giovedì 31 gennaio 2013

Così i fascisti di Salò furono macellati


Riemerge dalle nebbie del passato uno dei momenti più cruciali e crudeli di quella tragedia che fu la fine del fascismo. Il momento è quello in cui, sul lungolago di Dongo, il 28 aprile 1945, quindici prigionieri furono messi a morte spicciativamente, per i loro trascorsi fascisti, dopo un simulacro di giudizio. 

Tra i quindici erano gerarchi maggiori o minori - Alessandro Pavolini e Ferdinando Mezzasoma in particolare -, un bizzarro ex comunista e perseguitato dal regime come Nicola Bombacci, poi riavvicinatosi a Mussolini, e un personaggio, Marcello Petacci, sul quale Walter Audisio (il «colonnello Valerio») aveva messo gioiosamente le mani. Credeva fosse Vittorio Mussolini, il primogenito del Duce. Chiarito lo scambio di persona, il colonnello ritenne che comunque il Petacci meritasse la pena capitale, per essere fratello di Claretta, assassinata poco prima. E ancora il capitano pilota dell'aeronautica militare Pietro Calistri - del quale ancora oggi non si capisce perché sia finito a quel mondo - e il segretario del Duce, Luigi Gatti.

All'esecuzione spietata e affrettata seguirono, per i ricorsi di familiari degli uccisi, inchieste e processi. Che ebbero la sorte toccata infallibilmente a tutte quelle vicende giudiziarie: la rubricazione come atti di guerra e l'archiviazione, nel 1967. Ai processi per gli ammazzamenti s'intrecciò l'interminabile e inutile processo sull'oro di Dongo. Insieme al sangue vi furono certamente passaggio e poi dispersione e trafugamento di denaro, bagagli con valori incamerati così come gioielli, sterline d'oro e marenghi a migliaia. Il Pci, che aveva gestito l'operazione Dongo, affettò sorpresa e indignazione quando si trattò di rendere conto del «tesoro».

Il faldone in cui era conservata quella documentazione - con testimonianze anche di Palmiro Togliatti, Sandro Pertini, Ferruccio Parri, Enrico Mattei - è stato salvato da una possibile distruzione, come ha raccontato ieri il giornalista Stefano Ferrari sulle pagine del quotidiano La Provincia di Como. E con i documenti sono state salvate tre agghiaccianti fotografie - rarissime, una addirittura inedita - scattate pochi istanti prima che la scarica del plotone d'esecuzione falciasse le vittime. Per la verità almeno uno dei giustiziati, proprio il medico Marcello Petacci, non fu abbattuto insieme agli altri. Il Petacci era arrivato a Dongo, con spaventosa incoscienza, insieme alla compagna Zita Ritossa e ai due figli. I fascisti duri e puri non lo vollero insieme a loro, considerandolo non un fedele del Duce ma un profittatore del regime. Forse riteneva che l'avrebbero risparmiato perché nulla di grave poteva essergli addebitato. Quando s'accorse che i giustizieri erano risoluti a farlo fuori, sfuggì a chi lo custodiva - era giovane e robusto - e tentò la fuga gettandosi nel lago. Lì fu crivellato di colpi. La compagna e i bambini lo videro morire da una finestra dell'albergo dove erano alloggiati.

Le istantanee di quel 28 aprile 1945 sono terribili. Nessuna pietà, nessuna parvenza di umanità e di vera legittimità. Furono giorni di una mattanza spietata e volubile insieme: Ferruccio Parri la definì «macelleria messicana». La sorte dei fascisti braccati dipese spesso da circostanze fortuite (o da decisioni fortunate, come quella del maresciallo Rodolfo Graziani che evitò astutamente l'autocolonna diretta a Dongo e riuscì a consegnarsi agli angloamericani). Fu un periodo che ebbe l'ambizione d'essere rivoluzionario, che da molti anche oggi viene descritto come rivoluzionario ed eroico, ma che della rivoluzione spartì solo in minima parte i connotati positivi: l'ardore del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro. Ne ebbe invece i connotati peggiori, la ferocia e la vendetta.

A chi sottolinea gli aspetti truci, e in casi non rari delinquenziali, della purga post-liberazione viene opposto un argomento ritenuto decisivo e che tale non è. L'ansia di eliminare fisicamente i fascisti catturati, la volontà di non consegnarli agli alleati - quasi che gli alleati avessero combattuto in favore del fascismo - derivarono dalle nequizie di cui i «repubblichini» si erano resi responsabili. Anche loro con messe a morte crudeli. La grande purga fu probabilmente inferiore alla cifra - trecentomila morti è a fantastic exaggeration secondo gli angloamericani - suggerita da certa pubblicistica nostalgica. Ma Giorgio Bocca, non certo un estimatore del Duce, ritenne verosimile il bilancio di quindicimila uccisi. Che è di per sé impressionante soprattutto perché è un bilancio «a guerra finita».

(di Mario Cervi

mercoledì 30 gennaio 2013

Massimo Fini: “Ormai la democrazia l’hanno messa in banca”


Massimo Fini, che della critica alla modernità non ne ha fatto di certo rifugio dalle cose del mondo, non ha dubbi: l’implosione dell’Occidente non è il prodotto di un complotto ma l’evoluzione di un sistema che noi stessi abbiamo creato. Altro che bomba intelligente: «Il crollo di questo apparato coinvolgerà anche quelli che credono di governarlo». Per questo, dinanzi alla crisi economica e al caos causato dallo scontro di civiltà, Fini prevede tutt’altro che un exit strategy. Ma uno scenario apocalittico. A meno di una marcia indietro responsabile ma scarsamente probabile in quanto «i nostri reggitori se ne sbattono del collasso e sperano che il “cavallo” faccia qualche passo. Tanto, sperano, moriranno prima della fine e toccherà ad altri pagare il conto…».

La dittatura dello spread. Si può definire figlia di un “disegno”?

È una dinamica normale che dipende, però, da una situazione totalmente anormale. C’è un modello di sviluppo occidentale – ma che ormai ha coinvolto anche la Russia, l’India e la Cina – che è arrivato al suo limite perché si basa sulla crescita esponenziale che esiste in matematica e non in natura. Lo vedo come una macchina molto potente che è partita a metà del XVIII secolo, che adesso si trova davanti a un muro ma pretende di proseguire e dà di gas. È la mitologia della crescita quando crescere non si può più.

Il fatto che in Italia sia stato commissariato un governo legittimo, eletto, è un fatto normale?

Legittimamente eletto dal popolo! Voi credete ancora alla democrazia? Mi meraviglio. La democrazia è un sistema tarocco dove noi ogni cinque anni andiamo a legittimare coloro che poi “non” ci governano. Non vedo complotti, vedo una situazione molto peggiore perché se si pensa a un complotto lo si può anche sventare. Ma questa è la logica della globalizzazione che non comincia adesso ma con la Rivoluzione industriale. È chiaro che nessun Paese è più padrone di se stesso. 

Il governo tecnico ha sdoganato ciò che prima si denunciava solo nei circuiti indipendenti: i “poteri” che suppliscono alla democrazia?

Era un argomento tabù ma la realtà era quella. Chi domina nel sistema è il denaro e in primo luogo le banche. Diciamo che è venuto più alla luce del sole ma c’era assolutamente anche prima. Siamo vittime del sistema che abbiamo creato, anche quelli che credono di guidare la cosa sono in realtà solo le mosche cocchiere. Siamo vittime di un meccanismo perverso, paranoico del “produci, consuma, crepa”. Questo è il nocciolo di fondo: che poi governi Obama o Monti siamo tutti nella stessa barca. Una barca che affonda. 

La sovranità nazionale non ha più senso?

La questione non è la perdita di sovranità, perché questa è avvenuta molto tempo prima. Naturalmente per tutto un periodo certe questioni sono state mascherate, perché i paesi occidentali hanno rapinato i paesi del Terzo mondo e quindi sembrava che aumentasse la ricchezza di questi paesi. In realtà aumentava a danno degli altri. Oggi c’è una competizione spietata tra Stati e adesso ce ne accorgiamo anche noi: ma non ho nessuna pena per la sorte del popolo italiano e degli altri occidentali. Se la sono cercata, non si sono opposti, non hanno capito che cos’è in fondo la globalizzazione.

C’è chi propone una nuova “Bretton Woods” come rimedio.

L’autarchia fascista, l’autarchia degli anni ’30 era un modo ragionevole per tenersi da questo circolo mortale che è quello dei mercati. Noi oggi da chi dipendiamo? Neanche da delle banche. Ma da un meccanismo anonimo chiamato mercato che è peggio di qualunque dittatura: perché un dittatore puoi sperare di abbatterlo, questo è un meccanismo che si autoprotegge. La reazione della leadership mondiali alla crisi è stata, immettendo nuovo denaro, come drogare il cavallo già dopato sperando che faccia ancora qualche passo. Fare una nuova Bretton Woods o non farla è un’ipotesi perfettamente irrilevante.

Come mai un’analisi del genere viene spesso banalizzata additandola come “complottismo”?

Perché non si vuole ammettere di non aver capito un cazzo. E allora il complotto è il modo migliore per rimuovere questo fatto. Mi sono talmente stancato che il mio interesse principale oggi si chiama Afghanistan. 

È l’unico antidoto?

Ci sono alcune correnti di pensiero americane come il bioregionalismo, il neocomunitarismo che parlano di un ritorno graduale e ragionato, limitato a forme di autoconsumo e di autoproduzione che passano necessariamente per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario. Il discorso di fondo sarebbe riportare l’uomo al centro e spedire economia e tecnologia nella parte marginale che hanno sempre avuto. Per questo scelgo l’Afghanistan, perché è composto da uomini che hanno vissuto e vivono avendo in testa altri valori.

Mps, Silvio Berlusconi non affonda sullo scandalo senese


“Non voglio espormi dando un giudizio su qualcosa che non conosco bene e su un'istituzione a cui voglio bene”. Avrebbe potuto pronunciare parole di fuoco sulla banca rossa, e sui legami tra Monte dei Paschi e il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds. Come accadde ai tempi del Caso Unipol. E invece stavolta Silvio Berlusconi evita la polemica. E non solo rinuncia all’attacco, ma depotenzia le raffiche del suo partito.

Tutto lo stato maggiore del Pdl da ieri ha pronunciato frasi avvelenate sui fondi che il governo ha dato in prestito all’Mps. Una cifra, dicono da Alfano a Cicchitto, pari ai soldi incassati con l’Imu. Una tesi su cui il Giornale di famiglia ha aperto con un titolo a nove colonne. Ecco che la rinuncia all’affondo da parte del Cavaliere è clamorosa. Sentite che dice Berlusconi ai microfoni di Radio 2 sul nesso tra Imu e vicenda Mps: “Credo sia una coincidenza casuale a cui non credo si debba dare importanza”.

Eppure in molti, da quando il caso si è aperto, gli avevano suggerito una dichiarazione al veleno sull’inciucio bancario tra il sobrio Monti e i comunisti. Poteva essere l’argomento perfetto, secondo i suoi sondaggisti ad esempio, per aprire la fase due della campagna elettorale. Ma c’è un motivo se Silvio Berlusconi ha fatto capire che non cavalcherà il caso: “Grazie a Mps – ha affermato – potei costruire Milano 2 e Milano 3 perché era l’unica banca che concedeva mutui premiando la puntualità dei pagamenti”.

Il Monte dei Paschi per Silvio Berlusconi rappresenta il sacro e il profano. È l’istituto che ha accompagnato, alla fine degli anni Settanta, la costruzione di un impero. Ed è la banca che custodisce i conti del peccato, quelli gestiti dal “ragiunat” Spinelli per ricompensare le Olgettine. Insomma, il luogo del segreto e dell’intrigo. Anzi, dei trentennali segreti. A partire dalla fine degli anni Settanta, quando l’ascesa di Berlusconi pareva inarrestabile, grazie anche alle incredibili linee di credito presso le banche. Su tutte, la Bnl e, appunto, Monte dei Paschi, entrambe ben rappresentate tra i soci della P2 di Licio Gelli. Il trattamento di favore verso Berlusconi è tutto nero su bianco, nell’inchiesta del sindacato ispettivo del Monte dei Paschi del 9 ottobre 1981: “La posizione di rischio verso il gruppo Berlusconi – scrivono i sindaci del Monte - ha dimensioni e caratteristiche del tutto eccezionali e dimostrano l’esistenza di un comportamento preferenziale accentuato”.

Ed è nero su bianco il perché del comportamento preferenziale. Scritto negli atti della Commissione Anselmi sulla P2 laddove si analizzano gli “appoggi” dati a “Berlusconi al di là di ogni merito creditizio”. Ecco perché il Cavaliere – tessera numero 1816 della Loggia P2 – non attacca il luogo che, non poco, ha contribuito alle sue fortune. Quello che tra il ’70 e il ’79 gli concesse 70 miliardi di mutui fondiari a tassi tra il 9 e il 9,5 per cento. E che negli anni novanta partecipò insieme ad altre cinque banche,all'operazione "Wave", che permise a Berlusconi di salvare Fininvest dai debiti con la quotazione in Borsa di Mediaset. La stessa banca che trent’anni dopo diventa la cassa del suo profano.

È alla filiale del Monte dei Paschi di Milano 2, a pochi passi dalla sede di Publitalia che il ragionier Giuseppe Spinelli si presenta per prelevare somme ingenti dal conto corrente numero 1, intestato a Silvio Berlusconi. Denari destinati al pagamento delle Olgettine, per coprire le ricompense delle donnine che hanno animato le notti di Arcore. Ed è dallo stesso conto che partono i bonifici per il medesimo scopo. A cui, con l’inizio del processo, se ne aggiunge un altro. Visto che molte delle Olgettine sono coinvolte nel processo come testimoni.

È tutto negli atti del processo Ruby. Solo per dirne una: tra luglio e ottobre 2011, in piena crisi economica (e politica) Silvio Berlusconi versa 127mila euro, in quattro diverse tranche, a tre testimoni del processo Ruby dove è già imputato per concussione e prostituzione minorile: Nicole Minetti e le gemelline De Vivo, protagoniste delle serate di Arcore. La spiegazione della notizia, data dall’avvocato Niccolò Ghedini legale di Berlusconi, è clamorosa: “Nulla di men che lecito”. Sia come sia i trasferimenti di denaro dal conto di Monte dei Paschi sono tutti documentati sulla scrivania della Boccassini. E segnalano il passaggio di denaro dai conti del Cavaliere ad altri conti riconducibili a persone coinvolte nei processi del caso Ruby. Ce n’è abbastanza per non attaccare la banca rossa, custode del sacro e del profano del Cavaliere.

Tre domande di parte a un presidente di parte

 
Illustre Presidente Napolitano, dopo aver sentito il suo vibrante discorso sul fascismo e l'antisemitismo, mi permetta di rivolgerle tre brevi domande.
 
La prima. Sapeva che il presidente dell'infame Tribunale della razza, nonché firmatario del «Manifesto della razza», Gaetano Azzariti, diventò il più stretto collaboratore del suo leader Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia, dopo essere stato Guardasigilli con Badoglio? Avete mai avuto nulla da ridire, lei e il suo Partito, sul fatto che poi, grazie a questi precedenti, lo stesso Azzariti sia diventato presidente della Corte costituzionale fino alla sua morte nel 1961?
 
La seconda. Sapeva che il primo concordato tra lo Stato italiano e gli ebrei fu fatto nel 1930 dal regime fascista? Una commissione composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi varò un concordato in cui, scrive De Felice, «il governo fascista accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico». Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista ebraica Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati».
 
Terzo. Presidente, ha mai detto e scritto qualcosa sulle centinaia di italiani, comunisti, antifascisti e a volte anche ebrei, che fuggirono dall'Italia fascista e furono uccisi nella Russia comunista con l'avallo del segretario del suo partito, il sullodato Togliatti? In Italia, persino sotto il Duce, avrebbero avuto una sorte migliore...
 
(di Marcello Veneziani)   

lunedì 28 gennaio 2013

Il Pdl “cannibalizzato” e la mattanza di Palazzo Grazioli


Dopo la mattanza di Palazzo Grazioli, la destra italiana sostanzialmente non esiste più come soggetto unitario in Parlamento. La decimazione di coloro che provenivano da Alleanza nazionale ed avevano deciso di restare nel Pdl, nonostante le criticità che pure sollevavano verso il dispotismo berlusconiano, negherà la costituzione di significativi gruppi alla Camera ed al Senato. Silvio Berlusconi, attuando un piano scientificamente preordinato di “pulizia etnica”, si è “liberato” di presunti “infedeli” dimenticando (si fa per dire) quanto siano stati leali nei suoi confronti e verso il suo pseudo-partito da lui bizzarramente creato salendo sul predellino di un’automobile nel novembre 2007.

La gratitudine verso gli alleati non è nel novero delle virtù di Berlusconi. Così come non ama chi vorrebbe discutere di politica piuttosto che assoggettarsi ai suoi diktat. Non si può dire che almeno in questo non sia coerente: ha sempre ritenuto l’Italia un’azienda e si è sempre comportato, tanto al governo che all’opposizione, come se ne fosse il capo. Via, dunque, chi non gli serve più, a cominciare da coloro che nel dicembre 2010 misero su a Montecitorio e a Palazzo Madama (Moffa e Viespoli) gruppi a sostegno della sua sfarinata maggioranza, e dentro i cosiddetti “fedelissimi”, perfino quelli che avendo flirtato con Monti per non più di una settimana, erano stati scacciati come mercanti al tempio e non più ammessi, fino al perdono, alla presenza del monarca assoluto.

Perciò le elezioni del 2013 saranno ricordate, a prescindere dall’esito, per l’assenza dal Parlamento di un soggetto unitario di destra. Non era mai accaduto dal 1948. Adesso tutti coloro che hanno militato in Alleanza nazionale e prima ancora nel MSI sono senza senza casa. Compresi quelli che si sono ritrovati in Fratelli d’Italia o nelle file de La Destra: nessuno può dire di sentirsi a proprio agio nelle attuali circostanze. Men che meno, dunque, i pochi “superstiti” che intristiscono, credo, nelle liste berlusconiane dove mi sembrano più tollerati che graditi.

La storia di questi ultimi cinque anni dimostra che la destra è stata progressivamente “cannibalizzata” per non aver saputo esprimere all’interno del contesto berlusconiano una propria identità, fattore che ha pregiudicato il suo apporto alla costruzione del nuovo partito. L’errore di sciogliersi in un indistinto soggetto politico a vocazione carismatica nel febbraio 2008 ha segnato la fine di An e l’inizio della fase più acuta dello scontro tra Fini e Berlusconi con gli esiti che sappiamo. Il partito unico non era ancora alla portata: operazioni del genere – che implicano la condivisione culturale e politica di un progetto che può affinarsi nel tempo attraverso una riflessione profonda – se non producono un amalgama sono destinati a fallire.

La destra, al di là delle diffidenze dei berlusconiani, non ha offerto l’apporto che avrebbe potuto dare alla composizione di un movimento che, in senso europeo, si sarebbe potuto qualificare come “conservatore”, dinamico e riformista nella sfera della modernizzazione istituzionale e sociale ed al tempo stesso custode della tradizione nazionale e popolare. Insomma, non è stata all’altezza appiattendosi sulle esigenze, le necessità e la volubilità del líder maximo: atteggiamento che non ha giovato neppure allo stesso Berlusconi il quale avrebbe, probabilmente, tratto maggiori vantaggi politici dal contributo di una destra che non negava se stessa ed era perciò in grado di intercettare quel suo elettorato che con fatica si è visto trascinare in un contenitore nel quale si sentiva estraneo.

Non sarebbe stato certo un dramma se, constatata l’impossibilità della convivenza, fin subito dopo la costituzione formale del Pdl nel marzo 2009, si fosse realizzata, nell’ambito del centrodestra, una federazione di soggetti autonomi. Dal punto di vista elettorale l’operazione avrebbe consentito a tutti di cooperare per il bene comune di una coalizione composita e plurale nella quale le differenze sarebbero state il lievito della crescita fino a quando non fossero maturate le condizioni per far evolvere il sistema tendenzialmente bipolare in un bipartitismo sia pure imperfetto.

La destra, dunque, si è sostanzialmente dispersa, un po’ per non aver creduto nelle sue potenzialità, e un po’ perché ha smarrito la sua strada cadendo in azzardi politicisti che hanno finito per dissolvere i suoi tratti comunitari, vero patrimonio ideale di un movimento che è stato capace di resistere per settant’anni a tutti venti della storia politica italiana.

Se queste sono le insufficienze che hanno provocato lo smarrimento della destra, è altrettanto incontestabile che alla sua diaspora ha contribuito in maniera determinante la vera e propria ostilità di quanti nel Pdl l’hanno marginalizzata in vista delle elezioni di febbraio. Utilizzando criteri a dir poco discutibili, smentiti da deroghe arbitrarie, si è fatta macelleria politica quasi con allegria. Si è insomma ritenuto, commettendo un errore di valutazione politica ed elettorale, che di quella destra che Fini portò in dote a Berlusconi e che poi abbandonò – non per fare un’altra destra, ma qualcosa di indistinto, confuso, incomprensibile, come si è visto – si può fare a meno e, dunque, senza eleganza metterla fuori dal Parlamento.

Tutti coloro che provengono da An sono adesso “fratelli separati”. Si ritroveranno? È difficile dirlo. Quando in politica s’innescano dinamiche di dissolvimento nessuno può dire dove, se e quando si fermeranno. Resta il fatto che al momento la destra che abbiamo conosciuto come soggetto unitario non esiste più.

(di Gennaro Malgieri)

venerdì 25 gennaio 2013

L'Occidente fomenta il terrorismo

 
Da una settimana caccia francesi, sostenuti sul piano logistico dalla Gran Bretagna e, più discretamente, dagli Stati Uniti (informazioni via satellite), stanno bombardando le truppe degli islamici integralisti e dei Tuareg che, dopo aver preso il potere, con l'appoggio della maggioranza della popolazione,(all'80 per cento musulmana) nel Mali del Nord, facendone uno stato secessionista con Gao come capitale, puntano ora verso sud per unificare l'intero Paese e imporre la sharia.

Il presidente francese, il socialista Hollande, e il suo ministro degli Esteri Fabius giustificano l'intervento come «lotta al terrorismo che non interessa solo la Francia ma l'intera Europa». E Bernard-Henry Levy, dopo aver parlato, a proposito delle truppe islamiche, di 'esercito del terrore', scrive che l'intervento militare francese «Conferma sul piano dei principi il dovere di protezione già stabilito dall'intervento in Libia: una volta, crea un precedente, due volte fa giurisprudenza...per chi pensa che la democrazia non abbia più frontiere é un passo avanti...Riafferma l'antica teoria della guerra giusta di Grozio e San Tommaso...Ripete infine il ruolo eminente della Francia, in prima linea nella lotta per la democrazia ».

Contro questo unanismo 'patriottico' delle élites francesi (che Céline, nel suo 'Viaggio al termine della notte', riferito alla prima guerra mondiale, sferzò ferocemente bollandolo per quello che era: un modo per mandare allegramente al macello i giovani francesi in nome di un'astrazione che soddisfaceva i concretissimi interessi della borghesia delle retrovie) si é levata solo la voce di Dominique de Villepin, l'ex ministro degli Esteri transalpino, già noto per il celebre discorso all'Onu contro Colin Powell e la guerra all'Iraq. Villepin ha denunciato «una missione dagli obbiettivi poco chiari, l'unanismo dei favorevoli alla guerra  il 'déjà vu' degli argomenti contro il terrorismo».

Villepin ha ragione. Qui il terrorismo, almeno, per il momento, non c'entra nulla. Come si possono considerare 'terroristi' milioni di islamici, sia pur integralisti, e un'intera etnia come quella dei Tuareg ? Sono dei ribelli che considerano il governo centrale di Bamako troppo prono ai voleri dell'Occidente e ai suoi stili di vita e che vogliono invece conservare i propri. Si tratta di una classica guerra civile fra fazioni di uno stesso Paese che hanno concezioni diverse dell'esistenza. Che diritto ha l'Occidente (parlo di diritti, di principi quelli richiamati da Bernard- Henry Levy non di interessi) di ingerirsi, con la violenza, con i bombardamenti, con i Mirage che partono da migliaia di chilometri di distanza, nelle vicende interne di un Paese che gli é lontanissimo geograficamente e culturalmente? Nessuno, con buona pace di Grozio, di San Tommaso, di Hollande e di Bernard-Henry Levy. Il fatto é che l'Occidente totalizzante vuole omologare a sè tutte le realtà che non le sono omologhe o i Paesi che non si mettono al suo servizio (se lo fanno possono applicare la sharia, come in Arabia Saudita, nel più feroce dei modi, non olet, altro che i sacri principi).

Col pretesto di combattere il terrorismo noi lo stiamo fomentando. Nella guerra 'asimmetrica' dove l'Occidente usa mezzi tecnologici sofisticatissimi, irraggiungibili, imbattibili e chi non ci sta ha a disposizione solo pick-up, mitragliatrici, granate e i propri corpi, a costoro resta solo il terrorismo. Ed é quanto, prima o poi, avverrà e anzi, sia pur non in Mali, sta avvenendo (vedi l'attentato in Algeria). Un preannuncio ci viene proprio dal Mali «Voi ci avete attaccato, senza ragione, sul nostro territorio - hanno detto i ribelli del Mali - e allora noi abbiamo il diritto di attaccarvi sul vostro, in Francia, in Europa, ovunque». Se dopo l'Afghanistan, l'Iraq, Somalia, la Libia, il Mali la protervia occidentale continuerà su questo passo non potremo meravigliarci se anche nella tranquilla e, tutto sommato, ancora ben pasciuta Europa, comincieranno a saltare in aria i grandi magazzini.

(di Massimo Fini)

Casapound: "Repubblica manipola le notizie. Quella frase ci ripugna e non ci riguarda"


«CasaPound minaccia “violentiamo l’ebrea”» titola oggi Repubblica, in prima pagina. La frase che il quotidiano addebita al movimento di destra estrema è la parafrasi sintetica di un’invettiva, intercettata nel 2011, di un ventenne napoletano appartenente al blocco studentesco napoletano contro una sua compagna di corso dell’università. Questa e altre intercettazioni sull’indagine che coinvolge una decina di persone della destra estrema partenopea, fra cui tre candidati al parlamento, sono state pubblicate a pochi giorni dall’iscrizione alle elezioni da parte di CasaPound. L’accusa dei pm è che i militanti napoletani del movimento abbiano formato una “banda sovversiva”.

Simone Di Stefano, leader di CasaPound, è disgustato dal comportamento della giustizia e della stampa. «E se scrivessero “Magistratura va a trans in procura”? “Pd stupra in garage”?». Il capolista alla Camera dei deputati di Casapound aggiunge: «Perché con noi si sentono legittimati a manipolare le notizie e addebitarci la responsabilità dei singoli?». 

La stampa ha puntato il dito contro di voi soprattutto per alcune frasi pronunciate dai vostri militanti. Repubblica scrive che «tra i progetti da sviluppare» avevate quello di «violentare una studentessa perché ebrea». 

Agghiacciante manipolazione. Quella frase sullo stupro, che non riguarda CasaPound in alcun modo, ci ripugna: è detta da un ragazzino in un momento di evidente idiozia, non c’è nessun proposito per commettere violenza, che infatti non è stata commessa.

«Regola numero uno» a CasaPound, scrive sempre Repubblica, è «conoscere il Mein Kampf, di Adolf Hilter» per poterlo discutere e commentare positivamente. Siete razzisti e antisemiti?

Razzismo e antisemitismo ci fanno vomitare. Lo diciamo da tempo. Chi nel movimento non l’ha capito, non ha capito chi siamo e dovrebbero andarsene. Noi non vogliamo zone d’ombra. Ma la conoscenza non è un reato.

Sorpresi del fatto che vi contestino di indottrinare i militanti con il Mein Kampf?

Certo che no. L’indottrinamento lo fanno quei giornali che scrivono queste cose. E nemmeno onestamente.

Siete sovversivi?

Assolutamente no. Altrimenti non ci saremmo affidati al sistema democratico per farci eleggere.

Ad accusarvi di essere pericolosi non ci sono soltanto i magistrati di Napoli, ma sopratutto alcuni media nazionali, come Repubblica e Corriere della Sera.

La distorsione dell’informazione e della giustizia in Italia ha raggiunto livelli indecenti. La politicizzazione dei magistrati fa schifo. E fa schifo anche l’informazione italiana. C’è un codice deontologico dei giornalisti che viene fatto rispettare solo ad alcuni. Ma con che coraggio si può sopportare di leggere articoli artefatti, non solo incompleti e scorretti, ma privi di contesto, fondando la notizia esclusivamente sulla base dei virgolettati tratti da intercettazioni di anni fa, e contestando le parole usate non al responsabile ma a un movimento di cui fa parte? Questa è propaganda, non informazione.

Siete appena entrati in corsa per le elezioni. Non ve lo aspettavate quello che molti, soprattutto nel centrodestra, dicono da anni, sulla giustizia a orologeria?

Francamente no. Anche se i magistrati hanno fatto sequestrare persino i testi scolastici, non sospettavamo che si potesse arrivare a tanto. La tempistica è più che sospetta. Un’indagine aperta da quattro anni che vede altri gruppi coinvolti oltre il nostro. Tutto questo esce alla luce, a pochi giorni dalla presentazione delle liste, in un momento in cui Casapound sta raccogliendo molti consensi.

Un’ultima accusa che vi si contesta è il negazionismo (privato) nei confronti della Shoah.

Che non è un reato, ma un’opinione personale senza alcuna rilevanza penale. Se l’opinione rappresentasse un problema non sarebbe stata protetta dalla Costituzione italiana, no? Il fatto che alcuni giornali arrivino a contestare un reato d’opinione, e che lo imputino non al singolo ma a una collettività non rappresentata dalle sue dichiarazioni, è uno dei pericoli che corre l’Italia. Non solo si promuove l’idea che possa esistere un reato d’opinione, ma anche che le eventuali colpe del singolo ricadano su chi gli sta attorno. Ripeto: chi sono i fanatici del Mein Kampf? Noi o chi crede a queste cose e le mette per iscritto? Le opinioni, per quanto stupide, non vanno contro la Costituzione, contro la legge o contro lo stato di diritto. I veri “sovversivi” sono quelli che vogliono tappare la bocca a chi ha un’opinione diversa dalla loro. Non c’è nessuna rilevanza penale in quelle intercettazioni, eppure ne vengono riprodotti gli stralci, con lo scopo di mettere alla gogna un movimento e inquinare delle libere elezioni.

(fonte: www.tempi.it)

mercoledì 23 gennaio 2013

Mussari continuerà a finanziare il Pd, che l'ha lasciato solo?


Sedotto e abbandonato. Si potrebbe sintetizzare così la storia dello stretto rapporto che Mussari ha avuto negli ultimi anni con il Partito Democratico. Del partito fondato da Walter Veltroni peraltro Mussari è stato non solo sostenitore, ma anche grande finanziatore. Dai bilanci disponibili emerge che dal 2009 al 2012 l'ex Presidente del Monte dei Paschi di Siena e, da ieri, ex Presidente dei banchieri italiani,  ha sponsorizzato il Pd con quasi 400 mila euro.

Soldi dati in modo trasparente, per carità. Ma che testimoniano un legame tra Mussari ed i Democratici italiani, che va oltre la mera simpatia politica, tipica di chi paga la tessera annuale da 30 o 50 euro.

In Toscana molti ricordano quando Mussari accompagnò l'allora segretario del Pd Walter Veltroni nel suo tour elettorale per le politiche del 2008. O quando Mussari partecipava a feste ed eventi di partito ed era attesissimo ospite fisso della kermesse annuale del Pd di Siena.

L'atteggiamento confidenziale, per certi aspetti anche di deferenza, che il Pd ed i suoi maggiorenti hanno avuto in questi anni nei confronti di Mussari, non può essere stato solo correlato al suo ruolo ed ai soldi donati al partito. Per questo può apparire disumano che in un momento così complicato della vita, prima ancora che della carriera professionale, per Mussari nessuno muova un dito tra i suoi vecchi e più recenti amici dentro il Pd. Nemmeno una voce, fino ad ora, si è levata a sostegno di un "compagno di strada", oltreché del più generoso finanziatore mai avuto dal Pd. Quasi fosse stato rimosso il legame, che imnmaginiamo sia stato anche affettivo, tra Mussari ed il Pd.

Chissà, dunque, se Mussari, di fronte a cotanta disumanità ed irriconoscenza, deciderà anche quest'anno di beneficiare il Pd del solito assegno da 100 mila euro. 

La destra da maggioritaria ad “asfaltata”. Modesto epilogo di un ventennio


La destra – ovvero ciò che resta di Alleanza Nazionale nei quattro rivoletti elettorali che si presentano il 24 febbraio – non corre il rischio di scomparire. Non ce n’è bisogno. E poi dietro il termine scomparsa sta l’evocazione di qualcosa di eroico: la morte in trincea, al fronte, col coltello tra i denti. No, la destra, o ciò che rimane della sua espressione politica, è già da oggi ufficialmente confinata al terreno dell’irrilevanza, della testimonianza inefficace, del borgorigmo reducistico. 

Ci siamo fatti dei conti abbastanza facili e, sommando i possibili risultati che otterranno Fli, la Destra, Fratelli d’Italia, uniti ai quattro gatti di ex-An che Berlusconi ha deciso di portare in Parlamento, si ottengono dei numeri risibili. Nemmeno trenta deputati, forse dieci senatori. Nelle ultime elezioni della prima Repubblica, nel 1992, sono i parlamentari che ottenne il Partito Repubblicano, una formazione politica di nicchia e già sfiorata dal venticello di tangentopoli. Ma le elezioni del 1992 ci dicono ancora di più, danno altra legna al fuoco dell’analisi sconsolata: in quell’occasione il Movimento sociale (parliamo di 21 anni fa), accomodandosi all’ultima cena del pentapartito, e non ancora in grado di intercettare i consensi che da lì avrebbero viaggiato l’anno appresso verso destra, ottenne il 5,4%, 34 deputati e 16 senatori. Magari oggi le quattro “componenti” dell’ex An (diciamo componenti e non anime perché “anima”, insomma, ha un sostrato di nobiltà che ci teniamo in caldo per occasioni migliori) riuscissero a raggiungere quei numeri: con questa legge elettorale, sappiamo già che è impossibile. 

E dunque, senza fare nomi e senza distribuire responsabilità in un processo di decomposizione dove è l’intera “foto di Fiuggi” a essere chiamata in causa, nessuno escluso, già sappiamo che a vent’anni e passa dalla fine della prima Repubblica la destra politica italiana conta di meno, per dire, di quel giorno in cui qualche decina di migliaia di persone, nell’ottobre 1992, marciò su Roma coi guanti bianchi e le “mani pulite”. Sappiamo anche, visto che le date aiutano a capire e a tirar fuori una potenza simbolica anche nella freddezza dei numeri, che questo capitombolo, questa discesa negli inferi dell’irrilevanza avviene esattamente a vent’anni da quella doppia tornata elettorale amministrativa che, per ricordarcelo, portò prima Pasquale Viespoli a fare il sindaco di Benevento, Cucullo a Chieti, eccetera, e poi, passata l’estate, Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini ai ballottaggi di Roma e Napoli. Quando l’elettorato “moderato” (nessuno ancora aveva popolarizzato questo termine orribile) votava la fiamma tricolore come bene rifugio nella notte della corruzione. Vent’anni fa. Le date contano. E conta anche che proprio uno dei protagonisti di quell’anno, Pasquale Viespoli, oggi dica – riferendosi all’epurazione degli ex-An nel PdL – che «ci hanno asfaltati». Neri sì, ma come il bitume. 

E dunque che tristezza, e che rabbia, osservrare ciò che accade, i conti con le calcolatrici e le simulazioni elettorali per capire chi, forse, fortunato, potrà entrare o essere ripescato in Parlamento. Come tendine di tappezzerie che avranno altri colori, altre maggioranze, e una configurazione tripartita (berlusconiani, montiani, sinistra) dove per la destra non c’è posto. Almeno ciò che la destra poteva essere e finora non è mai stata. Nonostante le ripetute occasioni di riscossa servite in questi vent’anni. A causa dell’asfissia di idee, politiche culturali, sociali, economiche, nonostante la resa a un modello giornalistico-culturale di tipo patrimoniale-personale (che altro è il berlusconismo nella sua ultima e più rabbiosa incarnazione?) che tiene dentro le Rossi e le Savino e fuori gente che coi calzoni corti alzava le serrande delle sezioni del Movimento sociale. O che ha prodotto praticamente nulla in campo editoriale, nei grandi formati radiotelevisivi pubblici e commerciali, accontentandosi del piccolo cabotaggio o della sponsorizzazione di personalità capaci solo di piccolo cabotaggio di potere. Ovvio, vengono in mente anche le poche, felici oasi culturali e organizzative che hanno dato aria fresca a una comunità politica e umana che si è sfasciata o, come ha scritto Alessandro Campi, ha subito una “catastrofe antropologica”. Appena ha infilato al dito l’anello del potere. Adesso è ora che un’intera generazione, politica e culturale, si faccia da parte. Vent’anni per dimostrare il proprio valore sono sufficienti. E il congedo del 24-25 febbraio è per raccogliere i risultati della dimostrazione.

(di Angelo Mellone - fonte: www.barbadillo.it)

lunedì 21 gennaio 2013

La "bestia" populista contro le oligarchie


Chi è il nemico da battere alle prossime elezioni? A leggere i principali giornali, i più eminenti osservatori e i partiti che sostengono la sinistra o l'esperienza del governo Monti, il nemico ha più volti ma un nome solo: il populismo. Nella formula viene riassunto un tema culturale, una tendenza politica e una tentazione antipolitica. 

Populista è per i mass media, per i tecnici e per i partiti tradizionali, il movimento di Beppe Grillo; populista è la destra antimontiana; populista è la Lega; e populista soprattutto è Berlusconi. Ma nella connotazione populista rientra per taluni anche il populismo giudiziario di Ingroia, de Magistris e Di Pietro, la tv di Santoro, fino a sfiorare la sinistra radicale di Vendola. Il populismo eccede dalla politica e si affaccia nella cultura, nell'arte, nei media e in tutto quanto odora di postmoderno, poststorico e postindustriale. I populismi del passato potevano essere conservatori o rivoluzionari, nazionalisti o radicali, o meglio sintesi d'ambedue come fu il giustizialismo di Perón. Geostoricamente il populismo nasce a Est, in Russia e finisce a Ovest, nell'America del nord e soprattutto latina: in sintesi, da Herzen a Chávez.

I populismi del presente hanno preso altre vie mediatiche e altri connotati di riferimento, a volte evocando quelli canonici: populismi liberali e liberisti, localisti e ambientalisti, commerciali e antipolitici. Il populismo principale oggi in Italia si biforca tra una versione indignata e protestataria, che è in prevalenza quella grillesca, e un'altra ex-governativa, semi-liberale e para-taumaturgica, che è quella berlusconiana.

È possibile dare una lettura culturale del processo in atto? Il filo conduttore dei populismi politici è chiaro e perentorio: nessun riordino finanziario (presunto) della finanza pubblica vale la disperazione della gente. Il referendum in ballo, per i populisti, è tra due opposte priorità: la fedeltà contabile all'Europa delle banche e dei poteri o la vita reale dei popoli e dei singoli cittadini. In molti diranno, seguendo il populismo: preferisco vivere. Il populismo è una scommessa di vitalità nella decadenza, salta le mediazioni, i filtri, le distinzioni tra alta e bassa cultura, si presenta scevro da storicismi e da consolidate grammatiche del potere. Il populismo diventa così una categoria riassuntiva di tutto ciò che ha come canone di riferimento prioritario il consenso popolare, la comunicazione diretta del messaggio, la semplificazione impulsiva del linguaggio e dei gesti simbolici, l'efficacia emozionale dell'appello rivolto alla gente, non mediato da rapporti, culture e soggetti istituzionali. Il sottinteso della denuncia contro il populismo montante è che la democrazia liberale regge invece sul perimetro di regole e procedure da osservare, di deleghe istituzionali da rispettare, altrimenti si scivola fuori dalla modernità matura, fuori dalla democrazia parlamentare e rappresentativa attraverso i partiti, e naturalmente fuori dall'Unione europea. 

 Dal punto di vista populista, la priorità da affrontare è la perdita di sovranità e di benessere dei popoli, il crescente disagio dei cittadini nel presente e la tirannia del potere vigente, attraverso il fisco, le leggi, le dominazioni di sette, lobbies o gruppi egemonici; la vessazione, la persecuzione o la riduzione di spazi di libertà. Di conseguenza il nemico da battere è la casta che detiene il potere e lo esercita nell'interesse di pochi e di interessi privati, inerenti ad apparati burocratici, tecnocratici, gruppi finanziari o nomenklature di partito. Da una parte i cittadini inermi, spaesati e maltrattati che non sopportano i governi tecnocratici e detestano la partitocrazia; dall'altra le oligarchie tecno-finanziarie, partitico-istituzionali e mediatico-culturali, gli apparati: è la vecchia saldatura tra sinistra e poteri che contano, anche se fino al voto saranno antagonisti e competitori. Ma dopo, sia i numeri che i numerosi mediatori li costringeranno a collaborare per fronteggiare «il pericolo populista».

È giusto chiamare populisti coloro che ambiscono a rappresentare i primi: ne hanno i tratti, il linguaggio, la demagogia, a volte la rozzezza. Ma è altrettanto legittimo chiamare oligarchie i poteri, anzi le caste che vi si oppongono. È giusto osservare che il populismo di solito subordina la verità delle cose all'arte di persuadere e a compiacere i popoli; a patto di osservare che le oligarchie subordinano anch'esse la verità delle cose alla ragion di partito, di lobby, di casta. La verità soccombe in ambo i casi, alla preminenza della ricerca del consenso o alla salvaguardia dell'establishment.

Per i populisti le oligarchie comprimono i popoli per adeguarli a uno standard contabile, giudiziario o ideologico loro estraneo. Certo, sarebbero auspicabili versioni migliori e non scorciatoie sbrigative. Ai populismi elettorali sarebbero di gran lunga preferibili forze sobrie e radicate nella tradizione civile e religiosa, dotate di un forte senso dello Stato e della storia, dei meriti e delle responsabilità, magari conservatrici quanto ai principi e innovatrici quanto agli assetti; capaci non solo di mobilitare le folle intorno a un capo e in una campagna elettorale, ma di avere anche adeguate classi dirigenti, affidabili e credibili, con programmi di governo capaci poi di realizzare. Ma quelle forze allo stato attuale non si vedono o affiorano solo a tratti, sommerse nel calderone dei populismi. Allora bisogna regolarsi di conseguenza. L'alternativa per chi critica le oligarchie e dissente dalle attuali agende di governo, ma non si riconosce nei populismi correnti è ritirarsi dalla competizione, non partecipare, e coltivare una solitaria o elitaria anarchia, del tutto impolitica. Da Ernst Jünger che predicava «il passaggio al bosco» per il Ribelle, all'Apolitia di Evola come condotta aurea e aristocratica dell'Autarca, fino alla Congregazione degli Apoti di Prezzolini, c'è una vasta letteratura del dissenso radicale che non volendo identificarsi con i populismi e gli estremismi induce a ritirarsi nell'ombra o nella penombra, comunque lontano dalla lotta.

Ma nell'agone politico oggi, piaccia o non piaccia, ci sono due campi magnetici in competizione, e sono realmente alternativi: populisti e oligarchie. Ci sono più versioni dei due poli d'attrazione, ma non c'è un terzo polo, se non fuori dalla competizione.

(di Marcello Veneziani)

domenica 13 gennaio 2013

Votare? Non abbiamo scampo: ha già deciso tutto Bruxelles


Scusate, votare per cosa? «Fra Vendola e Monti lo spazio di manovra è non più dello 0,1%», considerando le scelte che contano. E Grillo? «Ancora meno, perché il suo team è talmente scadente che neppure riuscirebbe a capire come si paga lo stipendio di un bidello». Paolo Barnard è esasperato: «Nessuno degli uomini o delle donne che oggi si azzuffano nelle liste elettorali, premier o parlamentari, vi potrà governare nei prossimi 5 anni». Gli attuali candidati «eseguiranno solo ordini impartiti da tecnocrati europei, dai Trattati europei e dai mercati finanziari», perché il Wto, l’Unione Europea e trattati come il Gats hanno già decretato la fine sostanziale della nostra sovranità, quella per cui ha senso partecipare alla vita pubblica attraverso le elezioni. «Inutile votare ‘sti politici, inutile leggerne i programmi, guardare i dibattiti tv». Sono soltanto «figure virtuali, impotenti al 99,9%», niente più che «morti viventi».

Sembra «la boutade di un fesso, tanto è scioccante», ammette Barnard nel suo blog, ma insiste: il suo lavoro di ricerca, suffragato da documentazioni e testimonienze, comprova che la democrazia è stata ormai completamente svuotata. Si invoca, giustamente, la Costituzione italiana? Peccato che la stessa Carta costituzionale non abbia più un vero valore sovrano, «essendo stata sottomessa alla legge europea fin dal 1991», e il Trattato di Lisbona stabilisce che la Costituzione europea si pone al di sopra delle Costituzioni nazionali, delegando alla Corte Europea di Giustizia la risoluzione dei conflitti. «La legge europea, redatta unicamente dalla Commissione Europea di tecnocrati che nessuno elegge – continua Barnard – ha supremazia su ogni legge nazionale italiana. Ne consegue che il Parlamento nazionale è esautorato nella sovranità». Il ruolo subordinato dei Parlamenti nazionali nella nuova Europa significa che “essi dovranno fare gli interessi dell’Unione prima che i propri”, come sancito dai trattati.

«Il governo italiano non ha più alcuna sovranità nelle politiche economiche, di bilancio e sociali», aggiunge Barnard. «Questo significa aver perso il 99,9% del potere di un governo». Ciò accade a causa dei trattati europei che l’Italia ha firmato e ratificato, trasformandoli in legge nazionale, fino a costringere governo e Parlamento a vincoli rigidissimi: a cominciare dalla spesa pubblica, ormai insignificante (non oltre il 3% del Pil), che dovrà scendere allo 0,5% del prodotto interno lordo. «Il pareggio di bilancio – continua Barnard – va inserito nella Costituzione, come sancito dal Fiscal Compact». Tradotto: «Significa che il governo deve spendere 100 e tassarci 100, lasciando a noi cittadini e imprese esattamente 0 denaro». Unica nostra alternativa: «Erodere i risparmi o indebitarci con le banche». Questo, conclude Barnard, è precisamente l’impoverimento automatico che oggi chiamiamo “la crisi”. «L’Italia ha ubbidito e ha messo in Costituzione il pareggio di bilancio, ma ora sapete che non è stata affatto una scelta parlamentare per il bene del Paese, ma una costrizione esterna dettata dalla minaccia di sanzioni europee».

D’ora in poi, il governo dovrà quindi «sottomettere la legge di bilancio alla Commissione Europea prima che al Parlamento, e solo dopo l’approvazione di Bruxelles potrà  interpellare i deputati». Attenzione: «Se il governo sgarra, potrà essere multato di miliardi di euro». Di fatto, il governo italiano concede alla Commissione Europea il potere di intervenire sulle politiche nazionali del lavoro, sulla tassazione, sul welfare, sui servizi essenziali e sui redditi per imporre tagli e maggiori tasse (imporre, non suggerire). La competitività italiana sarà giudicata da Bruxelles in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività: «Gli stipendi pubblici devono essere tenuti sotto controllo per non danneggiare la competitività», e la sostenibilità del debito nazionale «viene giudicata a seconda della presunta generosità di spesa» nei settori chiave: sanità, welfare e ammortizzatori sociali. Idem le pensioni e gli esborsi sociali: devono essere riformati «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita».

E non è tutto. L’Italia, Stato dell’Eurozona, dovrà chiedere l’approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio Europeo prima di emettere i propri titoli di Stato. «Anche qui, la funzione primaria di autonomia di spesa dello Stato sovrano è cancellata», grazie al Fiscal Compact. Inoltre, se l’Italia dovrà chiedere un aiuto finanziario al Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, sarà obbligata a sottoscrivere, in accordo con la Commissione Europea, col Fmi e con la Bce, un Memorandum dove si vincola a obbedire a tutto ciò che Mes e Fmi le imporranno, nonché a tutti i trattati coi loro vincoli, a tutte le condizioni del prestito, persino a critiche e “suggerimenti”. Il Parlamento italiano, quello che gli elettori sono chiamati a rinnovare a febbraio, «non ha alcuna voce in capitolo neppure qui».

Infine, Mario Draghi: per statuto, il governatore della Bce ha il potere di «ricattare qualsiasi banca italiana» attraverso le prerogative della Struttura di Controllo del Rischio, «e anche qui il governo italiano è impotente». Avendo perduto con l’ingresso nell’Eurozona la sua moneta sovrana, l’Italia dipende dai mercati di capitali internazionali per ricevere ogni centesimo di euro che spende per la vita dello Stato, «per cui è da essi ricattabile al 100%». In altre parole: «Il governo, il Parlamento, i cittadini, la Costituzione sono alla mercé dei mercati, interamente». Le elezioni? «Voterete dei morti, impotenti, inutili, senza alcun reale potere», si sfoga Barnard. «Dobbiamo urlare alla politica che noi sappiamo tutto questo, e che loro devono promettere all’elettorato di portarci fuori da questo orrore europeo con un voto di orgoglio e di salvezza nazionale».

Il giudice canditato getta un'ombra sulla sua attività


Alle prossime elezioni si presenteranno come candidati numerosi magistrati (Grasso, Ingroia, Dambruoso, per dire dei più noti) che fino a pochi giorni fa erano in piena attività nell'amministrazione della giustizia. Si tratta di un'aberrazione. Un magistrato non dovrebbe entrare in politica perché questo getta un'ombra sulla sua attività pregressa. Il magistrato puo' anche essersi comportato nel modo più corretto e imparziale ma al cittadino resta il legittimo dubbio che abbia svolto il suo delicatissimo lavoro non ai fini superiori della giustizia ma per favorire gli interessi di parte della formazione politica con cui si é candidato. Questo dubbio basta per inficiare tutta la sua attività di magistrato. Come la moglie di Cesare non solo deve essere onesta ma deve anche apparirlo, così un magistrato non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire tale. E se si immerge nella lotta politica questa apparenza di imparzialità si dilegua. Tra l'altro poiché tutti i magistrati che abbiamo citato si sono candidati in formazioni di sinistra o di estrema sinistra, si finisce per dare ragione a Berlusconi quando delira sui complotti delle 'toghe rosse' ai suoi danni e sostiene che esiste un 'partito dei giudici'.

Dice: i magistrati sono cittadini come tutti gli altri e ne hanno quindi gli stessi diritti, anche quello, dismessa la toga, di fare politica attiva. I magistrati non sono cittadini come tutti gli altri é la loro delicatissima funzione, che può incidere sulla libertà e l'onorabilità delle persone, che impone loro dei limiti e dei doveri che i normali cittadini non hanno. Uno dei provvedimenti che dovrebbero essere presi nella prossima legislatura - ma é una utopia sperarlo - é una legge che impedisca ai magistrati, lasciata la toga, di entrare nella politica attiva o quantomeno che imponga un congruo lasso di tempo (cinque anni) fra l'abbandono della toga e il loro impegno attivo in politica. In questi cinque anni possono fare di tutto: gli avvocati, i pittori, i carpentieri ma non i politici.

Lo stesso discorso vale per le 'esternazioni' dei magistrati in carriera. Anche qui il limite alla libertà di espressione garantito a tutti i cittadini dall'articolo 21 della Costituzione é dato dalla loro funzione. Ci sono soggetti istituzionali che proprio a cagione dell'ufficio che svolgono hanno più doveri e quindi più limiti degli altri. Il Presidente della Repubblica é, come la Magistratura, un organo di garanzia, anzi il massimo organo di garanzia. Il suo primo dovere é quello di essere, e di apparire, imparziale. Non puo' dire « il partito Tal dei Tali non mi piace», anche se lo pensa, deve limitarsi a sussurrarlo in un orecchio a sua moglie. Oggi invece assistiamo ad un profluvio di dichiarazioni 'politiche' da parte dei magistrati, in convegni, in dibattiti, in conferenze stampa, nei talk show, e spesso su procedimenti in corso e addirittura su procedimenti di cui hanno la titolarità. Ci furono tempi, non poi tanto lontani, in cui il magistrato parlava solo 'per atti e documenti'. Erano, appunto, altri tempi. Di un'Italia più sobria, meno narcisista e più civile.

(di Massimo Fini)

Ecco quali saranno i problemi dei figli di coppie gay


Nel giugno scorso la rivista scientifica statunitense “Social Science Research”, la più prestigiosa “peer reviewed” del campo, ha pubblicato due studi molto interessanti sulle problematiche dei bambini cresciuti all’interno di una relazione omosessuale. Sono studi che hanno modificato il panorama delle conoscenze nel campo. Le prime ricerche su questo tema - e forse su queste si è basata la Corte Costituzionale – affermavano la non differenza nello sviluppo e crescita affettivo e psicologico di bambini di coppie eterosessuali e omosessuali.

Fino al giugno scorso come spiegava Francesco Paravati, presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO) i problemi legati alle “nuove famiglie” erano fenomeni recenti; e le ricerche necessariamente di carattere preliminare, spesso condotti su gruppi piccoli e a breve termine.

Uno di questi due nuovi studi è quello del sociologo dell’Università del Texas, Mark Regnerus. Il suo studio è apparso come dotato di un impianto metodologico inedito quantitativamente e qualitativamente. Si è basato su un campione più grande a livello nazionale, e soprattutto ha dato la parola ai “figli” (ormai cresciuti) di genitori omosessuali.

Fra i dati presentati, e che hanno creato scalpore, è emerso che il 12% pensa al suicidio (contro il 5% dei figli di coppie etero), sono più propensi al tradimento (40% contro il 13%), sono più spesso disoccupati (28% contro l’8%), ricorrono più facilmente alla psicoterapia (19% contro l’8%), sono più spesso seguiti dall’assistenza sociale rispetto ai coetanei cresciuti da coppie etero­sessuali sposate. Nel 40% dei casi hanno contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%), sono genericamente meno sani, più poveri, più inclini al fumo e alla criminalità.

L’autore afferma inoltre che i pochi studi finora pubblicati, e che sostengono la teoria della “nessuna differenza” tra bambini cresciuti in famiglie etero e gay, «si basano su dati non casuali e non rappresentativi, utilizzano campioni di piccole dimensioni che non consentono la generalizzazione alla popolazione più ampia di famiglie gay e lesbiche».

Il movimento LGBT  negli Usa ha avviato una forte campagna di delegittimazione di Regnerus, spesso al limite dell’insulto e del linciaggio morale, con una violenza straordinaria. Sono stati firmati appelli perché l’Università del Texas licenziasse in tronco il ricercatore. Un’indagine interna è stata avviata, per verificare la scientificità dello studio. Il 29 agosto però sul sito web dell’Università del Texas è apparso questo comunicato: «L’Università del Texas ha stabilito che nessuna indagine formale può essere giustificata sulle accuse di cattiva condotta scientifica presentate contro il professore associato Mark Regnerus riguardo al suo articolo pubblicato sulla rivista “Social Science Research”».  Secondo l’Università «Non ci sono prove sufficienti per giustificare un’inchiesta», e di conseguenza «la questione si considera chiusa dal punto di vista istituzionale». L’indagine interna ha dunque riconosciuto la legittimità del lavoro e la fedeltà al protocollo previsto dalla metodologia di ricerca.

L’Università del Texas è al 67° posto fra le migliori università del mondo, secondo il  “US News and World Report”; al 35° posto nel mondo per la “Shanghai Jiao Tong University”, e al 49° posto migliore secondo “The Economist”. La ricerca di Regnerus è stata approvata anche da New York Times, certo non sospetto di simpatia verso posizioni tradizionali. Il quotidiano ha scritto che «gli esperti esterni, in generale, hanno detto che la ricerca è stata rigorosa, fornendo alcuni dei migliori dati sul tema», da un gruppo di 18 scienziati e docenti universitari tramite un comunicato sul sito della “Baylor University”  e da diversi psicologi e psichiatri che hanno scelto di prendere posizione, riconoscendo l’attendibilità degli scomodi risultati.

(di Marco Tosati - fonte: www.lastampa.it)

venerdì 11 gennaio 2013

Francesca Salvador, l’imprenditrice sovranista che spiazza Santoro e il Cavaliere


Francesca se ne sta là, appollaiata sul trespolo sfigato di Servizio Pubblico, diventando una sorpresa bella e vera dell’evento televisivo dell’anno. Francesca di cognome fa Salvador, vive e lavora a Vittorio Veneto, provincia di Treviso. In quella che un tempo era la parte più ricca e produttiva del paese.  Se ne sta lì, in attesa, mentre Santoro e Berlusconi giocano ad intrecciare i rispettivi cateteri lunghi una trentina d’anni di pantomima collettiva e milionaria; Travaglio fa il Travaglio. Berlusconi il Berlusconi. Le due Santoro’s Angel giocano a fare le giornaliste all’americana, confermando  quanto sia rara la coscienza di sé in una donna che si crede intelligente.

Mi si perdoni la battuta maschilista, ma serve ad introdurre Francesca. L’imprenditrice veneta che, dopo un’ora e quaranta da spettatrice di un grottesco processo del Lunedì applicato alla politica, viene chiamata in causa: per il Biscardi in questione il suo intervento dovrebbe infastidire Berlusconi. Sì, lo spiazza. Ma in verità infastidisce tutto e tutti, gettando ospiti, spettatori e ascoltatori sul cemento duro della responsabilità. E Francesca dice una cosa santa, bella, enorme, magnifica: “E’ una questione di volontà politica”. Volontà politica. Per cosa? Per tornare liberi. Padroni a casa nostra. Padroni della nostra moneta. Per strapparla ai banchieri privati che oggi strozzano e, letteralmente, uccidono la nostra economia.

Francesca è tranquilla e brava. Non si perde in fregnacce su Germania e Merkel. Va al cuore del problema. “Signor Berlusconi, lei sapeva che Mario Monti era un uomo della Trilateral e della Goldman Sachs”. Sì, l’uomo dell’amministrazione controllata dell’azienda Italia. Berlusconi trasecola, ma si agitano un po’ tutti. Anche a casa. Fa male sentirsi dare degli schiavi. La risposta, ovviamente, è la canonica: la Bce deve diventare banche garante. Francesca non si scompone, sorride: ha capito che senza una chiara volontà politica il banchiere non rinuncerà al controllo sistematico sull’economia italiana. Continuerà a privarla di liquidità, le farà licenziare i suoi collaboratori, la obbligherà a chiedere un prestito per pagare l’Imu su casa e capannoni. Fino a quando non sarà costretta a perdere tutto.

Francesca questo non lo vuole. Vuole altro. Se ne frega dell’Euro, della libertà e della pace che l’Ue garantirebbe dal dopoguerra ad oggi: la sviolinata liberale del Cav e Santoro non la tocca. Lei ha coscienza di sé, sa chi è il suo nemico. Fuori dall’Euro. Ora. Sovranità monetaria. Ora. Immissione di liquidità a sostegno del lavoro e delle nuove generazioni. Ora. Non è più tempo di cateteri. E’ tempo di politica. Noi stiamo con Francesca Salvador. La sorpresa più bella e vera della trasmissione dell’anno.

Casapound incontra Beppe Grillo

Si può credere alla Befana ma non a Befera


Sul "Corriere della Sera" di martedì scorso, a firma di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti, con grande perizia e senza sussulti demagogici è documentata (e spiegata) la somma intera di empietà (e imperizia) contenute nel nuovo Redditometro partorito da Equitalia (si fa per dire) per combattere la lotta all'evasione fiscale.

I due eccellenti cronisti puntano l'indice anche sul paradosso di un controllo fiscale destinato, alla fine, a penalizzare i contribuenti virtuosi. Tra le tante assurdità dell'ennesimo Porcellum normativo mandato a pascolare sui prati istituzionali, c'è anche un ribaltamento di ogni principio giuridico civile: l'onere della prova della propria onestà è tutta a carico del contribuente. A pensare che quell'eversore del barone John Maynard Keynes, da buon economista liberal sosteneva che "sfuggire alle tasse è l'unica impresa che offra ancora un premio".

Così, nei prossimi mesi se non sarà cancellato dai nuovi governanti un Tassametro (taroccato) spacciato per Redditometro (imparziale), milioni di cittadini-sudditi finiranno nel tritacarne dell'Agenzia delle Entrate. E toccherà soltanto a loro, davanti al giudizio del funzionario-sovrano, ricordare perché nel 2009 hanno acquistato un televisore nuovo, ho acquistato l'apparecchio correttivo per i denti della figlia.

Sul nocciolo (duro) del problema che riguarda la civiltà fiscale, ben poco ha aggiunto il battibecco pseudo ideologico, sviluppatosi sulle pagine del "Corriere della Sera", tra il direttore di Equitalia, l'impenitente Attilio Befera, e l'opinionista col blà blà weberiano, Piero (e/o) Ostellino. Ai quali si è aggregato, con una posizione "terzista", il solito Salvatore Bragantini, che ancora non si è avveduto che nell'anno del governo Monti il debito pubblico ha raggiunto la cifra-record di oltre duemila miliardi. Riguardo ai buchi di bilancio (pubblico) l'agenda del manager-analista è ancora ferma agli anni Ottanta. Mai aggiornarla!

Il che dimostra come spesso le opinioni separate dai fatti sono soltanto "fuffa" accademica. Pensieri e convincimenti (radicati) a mezzo stampa sul rapporto cittadino-tasse che, però, non affrontano mai la vera emergenza istituzionale che da almeno una ventina di anni di ministri "tecnici" (da Visco 1999 a Grilli 2012) stiamo drammaticamente vivendo: la politica fiscale è compito precipuo (missione) del governo e del Parlamento e non può essere delegata a Equitalia o a qualsiasi altra agenzia.

Come recita lo stesso dettato costituzionale, i ministri, nominati dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio "sono responsabili, individualmente, degli atti adottati dai dicasteri loro affidati e, collegialmente, delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri".

Fa un certo effetto, allora, che nel pieno di una campagna elettorale difficile e ricca di colpi di scena, con i cittadini alle prese con povertà e disoccupazione crescente, nessuno dei leader in gara - da Bersani a Berlusconi passando per Casini -, abbia finora preso posizione sul'iniquo Redditometro messo a punto da Equitalia.

Il Grande Inquisitore dostoevskijano del terzo millennio che con il suo modello organizzativo sofisticato vuol far credere alle sue vittime (i contribuenti) di agire per il suo bene: far pagare le tasse a tutti.

Dopo le esperienze del passato ("cartelle pazze" e tanto altro) si può continuare a credere ancora alla Befana, ma non a Befera!

Chissà, forse dimentichi i nostri politici, che nella scorsa primavera c'è stata una forte mobilitazione contro l'agire persecutorio dell'Agenzia con assalti agli uffici, attentati e suicidi. Una società per azioni a capitale pubblico (una multiutility che deve macinare profitti) che è stata accusata pure di praticare lo "strozzinaggio", esigendo, a torto o a ragione, comunque un agio del 9% per ogni tassa non pagata. Una situazione insostenibile fino al punto che la Cgil aveva minacciato uno sciopero generale contro l'Agenzia delle entrate.

Tutti silenti, invece, i futuri candidati premier nonostante che nel tritacarne di Equitalia finirà soprattutto il lavoro autonomo e d'impresa. E qualche pensionato che non appartiene, come Salvatore Bragantini, al ristretto club dei contribuenti mezzi-milionari, ma che per una volta si è permessa una follia: spendendo in sola volta i suoi mille euro (mensili) per una vacanza-premio sul lago insieme ai cari nipotini.

Per non dire del premier-pesce Rigor Montis e del suo ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, che ancora non si sono resi conto della bomba sociale lanciatagli sotto la poltrona (a loro insaputa?) da Attila Befera proprio alla vigilia della consultazione elettorale. Ma spesso, accade anche i bocconiani, non si possono prendere impegni superiori alle proprie debolezze.

lunedì 7 gennaio 2013

Il radicalismo di Tolkien fa ancora paura



Così va il mondo! Da giovani - giusto quaranta anni fa - si compra Lo Hobbit edito da Adelphi e ci si innamora del mondo creato da Tolkien al punto da chiamare il proprio cane Bilbo, poverino (lo hobbit, non il cane). Ma il tempo, ahinoi, passa, ci si pente e adesso il fantastico di Tolkien viene talmente in uggia che «inquieta», «continua a non piacere». Questa sorprendete confessione è sull'ultimo fascicolo di Panorama e la firma Roberto Barbolini che di un certo fantastico inquietante e criptico ha permeato alcune sue opere narrative.

All'inizio degli anni Duemila ci furono nomi della cultura di sinistra che ammettevano la «colpa» di aver letto di nascosto le «opere proibite» del professore di Oxford nonostante i tassativi divieti dei collettivi; ora emergono le meditate perplessità di altri insospettati. Che nascono però da fraintendimenti sul senso del fantastico come sistema immaginativo e genere letterario.

Barbolini cita Roger Caillois e fa bene. Caillois è un teorico-chave per come si debba correttamente intendere il fantastico: altro che Todorov! Soltanto che la definizione del sociologo francese secondo cui il fantastico nasce quando un qualcosa di Inaudito, Inammissibile, Impensabile fa irruzione nella Realtà e la scardina e sconvolge, non è il solo «fantastico» esistente. Il vampiro, lo spettro, il lupo mannaro, il mostro una volta, ma anche l'entità di Lovecraft, l'alieno e addirittura Mary Poppins oggi, «contestano», se così si può dire, la Realtà presentandone una alternativa parziale. Ma vi è un altro aspetto del fantastico, quello totalizzante: la creazione di un intero mondo d'immaginazione (che il nostro filologo definì Secondary World rispetto a quello vero che è il Mondo Primario) proprio in quanto tale si pone come alternativa complessiva alla nostra realtà: non solo la Terra di Mezzo, ma anche l'Era Hyboriana di Howard, Gormenghast di Peake e tutti gli altri Mondi Secondari inventati dagli scrittori angloamericani dagli anni Settanta in poi su ispirazione di Tolkien.

È questo l'equivoco in cui Barbolini cadde: ritenere che il fantasy non sia vero «fantastico»: «Non sopporto il fantasy perché è il contrario del fantastico come crepa salutare del reale», mentre «il mondo di Tolkien è preciso come un orologio svizzero», «mai una smagliatura», addirittura «plumbea armatura di certezze filologiche applicate a un'epica immaginaria, ambientata in un mondo dove tutto, sino al minimo dettaglio è assolutamente esatto». Questa precisione, questa assenza di «smagliature» per Barbolini appaga il lettore: «l'immaginario si sostituisce monoliticamente al reale invece di metterlo salutarmente in crisi». Da qui, per lo scrittore, il successo planetario pluridecennale.

L'errore di fondo del ragionamento sta in questa concezione. È invece proprio il fantastico totalizzante del professore oxoniense che di per se stesso mette in crisi l'intero Reale che conosciamo in quanto alternativo ad esso non solo materialmente ma soprattutto in quei valori che il mondo di oggi, così come quello in cui Tolkien scriveva, ha respinto, rigettato, sbeffeggiato, calunniato e che invece i lettori di ieri o odierni ancora chiedono e cercano, proprio come nelle fiabe migliori. E del resto, chi ha detto che nella Terra di Mezzo dove tutto è come un «orologio svizzero», non esiste quella «smagliatura» invocata da Barbolini quali segni del fantastico vero, tali quindi da incrinare proprio la «realtà» dell'immaginaria Terra di Mezzo? Certo che tutto questo perturbante (per usare il termine freudiano) c'è, eccome… Sauron, Saruman, i Nazgul, gli orchi, Shelob: essi vogliano scardinare la concreta trama di quel mondo, irrompendo con la loro malvagità in esso, cercando di imporre un nuovo ordine di terrore ed orrore da sostituirsi alla normalità.

(di Gianfranco de Turris)

I nuovi nemici? Tecnocrati e politici. E la finanza trionfa


È quasi impossibile coltivare nel nostro presente un pensiero politico che proietti il presente nell'avvenire. Avvitati e immersi nel momento, sia il pensiero che il politico sono liquidati come vecchi arnesi. Per tentare l'ardua impresa di ridisegnare la politica nell'epoca del loro disfarsi, dovremmo osare un radicale salto di qualità. Ripartiamo dalla definizione del suo perimetro. Il regno della politica ha per base la partecipazione, per altezza la decisione e per finalità il bene comune, sintesi di bisogni e ideali. Le sue fonti normative e regolative sono l'esperienza, cioè la storia selezionata nella tradizione; la maggioranza, cioè la volontà democratica prevalente; la competenza, cioè la guida degli esperti o dei migliori. Superata l'epoca delle ideologie, è impensabile attestarsi alle vecchie e stanche categorie di destra e sinistra - vecchie di tre secoli, logorate nel novecento che pur le rese di massa - e dei loro drammatici derivati. Ma è altresì impensabile rifiutare padri e patrigni del secolo scorso per regredire ai nonni del secolo precedente. Finiti il comunismo e il nazionalismo, tre eredi restano oggi del passato: liberali, socialisti e conservatori (si veda in proposito l'opportuna traduzione di Conservatorismo: sogno e realtà di Robert Nisbet, uscita di recente da Rubettino). I tre moschettieri del pensiero politico devono fare i conti col totem dell'antipolitica, che non è il populismo ma il suo opposto: la tecnocrazia. Il populismo è la reazione grezza, demagogica e pur necessaria al dominio delle oligarchie. Una reazione trasversale, ma pur sempre politica.

Ma inoltriamoci nel discorso. Da cosa sono sostituite le contrapposizioni che abbiamo conosciuto nel secolo scorso? Da opposizioni più radicali. Mi spiego. Oggi l'alternativa non è più interna alla politica, come non è interna alla società e alla religione, ma ne investe i fondamenti: l'antagonismo è tra chi reputa la politica come il luogo sovrano delle decisioni nel nome di interessi generali e valori diffusi, divisi e condivisi, e chi invece ritiene che non spetti più alla politica il ruolo sovrano di sintesi e decisione, ma alla tecnica nel nome dei mercati. Oggi il nemico, per dirla nel linguaggio schmittiano, o l'avversario, per dirla nel gergo liberal-democratico, non è più la destra o la sinistra, ma è l'apparato tecno-finanziario. Lo dicevo giorni fa in un dialogo con Fausto Bertinotti. Si deve decidere se la sovranità risiede nei popoli, nella loro storia e nella loro realtà presente, o se risiede nei regni impenetrabili della finanza e della tecnica. Indicandoli come impenetrabili, non torno alla letteratura dietrologica e complottista che allude alle centrali occulte del potere mondiale. Dico che il primato globale dei beni strumentali - vale a dire la tecnica e il mercato - ha generato una reazione a catena, notava Schmitt, per cui c'è il passaggio automatico a una sovranità impersonale; gli uomini che ne sono alla guida sono essi stessi esecutori più che dominatori. Sono agenti e funzionari più che mandanti o ispiratori. La finalità non è il bene comune ma l'apparato.

L'antagonismo riconosciuto sul terreno politico si ripete anche negli altri ambiti. Per esempio sul piano religioso, l'avversario prioritario della civiltà cristiana non è l'islam o altre religioni, ma l'antagonismo del nostro tempo è tra le civiltà ispirate a temi religiosi e le civilizzazioni guidate dal primato della tecnica e del mercato. O sul piano sociale, tra società che hanno una visione comunitaria, comunque espressa, e altre che ritengono sostanziale e irreversibile il passaggio a una dimensione individuale e globale. Anche sul piano dei legami l'antagonismo non è più tra la mia e la tua patria ma tra chi pensa che la patria sia un bene primario da tutelare e chi viceversa ritiene che le patrie non abbiano più senso, siamo tutti contemporanei e concittadini del mondo, legati solo al filo globale del presente. Il nostro tempo esige dunque nuove dicotomie e nuovi terreni di confronto e di conflitto.

Altro salto di qualità del pensiero politico investe proprio l'assetto globale del mondo. I derivati dal novecento e dalla modernità estrema, offrivano due soluzioni: assecondare il processo di globalizzazione come fenomeno irreversibile e inarrestabile, fino a sciogliere ogni posizione politica al suo interno; oppure resistere, arroccarsi nei particolarismi e nei nazionalismi, per fermare o almeno frenare questo processo globale. Oggi il pensiero realista pone un'altra esigenza: quella di bilanciare i processi e non rinnegarli o rinnegarsi. Generare contrappesi, salvaguardare le diverse esigenze umane in ambiti plurali e divergenti. L'unico modo realista per affrontare la globalizzazione è riequilibrarla mediante compensazioni: più sono veloci i mutamenti e gli spostamenti più sono necessari i riferimenti saldi e permanenti; più siamo cittadini globali, più sentiamo il bisogno di un luogo originario che avvertiamo come la nostra casa; più cresce l'effetto della tecnica e l'espansione del mercato, più avvertiamo la necessità di colmare la carenza di principi, destini, orizzonti, ambiti qualitativi che diano senso ed altezza e non solo larghezza e strumenti alla nostra vita. Il regno della quantità ha necessità di compensarsi col regno delle qualità. Da qui dunque la convinzione che un armonioso processo di globalizzazione potrà darsi solo se sarà bilanciato da una tradizione viva, che affianchi punti stabili a percorsi mobili.

L'accelerazione corrente urge di un pensiero neo-conservatore per riequilibrarla. Non un pensiero contrario, ma un contrappeso di continuità alle sue rotture.

Come ogni futuro trova senso e stabilità se poggia su una salda memoria e un vivo retaggio, così ogni crescita della tecnica si rende fruttuosa se s'impianta su una coltura. E ogni agire si orienta alla luce di un pensare. Il nemico principale della libertà come del pensare, è l'automatismo, ossia la convinzione che ci sia una sola via, One Way, o una sola procedura, per dirla in gergo tecnico; e che si debba seguire quella, altrimenti si deraglia e si va all'inferno. Al contrario, si deve riaprire il futuro a più esiti e procedere su piani diversi, per compensazioni e integrazioni. È ancora da fondare un pensiero politico che parta da queste premesse. Pensiero sorgivo, per smentire o per bilanciare, la percezione di tramonto, di fine del mondo e di rapida scomparsa del nostro orizzonte, che ci scava dentro come un lutto interiore. Non c'è cosa più triste che l'alba di un giorno, o di un anno, in cui tutto muta ma nulla accadrà.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 2 gennaio 2013

Contro la finanza, le parole del Pontefice Pio XI


«In primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.

Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza.

A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezze e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini, o perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte fra le nazioni.

Funeste conseguenze

Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica sono poi quelle che voi stessi, venerabili Fratelli e diletti Figli, vedete e deplorate; la libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele.

A ciò si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizione umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia.

Nell’ordine poi delle relazioni internazionali, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico; dall’altra non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene».

(Pio XI, Quadragesimo Anno 14 maggio 1931)