattempo vigore, o si siano riproposte con forza, pur con panni rinnovati. A me pare proprio di no, e credo che stiano a dimostrarlo le sostanziali sovrapposizioni di molte parti dei programmi che le forze politiche in concorrenza presentano per attrarre consenso. Se si escludono i toni concitati da talk show e qualche solenne proclamazione di principio sistematicamente smentite dai fatti, gran parte delle destre e sinistre odierne dicono le stesse cose – si tratti di ricette economiche, di posizioni sullo scacchiere internazionale, di diritti civili e via dicendo. Gli antagonismi – e le convergenze – reali si trovano solo in ambiti per ora marginali o comunque malfamati. Penso ai movimenti populisti sorti un po’ in tutta Europa che, per il solo fatto di infrangere in qualche misura questo oligopolio ideologico, finiscono nel mirino dell’apparato di denigrazione massmediale. Ciò non toglie che, fra spiriti liberi, da tempo un dialogo costruttivo che prescinde, almeno in larga misura, dalle pregresse formazioni e appartenenze, sia in atto: penso, giusto per fare un esempio (ma ce ne sono molti) al confronto costante che Franco Cardini ed io abbiamo con Danilo Zolo. Potrà sfociare in una convergenza metapolitica più ampia? Detto con sincerità, dipenderà dalle circostanze e dagli scenari che si formeranno. Da parte mia, la disponibilità è forte oggi come allora, perché in trent’anni non ho visto né udito un solo argomento convincente che abbia smentito la mia convinzione che le linee di conflitto del Novecento sono inadatte ai nostri tempi». Se la destra appare senza bussola, la sinistra è combattuta oggi fra Vendola, Di Pietro e Bersani ed è alla ricerca della propria anima. Dove si fermerà il travaglio? Approdando sulle sponde di Grillo? «Penso proprio di no, perché Grillo dimostra sempre più, di giorno in giorno, di ragionare senza tenere nel minimo conto il discrimine sinistradestra. Piaccia o non piaccia, aggredisce problemi e sradica tabù con una radicalità che non può piacere a nessuno degli attuali attori politici. E lo si vede, data la potenza delle bocche di fuoco che hanno cominciato a sparargli contro: a parte i politici di professione, non sono mancati il presidente della Repubblica, quasi tutti i quotidiani che contano, i telegiornali, i politologi. Ho letto le dure critiche del giornale israeliano Yedioth Aharonoth, un foglio che conta. Un ulteriore segnale molto significativo. No, la sinistra non finirà con Grillo. Continuerà, in ordine sparso, a dibattersi fra una resa sostanziale alle idee dei nemici di un tempo e un attaccamento, ormai più sentimentale e retorico che altro, alle ragioni degli umili. Come è stato da più parti scritto, un vago progressismo cosmopolita ha ormai cancellato il socialismo dall’identità culturale della sinistra. La classe operaia, ormai considerata poco più di una zavorra della dinamica storica dell’economia, è stata soppiantata nelle preoccupazioni di quegli ambienti dai marginali d’ogni tipo. La guerra di classe ha ceduto il passo alle guerre umanitarie, i diritti dei lavoratori salariati non appaiono più primari rispetto a quelli delle coppie gay, i migranti sono l’unico proletariato a cui si guarda. E passare da Karl Marx a Bernard-Henri Lévy non è un buon segno…»

Passiamo al campo opposto: lei ha ripetutamente sostenuto che un fenomeno come quello della Nuova Destra è ormai acqua passata. Oggi si dovrebbe parlare di ricerca di nuove sintesi, al di là della destra e della sinistra, come già ipotizzato da Sternhell? E in compagnia di chi?

«Per pensare sinteticamente, non c’è bisogno di alleati o di riconoscimenti esterni. È sufficiente sentirsi insoddisfatti del pensiero binario, sentirne i condizionamenti come un limite inaccettabile della libertà di pensare orizzonti diversi da quelli del sistema culturale, sociale, politico ed economico nel quale oggi viviamo. Sternhell si è occupato del panorama politico-intellettuale di fine Ottocentoprimi decenni del Novecento e ha scritto opere di eccellente qualità; per questo l’ho tradotto e fatto pubblicare prima che fosse scoperto da altri editori. Ma qui stiamo parlando di scenari attuali. Non essere prigionieri dei riflessi condizionati dettati dall’appartenenza ad una categoria politica preconfezionata significa, in primo luogo, tener fede alla visione del mondo che si coltiva e favorire la diffusione delle credenze e delle opinioni che ne derivano senza preoccuparsi delle convenienze. Le culture politiche riferibili ai concetti di sinistra e destra hanno lasciato, oltre a parecchi detriti, un buon numero di spunti utili a misurarsi positivamente con i grandi problemi del nostro tempo. Raccoglierli, metterne uno accanto all’altro, aggiornarli e sistematizzarli, senza escluderne affatto l’integrazione con riflessioni originali dettate dall’attualità, mi pare un compito né ozioso né sgradevole. Allinearsi, magari con forti disagi, alle parole d’ordine del campo a cui si è scelto di appartenere, a mio avviso è un destino molto più gramo. Anche se può avere ricadute utili dal punto di vista del tornaconto personale. Ah, a proposito, e senza eccessi polemici: il progetto delle nuove sintesi non nasce su un campo opposto a quello della sinistra o della destra. La contraddizione logica non lo consentirebbe».

Parliamoci chiaro: di cultura politica si può discutere all’infinito, poi a ritmi più o meno cadenzati c’è l’appuntamento con la scheda elettorale. Che prospettive avrebbe un elettore disgustato dall’attuale centrodestra pidiellino, dal centrosinistra frutto della fusione fra mezzi democristiani e mezzi comunisti o dal presunto terzo polo che non fa impazzire di gioia gli elettori?

«Mi permetto un’obiezione. Occuparsi di cultura politica non significa discutere all’infinito, magari del famoso sesso degli angeli, ma cercare di creare anche solide basi per agire nella realtà. Perché se non si influisce sulla mentalità delle persone, non si otterrà mai uno stabile consenso verso i programmi e le tesi che si difendono in ambito politico. La destra, su questo monito, farebbe bene a ragionare a lungo e profondamente, ammesso che ne sia capace. Ovviamente, se ci si accontenta di guadagnare voti, seggi e stipendi per realizzare le proprie ambizioni, di cultura non c’è il benché minimo bisogno. Anzi. Demagogia, doti seduttive personali, risorse economiche e massmediali possono bastare. Se la si vede così, però, limitiamoci ai manuali di marketing, anche politico. Se comunque vogliamo scendere sul terreno delle scelte politiche, chi pensa che il suo voto incida sulle scelte dei governi, nazionali e locali, può stabilire da solo quale grado di compatibilità partiti, candidati e programmi abbiano con il suo modo di vedere le cose e auspicare soluzioni ai problemi. C’è chi ne fa una questione di coerenza, chi di convenienza; c’è il voto espressivo e quello utile. Ma non vedo perché si debbano per forza digerire pillole amare se non si è affetti da particolari malattie. Personalmente, ho spesso preferito astenermi piuttosto che dare voti di cui mi sarei dovuto pentire, sentendomi corresponsabile di scelte e comportamenti deplorevoli. A volte ho, come molti, votato contro chi mi sembrava più detestabile, ma a posteriori non ripeterei l’errore. Talvolta ho individuato un soggetto politico che collimava con qualcuna delle opinioni che coltivo e l’ho sostenuto. In genere, chi dà fastidio al sistema vigente mi suscita simpatia».

Lei vive lontano dalla politica di partito da un trentennio abbondante. Guardiamo altrove. Dai Campi Hobbit in poi e per un certo periodo è nata la prospettiva di una rivoluzione impossibile, cito il titolo di un suo recente volume. Però la riflessione fra le esperienze non conformiste a sinistra o a destra non ha portato da nessuna parte. Perché? Eppure oggi più che mai c’è bisogno di aria nuova, di un rinnovato elogio delle differenze.

«Se ho considerato impossibile la rivoluzione ipotizzata e agognata dai protagonisti di quelle esperienze, è proprio perché l’ambiente in cui se ne coltivava il sogno era inadatto a recepirlo e concretizzarlo. Me ne sono reso conto e l’ho affermato nettamente, trent’anni fa. E ho cercato, con un nucleo di amici e di simpatizzanti, di seguire un’altra via. Come, appunto, ho argomentato nelle centoventi pagine dei saggi introduttivo e conclusivo del libro che lei cita, edito da Vallecchi. Ho voluto pubblicare quel libro per intenti tutt’altro che celebrativi. L’analisi che vi ho svolto è impietosa ma, nei miei intendimenti, costruttiva. Quel che sostengo è che, se i risultati cui lei fa cenno sono mancati, lo si è dovuto alla mancanza di coraggio di chi, dovendo affrontare la severa prova dell’impegno metapolitico, sul terreno della diffusione delle idee, con scarsissimi mezzi materiali, ha preferito rintanarsi nella calda nicchia della routine di partito, limitandosi alla politica politicante, come allora la chiamavamo. Non so come sarebbero andate le cose se ai tempi in cui la Nuova Destra seppe conquistarsi una visibilità pubblica non trascurabile fosse esistito internet. Le comunicazioni del nucleo territorialmente sparso degli animatori sarebbero state molto più agevoli, gli strumenti per rilanciare iniziative e parole d’ordine assai più efficaci, e non sarebbe mancata l’istantaneità nel fornire notizie e far circolare opinioni. Ma con i se si costruisce poco. Resta il fatto che di risultati ce ne sono stati, eccome. Non in senso micropolitico, questo è certo, anche se alcuni dei coprotagonisti o degli attori secondari di quell’esperienza, da cui si erano congedati anzitempo, hanno tentato di farsene tre decenni dopo un titolo di merito, soprattutto in occasione della scissione finiana dal Pdl, presentandosi come innovatori di lungo corso e contestatori ante litteram di scelte che, viceversa, in sede politica hanno ampiamente e tenacemente sottoscritto. Ma in una prospettiva più ampia, se nel dibattito pubblico si vuol sostenere che da destra sono scaturite idee non banali e non conformiste, è sempre alla stagione prima dei Campi Hobbit e poi della Nuova Destra che si fa ricorso».

Torniamo, in Italia, dove imperversano i grillismi. È solo degenerazione della politica o siamo di fronte ad una rivoluzione sociale che nasce dal basso?
«Avrà capito che io non ho di Beppe Grillo, pur nella piena consapevolezza dei suoi limiti, l’opinione demonizzante e l’atteggiamento di esorcismo o di scherno di altri commentatori. Le sue provocazioni, ad onta dei toni, sfidano non pochi dei luoghi comuni del nostro tempo. Di fronte ad una politica che da decenni dà il peggio di sé e a un panorama partitico deprimente, novità come questa mi sollevano un misto di interesse e curiosità. Speranza sarebbe una parola troppo grossa, così come lo è rivoluzione. Mi limito all’attenzione, senza antipatia. Anche perché, dal prevedibile esaurimento del «grillismo», potrebbero nascere fermenti ulteriori. Di nuovo, senza coltivare illusioni».

Heidegger e il mal di Grecia della Germania che vorrebbe essere Sparta


Corrado Guzzanti dice che quando i tedeschi non capiscono una cosa finiscono sempre per invadere la Polonia. La battuta ci può stare poiché segnala (anche involontariamente), nella costituzione profonda dell’essere germanico, una rigidità schematica di natura recriminatorio-aggressiva. Inutile macerarsi oltremisura sul fatto che la Germania tende a germanizzare il mondo intorno a sé (Umwelt, direbbe Massimo Cacciari) e che l’idealtipo del germano resta un inguaribile romantico (tendenza olio su tela di Caspar Friedrich con “Viandante sul mare di nebbia” in redingote) anche mentre presidia la torretta d’un campo di prigionia.

Andrebbe piuttosto svelato il rapporto intimo di Berlino con la Grecia, un magnifico palinsesto di pulsioni sentimentali al limite dell’erotismo efebico, nel quale però il barbaro ingentilito pretende di esercitare il ruolo del maestro di paideia con il degenere discendente di Tirteo. Johann Joachim Winckelmann, Wolfgang Goethe, Johann Christian Friedrich Hölderlin e Heinrich Schliemann, ma pure Albert Speer con la sua teoria del “valore delle rovine” che sedusse l’animo architettonico di Adolf Hitler alle prese con la riprogettazione millenaria del Reich: sono tutti esempi parlanti di un debito culturale nato dall’incontro di anime gelide riscaldate dalla luce del Meriggio europeo, e che nel tempo inclina verso l’ombra lunga di un impossessamento impaziente (fuori dalla lista figura Friedrich Nietzsche, lui rivendicava con orgoglio sangue polacco e antitedesco).

Ciò che non è dato fare con la poco poetica e molto dominatrice Roma antica – di qui la diffidenza anticapitolina del Mommsen e della sua scuola – i tedeschi l’hanno azzardato con la Grecia.
E’ un caso di scuola antropologico nel quale, come avrebbe detto lui, soggiorna appieno l’esserci di Martin Heidegger, di cui Guanda ha da poco mandato in libreria i “Soggiorni” ellenici (73 pagine, 10 euri, nella traduzione di Alessandra Iadicicco che coglie felicemente un’invalidante versione tedesca di un oracolo delfico in Eraclito, cui oppone l’intuizione perfetta di Giorgio Colli). Il suo è il diario di una crociera risalente al 1962, metafisicamente spettrale come un racconto di Massimo Bontempelli, nel quale l’estenuante ricerca della “grecitudine” (das Griechische) è scandita dal ritmo del fallimento: durante gli scali il filosofo preferisce troppo spesso meditare sull’oggetto del suo viaggio rimanendo in nave, sempre turbato dal timore del tradimento fattuale. Soltanto l’apollinea Delos gli si accenna. Ma Heidegger, prigioniero del soliloquio mentale, non ha la prontezza interiore di ammettere la propria indisponibilità a mettersi “nella dimensione dell’ascolto” (secondo la formula di Walter Otto, autentico amico delle Muse). Conclusione laconizzante heideggeriana: “Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia”.

Non esiste, forse, frase più perspicua per rendere ragione anche dell’oggi, con le sue intermittenti promesse di abbandono e di salvezza: deve morire la Grecia in sé (cioè l’Europa tutta) affinché rinasca la Grecia in me (l’Euro-Germania). E’ una sentenza che sembra scolpita nel tempio interiore del ceto dirigente teutonico come la proiezione immaginaria della propria essenza irrealizzata. Ed è appunto questa la meccanica che secondo Ludwig Feuerbach spiega (ma è un errore) la nascita dell’idea di Dio nel cuore degli uomini. Sopra tutto è la conferma che la Germania non può che pensare a sé stessa se non come a una Grecia glaucopide chiamata a germanizzare il mondo.

(di Alessandro Giuli)

martedì 24 luglio 2012

Bce, la fabbrica del debito che sta rovinando l’Europa


Se tutti i giorni i Merkel, Monti, Barroso, Draghi scendono in campo per rassicurarci che “l’euro è irreversibile” (non un Grillo qualsiasi che dopo aver lungamente sbraitato contro la moneta unica ora si professa sincero europeista), vuol dire che stiamo assistendo a un rito scaramantico per allungare il più possibile la vita del moribondo. Tutti gli indicatori dell’economia reale attestano in modo inequivocabile che giorno dopo giorno siamo prossimi al funerale. Dell’euro? Dei padroni dell’euro? No, il nostro funerale! La recessione sempre più profonda, l’indebitamento pubblico che cresce, il Pil che si riduce, la produzione, le esportazioni e i consumi in calo, le tasse più alte al mondo e nella storia, le imprese strangolate che chiudono, i disoccupati e i poveri che aumentano, i giovani senza prospettive, i figli che non si fanno più, la democrazia svuotata di contenuti, i partiti e il parlamento che si sono auto-commissariati svendendo l’Italia alla triplice dittatura finanziaria, relativista e mediatica, gli italiani sempre più ingannati, traditi, rassegnati, frustrati, disorientati.

Ebbene come è possibile che, da un lato, la crisi è colpa dell’euro e, dall’altro, siamo noi italiani, noi europei, a pagarne le tragiche conseguenze? La risposta è nella recente dichiarazione del governatore della Bce (Banca Centrale Europea) Draghi al quotidiano francese Le Monde: “Il nostro mandato non è di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ma di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere la stabilità del sistema finanziario in tutta indipendenza”. Ma come: la Bce, insieme al Fmi (Fondo Monetario Internazionale) e alla Commissione Europea, la celeberrima e temutissima troika, dopo aver imposto fin nei minimi dettagli condizioni spietatissime agli Stati per poter accedere al credito finalizzato al ripianamento del debito pubblico, ora ci dice che si lava le mani dei problemi degli Stati? Ma come: se questi problemi sono essenzialmente legati alla carenza di liquidità monetaria e l’unica istituzione titolata ad emettere l’euro è la Bce che si rifiuta di farlo? Ma come: quando le banche e le società quotate in borsa crollano si pretende il massiccio intervento degli Stati con denaro pubblico mentre quando gli Stati sono in crisi voltate loro le spalle?

Per capire le ragioni profonde della crisi strutturale della finanza e dell’economia internazionale, bisogna iniziare dall’a, b, c della scienza monetaria. La moneta è solo un mezzo di scambio della vera ricchezza che sono beni e servizi prodotti. Il suo valore è convenzionale e lo conferisce chi lo accetta non chi la stampa. Il signoraggio è la differenza tra il costo reale e il valore nominale della moneta. Oggi la Bce stampa la banconota da 100 euro al costo di 3 centesimi e la vende alle banche commerciali a 100 euro più l’1% di interesse in cambio di titoli di garanzia. Le banche rivendono la banconota allo Stato a un tasso superiore in cambio di Buoni del Tesoro che sono titoli di debito. Lo Stato ripaga questi interessi facendoli gravare sulle tasse imposte ai cittadini. Quindi tutto il denaro in circolazione è gravato da interessi percepiti dalle banche e da tasse che gravano sulle nostre spalle. E’ così che noi siamo indebitati dal momento in cui nasciamo, a prescindere da qualsiasi responsabilità oggettiva! E’ il sistema che di fatto corrisponde ad una “fabbrica del debito”. Chi è il responsabile? A differenza di quanto si tenderebbe a pensare, la Bce, al pari della Banca Centrale d’Italia, è un’istituzione che svolge una funzione pubblica ma è di proprietà privata, detenuta da banche private, comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. Ha la struttura di una società per azione e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica. Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati a larghissima maggioranza il 19 luglio dal nostro parlamento senza né un’adeguata informazione né la consapevolezza da parte degli italiani che ci siamo ormai auto-condannati ad essere indebitati a vita. Di fatto ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Qualora non dovessimo rispettare gli impegni sulle condizioni del pareggio di bilancio che abbiamo inserito nella Costituzione, anche in questo caso tra la distrazione generale degli italiani, scatterà in automatico una sanzione pari all’1% del Pil, 15 miliardi di euro.

Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istitituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili, che ci impegnano a indebitarci ulteriormente per ripianare il debito! Va da sé che d’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Scordiamoci i soldi per favorire lo sviluppo, per sostenere la famiglia, per dare speranza ai giovani. Anche antropologicamente muteremo trasformandoci in un tubo digerente: ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale che ci eleva al rango di persona depositaria di valori non negoziabili alla vita, alla dignità e alla libertà. Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta.

(di Magdi Cristiano Allam)

Tommaso, l'unico Moro davvero santo


Lunedì scorso, in silenzio, è stato accolto il primo passo per avviare la santificazione di Aldo Moro, servo di Dio. Me lo diceva un suo fedelissimo, Luigi Ferlicchia, presidente del centro studi Moro e promotore con il postulatore Nicola Giampaolo della canonizzazione.

Ferlicchia è pure convinto che Moro sia stato vittima del Kgb sovietico: ricorda un borsista che seguiva le lezioni di Moro, Sergeij Sokulov, agente del Kgb, che avrebbe condotto Moro per braccio nel rapimento di via Fani. 

Una tesi condivisa da due stretti collaboratori di Moro, Franco Tritto e Renato Dell'Andro. Ma questa è roba da commissione Mitrokhin.

Mi turba di più la santità di Moro (idem per De Gasperi. Verrà poi il turno di Andreotti?). Ammiro la devozione eterna dei postulanti nei confronti di Moro ma francamente non vedo tracce di santità. Non tiro in ballo il compromesso storico e l'apertura a sinistra di un politico che pure nasce moderato e da giovane fu fascista; né lo dico ricordando lo scandalo dei petroli, i suoi collaboratori inquisiti o l'affare Lockheed. Moro fu un politico e si comportò da politico, non da santo. La sua morte brucia ancora, ma come diceva Sant'Agostino non è la pena ma la causa a fare i martiri. E non vedo Moro mosso da una causa cristiana, al più democristiana. O dovremmo santificare tutte le vittime cattoliche del terrorismo?

I veri santi si sacrificano nel nome della fede o dedicano la loro vita a opere di carità o compiono miracoli. Moro rientra in questi canoni? Un Santo Moro politico c'è già: è San Tommaso Moro. Basta lui. Dio non votava Dc.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 23 luglio 2012

I progressisti in nome dei gay mistificano anche Platone


L’Italia - si dice - è sull’orlo della bancarotta economica e il Pd in che modo si candida a governarla? Azzuffandosi sulle «nozze gay». Se questa torrida estate non fosse tragica, sarebbe comica. Perché perfino l’incolpevole Platone viene trascinato a sproposito nell’infuocata querelle che in queste ore ha visto polemizzare la Bindi, Bersani, la Concia e Casini. È capitato sulle pagine di D, il magazine di Repubblica. Nella sua consueta rubrica, Umberto  Galimberti critica il fatto che scienza, psicoanalisi, religione e diritto - a suo avviso - discriminano l’omosessualità considerandola «esclusivamente sul piano sessuale» (a differenza dell’eterosessualità).  A questo punto Galimberti sostiene che Platone combatté proprio questo «pregiudizio negativo nei confronti degli omosessuali» e per dimostrarlo si lancia in un’azzardata escursione nel «Simposio». Da cui cita un passo dove - a suo avviso - «Platone lega opportunamente la condanna dell’omosessualità a un problema di democrazia, a cui forse noi, a causa del perdurare dei pregiudizi, non siamo ancora giunti».

Ora, fare di Platone un teorico e paladino della «democrazia» (oltretutto una democrazia moderna e libertaria) è - a dir poco - surreale. Per sorriderne non occorre neanche aver letto Karl Popper (o il libro di Franco Ferrari, «Platone. Contro la democrazia», Rizzoli).

PAUSANIA, CHI ERA COSTUI?

Ma ancora più sconcertante è vedere attribuito a Platone un pensiero che nel «Simposio» è espresso da Pausania. Si deve infatti sapere che in questo dialogo vari personaggi intervengono esprimendo il loro diverso punto di vista su Eros. La voce con cui si identifica Platone ovviamente non è affatto quella di Pausania o quelle di Aristofane e di Agatone, ma - come di consueto - quella di Socrate che interviene dopo tutti gli altri e che demolisce tutti i discorsi che lo hanno preceduto. In sostanza Socrate guida gli ascoltatori a scoprire che l’amore non è ciò che loro credevano, ma piuttosto l’attrazione che l’anima umana ha per la perfezione e per l’Assoluto (qui si capisce perché il cristianesimo dialogò subito, non con le religioni, ma con la filosofia greca, che vedeva pervasa dell’attesa del Logos divino).

Se poi consideriamo l’intervento di Pausania - quello che Galimberti erroneamente presenta come pensiero platonico - è assai dubbio che si occupi di omosessualità, ma di certo si può dire che è il discorso più misogino che lì risuoni perché attribuisce l’amore per le donne all’Eros dell’«Afrodite volgare» (e lo depreca), mentre l’ Eros dell’«Afrodite celeste» è esclusiva dei maschi. È davvero esilarante che su un magazine femminile quale è  D venga citato come esemplare, edificante e «democratico» un discorso di quel tenore dove Pausania esalta il genere maschile perché «per natura più forte e più dotato di cervello».

ALTRO CHE PERBENISTA

Se poi volessimo sapere cosa veramente Platone pensava e cosa ha scritto sulla pratica omosessuale, scopriremmo pagine che oggi, sulle colonne del giornale di Scalfari e Galimberti, verrebbero subito condannate come terribilmente «omofobe».

Infatti nelle «Leggi», Platone critica quanti hanno «corrotto la norma antica e secondo natura relativa ai piaceri sessuali non solo degli esseri umani, ma anche degli animali». E spiega: «Bisogna considerare che, a quanto pare, il piacere sessuale fu assegnato secondo natura tanto alle femmine quanto ai maschi affinché si accoppiassero al fine di procreare, mentre la relazione erotica dei maschi con i maschi e delle femmine con le femmine è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere».

Come si vede qui Platone è perfino più «rigorista» della Chiesa per quanto riguarda l’unione dell’uomo e della donna al cui congiungimento fisico la teologia cattolica riconosce anche il fondamentale valore unitivo, cioè dell’amore fra i coniugi. In altri passi delle «Leggi», Platone condanna di nuovo i rapporti sessuali diversi da quelli fra uomo e donna adulti, invitando ad attenersi alle leggi di natura e a cercare sempre e solo l’acquisizione delle virtù. Il filosofo greco sembra considerare perfino come un «pericolo», per l’ordine sociale, gli «amori di donne al posto di uomini e uomini al posto di donne» perché «innumerevoli conseguenze sono derivate agli uomini privatamente e a intere città». Del resto Platone - decisamente lontano e opposto alla mentalità epicurea -  indicando l’esempio di un famoso atleta, Icco tarantino, che per vincere alle Olimpiadi si astenne da tutti i piaceri durante il lungo allenamento, invita a incitare i giovani a fare altrettanto e a «tener duro in vista di una vittoria molto più bella» ovvero: «la vittoria sui piaceri». Platone - con buona pace di coloro che fantasticano di un’antica Grecia libertaria e accusano la Chiesa Cattolica di aver portato illiberalità e sessuofobia - arriva addirittura a chiedere alle leggi di prescrivere la virtù: «La nostra legge deve assolutamente procedere dicendo che i nostri cittadini non devono essere peggiori degli uccelli e di molte altre bestie che, nati in grandi gruppi, vivono fino alla procreazione non accoppiati, integri e puri da unioni sessuali, ma quando giungono a questa età, congiuntisi per proprio piacere il maschio alla femmina e la femmina al maschio, vivono il resto del tempo in modo santo e corretto, attenendosi e saldamente ai primi patti d’amore; dunque essi (i cittadini) devono essere migliori delle bestie».

Questa la prima legge (dove si condannano anche i rapporti prematrimoniali e l’adulterio). E «qualora (i cittadini) vengano corrotti», aggiunge Platone, bisogna escogitare «una seconda legge per loro». Ovvero, se proprio alcuni non resistono all’attrazione dei piaceri senza legge «sia presso di loro cosa bella compiere di nascosto questi atti (…), mentre sia turpe il non farli di nascosto». Questo è il Platone vero, quello che racchiude le leggi nell’«ossequio agli dèi, l’amore pe gli onori e il fatto che non ci sia desiderio dei corpi, ma dei bei costumi dell’anima».

Dell’altro Platone, quello di Galimberti, non si trova notizia sui suoi testi. Voglio aggiungere che siccome a quel tempo sotto la categoria di amore andava anche il rapporto fra maestro e discepolo, e siccome questo rapporto poteva scadere (e scadeva) nella pederastia, c’è un passo di Platone (nella Repubblica, il dialogo filosofico, non il giornale) in cui si legge la condanna di questa degenerazione possibile: «tu stabilirai una legge nella città che stiamo fondando, in base alla quale chi prova affetto (erastés) per il suo ragazzo affezionato (ta paidikà), lo ami e lo accompagni e lo tocchi come farebbe un padre con il figlio; con il suo consenso e avendo come fine la contemplazione e la conoscenza del bello. Mai dunque dovrà accadere o sembrare che si vada oltre questi limiti».

LA FAMIGLIA NATURALE

Qualcuno potrà sorprendersi di scoprire questo Platone, perché da tempo si è diffuso il luogo comune che la famiglia eterosessuale (come fondamento della civiltà) e la legge naturale siano un’invenzione del cristianesimo. In realtà la famiglia fra uomo e donna è stata il fondamento istituzionale esclusivo di tutte le civiltà precedenti il cristianesimo e di tutti i popoli. Da sempre. E la legge naturale ben prima del cristianesimo è stata il fondamento della riflessione morale, in modo speciale nell’antica Grecia. Un formidabile saggio di Francesco Colafemmina, «Il matrimonio nella Grecia classica» vuole dimostrare tutto questo con ricchezza di citazioni (sorprendenti) e brillante scrittura. Il libro di Colafemmina (a cui devo tante preziose indicazioni) intende ribaltare «le mistificazioni contemporanee» e ricostruisce «un’etica matrimoniale condivisa fra ellenismo e cristianesimo». Una lettura preziosa in questi tempi di confusione e di ideologia. Una lettura da consigliare a tutti i nostri spensierati politici.

(di Antonio Socci)

domenica 22 luglio 2012

Tecnocratica e senz'anima. L'Europa così non funziona


Nel 1998, Mario Monti, in un suo breve libro, Intervista sull'Italia in Europa (Laterza), auspicava una sostanziale dissoluzione degli Stati nazionali a vantaggio di un superstato europeo. Il pamphlet era dato alle stampe nei mesi cruciali della fase di avvio per l'approdo all'euro e il professore, commissario a Bruxelles, tratteggiava le sue idee sull'Europa, non certo il continente dei popoli, sedimentato in una cultura millenaria comune, bensì una sovrastruttura tecnocratica che doveva mirare alla gestione economica del mercato. Tra Maastricht e i primi anni del Duemila l'idea neoilluminista di un'Europa a direzione centralista e tecnocratica è stata egemone nei giornali, nelle università, nei luoghi dove si è formata l'alleanza tra salotti giacobini e “poteri forti”. Cosa non solo teorizzata ma avvenuta nei fatti quando agli Stati nazionali è stato sottratto il governo dell'economia, tratto distintivo della sovranità accanto all'esercizio della forza militare. Europa forza gentile fu il titolo di un altro libro, a firma di Tommaso Padoa-Schioppa, che uscì in occasione del varo dell'euro e che vedeva in Bruxelles una forza buona chiamata a domare il senso di nazionalità. Nondimeno, un anno prima di diventare Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano pubblicò Altiero Spinelli e l'Europa (il Mulino) dove si auspicava il «mettere insieme delle sovranità, delle funzioni, dei poteri, per esercitarli a livello sovranazionale», contro le «forme di nazionalità esasperata».

Alla prova dei fatti l'Europa così concepita si è dimostrata un fallimento, non solo perché ha prodotto una spaventosa crisi economica, non ciclica ma epocale, ma soprattutto perché - come ha scritto Giorgio Israel - sta «sgretolando le culture nazionali che dovevano essere i mattoni costitutivi dell'identità culturale del continente». In altre parole, quella pluralità nazionale che per secoli è stata la ricchezza dell'Occidente, parte essenziale della civiltà europea, è stata distrutta dal burosauro tecnocratico.

Se è vero, come ricorda, Federico Chabod, nel suo classico L'idea di nazione, che dire senso di «nazionalità, significa dire senso di individualità storica», il sedimento storico non può essere generato in laboratorio. Per secoli la forza dell'Occidente è stata la libertà degli individui, consacrata dalle costruzioni giuridiche e soprattutto da un potere riconoscibile ed emendabile. Il potere delle tecnocrazie, invece, appare indistinto e lontano. Scruton salda in un binomio indissolubile nazione e democrazia: «Le democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale». E aggiunge che «dovunque l'esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire». Lo storico polacco Ernst Kantorowicz fa risalire a Federico II l'origine dell'unità giuridica e culturale dell'Occidente attraverso la nozione di Europa imperialis, una res pubblica universae christianitatis, dove il potere non è tirannia ma è chiamato a rappresentare la communitas, un popolo unito dalla storia. Un ruolo che valse a Federico II il riconoscimento postumo di Nietzsche che lo definì: «Il primo europeo di mio gusto». Lo jus publicum europeaum, ben descritto da Carl Schmitt nel Nomos della terra, come «diritto interstatale», che delimita «l'ordinamento spaziale della respublica cristiana medievale», non ha avuto, dunque, quella modernizzazione evolutiva che necessitava come base della costruzione europea. L'Europa dei tecnocrati ha evidentemente tradito i postulati culturali della possibile unità europea, negando quello che Scruton definisce il «dono principale delle giurisdizioni nazionali».

E non si esagera nel ritenere che l'Europa giacobina dei poteri forti sia antidemocratica, priva di radicamento popolare. L'Unione di oggi, quella di Bruxelles è un dato solo formale che ha distrutto le virtù delle nazionalità ed è priva di «quell'anima» dei popoli teorizzata da Charles Péguy o del Volksgeist caro e Herder e Fichte. E non gode neanche di un fondamento plebiscitario: in Italia non c'è mai stato un referendum sull'Europa, mentre le consultazioni popolari di Francia e Olanda hanno bocciato la Costituzione europea.

Per secoli lo Stato nazionale, grazie al suo radicamento culturale, si è dimostrato un modello di prosperità economica e di democrazia. E occorre domandarsi quanto della crisi dell'Occidente sia da imputare all'abbandono delle strutture nazionali. Il peggio ammoniva Gustave Flaubert è quando la bêtise (la stupidità) di un certo universalismo si allea con la canaille, che per mantenere i propri privilegi economici, mira a sovvertire le gerarchie della storia.

(di Gennaro Sangiuliano)

Euro? No grazie! La Polonia preferisce fare un passo indietro


La notizia non è certo fra quelle più inaspettate, ma contribuisce senz’altro ad appesantire quel clima di incertezza che avvolge le sorti presenti e future della moneta unica europea. Partita con la velleità di affiancare e superare il dollaro come principale moneta cartacea di riferimento per il commercio e la finanza globali, la divisa continentale attraversa oggi il momento più difficile della propria decennale storia.

Comprensibile che in una simile congiuntura, con 5 paesi praticamente commissariati dalle autorità centrali e un sesto, l’Italia, avviato verso il medesimo mesto destino, anche altri candidati all’adesione intensifichino i distinguo per rinviare un passo divenuto inopinatamente più lungo della gamba. Un po’ come accadrebbe se veniste a sapere che il party al quale avreste dovuto presenziare, seppure in lieve ritardo, si fosse trasformato in un cupo ossequio al capezzale di un moribondo. A dire il vero la commedia degli equivoci tra l’euro torre e gli stati orientali, ma non solo, va avanti da anni e la data indicata nei ripetuti colloqui al vertice viene regolarmente procrastinata. Vuoi per il timore, da parte dei secondi, che un allargamento affrettato potesse influire su tassi di crescita economica assai vigorosi  vuoi per il terrore, sopraggiunto in seguito, di finire nella spirale senza fondo della crisi dei debiti sovrani.

E così, nonostantela Slovacchia  e l’Estonia si siano decise a compiere il passo decisivo, i paesi principali di quest’area, ovvero Polonia e Repubblica Ceca, hanno privilegiato l’attendismo, ma con un sempre crescente  disincanto verso i miracoli dell’unificazione e la terra promessa descritta dagli apologeti del progetto. A fare la voce grossa, non più tardi di ieri, il vice-Ministro delle Finanze polacco, Jacek Dominik (nella foto n.d.r.), che in una dichiarazione ha rovesciato, per così dire, l’onere della prova sui bonzi della BCE: aggregarci al carro? Solo se vi riuscirete capaci di arginare la tempesta in atto. Questa la brutale sintesi del discorso. E così (almeno fino al 2018) la Poloniasi terrà il suo zloty, pazienza se svalutato, in grado di trascinare l’export locale e di garantire buone performances al PIL di Varsavia, legato a doppio filo alla locomotiva del potente dirimpettaio tedesco.

Proprio l’atteggiamento tedesco, stretto tra i vincoli dei patti sottoscritti e l’istinto di sopravvivenza, può aver influito e non poco sulle esitazioni dei confinanti. Preludio a quelle ipotesi di Euro “ristretto” o Deutsche Mark allargato di cui vociferano da un po’ ambienti di solito ben informati? Possibile. Fatto sta che l’alzata di scudi del governo polacco segue dappresso (poco più di un anno) un analogo caveat della potente ed indipendente banca centrale, quasi a riprendere certe perplessità già espresse dalla Bundesbank e clamorosamente esplose con le dimissioni di Juergen Stark, componente tedesco nel board della BCE.

Due indizi non fanno una prova, è noto, ma chi si è cullato per anni nell’illusione che certi processi fossero irreversibili soprattutto perché a pagarne le conseguenze sarebbero stati sempre gli altri dovrà iniziare a meditare sulla propria sconsideratezza. Ammesso e non concesso che sia in grado di farlo.

venerdì 20 luglio 2012

Pensieri (dolenti) sul riamor nostro


Che peccato: finirà così. Finirà che questo genere di ritorno non potrà dare un fatto nuovo. Quello di candidarsi nuovamente è uno di quei remake fatto con materiali scaduti e renderà impossibile anche la nostalgia. Berlusconi che torna da padrone della mobilia si priverà della felicità di farsi amare, di farsi ricordare, di far alzare il coro di “caro lei, quando c’era lui…”. E finirà che spenderà tutto il cospicuo gruzzolo della memoria. L’ultima scena è quella che svuota l’imprinting e nessuno domani dirà “peccato che non c’è più”. Essere scampato al Piazzale Loreto del Bunga Bunga, alla defenestrazione per tramite di governo tecnico, al rogo delle procure e poi tornare alla Camera dei deputati, da sconfitto oltretutto, dimenticando quanto sia inevitabilmente “sorda e grigia” quella palude dell’ipocrisia italiana, non potrà che consegnarlo a un destino ordinario. E dovrebbe essere umiliante per l’eroe capricciosissimo che ha insegnato alla gente quanto sia politico il corpo, specie il corpo vincente, replicare stancamente lo show ad uso di un pubblico sgamato e annoiato. Tornerà, ormai è deciso, ma il suo tornare sarà la riproduzione stanca di tutto il già fatto. Forse avrà il suo quid, Berlusconi, ma non ha più quell’idem sentire con gli italiani che ha permesso alla stagione appena conclusa di riconoscerlo come cosa propria. Che peccato, tutte le sue stagioni – quella liberale coi professori e coi terzisti, quella delle invenzioni del kit e della Nave azzurra dei candidati, quella euforica del cucù alla Merkel, quella americana del truce Bush, quella neo-ottomana di Erdogan, quella sovversiva delle cene eleganti – non potranno avere l’allegria di un irresistibile sovrano quale lui fu, capace di far ridere i suoi buffoni senza neppure sentire la necessità di dotarsi di un giullare. Non vuole saperne dell’uscita di scena ed è un peccato. Sarebbe stata una scena tutta sua. Peccato. Nessuno domani potrà dire: “Peccato che non c’è più lui”.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

mercoledì 18 luglio 2012

Il nostro partito...


Pubblichiamo la lettera inviata da Pietrangelo Buttafuoco a Marcello Veneziani per la riunione promossa il 15 luglio 2012, nel Monastero di Valledacqua ad Ascoli, sul futuro della Destra italiana.

Ciao Marcello,

ho appena cercato di spiegare a mio padre cosa succede oggi e l’unica formula facile è stata questa: ad Ascoli Piceno si celebra l’atto fondante del Partito. Mi guarda e mi chiede: “Quale Partito?”. Mi sono sentito come il figlio di Ignazio quando la maestra, alle elementari, lo interrogò a proposito di una frase scritta nel tema in classe.

La proposizione in questione era questa: “Ieri, come ogni domenica, prima della partita, con mio padre siamo andati al partito”. Ebbene, la maestra, fece la stessa domanda di mio padre, ieri: “Quale partito?”. Ecco, non ho potuto fare a meno di rispondere allo stesso modo del figlio di Ignazio.

La nostra è pur sempre una storia di padri e figli e perciò ho detto: “Come, quale Partito? Il Nostro”.

Il Nostro, appunto.

Oggi nasce qui un mondo che deve essere un partito. Non deve conoscere carriera, non possiamo dettare condizioni perché non abbiamo massa da manovra, non faremo deputati e perciò non potremo che essere il lievito per una generazione finalmente in grado di forgiare il nuovo.

Il Nostro partito, di cui ricordiamo la fiamma tricolore e la dizione “sociale”, non è liberale, non è più nazionale, tanto meno europeo se l’Europa è questa, né occidentale se l’Occidente è la satrapia del pensiero unico ma una casa che è carne di una storia, parte della tradizione dove tutti noi – padri e figli – riusciamo a trasmettere un codice che possa dare alla nostra esistenza un’identità e non la caricatura cui è stata costretta la cosiddetta destra.

Noi, col nostro Partito, non siamo di destra.

Noi siamo gli eredi di un genio pragmatico che seppe fare dell’ideologia italiana l’alfabeto della modernità.

Siamo quelli che devono stare svegli per avvisare i ragazzi di ciò che sta succedendo: l’Italia è alla deriva, l’Italia di oggi è peggio di quella di vent’anni fa quando venivano ammazzati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, morti inutilmente se la mia Sicilia è, adesso, la fogna del potere.

L’Italia di oggi – che pure ha avuto la cosiddetta destra al governo – ha visto cadere l’ultimo velo di ipocrisia sotto il maglio dell’Euro. E tutti sono più poveri e tutti sono più schiavi perché l’Italia non ha sovranità politica.

Non l’ha mai avuta, la sovranità, da quando abbiamo perso la guerra e l’Italia è ridotta ad essere periferia perché l’ha persa quella guerra. Non senza il carico d’odio di una guerra civile che dura ancora perché se c’è un passo zoppo in questa nostra Italia, c’è perché ci ritroviamo sciancati in ragione di una condizione d’eterno esilio cui sono stati costretti i nostri padri, noi pure e tutto ciò che è derivato dal pragmatico movimento politico molto italiano e tutto moderno, quello.

E’ quello che seppe portare le città in campagna – come si fece nel latifondo, sottraendo il territorio alla mafia per fondare i borghi come neppure nell’età del barocco s’era visto nel Meridione e nelle terre d’Africa.
Il movimento politico molto italiano e tutto moderno che ingoiò la palude e restituì alla vita la moltitudine degli italiani arrivati dal Veneto per scavare il Canale.

Un movimento politico molto italiano e immancabilmente pragmatico che ancora oggi dovrebbe leggere Nicolò Machiavelli, chiudere il Novecento e capire Marco Polo.

Come seppero fare un tempo, fondando l’Istituto Orientale, perché vale solo la regola della strada e c’è solo una direzione: la Via della Seta.

L’Italia è universale e il Partito, il nostro Partito, nasce pur sempre nel deserto. Con Berto Ricci e con tutti gli altri combattenti che hanno costruito il nostro futuro nel segno di un’Italia cominciata mille e mille e mille anni fa: facendo dei remi il folle volo.

Ti abbraccio.

L’Europa può ricominciare. Se si parte dalla memoria


Qualche mese fa, all’inizio della crisi greca ch’è una crisi europea, mentre sembrava – e, non c’illudiamo, continua a sembrare ancora – che le evidentemente ancor fragili strutture dell’Europa scricchiolassero e qualcuno cominciava a parlare con insistenza di “ritorno alla sovranità monetaria” (come se, tra le sovranità che l’Italia ha perduto, ci fosse soltanto quella…), molti fra noi sono stati invasi da un cupo, profondo senso di tristezza. Parlo soprattutto per me: classe 1940, dichiaratamente europeista da qualcosa di più di mezzo secolo, per quanto le formule federalistiche allora di moda non mi convincessero né mi soddisfacessero. Quel che allora noi sognavamo, e dico “noi” perché non eravamo poi tanto pochi, era un’Europa che, forte della coscienza della sua unità culturale di fondo e delle tragedia che da troppi secoli aveva dovuto sopportare a causa della sua divisione, riprendesse il cammino che la Cristianità medievale le aveva indicato, quello dell’unità, e lo traducesse in termini di identità comunitaria capace di misurarsi con il mondo moderno.

Non che le forme del pensiero europeistico elaborate fra Otto e Novecento ci soddisfacessero: non ci convincevano né Saint-Simon, né Thierry, né Michelet, né Cattaneo (anche se la formula “Stati Uniti d’Europa” ci affascinava), né Coudenhove-Kalergi, né Spinelli, né Schuman: qualcuno di noi (anch’io) guardò a Thiriart, ma non era convincente nemmeno lui. Sentivamo che superare i vecchi schemi nazionali non bastava, che cercar di fondare una specie di nuovo “ipernazionalismo” sarebbe stata una follìa, ma che pur bisognava uscir prima o poi dal truce dopoguerra di un continente europeo spaccato in due a causa e per colpa senza dubbio d’una sciagurata guerra (cominciata peraltro non già nel ’39, bensì nel ’14) ma anche della volontà congiunta delle due superpotenze che, in disaccordo su tutto, con i patti di Yalta si erano trovate d’accordo però su una cosa, vale a dire che la parola Europa andava ridotta per sempre a una pura espressione geografica. Per questo la nuova Europa economico-finanziaria che cominciò a prender forma a partire dai primi Anni Cinquanta non ci piaceva: la ritenevamo necessaria certo, ma non sufficiente; né tanto meno primaria, in quanto ritenevamo che le istituzioni finanziarie e monetarie dovessero accompagnare se non addirittura tener dietro, ma certo non precedere quelle politiche, istituzionali, sociali e anche militari.  Per questo la costosissima Unione Europea di Bruxelles e di Strasburgo, con la sua pesante burocrazia e i suoi organi parlamentari consultivi, non poteva né piacerci né bastarci.

La crisi scoppiata già da qualche mese, e ancora in atto, ha rischiato di far volare in pezzi anche quel poco che c’era: un “poco” pesante e pletorico, ma insoddisfacente. Eppure, forse qualcosa si sta movendo. Qualcosa che ci condurrà a prender concordi atto che quella “falsa partenza” ha servito se non altro a farci prendere comune coscienza di un bisogno diffuso per quanto mai evidenziato, mai approfondito dalle forze politiche dei paesi membri della Ue. Non a caso, non abbiamo né una Costituzione – di cui non siamo stati capaci nemmeno di redigere un preambolo -, né un esercito; abbiamo sì una bandiera, anche bella, e un inno (preso dalla Nona di Beethoven) che però non possiamo cantare in quanto manca di parole adeguate.

Eppure oggi è successo un piccolo miracolo. Il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz,  ha inviato alla gente siciliana dei comuni coinvolti dallo sbarco del 1943 un messaggio per rievocare un evento accaduto sessantanove anni or sono. Un piccolo, doloroso evento: una goccia di sangue versata nell’oceano che stava affogando il mondo di quei giorni. Ma l’averlo ricordato oggi può rappresentare un giro di boa, il segno dell’inizio di qualcosa di davvero rivoluzionario e profondo.

Martin Schulz si è simbolicamente unito a un piccolo gruppo di cittadini riuniti per ricordare, con un semplice cippo, un evento doloroso e un crimine di guerra. Il massacro senza ragione, contro le leggi di guerra e contro le leggi umane e divine, di un gruppo di soldati italiani che si erano arresi da parte di un’unità delle forze armate statunitensi sbarcate in Sicilia. Un atto non solo inutile, ma anzitutto arbitrario e crudele.

Ma perché ricordarlo solo adesso? Si chiederà qualcun altro. E che cosa volete che significhi quell’episodio, nel mare di ferocia di una guerra che assisté addirittura a veri e propri genocidi? Rifletterà qualcun altro.

Qui sta appunto la sconvolgente novità. Sempre, dopo le guerre, si tende a criminalizzare i vinti e ad assolvere i vincitori. È una legge antica forse quanto il mondo: ma divenuta, all’indomani delle prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, un dogma inviolabile. In tempi recenti, qualche stato ha addirittura proposto ed emanato leggi demenziali tese a derubricare a crimine passibile di pena  qualunque parere, comunque espresso, che potesse venir interpretato come un tentativo di rivedere  alcune pagine storiche e di ridistribuire, magari alla luce di nuovi elementi e documenti, alcune responsabilità. Si è indiscriminatamente e istericamente parlato di “revisionismo” e di “negativismo”, si è confuso tra ricostruzione dei fatti e critica di essi, ci si è abbandonati a un terrorismo che in qualche caso ha lambito anche sedi politiche ed accademiche elevate.

Oggi, Martin Schulz rompe l’omertà: e definisce per quel che è, un crimine, quel lontano atto di viltà e di ferocia che sarebbe stato chissà quante volte ricordato e stigmatizzato se fosse stato compiuto da soldati della parte che ha perduto la seconda guerra mondiale; mentre, per il fatto di essere stato commesso dai vincitori, era stato per troppi decenni “dimenticato”, rimosso.

Certo, il presidente fa quel che può. Molte altre lapidi, sparse un po’ dappertutto in Europa, parlano analogo criptico linguaggio. I crimini commessi dalle forze del Terzo Reich sono stigmatizzabili come “barbarie nazista”. Per gli altri, aggettivi qualificativi politically correct mancano. Quale barbarie ha reso possibile i bombardamenti di Dresda e di Hiroshima? Schulz risponde in modo corretto, pur senza infrangere le regole vigenti: “la barbarie della seconda guerra mondiale”, che ci ha insegnato a tenderci di nuovo la mano, a riconoscerci come fratelli. Ed è su ciò che bisogna costruire quell’unità europea per la quale poco di effettivo fino ad oggi è stato fatto, come giorni fa ha sottolineato la stessa cancelliera Angela Merkel. Ma per far questo occorre una reale volontà unitaria: che cominci dai giovani, dalla scuola.

Mezzo secolo fa noialtri giovani universitari invocavamo la nascita di una scuola unitaria europea, nella quale tutti i ragazzi degli stati membri studiassero, nella loro lingua rispettiva, la medesima storia e accedessero a una misura comunitaria della cultura europea, nella quale Shakespeare non fosse più un semisconosciuto a tutti meno che ai ragazzi britannici e Cervantes un semignoto a chiunque non fosse spagnolo. Mezzo secolo fa chiedevamo che in tutta Europa si abolissero le  intitolazioni delle piazze e strade alle vittorie nazionali e le si sostituissero con l’intitolazione alla concordia europea; che si smettesse di studiare la ristretta storia nazionale e si accedesse a un più ampio e comprensivo studio della storia europea. Perché dalla conoscenza nasce la coscienza, e dalla coscienza l’amore. Sono partiti i programmi Socrates ed Erasmus, importanti ma non sufficienti: poi, non si è fatto altro. Riprendiamo il cammino: partendo stavolta non dall’economia che ci ha dato l’Eurolandia, bensì dalla scuola, dalla cultura, dalla politica, dalla coscienza che un’Europa unita è più che mai quel che ci vuole per procurare un po’ di equilibrio a un mondo sempre più impazzito. Era un cammino che avremmo dovuto avviare dal ’45: abbiamo perduto quasi settant’anni.  L’appello del Presidente Schulz ci suggerisce di ricominciare da capo. Subito.

(di Franco Cardini - fonte: www.ariannaeditrice.it)

La "nuova" destra di Berlusconi? Per Cardini "siamo alla goliardia"



«Tornare a Itaca». Sono parole dal forte richiamo evocativo quelle con cui Marcello Veneziani e Renato Besana hanno coinvolto un nutrito gruppo di intellettuali di destra in un convegno nel monastero di Valledacqua, vicino Ascoli. Un conclave per discutere dei contenuti e dell’identità di una nuova forza conservatrice, da costruire sulle ceneri di un Pdl ormai in frantumi, all’insegna della tradizione greco-romana e cristiana, e del primato della politica sull’economia globalizzata. Ma non tutti i portatori di un punto di vista polemico verso la modernità hanno scelto di partecipare all’incontro sull’Appennino marchigiano. Spiccava infatti l’assenza di Franco Cardini, il più prestigioso studioso di storia medievale del nostro Paese, spirito critico nei confronti dell’omologazione consumistica e dell’egemonia capitalistica consacrata dalla retorica dell’esportazione della democrazia liberale. Al nostro quotidiano lo storico fiorentino spiega perché non vede nella destra politica lo spazio per promuovere un’iniziativa autonoma e contrapposta rispetto al disegno rilanciato da Silvio Berlusconi.

Come valuta la nuova discesa in campo del Cavaliere?

Lo spirito del 1994 evocato oggi da Berlusconi è morto e sepolto. Venti anni fa aveva costituito un motivo di novità e di entusiasmo in ampi settori dell’opinione pubblica. Allora l’Italia, stanca dei pasticci e dei riti della partitocrazia, voleva liberarsi dalla democrazia bloccata e dall’eredità della Guerra fredda, e ai suoi occhi il Cavaliere appariva un personaggio nuovo, estraneo al gotha industriale e al circuito finanziario internazionale: qualità che invece contraddistingue Mario Monti. Per alcuni mesi io stesso compii l’errore, di cui mi vergogno e chiedo scusa, di credere nella sua capacità di innovatore. Con questa convinzione ricoprii l’incarico di consigliere di amministrazione della Rai, per il quale in realtà ero stato designato dalla presidente della Camera Irene Pivetti e non dal fondatore della Fininvest. Solo Indro Montanelli, suo profondo conoscitore, affermò con ragione che si trattava di un cialtrone entrato in politica per salvare i propri interessi, privo dello spessore culturale necessario per rivestire un ruolo pubblico. Tornare al progetto del ’94 vuol dire rievocare una colossale illusione e la delusione che seguì quell’inganno.

L’ipotesi di un rilancio di Forza Italia potrebbe rivelarsi sorprendente sul piano elettorale.

Capisco che la “dittatura bancaria in doppiopetto” oggi dominante possa provocare una reazione goliardica, al punto di invocare il ritorno di chi ci ha portato al disastro. Anche sul piano internazionale, attraverso le missioni fallimentari e dissennate in Iraq e in Afghanistan e a una politica che ha soffocato la sovranità europea, oggi subalterna all’egemonia nordamericana grazie alla Nato, espressione dell’occupazione straniera del Vecchio Continente. Le dichiarazioni “avventurose” del Cavaliere sulla Russia di Putin, sull’Iran di Ahmadinejad, sulla Libia di Gheddafi, poco allineate con gli alleati del Patto Atlantico, non hanno affatto intaccato la direzione di fondo della nostra politica estera. Un personaggio del genere, privo di moralità civile e dotato di enormi risorse economiche, è pericolosissimo: in una società seria e onesta quale non è l’Italia il suo ritorno sarebbe impensabile. Mi meraviglio anzi che la notizia della sua nuova discesa in campo non sia stata accolta da una grassa e sonora risata.

Molti intellettuali di destra hanno espresso valutazioni critiche su tale prospettiva, e hanno promosso il convegno “Tornare a Itaca”. A cui Lei non ha partecipato.

Il titolo dell’incontro evocava un ritorno alla purezza delle origini, all’integrità di una patria comune. E preludeva a un rinnovato impegno politico da parte di personaggi che rivendicano una verginità culturale di destra. Mi chiedo di quale purezza intendessero parlare gli organizzatori dell’incontro, visto che diversi suoi partecipanti negli anni Novanta vagavano alla ricerca di prebende e privilegi, in primo luogo da parte di Berlusconi. Peraltro, fin da quando avevo vent’anni e persino da dirigente del Movimento sociale, non ho mai amato definirmi di destra, nonostante Corriere della Sera e Repubblica mi abbiano indicato come capostipite e ispiratore della destra estrema, forse per la mia adesione giovanile alla Jeune Europe.

Non sente di essere un uomo di destra?

Mi sono a lungo interrogato sulla natura politica delle mie convinzioni. Sono un lettore di Joseph de Maistre, e ritengo che la condanna di Maria Antonietta abbia rappresentato un crimine. Mi ritengo un nemico della modernità concepita non come affermazione della libertà personale e del progresso scientifico, ma come primato indiscusso della volontà individuale, del desiderio di potenza dell’Occidente, del predominio dell’economia e della tecnica sull’umanità e sulla natura. Mi considero un cattolico sensibile alla tradizione e alla liturgia, critico verso alcuni aspetti del Concilio Vaticano II. Ma in campo economico e sociale mi definirei socialista se non vi fosse la pregiudiziale anti-religiosa di quella costruzione teorica. Erano di destra Benito Mussolini, Juan Domingo Peròn, José Antonio Primo de Rivera? I parametri di destra e sinistra sono fluidi, interscambiabili, relativi ai contesti in cui vengono utilizzati. Il dramma è che oggi la sinistra non vuole distinguersi dai propri avversari né sul piano economico, visto che appoggia le privatizzazioni e lo smantellamento dello Stato sociale, né in ambito internazionale, essendo in prima linea nel rivendicare la saldatura tra Ue e Usa attraverso la Nato. Mentre l’emancipazione dell’Europa passa per la fuoriuscita dall’Alleanza atlantica.

Non nutre fiducia nella capacità della destra italiana di realizzare un progetto alternativo a quello ideato dal Cavaliere?

Fino a pochi anni fa gli esponenti di Alleanza Nazionale ignoravano il valore positivo insito nella Resistenza, anche in quella comunista. Oggi fanno assieme a Berlusconi l’apologia dei ragazzi americani venuti in Europa per restituirci la libertà e liberarci dal nazifascismo. Dimenticando che gli Stati Uniti hanno costruito in Europa occidentale lo stesso dominio che l’Unione Sovietica staliniana realizzò nei paesi dell’Est. È una destra non degna di rispetto né di credibilità. Il politologo e amico Marco Tarchi ha capito tutto ciò prima di me, 30 o 40 anni fa, quando decise di interrompere ogni rapporto con il mondo politico. Nel Popolo della libertà esistono figure verso cui ho grande stima: Andrea Augello e Roberta Angelilli, Gianni Alemanno e Isabella Rauti. Ma lo stato maggiore di An ha scelto di vendere per un piatto di lenticchie un patrimonio politico allo scopo di accodarsi alle improvvisazioni del Cavaliere. Anziché esprimere oggi obiezioni al suo ritorno, che si esaurirà nell’arco dell’estate, essi dovrebbero compiere un esame di coscienza sui loro errori. Ma ciò è impossibile, poiché hanno deciso di legare le proprie fortune politiche al destino di Berlusconi. E chiunque abbia creato un collegamento organico con una figura così infausta, priva di un progetto ideale, comica e tragica allo stesso tempo, è del tutto squalificato.

L’ex capo del governo pensa di avvalersi del contributo intellettuale degli economisti liberali per la nuova Forza Italia.

Non credo che con Antonio Martino e con studiosi e premi Nobel liberisti e neo-conservatori, seguaci di Friedrich Von Hayek e Milton Friedman, il Cavaliere possa fare molta strada. Ben diverso, anche se utopico, sarebbe un Berlusconi che, incuriosito dai problemi della sperequazione sociale e degli squilibri ambientali del pianeta, avviasse un dialogo con il priore di Bose Enzo Bianchi, con Noam Chomsky, Alain Touraine, Joseph Stiglitz.

Nella realtà politica italiana vede le potenzialità per far nascere un progetto estraneo all’egemonia liberista?

Nell’atmosfera culturale del nostro Paese, provinciale e marginale, non vi è alcun tentativo di costruire una prospettiva altra rispetto a quella incarnata da Berlusconi. Ma, a differenza del deserto che impera a destra e nel centro, esistono elementi sparsi di innovazione possibile nella sinistra. Pur con mille riserve, ritengo originali le riflessioni di Nichi Vendola che, come faceva Walter Veltroni, si eleva al di sopra delle miserie quotidiane per parlare del mondo e dell’Europa, del suo deficit democratico e dell’assenza di un’unità politica sovra-statuale. Altrettanto stimolanti, anche se troppo liberali, sono i ragionamenti di Matteo Renzi, che con una solida esperienza politica alle spalle coltiva ambizioni del tutto legittime.

(fonte: www.linkiesta.it

Senza destra il Pdl resta nudo


Dopo lo sconquasso provocato dalle sue affermazioni, riferite dal quotidiano tedesco Bild, e riportate anche da Bruno Vespa nella sua citatissima intervista, sul possibile ritorno all'antico, cioè a Forza Italia - una sorta di evoluzione della specie all'indietro - il Cavaliere ha precisato sostanzialmente confermando. «L'idea del cambio di nome dal Popolo delle Libertà a Forza Italia - ha detto - è stata equivocata trattandosi, com'è logico ed evidente, non già di una decisione assunta, ma solo di un'idea, di una proposta, da discutere e da verificare nelle sedi proprie». Una smentita, appunto, che non smentisce nulla. Al contrario, conferma l'esistenza di un progetto allo studio per cambiare i connotati al partito nato dalla fusione (sia pure «a freddo») tra gli «azzurri» e Alleanza nazionale. Progetto, peraltro, sostenuto da numerosi «colonnelli» berlusconiani, il più attivo dei quali sembra essere l'ex-ministro Giancarlo Galan che si è espresso in maniera inequivocabile sulla messa fuori gioco delle componenti di destra del partito auspicando una riconversione allo «spirito del '94», quando la sola Forza Italia valeva appena il 21%. Sia Galan che altri comprimari del neo-berlusconismo muscolare non sono stati smentiti dal leader, come era lecito attendersi, ma assecondati con i silenzi dello stesso e con i privati conversari nella solita cerchia di intimi tra palazzo Grazioli e Villa Gernetto in Brianza. 

Berlusconi, insomma, prova a fare un'altra cosa rispetto alla creatura partorita sul predellino di un'automobile in una fredda domenica milanese nel novembre 2007 e lancia (o fa lanciare) segnali per vedere l'effetto che fanno. Non è un metodo ortodosso perché destinato a scontrarsi con sensibilità varie e a dare adito a molte incomprensioni. I partiti, ancorché malmessi, devono pur attenersi a delle regole: la crisi del Pdl è dovuta essenzialmente all'anarchia istituzionalizzata che ha legittimato qualsiasi iniziativa al di fuori dei luoghi istituzionali. Ecco perché non si è dotato di una identità e non ha costruito una chiara linea politico-culturale. 

È finito così che il fragile legame tra le componenti si è logorato e la sola risorsa dei berlusconiani «duri e puri» è quella di rilanciare il movimento delle origini, come se nel frattempo non fosse accaduto nulla di significativo in Italia e nel mondo. Del resto che le tentazioni «liberal» (piuttosto all'amatriciana, bisogna aggiungere) di alcuni ambienti post-forzaitalioti siano forti, è noto da tempo. Ma è altrettanto noto che se Berlusconi dovesse assecondarle al fine di emarginare quelle componenti che provengono dal Msi e da An è inevitabile che del Pdl, o come lo si vorrà chiamare, resterà ben poco. Non è infatti credibile che la sola idea di sradicare dal movimento la destra nazionale e sociale, elemento costitutivo della «fusione», possa restare senza una risposta da parte di coloro che, oltretutto, credendo nel progetto sono rimasti fedeli al Pdl quando la scissione finiana si è concretizzata. E certamente non è stato facile per nessuno di coloro i quali provenivano da una ben definita tradizione politica accettare lealmente le innumerevoli sbracature che si sono registrate nel partito e nel governo dal 2008 in qua, soccorrendo, oltretutto, molto spesso lo stesso Berlusconi insidiato dai suoi forzisti molti dei quali più volte sono stati sul punto di abbandonarlo al suo destino. A questo punto sarebbe fin troppo banale ridurre tutto a un malinteso. 

La destra nel Pdl ha buon gioco nel chiedere al Cavaliere non tanto di non far volare i falchi che mettono a repentaglio la sua stessa labile candidatura, ma di ricomporre una frattura che va ben al di là delle parole dal sen fuggite e implica la permanenza stessa nel partito di quelle soggettività che finora hanno taciuto per senso di responsabilità, le quali, elettoralmente, valgono ben più di quanto i consiglieri di Berlusconi immaginano. Insomma, la possibilità di una scissione - non certo per fare un'associazione di «combattenti e reduci» - è molto più concreta di quanto si possa credere. Con tutte le conseguenza che è facile prevedere.

(di Gennaro Malgieri)

Il pensiero di destra alla ricerca di una nuova casa


Sarà stato per il luogo, il millenario monastero camaldolese di Valledacqua, sperso sugli Appennini piceni. Sarà stato per l'atmosfera, a metà fra la concentrazione della clausura e l'attesa del conclave. Ma non sono mancati i buoni propositi e gli entusiasmi fra coloro che domenica hanno raccolto l'invito di Renato Besana e Marcello Veneziani a «tornare a Itaca». 

Un richiamo a un «rientro in patria» diretto a tutti gli intellettuali di centro-destra (ma per lo più ultimi epigoni di area Msi-An) che si ritengono apolidi della politica e vittime della frantumazione del progetto del Pdl. Sessanta fra pensatori e giornalisti (fra cui molti nomi noti nel panorama culturale, come Gennaro Sangiuliano, Adolfo Morganti, Sandro Giovannini, Fabio Torriero, oltre alle adesioni di Pietrangelo Buttafuoco e Gianfranco de Turris), partendo dall'assunto di conclusione di un ciclo ventennale che ha visto il dibattito nazionale avvitarsi fra berlusconiani e antiberlusconiani, si sono confrontati sui modi da adottare per affrontare la sfida del futuro. Alla ricerca di un'area di rappresentanza comune che riunisca precedenti esperienze ora disperse.

Gli autoconvocati di Valledacqua hanno individuato nel ristabilimento della supremazia della politica sull'economia e sui tecnici (il presidente Monti a più riprese è stato indicato come «rappresentante di un governo d'occupazione») ma anche nella sua salvaguardia dai politicanti («causa della disaffezione dei cittadini dalla vita civile») i cardini di ogni possibile iniziativa futura. Già perché il lavoro avviato a Valledacqua non vuole limitarsi a essere un'esperienza culturale ma un'officina prepolitica ove costruire una proposta «alternativa - come detto da Renato Besana - alla sovietizzazione dell'economia mondialista». Con poca nostalgia verso il passato, ma ancora con tratti «volutamente semiclandestini», i naviganti verso Itaca si definiscono «maieuti», pronti a confrontarsi coi politici attraverso la costituzione di un movimento. Ma senza compromessi, anzi riaffermando i principi patrimonio della destra italiana: il valore dell'identità greco-romano-cristiana della nostra civiltà e il patriottismo della tradizione più che della Costituzione del 1948.

Non tutti fra i presenti però si sono trovati d'accordo. Pasquale Squitieri, infastidito da un intervento circa la necessità di proporre in politica volti nuovi, lascia la sala. E non tutti hanno risposto all'appello. Si è sfilato, fra gli altri, anche Franco Cardini, con una struggente riflessione che mescola Itaca a Troia, la vittoria di Lepanto alla sconfitta dell'Invicibile Armada, Ulisse («l'eroe fraudolento») a Ettore («nobile domatore di cavalli»), in nome di un passato ideale che non può più tornare e di un futuro da costruire partendo da esperienze del tutto personali. Ma l'impolitica disillusione dell'illustre medievista non sembra contagiare gli intellettuali di Valledacqua che si affacciano all'agone. Resta ora da verificare in che modo questo progetto si misurerà con le emergenze materiali dell'Italia e degli Italiani, senza naufragare fra concetti e richiami mitico-storici. Come rimane tutta da costruire una piattaforma che possa tenere insieme un mondo così composito e, per sua intrinseca natura, tendente al particolarismo e all'autoreferenzialità. Un progetto che possa riconquistare una fetta degli astensionisti e fornire nuove motivazioni ai giovani. Ma su tutto si staglia l'ombra del Cavaliere che si sta riaffacciando sulla scena. E gli intellettuali di Valledacqua non potranno non tenerne conto.

(di Gianluca Montinaro)

martedì 17 luglio 2012

Elica e littorio per combattere una guerra tutta in picchiata


«Gira gira l'elica, romba il motor, questa è la bella vita dell'aviator...». Così, con allegra marcetta, il regime fascista, che aveva fatto suo il culto del volo che fu dei futuristi, raccontava negli anni Trenta, in forma accessibile alle masse, i progressi dell'aviazione italiana. E dove non arrivava la musica arrivavano i film come I tre aquilotti (in cui nella parte di un pilota coraggioso c'era un giovane Alberto Sordi). E sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale Mussolini aveva tutte le ragioni, all'apparenza, per definire l'aeroplano «il più fascista dei velivoli».

Gli idrovolanti col tricolore e il littorio si erano dimostrati all'altezza di ogni impresa, basti pensare a Balbo il trasvolatore o ai molti successi ottenuti nella guerra di Spagna dai nostri piloti contro i «rata», ovvero i Polikarpov I-16 forniti dall'Urss alla repubblica. Per capire come da trionfi e trionfalismi si sia poi passati al dramma dei pochissimi piloti della Repubblica di Salò, che si alzavano in volo senza alcuna speranza per affrontare centinaia e centinaia di bombardieri e caccia alleati, si trova un aiuto validissimo nel libro di Mirko Molteni appena pubblicato da Odoya, L'aviazione italiana 1940-1945 (pagg. 638, euro 28, prefazione di Gregory Alegi). 

Sul disastro dell'aviazione italiana si è scritto molto, concentrandosi soprattutto sulla scarsità di velivoli moderni, sui limiti di produzione delle nostre aziende e sugli errori dei comandi, come lo sviluppo tardivo di una rete radar o la scelta suicida di non investire sugli aereo siluranti. Però il libro di Molteni, giornalista con la passione del volo (scrive per Volare, Ali Antiche, Rid) rispetto a tutta la pubblicistica precedente, ha qualcosa di più. Un'attenzione fortissima agli uomini, ai piloti. Così quella che in molti testi, anche dotti, è una narrazione fredda in questo caso si riempie delle testimonianze dirette di chi sugli scalcinati apparecchi italiani si trovò a volare. L'epopea dei biplani C.R.42 costretti a battersi con i molto più armati e potenti Hurricane inglesi rivive nelle parole del sergente Giuseppe Ruzzin: «Un Hurricane lo colsi al culmine di una forte cabrata... vidi l'aereo quasi scampanare e in quell'istante gli scaraventai una nutrita, aggiustata raffica. Cadde subito in avvitamento...». Oppure nelle parole del tenente della Raf Edward Preston Wells che racconta come i piloti italiani riuscissero a cavarsela grazie alle loro doti acrobatiche: «Non appena ho aperto il fuoco lui fece un mezzo giro strettissimo e io fui del tutto incapace di seguirlo... Allora ne attaccai altri due o tre... i nemici facevano mezzi giri strettissimi... In due casi furono in grado di girare quasi sulla mia coda e di spararmi...».

Ma pian piano la superiorità tecnica e numerica del nemico finiva inevitabilmente per avere la meglio. Ecco il sergente pilota Emilio Piva sul caccia G.50 con cui gli italiani stavano tentando di munirsi di un monoplano decente: «Era un mattone. Era assai facile entrare in vite e rischiare di schiantarsi. Una volta mi capitò proprio sul fronte greco-albanese, ma riuscii a uscire dalla vite proprio all'ultimo minuto». O la disperazione appena mascherata del generale Pricolo sul fronte africano: «In conseguenza della vera ecatombe di apparecchi non è assolutamente possibile ripristinare non dico la superiorità aerea, ma neppure una inferiorità sopportabile». O l'eroismo senza senso di chi combatte senza poter vincere come il pilota Romolo Ballestra assegnato agli obsoleti bombardieri Ca.133 (velocità massima di 250 km orari in un epoca in cui i caccia volavano al doppio): «Gli Hurricane ci attaccarono in coda, il Caproni di sinistra precipitò in fiamme, quello di destra, colpito, picchiò da matto e sparì... Io tirai a fondo le manette del gas, guardai la lancetta del tachimetro che avanzava, ma a 175 km/h si fermò. Il capitano osservatore si avvicinò a noi e ci fece vedere un polpaccio squarciato».

E poi alla fine i disperati di Salò tra cui anche l'asso e medaglia d'oro Luigi Gorrini, a cui in totale furono attribuiti 19 caccia nemici abbattuti. «Il mio ultimo combattimento fu quando venni abbattuto, era la quinta volta, a Reggio Emilia... Ci diedero l'allarme molto in ritardo e partimmo, ma non riuscimmo a fare quota a sufficienza e ci piombarono addosso: mi hanno abbattuto... Ho aperto il paracadute, ma nella caduta a terra ho battuto violentemente la schiena... persi conoscenza. Il medico a Reggio mi fece avere una licenza: ero ridotto male, vicino ad un esaurimento nervoso, e me ne andai a casa. Quando tornai stava tutto per finire».

Storie incredibili quelli degli assi delle «carrette siciliane» (così gli inglesi chiamavano i nostri aerei) peccato che dopo la guerra siano state quasi tutte dimenticate. Non solo quella di Gorrini (che per avere un documentario ha dovuto aspettare il 2011) ma anche quella di Franco Lucchini (21 vittorie) o di eroi «piccoli» come l'aviere Rosario D'angelo che tenne con le mani il tirante spezzato dai proiettili del timone di coda del Br20 Cicogna su cui era imbarcato. Atterrò coperto di sangue e coi palmi straziati ma salvò il suo equipaggio. Vale la pena di riscoprirle, sono storie vere e accorate, mica canzonette di regime.

(di Matteo Sacchi)

E tu, politico, sei Bardo o Principe?


Ma davvero il peccato originale della politica è di non aver tratto insegnamento da Shakespeare e aver seguito invece la lezione di Machiavelli? Di Shakespeare filosofo politico parlano due saggi usciti di recente. Il primo è un ampio lavoro d'impronta filosofica, di un intellettuale versato nel teatro, Franco Ricordi, Shakespeare filosofo dell'essere (Mimesis, pagg. 520, euro 28) che rintraccia nell'opera shakespeariana la denuncia di un totalitarismo fondato sullo spettacolo. L'altro, più direttamente e interamente politico, è un agile pamphlet di Marco Follini, Io voto Shakespeare (Marsilio, pagg. 109, euro 10) dedicato alla coscienza perduta della politica.

Sanguigno e celeste, tormentato e tempestoso, Shakespeare fu un ponte straordinario tra l'Inghilterra e la romanità, tra l'impeto barbarico e la civiltà umanistica, tra la solitudine del sovrano e gli umori popolari. C'è nella sua opera il riassunto epico delle passioni pubbliche e private e della loro contrastata mescolanza, ma anche la forza di un pensiero davanti alla vita e alla morte. Su di lui e sulla sua incerta biografia fiorirono leggende e dicerie, che resero il Bardo simile a Omero; una delle più colorite era che fosse di origine italiana e il suo cognome fosse la traduzione del nostro Crollalanza, proveniente dalla Val Chiavenna.

Follini è noto come la Prima Crepa, il precursore sottile di Casini e poi di Fini nell'abbandono del centro-destra. Passò in breve da vicepremier di Berlusconi alla Margherita. Nella vita precedente fu democristiano e perfino demitiano. Al di là delle sue posizioni contingenti, Follini è un politico-intellettuale che scrive cose non banali. A suo parere Shakespeare rappresenta l'irruzione della coscienza come ombra inquieta del potere; la sua opera è anzi il racconto della coscienza e il richiamo alla responsabilità della politica. L'antagonista di Shakespeare, secondo Follini, è Machiavelli: in loro Follini vede la contrapposizione tra la politica come tormento interiore e come pura e cinica dimensione pubblica. È proprio Machiavelli a dire che i problemi della coscienza non riguardano la politica ma l'anima, la vita personale o il confessore. Il libretto di Follini ha un'impronta luterana, oppone un mini-scisma protestante in chiave politica allo spirito pagano e perfino «cattolico» di Machiavelli (così lo interpretavano i suoi critici britannici).

Ritengo improprio il paragone tra i due perché diverse restano le finalità: Machiavelli descrive la politica per trarre leggi e consigli e per fondare, condurre e conservare il potere, edificare uno Stato e una Nazione. Shakespeare invece descrive le passioni che animano il potere e la vita stessa, ma non assegna compiti di fondazione e conquista, né offre consigli per il potere. In questa luce, si potrebbe anche ribaltare il giudizio e considerare Shakespeare colui che descrive il potere così com'è, senza porsi il compito di rinnovarlo, racconta le passioni ma non pretende di suscitare la loro virtuosa correzione; al centro della sua opera è l'Individuo nel suo tempo e nel suo popolo. Al centro dell'opera di Machiavelli è invece la Patria, lo Stato, e gli uomini ne sono locatari, sovrani provvisori, sudditi. C'è in Machiavelli la passione del cambiamento e anche l'etica del politico. Un'etica separata dalla morale, ma vibrante. Quando Machiavelli si dice disposto a dare l'anima sua per la salvezza della patria sua, o quando teorizza che si possono usare mezzi aspri per fini supremi, è meno cinico di quanto appaia: pone la priorità dell'amor patrio sull'amor di sé, sacrifica il bene personale al bene comune, propone di forzare i sentimenti nell'interesse supremo della res publica. Ed è sempre più alta l'etica del fine che giustifica i mezzi, con cui di solito si volgarizza e brutalizza il machiavellismo, rispetto alla più frequente antimorale dei mezzi che si sostituiscono ai fini: la corruzione nasce quando i mezzi diventato i fini e pervertono la politica: il potere e la ricchezza, diventano gli scopi dell'agire politico. E comunque Machiavelli in una lettera a Soderini dice una cosa assai diversa di quella a cui di solito lo si riduce: «Si habbi nelle cose ad avere el fine et non el mezzo», ovvero bisogna concentrarsi sullo scopo e non sui modi e i mezzi per conseguirlo. Il fine trascende i mezzi, non li giustifica.

Shakespeare e Machiavelli, a mio parere, non si ritrovano e non si scontrano sul terreno della politica, dove l'uno si concentra sui moventi passionali e l'altro sugli effetti pubblici, e dove l'uno è animato dalla voglia di rappresentare i temperamenti e l'altro di ritrovare le leggi e i buoni consigli che muovono la politica. Ma si incontrano a teatro, di cui Machiavelli è autore significativo, anche se non paragonabile a Shakespeare. Il punto d'incontro tra i due è la rappresentazione drammaturgica della realtà, la politica vista come opera d'arte; o quel che per Platone è Teatrocrazia (o applicata al nostro tempo teatrinocrazia). Là, a teatro, Niccolò torna coevo di William, anzi fratello di sangue, s'ingaglioffa con i suoi personaggi, gioca a dadi, a carte, va a caccia e a donne. Ma Shakespeare poi trascrive e trasfigura quelle esperienze di strada, di bettola, e racconta quel mondo brulicante di impulsi e destini; mentre Machiavelli, come scrisse in una memorabile lettera al Vettori, entra la sera nel suo scrittoio, si libera della sua veste sporca del quotidiano, si mette panni reali e curiali e conversa con le antique corti degli antiqui homini, e si pasce di quel cibo che «solum è mio» e «sdimentico ogni affanno». Perciò poi Machiavelli scrive saggi sul Potere, la Storia e gli Arcana Imperii, mentre Shakespeare narra storie, drammi e passioni.

La chiave dell'opera di Machiavelli è nel suo cognome e nel suo stemma: Mali clavelli, i «quattro mali chiodi» che crocifissero il Signore. E la spiegazione migliore di quel simbolo si può desumere da una sua lettera a Guicciardini: gli altri vorrebbero «un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei uno che insegnasse loro la via di andare a casa il diavolo», perché «io credo che questo sarebbe il modo di andare in Paradiso, imparare la via dello Inferno per sfuggirla». Conoscere e perfino frequentare il diavolo, ma per non diventare suo amico e succubo. La lezione di Niccolò, realista ma non cinico.

(di Marcello Veneziani)