giovedì 28 febbraio 2013

Alessandro Giuli: “Gli ex An, dal ‘tra-passo delle oche’ alla diserzione”


Nel 2007 c’era ancora Alleanza Nazionale. Gianfranco Fini, un giorno sì e l’altro anche, tuonava contro Berlusconi, minacciando di interrompere tutti i rapporti politici tra il suo partito e quello del Cavaliere. Italo Bocchino, durante un convegno dal titolo “Il tempo delle scelte”, giurava che dietro l’uscita di Storace da An, avvenuta a luglio di quell’anno, ci fosse “la manina di Silvio”. Tutti, o quasi, di fronte agli slanci volitivi del leader di Forza Italia- che parlava di nuovi partiti con cui annettere gli alleati- si stringevano intorno al giudizio di Fini sulla questione: Berlusconi “è alle comiche finali”.

Sempre nel 2007 usciva un libro scritto da Alessandro Giuli, all’epoca notista politico de “Il Foglio”, dal titolo “Il passo delle oche” (Einaudi). Si trattava di una radiografia critica della destra post-missina in cui emergeva con chiarezza il fatto che, nonostante l’ostilità ostentata, l’idea finiana di una navigazione tattica, unita a uno scarso peso dato all’elaborazione culturale, avrebbero condotto i rottamatori del Msi tra le braccia di Berlusconi, senza nemmeno garantire loro una duratura sopravvivenza interna al nuovo soggetto. Oggi, Giuli, è il vice-direttore del quotidiano di Ferrara e le previsioni che aveva affidato al suo libro si sono avverate tutte. Rimane solo da capire se sia rimasto ancora materiale utile per scriverne un seguito.

“Il passo delle oche” ha predetto il futuro o tutti i dati disponibili indicavano già cosa sarebbe successo?

Era già tutto chiaro, sia su Fini che sul suo partito. Non ho avuto doti di chiaroveggenza. Ho solo collegato elementi che erano abbastanza evidenti e che, già all’epoca, persone come Enzo Erra e Giorgio Pisanò, che avevano conosciuto di persona Fini e ne avevano seguito tutto il percorso politico, individuavano come avvisaglie di quello che sarebbe stato il decorso distruttivo del Movimento Sociale/Alleanza nazionale dal 1995 in poi. Loro magari non hanno beneficiato di una pubblicistica attenta, mentre il mio libro, edito da Einaudi, ha avuto un rilievo diverso.

La colpa del collasso politico di quel mondo legato ad Alleanza Nazionale è imputabile solo a Gianfranco Fini?

Non solo a lui. Ma Gianfranco Fini è comunque considerabile il più grande assassino seriale di partiti. Ha ucciso il Movimento Sociale, ha ucciso Alleanza Nazionale, ha ucciso il Pdl (perché nonostante quello che pensa Berlusconi, oramai il Pdl è esclusivamente una lista elettorale e personale) e, infine, ha ucciso Futuro e Libertà, che oggi è ridotta a una specie di larva politica. Tutto questo perché, da sempre, Fini ha utilizzato la forma partito come combustibile di una carriera votata al personale. Ovviamente la sua classe dirigente è stata completamente in linea con le sue aspettative. Gregaria, dal sostantivo latino grex che designa il gregge, è entrata, prima, in Alleanza Nazionale e poi nel Pdl, senza elaborare il frutto di una identità negata.

Il passaggio da Alleanza Nazionale al Pdl, quindi, sarebbe stato indolore?

Sì perché in An non c’era stata alcuna creazione di valori. Il passaggio dal Movimento Sociale al nuovo partito era stato soltanto un trasbordo dalle catacombe a un seminterrato più presentabile. Inoltre era già evidente che gli ex-missini sarebbero usciti con le ossa rotte dall’esperienza della fusione con Forza Italia, in quanto non avrebbero portato all’interno nessun contributo identitario preciso e, anzi, avrebbero infettato anche il Pdl con le loro beghe di corrente.

Eppure, all’epoca, si parlava di Forza Italia come di un “partito di plastica”, facilmente permeabile…

Esatto. Loro sono partiti con l’idea di egemonizzare culturalmente un partito permeabile a ogni innesto, proprio perché ritenuto di plastica, e in realtà si sono trovati in un mare magno di lotte intestine. Insieme a un partito, l’ex Forza Italia, che comunque conservava tradizioni non totalmente  neglette. Per esempio la corrente socialista o quella liberal/conservatrice. Paradossalmente An è entrata con l’intenzione di egemonizzare ma ha finito per fare la figura della truppa di lanzichenecchi.

Quindi un discrimine culturale tra le due formazioni non c’era?

An si è presentata all’appuntamento con le solite correnti. La destra berlusconiana di Gasparri e La Russa, che tendenze culturali non ne ha mai avute ma nemmeno vantate. Matteoli e Urso, che più che una corrente erano un esperimento di laboratorio creato da Fini per controbilanciare la spinta dell’altra corrente, quella sociale di Alemanno, che è la vera area drammaticamente sconfitta e da giudicare senza pietà. Loro sì che sono arrivati con delle pretese culturali, qualche libro letto e Pino Rauti sulle spalle. Sono loro che hanno avuto una implosione nei gangli del potere, dopo aver rinunciato consapevolmente a qualsiasi tipo di promozione culturale.

Ci sono stati tentativi recenti di unire, vista l’impossibilità di farlo con quelle politiche, le correnti culturali della destra identitaria. Può essere, questo, un percorso utile?

Mi pare pura retroguardia. Ne ho visti troppi di tentativi del genere. Dai Campi Hobbit in poi era tutto un “facciamola sinistra”, “facciamola destra”, “facciamola strana”. Il problema è che ogni iniziativa culturale onnicomprensiva, priva di una selezione vera e di una chiarificazione di intenti, è sempre fallita. Ed è fallita perché non puoi mettere l’abramitico Cardini con altri intellettuali più smaglianti e meno confezionati, non puoi mettere insieme l’intellettuale conservatore con i malati di avanguardismo futurista. Sono stati, questi, esperimenti utili negli anni 70 per farsi notare e per far vedere che c’erano delle singole intelligenze, oggi non esprimono altro che un reducismo senza prospettive.

Uno dei problemi della destra è, quindi, il tentativo di “far stare nella stessa stanza” Marinetti e Evola?

Sì, ma non credo ci sia bisogno di essere evoliani per pensare ai futuristi come a dei cretini fosforescenti. Basta Gabriele D’Annunzio.

Cosa ne pensa della novità rappresentata da Casa Pound?

Mi piace per quel tanto che riesce a  rievocare di Fiume e del Novecento più vitale, solare, gioioso e patriottico della Grande guerra. Non amo di Casa Pound gli orpelli avanguardisti e pseudo futuristi.

Oggi ci sarebbe materiale per scrivere un seguito de “Il passo delle oche?”

Ci sarebbe ma andrebbe esteso e il titolo dovrebbe essere “I disertori”. Individui che, come tutti sanno, finiscono fucilati dalla storia.

martedì 26 febbraio 2013

Chi ha scientificamente asfaltato la Destra


Ricorderemo a lungo le elezioni politiche che si sono appena svolte. E per tanti motivi che non starò qui ad elencare tanto sono noti e all’attenzione di tutti. Ma ce n’è uno che sarebbe storicamente ingiusto sottovalutare. Dai risultati emerge l’assenza dal Parlamento di un soggetto unitario di destra. Non era mai accaduto dal 1948.

Prima con il Movimento Sociale Italiano (sia pure nel 1976 con l’appendice scissionistica di Democrazia nazionale), poi con Alleanza nazionale, c’è sempre stata nelle massime assemblee rappresentative un movimento riconducibile ad una storia, ad una cultura, a dei valori che sono stati qualificati “di destra” e come tali sono stati percepiti  e riconosciuti da masse crescenti di cittadini.

Non saranno i nove deputati di Fratelli d’Italia e i pochi “destristi” sopravvissuti alla mattanza consumatasi nella compilazione delle liste del Pdl, a poter rappresentare la destra per quel che è o dovrebbe essere. Chi ritiene, mettendosi la coscienza a posto, che bastano appunto poche frammentarie e slegate, per quanto rispettabilissime presenze, riferite ad un mondo in via di estinzione (almeno dal punto di vista parlamentare), per poter sostenere che la destra esiste, vuol dire che si accontenta di poco. E magari cerca alibi alla propria inerzia.

La verità è che la destra è stata scientificamente asfaltata. Gli esponenti e gli aspiranti candidati esclusi che non hanno inteso seguire l’impervia e rispettabile strada intrapresa da Fratelli d’Italia, né si sono riconosciuti nel partito di Storace, adesso sono senza casa. Ma, a ben vedere, lo sono anche i pochi inquilini che hanno trovato posto nelle liste berlusconiane che tuttavia per le posizioni ottenute non sono stati eletti.

I parlamentari provenienti da An che si sono acconciati a testimoniare le loro differenze, dando vita a Fratelli d’Italia e a La Destra (che non ha ottenuto seggi), da quello che doveva essere il partito unico del centrodestra, non credo, comunque, che  possano sentirsi appagati della loro scelta. Immagino che registrino, come tutti, il fallimento di un progetto del partito unico del centrodestra che, a conti fatti, non era maturo, né culturalmente, né tantomeno politicamente. Fallimento suggellato dalla scomparsa politica di Gianfranco Fini e del suo velleitario movimento che, in verità, non è mai decollato proprio perché negava la destra in radice.

La storia di questi ultimi cinque anni la si può leggere in tanti modi, ma credo che con la piega che hanno preso gli eventi si possa dire che la destra è stata “cannibalizzata” per non aver saputo esprimere all’interno del contesto berlusconiano una propria identità, fattore  che ha pregiudicato il suo apporto alla costruzione del nuovo partito.

L’errore di sciogliersi in un indistinto movimento a vocazione carismatica nel febbraio 2008 ha segnato la fine di An e l’inizio della fase più acuta dello scontro tra Fini e Berlusconi con gli esiti che sappiamo. Il partito unico non era alla portata: operazioni del genere, che implicano la condivisione culturale e politica di un progetto che può affinarsi nel tempo attraverso una riflessione profonda, se non producono un amalgama sono destinati a fallire. Il “fusionismo” è una grande lezione che pochi a destra hanno appreso dal conservatorismo americano: esso si fonda sulla necessità di non disperdere energie e risorse unendo tutti coloro che sono animati da una stessa visione valoriale del mondo e della vita. Quando mai nel centrodestra è stata avviata una discussione sulla consistenza identitaria derivante dalle cessioni di identità dei vari soggetti che hanno concorso a formarlo? Pochi, e per di più inascoltati, hanno richiamato questa esigenza che, tradotta in termini politici, avrebbe portato ad una unione tra le diverse componenti fondata su una nuova cultura e su una più efficace e radicata rappresentanza territoriale.

La destra, forse più strutturata anche “ideologicamente”, avrebbe potuto offrire un apporto decisivo alla composizione di un movimento che, in senso europeo, si sarebbe potuto qualificare e rappresentare come “conservatore”, dinamico e riformista nella sfera della modernizzazione istituzionale e sociale ed al tempo stesso custode dei principi della tradizione nazionale e popolare.

Diciamocelo francamente: non è stata all’altezza appiattendosi su un berlusconismo di comodo che non ha giovato neppure allo stesso Berlusconi il quale avrebbe, molto probabilmente, tratto maggiori vantaggi politici dal contributo di una destra che non dimenticava se stessa ed era perciò in grado di intercettare quel suo elettorato che con fatica si è visto trascinare nell’indistinto di un sistema partitico che non gli apparteneva, che sentiva estraneo.

Non sarebbe stato certo un dramma se, constatata l’impossibilità della convivenza, si fosse dato luogo, nell’ambito del centrodestra ad una federazione di soggetti, ognuno legato ad una ben precisa porzione di opinione pubblica. Dal punto di vista elettorale avrebbe consentito a tutti di cooperare per il bene comune di una coalizione composita e plurale nella quale le differenze sarebbero state il lievito della crescita fino a quando non fossero maturate le condizioni, in un sistema effettivamente bipolare, per la costruzione di quel “partito degli italiani” che è sempre stato l’obiettivo di una destra attestata sul fronte della pacificazione, alla quale nulla è risultato in questi anni più estraneo della contrapposizione muscolare tra avversari.

La destra, dunque, si è sostanzialmente dispersa, un po’ per il fatto di non aver creduto nelle sue potenzialità, e un po’ perché ha smarrito la sua strada  cadendo in azzardi politicisti che hanno finito per perderla come comunità. Dopotutto, checché se ne dica, questa era la sua forza: una comunità di destino nella quale i principi dell’autorità, della gerarchia, del libero dialogo tra pari, il culto della memoria storica e del primato della politica, della lealtà e della fedeltà valevano più di ogni altra considerazione rispetto alle logiche di potere che l’hanno snaturata ben oltre la volontà di chi, probabilmente, si è distratto rispetto alle prospettive che il suo mondo nutriva.

Detto degli errori, su cui chi vorrà avrà tempo e modo di indagare, non è scusabile l’atteggiamento di vera e propria ostilità di quanti la destra l’hanno marginalizzata in vista delle elezioni. Utilizzando criteri a dir poco discutibili, smentiti da deroghe arbitrarie, si è fatta macelleria politica con allegrezza quasi. Tanto da ritenere che quella destra che Fini portò in dote a Berlusconi e che poi abbandonò non per fare un’altra destra, ma qualcosa di indistinto, confuso, incomprensibile, come si è visto, non ritenuta più utile ad un qualche scopo è stata senza eleganza messa fuori dal Parlamento.Tutti adesso, provenienti da uno stesso mondo, sono “fratelli separati”: una storia che abbiamo già visto consumarsi a sinistra, ma ripetendosi a destra non si palesa come una farsa, contraddicendo per una volta il vecchio Karl Marx, bensì come una fuga dove non c’è niente e nessuno.

La fine di un movimento politico, comunque, non dà automaticamente luogo alla fine delle idee che storicamente lo hanno caratterizzato e che, bene o male, ha rappresentato producendosi, tra l’altro, in un lungo lavorio teso all’elaborazione culturale e al superamento di anticaglie che ne pregiudicavano l’agibilità sul terreno della partecipazione alla vita pubblica. Esiste una “destra diffusa”, insomma. Attende che qualcuno la ricomponga sotto un tetto. E le dia un avvenire sia pure in un tempo che i protagonisti di oggi forse non riusciranno a vedere.

(di Gennaro Malgieri)

Tarchi: "Renzi così ha tutto da guadagnare"


"Se le primarie del Pd avessero avuto un risultato opposto non si sarebbe prodotto questo risultato. Ovviamente avrebbe posto un altro problema di identità della sinistra però una candidatura Renzi a premier avrebbe sicuramente spazzato via ogni possibilità per il centro destra di competere". Lo ha detto Marco Tarchi, politologo e professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze dove attualmente insegna Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica, commentando i risultati ancora non ufficiali delle elezioni.

"Da questo punto di vista - ha spiegato Tarchi - credo che il Pd si troverà di fronte a delle scelte molte difficili che riapriranno ulteriormente le ferite che in qualche modo dopo le primarie erano date che richiuse".

"Io credo - ha detto Tarchi - che questo risultato a Renzi, in fondo in fondo anche se lui lo negherà fino alla morte, gli fa molto piacere e comodo perché rimette in gioco le questioni con un Bersani piuttosto azzoppato e conseguentemente gli dà un'altra possibilità. Ovviamente potrebbe essere anche tardi ma chissà, dipende dalla possibilità della dissoluzione dell'ambiente montiano . Renzi ha tutto da guadagnare dagli scenari futuri se saprà agire intelligentemente dal suo punto di vista".

(fonte: www.ansa.it)

domenica 24 febbraio 2013

Crisi di fede, ci vuole una reazione


Giuliano Ferrara ha certamente ragione quando, sul Foglio del 22 febbraio, denuncia la strategia della calunnia di cui si fanno strumento in questi giorni i mass-media. La tesi ormai dominante è che Benedetto XVI si è “arreso” davanti a una curia corrotta e ingovernabile, ma ciò che si insinua è che la morbosità sessuale, il crimine e l’intrigo facciano parte della natura stessa della chiesa romana.

Questa offensiva mediatica dovrebbe togliere ogni illusione a chi ancora crede nella possibilità di conciliare la chiesa con i “poteri forti” laicisti che oggi tentano di schiacciarla. La reazione cattolica dovrebbe essere virile e combattiva e partire dall’ammissione dell’esistenza di una crisi di fede di cui l’innegabile decadenza morale degli ambienti ecclesiastici è, insieme, causa e conseguenza. L’espressione più recente di tale crisi dottrinale è l’assenso dato dalla Conferenza episcopale tedesca alla cosiddetta “pillola del giorno dopo”, in casi estremi come lo stupro.

Questa dichiarazione sembra rappresentare la simbolica rivincita dell’episcopato centroeuropeo sull’Humanae Vitae del 25 luglio 1968. L’enciclica di Paolo VI, che condannava categoricamente la contraccezione, fu apertamente contestata da un gruppo di vescovi “renani”, gli stessi che avevano applaudito il cardinale Suenens, quando nell’aula del Concilio Vaticano II, il 29 ottobre 1964, egli aveva rivendicato il controllo delle nascite, pronunciando con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”.

Oggi i vescovi tedeschi rialzano con clamore una bandiera mai ammainata. L’ombra del Vaticano II avvolge del resto l’atto di rinuncia di Benedetto XVI, avvenuto proprio mentre sono in corso le celebrazioni del suo cinquantesimo anniversario. Non a caso, l’ultimo discorso, programmatico e retrospettivo del Papa al clero di Roma, lo scorso 14 febbraio, ha colto le origini della crisi religiosa nel “Concilio virtuale” che al Vaticano II si sarebbe sovrapposto. Il Concilio dei mezzi di comunicazione, secondo Benedetto XVI, “era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri, un Concilio” – ha aggiunto – “accessibile a tutti”, “dominante, più efficiente” causa di “tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”.

Nell’èra della comunicazione sociale, in cui è vero ciò che è comunicato, il Concilio virtuale non fu però meno reale di quello che si svolgeva all’interno della basilica di San Pietro, tanto più che il Vaticano II volle essere un Concilio pastorale, che affidava il suo messaggio ai nuovi strumenti espressivi. Oggi più di allora i mass media sono in grado non solo di rappresentare la realtà, ma di determinarla grazie al potere e alla forza di suggestione che possiedono.

Lo stesso Benedetto XVI ne ha ripetutamente parlato, sottolineando il loro potere di manipolazione. Un gesto storico, come il suo atto di rinuncia al pontificato, è inevitabilmente destinato a essere anche un evento mediatico. E quale altra immagine può trasmettere se non quella di un uomo e di una istituzione privi della forza per combattere il male che avanza? Come meravigliarsi dell’uso della parola “resa”?
Di fronte a questa evidenza, i migliori cattolici non ammettono che la ragione ultima e vera della rinuncia sia quella esposta dal Papa con queste ormai celebri parole: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me
affidato”.

Per difendere il gesto “umile e coraggioso” di Benedetto XVI, ci si affanna a ricercarne le recondite intenzioni, rinunciando a esaminare quelle che possono essere le oggettive conseguenze. Secondo alcuni il Papa ha voluto invitarci a distogliere il nostro sguardo miope dalla temporalità del potere; altri hanno pensato che il gesto sarebbe stata la “merce di scambio” per qualche ultimo clamoroso atto del pontificato, come la riconciliazione con la Fraternità San Pio X. C’è perfino chi ha parlato di “ritirata strategica”, per aiutare il nuovo Papa a organizzare il “dopo Ratzinger”. Tranne qualche lodevole eccezione, come quella dell’arcivescovo di Digione, Roland Minnerath, che ha sottolineato l’importanza delle potenziali “conseguenze collaterali” della decisione, pochi tra i cattolici ammettono che possa trattarsi di un gesto destinato a indebolire il Papato, quasi che a portare nocumento al Papato sia l’oggettiva constatazione del fatto, e delle sue conseguenze, e non il fatto stesso.

Il Papato in se stesso naturalmente non è toccato. Il Sommo Pontefice, che non può essere deposto da nessuno, nemmeno da un Concilio, ha il pieno diritto di rinunciare alla sua missione. Quando abdica egli esercita un atto sovrano che in nulla scalfisce il suo supremo potere di giurisdizione. Il Papa resta, ontologicamente, l’unico supremo legislatore della chiesa universale. Si tratta di un dogma di fede. I canoni 331 e 333 del nuovo codice di diritto canonico, definiscono l’autorità del Pontefice romano come un potere di governo supremo, perché nessuna autorità è a lui uguale e nessuno può giudicarlo; plenario, perché, nelle cose di fede e di morale, è un potere illimitato in estensione ed intensità; universale, perché è esteso su tutti e singoli vescovi e su tutti e singoli i fedeli; immediato, perché il Papa può esercitare il suo diritto di intervento diretto in qualsiasi momento, in ogni campo, su qualsiasi persona.

A questo supremo potere di governo, si aggiunge quello di magistero, che comporta a determinate condizioni, il carisma dell’infallibilità. Benedetto XVI, pur godendo di tutti questi poteri, non ha ritenuto opportuno esercitarli nella sua pienezza. Con atto libero e consapevole, ha rinunciato a esercitare non solo il potere di infallibilità del suo Magistero, ma anche il supremo potere di governo, fino al punto di rimettere a Cristo e alla chiesa il munus che il 19 aprile 2005 aveva accettato. Il suo pontificato è ora consegnato alla storia.

Possiamo aggiungere che se il successore di Benedetto XVI vorrà applicare un programma “ratzingeriano”, che vada dalla difesa dei princìpi non negoziabili all’implementazione del motu proprio Summorum Pontificum, dovrà farlo con quelle forze fisiche e morali, ovvero con quell’energia, di cui Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, si è pubblicamente confessato incapace. Ma come pensare che la realizzazione di questo programma non provochi ancor più violenti attacchi alla chiesa da parte delle lobby secolariste?

Se poi il nuovo eletto capovolgerà la linea di governo ratzingeriana, per avventurarsi nella sabbie mobili dell’eterodossia, nell’illusione di addomesticare il mondo, come immaginare che ciò non provochi una reazione dei difensori della Tradizione? Le parole persecuzione, scisma ed eresia hanno accompagnato la chiesa in duemila anni di storia. Se qualcuno oggi non ne vuol sentir parlare, è perché ha rinunziato a combattere. Ma la guerra purtroppo è in atto.
 
(di Roberto de Mattei)

Gli studi sul cervello che mirano a renderci macchine desolate


«Sapremo tutto del nostro cervello: come funziona, come lo si ripara e come lo si puo' migliorare». Sono parole di Barack Obama a proposito di un ambizioso progetto chiamato Brain Activ Man cui stanno già lavorando aziende tecnologiche come Google, Microsoft, Qualcom e altre «hi-tech» più specificamente mediche.

A questo delirio conoscitivo ci sia concesso muovere qualche obiezione. Quando noi conosceremo con perfezione scientifica i circuiti cerebrali che provocano le nostre emozioni, la gioia, l'amore, la tenerezza, la paura, la crudeltà, l'odio, la gelosia sapremo tutto di questo cervello diviso a spicchi ma avremo perso l'uomo. Nella sua interezza, nella sua singolarità, nella sua insondabile e dolorosa poesia. Avverrà in 'corpore vili', cioè sull'essere umano, quello che lo strutturalismo ha tentato in letteratura. Lo strutturalismo ci dice, per esempio, quante volte Dante ha usato un certo termine nella Divina Commedia. Alla fine di questa dotta ricerca cosa rimane della poesia di Dante?Nulla. Cosi' sapremo tutto su come funziona il meccanismo umano, ma niente di più, anzi qualcosa di meno, sull'uomo.

Si dice che queste ricerche saranno decisive nel prevenire certe malattie neurologiche, come l'Alzhaimer, potenziando il cervello di soggetti sani inserendovi circuiti elettronici e chip al silicio. Anche qui siamo nella linea per cui non esistono più soggetti sani, siamo tutti potenzialmente dei malati e cosi' dobbiamo essere trattati, con effetti non del tutto indifferenti sulla nostra psiche e sulla nostra 'joie de vivre' («Muore mille volte chi ha paura della morte»dice il vecchio e saggio Epicuro). E' vero che l'Alzheimer è in continuo aumento, ma non si capisce bene se cio' sia dovuto all'allungamento della vita (cosa che mi pare contradditoria perchè l'Alzheimer è una demenza senile precoce), ad una maggior precisione delle diagnosi o non piuttosto al tipo di vita estremamente stressante che conduciamo. Mi ricordo che quando ero ragazzino, negli anni Cinquanta, di Alzheimer non si parlava quasi, c'era l'arteriosclerosi, il nonno che inseguiva le domestiche per appioppargli una pacca sul sedere, una cosa in fondo simpatica e innocua.

Si dice ancora che scopo di questa ricerca, in cui saranno investite centinaia di milioni di dollari, è di «individuare i meccanismi del funzionamento della mente da trasferire nei computer per sviluppare una 'intelligenza artificiale' sempre più simile a quella dell'uomo». Ma dai e ridai c'è il rischio che l' 'intelligenza artificiale' superi quella dell'uomo e lo assoggetti a sè stessa. E' l'ipotesi di Duemilauno Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (del resto è successo, in tutt'altro campo, quello economico, che il meccanismo ci sia sfuggito di mano e oggi ci domini).

Ma l'obbiettivo finale di questa ricerca sul cervello, di questo progetto, ce lo svela, senz'ombra di turbamento, Edoardo Boncinelli, in un articolo sul Corriere della Sera: «E' fare dell'uomo una supermacchina». Cioè un robot. In una sorta di sinistro comunismo tecnologico saremo tutti, disperatamente, uguali.

(di Massimo Fini)

Guerra fratricida con Storace per vincere il titolo di "miglior perdente"


La parabola degli ex An conoscerà un epilogo importante lunedì, con le urne chiuse. Quella che fu Alleanza nazionale, alle elezioni politiche di febbraio 2013, si presenta smembrato in quattro liste. C’è la parte che ha deciso di rimanere nel Popolo della libertà (vedendo tuttavia restringere dal 30 al 10 per cento la propria quota nel partito); ci sono i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Guido Crosetto (unico non ex) e Ignazio La Russa; c’è la Destra di Francesco Storace, il primo a sbattere la porta e ad andarsene; c’è Futuro e libertà di Gianfranco Fini. Fli è forse il caso più disperato. Perché deve sperare non solo che la coalizione del professor Mario Monti superi il 10 per cento, ma anche che l’Udc vada oltre il 4. Precondizioni fondamentali  perché il presidente della Camera e qualche fedelissimo possano tornare a sedere a Montecitorio. 

Fratelli d’Italia e la Destra non se la passano molto meglio. Tra loro è in atto un sfida fratricida. Se entrambi i partiti non dovessero superare la soglia di sbarramento del 4 (come segnalavano i sondaggi prima del blocco alla loro pubblicazione) solo uno dei due, il miglior perdente, troverebbe posto nei banchi nel centrodestra nella prossima Legislatura.

Se Francesco Storace ha avuto la sua visibilità in quanto candidato alla Regione Lazio, è stata una campagna difficile per Fratelli d’Italia. Troppo spesso costretti nel cono d’ombra berlusconiano, i Meloni boys non hanno sfondato. E, a causa di un Cavaliere debordante, non sono riusciti a ritagliare il ruolo che avevano immaginato per se stessi: la destra del centrodestra. Quella da votare «senza doversi turare il naso». Si sono visti scippare l’idea della restituzione dell’Imu dall’ex premier (l’avevano detta prima loro), si sono fatti scavalcare a destra dall’uomo di Arcore sul giudizio storico a proposito di Benito Mussolini e hanno strappato qualche riga sui giornali soltanto attaccando l’alleato. Quando Giorgia Meloni ha detto di essersi vergognata di stare nello stesso governo e nello stesso partito di vari esponenti del Pdl. O nel caso di alcune gaffe, come quella omofoba dei dirigenti veneti di Fratelli d’Italia.

Insomma, non il massimo della vita. Reduce da una campagna elettorale di retroguardia, va detto però che Fratelli d'Italia dispone di una rete di dirigenti capillare e agguerrita, quella della ex Alleanza nazionale. Più nel dettaglio, quella che faceva capo alla corrente larussian-gasparriana. Almeno la parte che non ha deciso di rimanere nel Pdl. E deve sperare che basti quella come cinghia di trasmissione. Ma una ramificazione territoriale è la peculiarità anche della Destra, nata dalle ceneri della corrente sociale di Storace, che una volta faceva fronte comune con l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno (il quale a sua volta è rimasto nel Pdl). Un puzzle. Una sfida nella sfida.

(di Salvatore Dama - fonte: www.liberoquotidiano.it)

giovedì 21 febbraio 2013

Cosa succede se le elezioni non producono nessuna maggioranza?


L’esito delle elezioni del 24 e 25 Febbraio impedisce la formazione di un nuovo governo. Non c’è alternativa se non quella di chiamare gli italiani nuovamente alle urne. L’ipotesi, forse non troppo improbabile, solletica l’esercizio dell’immaginazione e pertanto ho chiesto a Pietrangelo Buttafuoco di prendere per buona questa ipotesi aiutandomi a decifrare come si potrebbe riorganizzare la politica italiana.

Non si riesce a formare un nuovo governo. Chi esce di scena degli attuali candidati premier?

Certamente Silvio Berlusconi. Anche se tecnicamente non è stato candidato premier. Dopo di che sparisce anche Bersani. Ritorna il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Nessuna nuova, poi, per Mario Monti. Non potrà più essere riserva della Repubblica. Perfino Amato avrà più carte da giocare.
 
Uno stallo elettorale può condizionare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica?

Nella sostanza sì ma pro forma ci si dovrà muovere. E sarà “stato di emergenza”. Se posso fare un parallelo tragico, come all’indomani delle stragi di mafia in Sicilia.
 
Un ritorno alle urne chi avvantaggia di più: Monti o Grillo?

Grillo. Gli italiani ci prenderanno più gusto e alla fine, il fondatore di Cinque Stelle, andrà dal prossimo Capo dello Stato e dirà: “Presidente, le porto l’Italia del vaffanculo”.

Se si dovesse ritornare alle urne, Grillo potrebbe accrescere ancora di più il suo consenso elettorale. E’ sbagliato pensare che possa essere in pericolo?

Nel senso che possono fargli fare la fine di Enrico Mattei, di Bettino Craxi, di Giulio Andreotti e di Silvio Berlusconi?

Nuovi leader cercasi.

Più che leader servono capi. Servono decisori.

Se guardiamo alla pancia del paese potremmo pensare a Tosi leader di un partito del Nord; Renzi leader di un partito del centro (geografico). Con Renzi la precisazione è d’obbligo. Che ne pensa? E, scusi, se lecito chiedere, a Sud?

Al Sud la vedo dura. A meno che non riesca a diventare forte La Destra con i suoi Ruggero Razza e Stella Mele.

Se invece guardiamo alla geografia degli interessi che contano, tra Renzi e Tosi chi è più avvantaggiato?

Renzi ha la benedizione dei poteri forti internazionali. Tosi è bravo senza aiutino.
 
Monti che fa?

Se riesce a salvarsi dalla morsa Casini-Fini, sopravvive.
 
Qual è la differenza tra Monti e Renzi ?

Monti è professore. Renzi è bravo a mettersi a favore di telecamera. Monti prende il cane tra le braccia, Renzi dovrà solo sapere aspettare.

Tosi e Renzi hanno un profilo da amministratori della cosa pubblica che hanno un largo consenso tra i propri cittadini. Chi è più preparato per costruire un’offerta politica completa che non sia solo partita doppia?

Flavio Tosi. Renzi non è così concentrato come sindaco.

lunedì 18 febbraio 2013

Loretta Napoleoni: Democrazia Vendesi


"Ha visto Satana in Chiesa e così ha deciso di abdicare"


Il professor Franco Cardini, illustre medievista e studioso delle religioni, sta rientrando in Italia da Parigi. «Anche qui c'è grande trepidazione, grande smarrimento», risponde al Giornale. «Le Point e l'Express hanno dedicato la storia di copertina al gesto del Papa».

Cominciamo da qui: come chiamarlo?
 
«Il successore di Pietro è il Sommo Pontefice. Un sovrano assoluto, e come tale non si dimette, ma abdica. Alcuni, in punta di diritto canonico, parlano di rinuncia. Sicuramente, non userei il termine dimissioni, più adatto ad una carica politica».

Lei professore ha superato lo smarrimento?
 
«Sì, l'ho superato. In un primo momento ci siamo tutti chiesti che cosa stesse accadendo. Si è parlato di una grave malattia. Ma in quel caso risulterebbe strano un annuncio alla fine del Concistoro. Tanto più che nessuno sapeva nulla tranne, a quanto sembra, il fratello Georg e il segretario personale, monsignor Georg Gänswein. Non era l'annuncio di persona malata».

Qual è la sua ipotesi?
 
«Se durante il Concistoro Benedetto XVI ha toccato con mano le divisioni tra i cardinali, questo può aver accelerato una sua predisposizione».

Un'accelerazione repentina?
 
«Una decisione più ponderata non sarebbe stata annunziata in chiusura di un'assemblea riunita per una ragione diversa. Se la rinuncia fosse stata decisa da tempo ci sarebbe stata una convocazione specifica dei collaboratori più stretti e dei mezzi di comunicazione. Invece, tutti sono stati colti di sorpresa».

La decisione di Ratzinger colpisce perché appare diametralmente opposta a quella di Giovanni Paolo II di fronte al suo decadimento.
 
«Non so se si può dire diametralmente opposta. Giovanni Paolo II ha accettato di soffrire fino in fondo. Ratzinger, che è un eccelso teologo, ha scelto un altro modello. Perfino Gesù di fronte alla passione chiese di essere esentato».

È stata l'espressione di una fede realista.
 
«Giovanni Paolo II, che è il mio Papa prediletto, ha regnato ma non governato. Si è dedicato alla sua missione viaggiando in tutto il mondo. Ma l'esercizio concreto del potere l'ha lasciato a Ratzinger, il suo uomo di fiducia in Vaticano. Tanto che non l'ha mai lasciato tornare in Germania per dedicarsi solo agli studi».

Quanto ci vorrà, secondo lei, per metabolizzare un fatto come questo?
 
«È difficile a dirsi. Questo ritiro ha l'aria di avere una regia molto chiara. Molto dipenderà dal prossimo Conclave. Intanto, Benedetto XVI ha stabilito nuove regole per la sua successione. Dopo il Motu proprio del 2007, per eleggere il nuovo Papa è necessaria la maggioranza dei due terzi, senza poter arrivare al ballottaggio a maggioranza semplice».

Che cosa significa?
 
«C'è la preoccupazione di avere una guida forte, suffragata da un'unità profonda nel Conclave. Credo che Benedetto XVI abbia voluto accelerare l'inizio di una nuova stagione nella Chiesa. Una stagione che, sulla soglia dei novant'anni e dopo tanti problemi di salute, non è in grado di condurre. Non si tratta solo di ricomporre le due anime della Chiesa, una che attacca il Concilio Vaticano II e l'altra che lo difende. Se non si è riusciti ad attuarlo in questi cinquant'anni è improbabile che, d'improvviso, si ritrovi la concordia per farlo».

Il vero motivo dell'abdicazione del Pontefice è la divisione nella Chiesa?
 
«Non è un parere personale. In passato il Papa aveva citato Paolo VI e il “fumo di Satana” infiltrato nella Chiesa. Qualche giorno fa ha parlato di divisioni che “deturpano”. È più che mai urgente superarle per indire un nuovo Concilio e mettere la Chiesa nella condizione di testimoniare la fede in Cristo in un momento di profonda crisi mondiale».

Perché gli osservatori laici sono più catastrofisti di quelli credenti?
 
«Perché non hanno la fede. Non credono nell'infinita capacità della Chiesa di superare le crisi. C'è una novella del fiorentino Franco Sacchetti molto significativa in proposito. Narra di un ebreo spagnolo che nel 1300 si reca a Roma e quando torna in Spagna si converte. I suoi correligionari lo interrogano e accusano. “Che ti è successo a Roma che ti ha portato a rinunciare alla tua religione?” “Ho visto la corruzione dei preti, l'arbitrio, la discordia che affligge la Chiesa. E ho pensato che, se con questo carico di vizi e peccati la Chiesa sopravvive, significa che è toccata da una grazia particolare”».

venerdì 15 febbraio 2013

"La barca di Benedetto XVI come quella di Schettino"


«Sono un reazionario. E vedo questa faccenda dal mio cattiverio di saraceno». Lo dice subito, Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista, quasi a scusarsi per l'asprezza della sua analisi. E, dunque, avventuriamoci.

Sono trascorsi quattro giorni e sulle dimissioni di Benedetto XVI il mondo si divide ancora. Tu da che parte stai?

«In una parte molto scomoda. So che non si deve parlare male del Papa, ma non ce la faccio a considerare questo atto nella categoria delle dimissioni».

E in quale lo consideri?

«Non posso rassegnarmi a pensare che la barca di Pietro debba inchinarsi davanti alla modernità. Come Schettino all'Isola del Giglio».

Addirittura.

«So che il paragone è blasfemo. Il capitano sta sempre sulla nave, tanto più quando affronta il pericolo di un naufragio. Nella tempèrie della crisi sono l'etica e l'estetica militare a far da guida: sappiamo bene che l'abominio per eccellenza è la diserzione».

Un giudizio drastico. Il nocchiero della nave non è il Papa, ma lo Spirito che si trasmette attraverso di lui.

«Il Pontefice è o no il vicario di Cristo?».

Certo, vicario. Ma Cristo non scompare perché Ratzinger perde il vigore.

«Tuttavia il fatto resta inaudito. E il paragone con Celestino V drammatico. È come se Pietro crocifisso a testa in giù dicesse ai suoi carnefici: “Basta, non ce la faccio più”».

In questo atto non intravedi umiltà e una fede libera e realista?

«Questo è un alfabeto umano. Se riportiamo questo gesto sul piano spirituale stentiamo a trovare conforto. Perché è impensabile che il pastore arretri davanti alla trionfante aggressione del materialismo. Uno come Padre Pio, per dire, non avrebbe mai rinunciato al suo combattimento contro Satana».

Tutti gli uomini di Chiesa interpretano la rinuncia di Benedetto XVI in una prospettiva di fede. I più catastrofisti sono gli osservatori laici.

«Tutti i teologi, a cominciare da Vito Mancuso, si sono precipitati a cloroformizzare il trauma. Nell'epoca nichilista in cui stiamo vivendo si esercitano nella gara a sistemare la sottana al Santo Padre».

Non ti sembra di vedere la Chiesa solo come baluardo contro la modernità?

«La Chiesa ha l'ansia di farsi accettare da chi rimuove la questione della metafisica. I preti più popolari, da don Gallo a monsignor Paglia, non fanno che ripetere l'alfabeto benpensante che tanto conforto offre a un mondo ostile al sacro. Ma senza la religione delle mamme i bambini non avrebbero mai imparato l'Ave Maria o l'Angelo di Dio. Altro che i preti di moda che sostituiscono la legalità alla sacralità e l'assistenza sociale alla liturgia. In tante aree ecclesiastiche vedo la rimozione del Golgota. Lo dico da saraceno. Nessuno riconosce la forza della croce. La Chiesa è assediata da chi vuole il preservativo, chi il matrimonio per gli omosessuali, chi l'abolizione della domenica, chi la psicanalisi in luogo della confessione. In un momento così la barca di Pietro dovrebbe avere al timone una mano ferma in ragione della forza data dallo Spirito Santo».

La cadenza dello Spirito sono i secoli, il tempo della storia e non della cronaca.

«È l'eterno che deve interessare alla Chiesa. Il fatto che quando il Papa pronunciava la sua rinuncia non ci fosse chi riusciva a capire che cosa stesse accadendo provoca turbamento. Non si tratta di folclore, ma dell'urgenza di ravvivare il fuoco del rito».

Secondo te Benedetto XVI difetta nella fede.

«Nessuno di noi può giudicare la fede di un altro».

Quindi non credi che Ratzinger abbia relativizzato la sua persona per valorizzare la Cattedra di Pietro e «per il bene della Chiesa»?

«Se stai avviando una battaglia è inaudito che il generale si faccia da parte. Ne I Promessi Sposi il vescovo rimprovera don Abbondio ricordandogli che quando diventò sacerdote non gli fu data alcuna garanzia sulla vita. È come se il Grande Inquisitore di dostoevskiana memoria avesse dettato questo gesto. E, avendo percepito che lo Spirito Santo si è allontanato da lui, il Papa avesse detto: “Avanti un altro”. Perciò vorrei fare mio il grido delle processioni della passione invocando misericordia».

Ci vuole tempo affinché il disegno della Provvidenza si renda intellegibile.

«Purtroppo la Chiesa più che la navigazione dell'eterno spesso pratica l'ossequio ai totem del nuovo ordine mondiale. Che è anticristiano per definizione».

Scenario cupissimo.

«Grazie a Dio lo Spirito soffia dove vuole e il centro rimane sempre Cristo».

E questa centralità abbraccia anche la scelta di Benedetto XVI.

«Mi auguro che tu abbia ragione. Ciò non toglie che questa cosa mi abbia lasciato sgomento. L'altro giorno, mentre tracciava il segno della croce mi chiedevo chi fosse lui, oggi».

L’eutanasia del papato è la fine di un mondo


Ho sentito nella voce del Papa l’affanno dei se­coli e nei suoi occhi, che evitavano di in­crociare lo sguardo del mondo, sembrava celarsi un segreto. Non è solo un evento sto­rico l’annuncio del Papa e non suscita solo emozione e sorpresa, come ripete il ci­calare dei media. Anzi di sorpresa ce n’è poca, di ri­nunce al papato, Ratzinger aveva già accennato. Ma c’è qualcosa di più grande e di più misterioso nella sua decisione e sfugge alla vista del tempo. Non con­fondiamo le occasioni che lo hanno portato a dimet­tersi con la causa ultima. Le occasioni o le cause prossime del suo gesto sa­ranno state la fragilità di un uomo costretto ad affronta­re aspre battaglie, micidia­li bassezze e ostilità, ad ac­collarsi sulle sue spalle mi­nute, enormi responsabili­tà pastorali ed epocali, e poi quei fogli volati coi cor­vi e finiti chissà in quali ma­ni; inchieste, complotti, ri­catti e maldicenze. Hanno caricato sulle delicate spal­le di Ratzinger perfino i due ultimi grandi tabù del nostro tempo, la bestia na­zista e la libertà omosessua­le, cercando di rimestare nel torbido, attaccandosi alla sua giovinezza tede­sca, a oscure dicerie o alle tristi vicende della pedofi­lia in abito talare. Saranno quelle le cause  prossime del suo abbandono; non ha retto, non ce l’ha fatta, non era un gladiatore di Cristo e nemmeno un milite tedesco ma un mite teologo dalle piume di cristallo. «Pietro era in­fatti inesperto delle cose umane, che aveva trascurato per l’assidua con­templazione di quelle divine» scrive nella stessa lingua latina un cronista d’eccezione, Petrarca, parlando di Celestino V che si dimise da Papa.

Ma per un grande custode della dot­trina, come è Joseph Ratzinger, per una mente acuta e implacabile come la sua, c’era un altro macigno che pe­sava sulle sue deboli spalle. È la perce­zione della catastrofe spirituale del nostro tempo, lo spettacolo di un’abissale sordità del mondo alla vi­ta, alla missione e alle aspettative del­la fede. Nel suo invecchiare, si riflette­va la tremenda vecchiezza della Spo­sa di Cristo, la Chiesa, il suo indebolir­si e piegarsi nell’arco di pochi anni. Chiese deserte, vocazioni calanti, sa­cerdoti che vacillano nella fede, il ci­nismo che cresce. E allora cresce il dubbio che Ratzinger si sia trascina­to in questi anni un terribile segreto che non vuole e non può esplicitare: lo spegnersi della fede cristiana e l’im­possibilità di fronteggiare il deserto che avanza. Da qui l’eutanasia del pa­pato. Le sue dimissioni rispecchiano la ritirata della Chiesa dal mondo, il suo sbiadire, arrendersi in Europa e arretrare nelle periferie popolose del­la cristianità. Dimettendosi, Ratzin­ger non è sceso dalla Croce, come di­ceva Wojtyla sostenendo che si porta la croce del Papato fino alla morte. Ma non è lui, è il mondo che ha rimos­so la Croce. Le parole di Ratzinger pro­nunciate in latino accentuano il fossa­to incolmabile che le separa dal pro­prio tempo, esprimono con asciutto lindore tutta la portata drammatica dell’annuncio. Il latino le scolpisce nel marmo del passato, le rende lapi­darie e irreversibili.

Se guardiamo al pontificato di Be­nedetto XVI e alla sua precedente atti­vità di prefetto e teologo, ci accorgia­mo di due opposte strade da lui segui­te, ambedue con straordinaria lucidi­tà. Da un verso, il rigoroso difensore della fede, dell’Auctoritas e della Tra­dizione contro la dittatura del relativi­smo; dall’altro il tormentato filosofo che si confronta con l’ateismo e ria­pre i conti con Nietzsche, con Heideg­ger, col pensiero contemporaneo. Lui che è stato il più strenuo difenso­re della Tradizione, lui che il filosofo cattolico Del Noce definiva «il più al­to esempio di cultura di destra»; pro­prio lui, si è affacciato nelle terre inc­o­gnite del tormento e dell’ateismo più di ogni altro papa. Arrivò a dire di re­cente che un inquieto cercatore pri­vo di fede è più vicino a Dio di un devo­to per abitudine, così sconfessando millenni di fede per forza d’inerzia e milioni di fedeli per routine. Più di re­cente è arrivato a dire che la verità non abita dentro di noi, nessuno la possiede; ma la verità possiede noi, noi siamo dentro la verità. E dunque nessuno detiene il monopolio della verità e può decidere nel nome della verità, ma noi nuotiamo dentro la ve­rità e a volte non ce ne accorgiamo. A ben vedere, è una rivoluzione rispet­to alla fede insegnata nei millenni, ma anche rispetto a chi parte all’infi­nita ricerca della verità, ritenendola irraggiungibile, e non si accorge di es­sere dentro il suo alone. È un parados­so che il Papa della Tradizione spezzi una tradizione secolare e inneschi una assoluta novità, il Papa dimissionario che vive nell’ombra in Vatica­no, da Papa emerito, come si dice per gli ex-presidenti.

Ratzinger ha saputo come pochi unire certezze e inquietudine, tradi­zione e ricerca, fede e ardimento in­tellettuale, scarsamente compreso dal mondo e dal tempo. Forse più amabile del suo grande predecesso­re ma meno amato.

Hanno detto che la sua decisione è maturata in serenità. «Egli fuggì con grande gioia - scrive Petrarca - portan­do negli occhi e sul volto i segni della letizia spirituale quando si allontanò dal concilio, come se avesse sottratto le sue spalle non a un peso modesto, bensì il collo a una terribile scure, sic­ché risplendeva sul suo viso un non so che di angelico».

Le sue dimissioni sono la testimo­nianza più alta e sofferta della società senza padre in cui viviamo. L’ultimo Padre si è dimesso e lascia il posto va­cante, che sarà presto colmato in una Pasqua di Resurrezione. Ma quel ge­st­o ci richiama alle tempeste spiritua­li che stiamo vivendo e di cui non sem­pre ci accorgiamo fino in fondo. Sarà un tempo di nani, eppure urgono gi­ganti.

Intanto ci mancheranno i suoi sguardi di spaventata dolcezza, di trattenuta mestizia, la sua scarsa di­mestichezza con le cose del mondo, il suo disagio di vivere nello splendo­re regale. Il suo sguardo si scusava col mondo e suggeriva agli astanti: sono solo un pensatore che regge le sorti di un Pontificato. A volte si abbandona­va più sereno ai sorrisi o si atteggiava a un’affabile severità che lo rendeva assai somigliante a Paolo Stoppa quando interpretava il Papa Re.

Ma alle ore venti del prossimo 28 febbraio, cercheremo nello sguardo di Joseph Ratzinger «quel non so che di angelico» di chi si libera del peso del mondo e raggiunge la solitudine dei celesti. 

(di Marcello Veneziani)

giovedì 14 febbraio 2013

Chi perde è comunque l'elettore


Che agonia. Non si puo' aprire la Tv senza vedere le solite facce di palta che pontificano. Non si puo' accendere la radio senza sentire le loro voci odiose. Non si puo' sfogliare un giornale senza essere sommersi da un profluvio di dichiarazioni, contradditorie, immotivate, irrealistiche, iperboliche. E sono tutti nati ieri. Sono tutti vergini. Non c'è nessuno, che pur essendo in politica da vent'anni e magari anche da trenta, abbia l'onestà intellettuale di assumersi, almeno pro quota, qualche responsabilità del disastro, economico e morale, in cui è caduto il nostro Paese. La rigetta sull'avversario o presunto tale. Dovrebbe bastare questo spettacolino indecente per convincere il cittadino che abbia un minimo di discernimento a dire: sapete qual'è la novità ? Io non voto, non vengo a legittimarvi, per l'ennesima volta, a comandarmi per altri cinque anni dovendovi anche pagare profumatamente.

La democrazia rappresentativa è una finzione il cui rito culminante sono le elezioni. Lo è tanto più oggi che, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno accettato quel libero mercato che, insieme al modello industriale, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistanza, i nostri stili e ritmi di vita e di cui le democrazia è solo l'involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che avvolge la polpetta avvelenata. Le antiche categorie di destra e sinistra non hanno più senso (ammesso che lo abbiano mai avuto perchè il marxismo non è che l'altra faccia della stessa medaglia: l'industrialismo). Non esistono più le classi, ma un enorme ceto medio indifferenziato che ha, più o meno, gli stessi interessi. Tuttavia questo ceto medio, per abitudine, per il martellante lavaggio del cervello da parte dei media legati alla classe politica (l'unica rimasta su piazza) si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter. E quando il cosiddetto 'popolo della sinistra' (o della destra) scende in piazza per celebrare qualche vittoria elettorale, ballando, cantando, saltando, agitandosi, è particolarmente patetico perchè i vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a questi spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere (la 'casta' per dirla con Gian Antonio Stella). Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che non è la fazione che l'ha perduta (che verrà ripagata nel sottogoverno in attesa, al prossimo giro, di restituire il favore) ma proprio quel popolo festante insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui l'altro è sceso in piazza. Vincano i giocatori dell'Inter o del Milan è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo.

(di Massimo Fini)

Destra e sinistra? La tecnopolitica vuole rottamarle


Da qualche mese la destra e la sinistra hanno ripreso a frequentare le stanze del dibattito intellettuale. Libri e articoli ne ripropongono la distinzione/contrapposizione in nome della sua funzionalità, pur se al momento di scendere dall'empireo delle idee alla concretezza della realtà, saggisti e giornalisti sono costretti ad ammettere che, politicamente parlando, sotto quei vestiti manca il corpo che li indossi. Fantasmi, insomma.

Fra lamenti sulla destra che non è mai apparsa, e la sinistra che è scomparsa, il dibattito suona un po' surreale, aggravato dal fatto che, sempre politicamente parlando, sia la destra sia la sinistra mirano al centro, luogo geometrico che per i politologi, si sa, non è mai esistito, «raggruppamento artificioso - scriveva mezzo secolo fa Maurice Duverger - della parte destrorsa della sinistra e della parte sinistrorsa della destra». Questo dirigersi verso un «non luogo» è emblematico: non sapendo più bene da dove si proviene né dove si vuole andare si finisce nella no man's land, la terra desolata di nessuno.

Un bel libro, La sinistra è di destra (Rizzoli, pagg. 236, euro 11) permette di spiegarci meglio. Il suo autore, Piero Sansonetti, è stato a lungo all'Unità, di cui arrivò a essere condirettore, ha poi diretto Liberazione, oggi si divide fra il quotidiano Calabria ora e il settimanale Gli Altri, una vita professionale insomma all'interno di una sinistra che nel frattempo è diventata destra e con la quale, è chiaro, lui non vuole avere niente a che spartire. Solo che Sansonetti non ne vuole sapere nemmeno di quella sinistra cui aderì ancora ragazzo, e che solo la caduta del Muro di Berlino distrusse come pensiero e come prassi. Il comunismo, ammette, era sbagliato, anzi, c'è proprio «un errore genetico del marxismo», economicismo + autoritarismo + liberalità come suoi elementi connaturati. Bene, si dirà, benvenuto fra i socialisti riformisti. Peccato che nel frattempo quest'ultimi siano scomparsi e il riformismo, inteso come «una tendenza politica che punta a ottenere delle leggi che cambiano i rapporti economici e di potere a favore dei ceti meno abbienti», si sia trasformato nel suo opposto, ovvero «una tendenza politica che pone al vertice dell'interesse generale l'interesse della produzione e dell'impresa e della competitività». È ciò che fece Tony Blair in Inghilterra, allineando la sinistra moderata al modello liberista e in pratica uccidendo la prima in cambio dell'esercizio del potere. Solo che vent'anni dopo quel modello liberista post-comunista è entrato in crisi, e infatti lo viviamo sulla nostra pelle, ma non si può dire «abbiamo scherzato, torniamo a dove eravamo prima». La storia non ripassa mai lo stesso piatto.

Qual è allora la sinistra di Sansonetti? La sua, viene voglia di dire: libertaria, non moralista né giustizialista, egualitaria, ma attenta al merito, non statalista, riformatrice nel profondo delle istituzioni nazionali, favorevole all'autonomia e alla supremazia del Politico, interclassista... È di sinistra, la sinistra di Sansonetti? Non mi sembra, ma non essendo di sinistra posso sbagliarmi.

È certo però che Sansonetti non è di destra, ma qui si apre un altro misunderstanding culturale. Per Sansonetti «è difficile considerare un successo della sinistra il fatto che il ritiro di Berlusconi sia stato seguito dalla salita al potere di Monti e di un governo che, dal punto di vista economico e sociale, sicuramente è più di destra di quello precedente. Già, forse è stato proprio Monti il capolavoro di Berlusconi», sulla falsariga del resto di ciò che è avvenuto in passato, quando nell'alternanza al governo con Romano Prodi era proprio il centro-sinistra ad attuare «la gestione delle parti più scorbutiche e più di destra del suo \ programma: le leggi che danno il via libera alla precarizzazione, le liberalizzazioni, la riduzione delle pensioni, le norme contro l'immigrazione». Berlusconi incarna dunque la destra, e pazienza se il diretto interessato lo nega. Se però lo negano anche i puristi della destra, le cose si complicano: non è un conservatore, non è un tradizionalista, non è un reazionario, come si fa a definirlo di destra? Il fatto che sia o si professi liberale, non aiuta: il liberalismo sta anche a sinistra. Il fatto che sia e si professi capitalista, nemmeno. Lo era anche Engels, lo è anche De Benedetti... Come accade per la sinistra di Sansonetti, c'è una destra ideale che non si riconosce nella destra reale e che contemporaneamente però deve fare autocritica sulla propria storia: ineguaglianza, gerarchia, autorità, legge, ordine, radicamento, tradizione, nazione, bastano a comporre un universo valoriale in grado di guidare la modernità? Non mi sembra, ma non essendo di destra posso sbagliarmi.

Nel libro di Sansonetti ci sono intuizioni interessanti, per esempio la nuova natura del leaderismo: «Una volta il leader era il mezzo per fare affermare il partito, ora il partito è un mezzo per affermare il leader», altra pietra tombale della coppia destra-sinistra. Resta però fuori dall'analisi un punto. Abbiamo applaudito al Novecento che sanciva la fine delle ideologie e, in virtù della globalizzazione, il dover ridefinire i confini e gli spazi nazionali, ma non abbiamo pensato che anche la democrazia parlamentare propria ai sistemi liberali proveniva da lì, era figlia di quel mondo e non gli sarebbe sopravvissuto se non trasformandosi. Voti e partiti, da soli, non sarebbero più bastati e, al di là della destra e della sinistra, è proprio questo che sta avvenendo: un'idea di democrazia depoliticizzata, elitaria e tecnocratica, in cui il cittadino consumatore cede la sovranità popolare a un mandarinato sempre più transnazionale, nella speranza che in cambio lo preservi da una crisi di modello di sviluppo cresciuta di pari passo con il venir meno dei sistemi politici tradizionali.

È una depoliticizzazione tanto reale quanto negata dai diretti interessati, ovvero i partiti, eccezion fatta per quello del professor Monti. Il riformismo montiano mira a bypassare la destra e la sinistra nel nome di un centrismo transnazionale e riformista, ma per farlo deve avere la non belligeranza di forze per le quali la contrapposizione destra -sinistra è rimasta ormai l'unica ragion d'essere. È la strada giusta? Non mi sembra, ma non essendo né democratico né tecnocratico posso sbagliarmi.

(di Stenio Solinas)

mercoledì 13 febbraio 2013

Considerazioni sull’atto di rinuncia di Benedetto XVI


L’11 febbraio, giorno della Festa della Madonna di Lourdes, il Santo Padre Benedetto XVI ha comunicato al Concistoro dei cardinali e a tutto il mondo la sua decisione di rinunziare al Pontificato. L’annuncio è stato accolto dai cardinali, «quasi del tutto increduli», «con senso di smarrimento», «come un fulmine a ciel sereno», secondo le parole subito dopo rivolte al Papa dal cardinale decano Angelo Sodano.

Se così grande è stato lo smarrimento dei cardinali, si può immaginare quanto forte sia in questi giorni il disorientamento dei fedeli, soprattutto di coloro che hanno sempre visto in Benedetto XVI un punto di riferimento e che ora si sentono in qualche modo “orfani”, se non addirittura abbandonati, di fronte alle gravissime difficoltà che affronta la Chiesa nell’ora presente.

Eppure l’ipotesi della rinuncia di un Papa al soglio pontificio non giunge del tutto inattesa. Il presidente della Conferenza Episcopale tedesca Karl Lehmann e il primate del Belgio Godfried Danneels, avevano avanzato l’ipotesi di «dimissioni» di Giovanni Paolo II, quando le sue condizioni di salute si erano aggravate. Il cardinale Ratzinger nel libro-intervista del 2010 Luce del mondo aveva detto al giornalista tedesco Peter Seewald, che se un Papa si rende conto che non è più in grado «fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo, di dimettersi». Nel 2010 poi, cinquanta teologi spagnoli avevano espresso la loro adesione alla Lettera aperta ai vescovi di tutto il mondo del teologo svizzero Hans Küng con queste parole: «Crediamo che il pontificato di Benedetto XVI si sia esaurito. Il Papa non ha l’età né la mentalità per rispondere adeguatamente ai gravi e urgenti problemi che la Chiesa cattolica si trova a dover affrontare. Pensiamo quindi, con il dovuto rispetto per la sua persona, che debba presentare le dimissioni dalla sua carica». E quando, tra il 2011 e il 2012, alcuni giornalisti. come Giuliano Ferrara ed Antonio Socci, avevano scritto sulle possibili dimissioni del Papa, questa ipotesi aveva suscitato tra i lettori più disapprovazione che consensi.

Sul diritto di un Papa a dimettersi, non ci sono dubbi in proposito. Il nuovo Codice di Diritto canonico disciplina l’eventualità della rinuncia del Papa nel canone 332, secondo paragrafo, con queste parole: «Se accada che il Romano Pontefice rinunzi al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinunzia sia fatta liberamente e sia manifestata ritualmente, non dunque che sia accettata da uno qualsiasi». Negli articoli 1 e 3 della costituzione apostolica del 1996 Universi Dominicis Gregis, sulla vacanza della Santa Sede, è prevista del resto la possibilità che la vacanza della Sede apostolica sia determinata non solo dalla morte del Papa, ma anche dalla sua valida rinuncia.

Nella storia non sono moltissimi gli episodi documentati di abdicazione. Il caso più noto resta quello di san Celestino V, il monaco Pietro da Morrone, eletto in Perugia il 5 luglio 1294 e incoronato a L’Aquila il 29 agosto successivo. Dopo un pontificato di solo cinque mesi, credette opportuno dimettersi, non ritenendosi all’altezza dell’ufficio assunto. Preparò quindi la sua abdicazione consultando dapprima i cardinali ed emanando poi una costituzione con la quale riconfermava la validità delle norme già stabilite da Gregorio X per la conduzione del prossimo Conclave. Il 13 dicembre a Napoli pronunciò la propria abdicazione al cospetto del collegio dei cardinali, depose le insegne e gli indumenti papali e riprese l’abito di eremita. Il 24 dicembre 1294 venne eletto Papa in sua veceBenedetto Caetani, con il nome di Bonifacio VIII. Un ulteriore caso di rinuncia papale – l’ultimo sino ad oggi – si ebbe durante lo svolgimento del Concilio di Costanza (1414-1418). Gregorio XII (1406-1415), Papa legittimo, al fine di ricomporre il Grande Scisma d’Occidente (1378-1417), inviò a Costanza il suo plenipotenziario Carlo Malatesta per rendere nota la sua volontà di ritirarsi dall’ufficio papale; le dimissioni furono ufficialmente accolte il 4 luglio 1415 dall’assemblea sinodale che contemporaneamente depose l’antipapa Benedetto XIII. Gregorio XII venne reintegrato nel Sacro Collegio col titolo di cardinale vescovo di Porto e con il primo rango dopo il Papa. Abbandonato il nome e l’abito pontificio e ripreso il nome di cardinale Angelo Correr, egli si ritirò nelle Marche come legato pontificio e morì a Recanati il 18 ottobre 1417.

Il caso di rinuncia dunque, in sé, non scandalizza: è contemplato dal diritto canonico e si è storicamente verificato nei secoli. Va notato però che il Papa può rinunciare, e talvolta ha storicamente rinunciato al Pontificato, in quanto esso è considerato un «ufficio giurisdizionale della Chiesa», non legato indelebilmente alla persona di chi lo occupa. La gerarchia apostolica esercita infatti due poteri misteriosamente uniti nelle stesse persone: la potestà di ordine e la potestà di giurisdizione (cfr. ad esempio san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-IIae, q. 39, a. 3, resp.; III, q. 6. a. 2). Entrambi i poteri sono diretti a realizzare i fini peculiari della Chiesa, ma ciascuno con caratteristiche proprie, che lo distinguono profondamente dall’altro: la potestas ordinis è il potere di distribuire i mezzi della grazia divina e si riferisce all’amministrazione dei sacramenti e all’esercizio del culto ufficiale; la potestas iurisdictionis è il potere di governare l’istituto ecclesiastico e i singoli fedeli.

La potestà di ordine si distingue dalla potestà di giurisdizione non solo per diversità di natura e di oggetto, ma anche per il modo con cui è conferita, in quanto essa ha come sua proprietà di essere data con la consacrazione, cioè per mezzo di un sacramento e con l’impressione di un carattere sacro. Il possesso della potestas ordinis è assolutamente indelebile in quanto i suoi gradi non sono uffici temporanei, ma imprimono carattere in chi ne è insignito. Secondo il Codice di Diritto Canonico, una volta che un battezzato diventa diacono, presbitero o vescovo, lo è per sempre e nessuna autorità umana può cancellare tale condizione ontologica. La potestà di giurisdizione invece non è indelebile ma è temporanea e revocabile; i suoi uffici, a cui sono preposte persone fisiche, terminano con la cessazione del mandato.

Un’altra importante caratteristica della potestà di ordine è la non territorialità, poiché i gradi della gerarchia di ordine sono assolutamente indipendenti da ogni circoscrizione territoriale, almeno per quanto riguarda la validità dell’esercizio. Gli uffici della potestà di giurisdizione, al contrario, sono sempre circoscritti nello spazio ed hanno nel territorio uno degli elementi costitutivi, eccettuato quello del Supremo Pontefice, il quale non è sottoposto ad alcuna limitazione spaziale.

Nella Chiesa la potestà di giurisdizione compete, iure divino al Papa e ai Vescovi. La pienezza di questo potere risiede tuttavia solo nel Papa che, quale fondamento, sorregge tutto l’edificio ecclesiastico. In lui si trova tutto il potere pastorale, e nella Chiesa non se ne può concepire altro indipendente.

La teologia progressista sostiene invece, in nome del Concilio Vaticano II, una riforma della Chiesa, in senso sacramentale e carismatico, che oppone la potestà d’ordine alla potestà di giurisdizione, la chiesa della carità a quella del diritto, la struttura episcopale a quella monarchica. Al Papa, ridotto a primus inter pares all’interno del collegio dei vescovi spetterebbe solo una funzione etico-profetica, un primato di «onore» o di «amore», ma non di governo e di giurisdizione. In questa prospettiva è stata evocata da Hans  Küng, e da altri, l’ipotesi di un pontificato “a termine”  e non più a vita, come forma di governo richiesta dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei suoi problemi. «Non possiamo avere un Pontefice di 80 anni che non è più pienamente presente dal punto di vista fisico e psichico», ha dichiarato all’ emittente “Südwestrundfunk” Küng, che vede nella limitazione del mandato del Papa un passo necessario per la riforma radicale della Chiesa. Il Papa sarebbe ridotto a presidente di un Consiglio di amministrazione, ad una figura meramente arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo permanente, con poteri deliberativi.

Se però si ritiene che l’essenza del Papato sia nel potere sacramentale di ordine e non in quello supremo di giurisdizione, il Pontefice non potrebbe mai dimettersi; se lo facesse, perderebbe con la rinuncia solo l’esercizio della suprema potestà, ma non la potestà stessa, che sarebbe indelebile come l’ordinazione sacramentale da cui scaturisce   Chi ammette l’ipotesi della rinuncia deve ammettere con ciò che il Papa deriva la sua summa potestas dalla giurisdizione che esercita e non dal sacramento che riceve. La teologia progressista è dunque in contraddizione con sé stessa quando pretende di fondare il Papato sulla sua natura sacramentale, e poi rivendica le dimissioni di un Papa, che possono invece essere ammesse solo se il suo incarico è fondato sul potere di giurisdizione. Per la stessa ragione non ci potranno essere, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, “due papi”, uno in carica e uno “emerito”, come è stato impropriamente detto. Benedetto XVI tornerà ad essere sua eminenza il cardinale Ratzinger e non potrà più esercitare prerogative, come l’infallibilità, che sono intimamente legate al potere di giurisdizione pontificio.

Il Papa dunque può dimettersi. Ma è opportuno che lo faccia? Un autore non certo “tradizionalista”, Enzo Bianchi, su “La Stampa” del 1 luglio 2002, scriveva: «Secondo la grande tradizione della chiesa d’Oriente e d’Occidente, nessun Papa, nessun patriarca, nessun vescovo dovrebbe dimettersi solo a causa del raggiungimento di un limite di età. È vero che da una trentina d’anni nella chiesa cattolica vi è una norma che invita i vescovi a offrire le proprie dimissioni al pontefice al compimento dei settantacinque anni, ed è vero che tutti i vescovi accolgono nell’obbedienza questo invito e le presentano, ed è vero anche che normalmente vengono esauditi e le dimissioni accolte. Ma questa resta una norma e una prassi recente, fissata da Paolo VI e confermata da Giovanni Paolo II: nulla esclude che in futuro possa essere rivista, dopo aver pesato vantaggi e problemi che essa ha prodotto in questi decenni di applicazione». La norma per cui i vescovi si dimettono a 75 anni dalle loro diocesi è una fase recente della storia della Chiesa, che sembra contraddire le parole di san Paolo, per cui il Pastore è nominato «ad convivendum et ad commoriendum» (2 Cor 7, 3), per vivere e per morire accanto al suo gregge. La vocazione di un Pastore, come quella di ogni battezzato, vincola infatti non fino ad una certa età, e ad una buona salute, ma fino alla morte.

Sotto questo aspetto la rinuncia dal pontificato di Benedetto XVI appare come un gesto legittimo dal punto di vista teologico e canonico, ma sul piano storico, in assoluta discontinuità con la tradizione e la prassi della Chiesa. Dal punto di vista di quelle che potrebbero essere le conseguenze si tratta di un gesto non semplicemente “innovativo”, ma radicalmente «rivoluzionario», come lo ha definito Eugenio Scalfari su “La Repubblica” del 12 febbraio. L’immagine dell’istituzione pontificia, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo, viene infatti spogliata della sua sacralità per essere consegnata ai criteri di giudizio della modernità. Non a caso, sul “Corriere della Sera” dello stesso giorno, Massimo Franco parla del «sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato».

Non si può fare un paragone né con Celestino V, che si dimise dopo essere stato strappato a forza dalla sua cella eremitica, né con Gregorio XII, che fu costretto a sua volta a rinunciare per risolvere la gravissima questione del Grande Scisma d’Occidente. Si trattava di casi di eccezione. Ma qual è l’eccezione nel gesto di Benedetto XVI? La ragione, ufficiale, scolpita nelle sue parole dell’11 febbraio esprime, più che l’eccezione, la normalità: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia del’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità».

Non ci troviamo di fronte ad una grave inabilità, come era il caso di Giovanni Paolo II nel suo ultimo scorcio di pontificato. Le facoltà intellettuali di Benedetto XVI sono pienamente integre, come ha dimostrato in una delle sue ultime e più significative meditazioni al Seminario Romano, e la sua salute è «complessivamente buona», come ha precisato il portavoce dalla Santa Sede, padre Federico Lombardi, secondo cui però il Papa ha avvertito negli ultimi tempi «lo squilibrio tra i compiti, tra i problemi da affrontare e le forze di cui si sente di non disporre».

Eppure, fin dal momento dell’elezione, ogni pontefice prova un comprensibile sentimento di inadeguatezza, avvertendo la sproporzione tra le capacità personali e il peso dell’incarico a cui è chiamato. Chi può dire di essere in grado di poter sostenere con le sue sole forze il munus di Vicario di Cristo? Lo Spirito Santo assiste però il Papa non solo al momento dell’elezione, ma fino alla morte, in ogni momento, anche il più difficile, del suo pontificato. Oggi lo Spirito Santo viene spesso invocato a sproposito, come quando si pretende che esso copra ogni atto e ogni parola di un Papa o di un Concilio. In questi giorni però è il grande assente dai commenti sui mass-media che valutano il gesto di Benedetto XVI seguendo un criterio puramente umano, come se la Chiesa fosse una multinazionale, guidata in termini di pura efficienza, a prescindere da ogni influsso soprannaturale.

Ma c’è da chiedersi: in duemila anni di storia, quanti sono i Papi che hanno regnato in buona salute e non hanno avvertito il declino delle forze e non hanno sofferto per malattie e prove morali di ogni genere? Il benessere fisico non è mai stato un criterio di governo della Chiesa. Lo sarà a partire da Benedetto XVI? Un cattolico non può non porsi queste domande e se non se le pone, esse saranno poste dai fatti, come nel prossimo conclave, quando la scelta del successore di Benedetto si orienterà fatalmente verso un cardinale giovane e nel pieno delle forze perché possa essere ritenuto adeguato alla grave missione che lo attende. A meno che il cuore del problema non sia in quelle«questioni di grande rilevanza per la vita della fede», a cui ha fatto riferimento il Pontefice, e che potrebbero alludere alla situazione di ingovernabilità in cui sembra trovarsi oggi la Chiesa.

Sarebbe poco prudente, sotto questo aspetto, considerare già “chiuso” il pontificato di Benedetto XVI, dedicandosi a prematuri bilanci, prima di attendere la fatidica scadenza da lui annunciata: la sera del 28 febbraio 2013, una data che rimarrà impressa nella storia della Chiesa. Prima, ma anche dopo quella data, Benedetto XVI potrebbe essere ancora protagonista di nuovi e imprevisti scenari. Il Papa infatti ha annunciato le sue dimissioni, ma non il suo silenzio, e la sua scelta gli restituisce una libertà di cui forse si sentiva privato. Che cosa dirà e farà Benedetto XVI, o il cardinale Ratzinger, nei prossimi giorni, settimane e mesi? E soprattutto, chi guiderà, e in che maniera, la navicella di Pietro nelle nuove tempeste che inevitabilmente l’attendono?

(di Roberto de Mattei)

Coraggioso sacrificio o grande sconfitta?


otenza delle coincidenze simboliche, ironia della storia. Il settimo vescovo di Roma dopo quello che fu il protagonista della Conciliazione tra la chiesa e lo stato italiano se ne va - caso, più che raro, propriamente unico nella lunga storia del pontificato - l’11 febbraio, esattamente nell’ottantaquattresimo anniversario di quell’evento: e al tempo stesso due giorni prima della solennità penitenziale delle ceneri. E il giorno dopo, 12 febbraio, martedì grasso, scoppia il gran carnevale romano delle dietrologie e del totopapa. Perché se n’è andato Benedetto XVI? E chi gli terrà dietro? Se i media sembrano impazziti, la follia dei blog trionfa in termini d’un caleidoscopio rabelaisiano.

Il papa se ne va dicendo che lo fa «per il bene della chiesa»: ma, secondo l’antica cosiddetta Profezia di san Malachia, discusso ma comunque inquietante testo forse del XII, forse del XVI secolo, che mette in fila 112 motti latini ciascuno attribuibile alle caratteristiche di altrettanti papi, tanti quanti a metà del XII secolo si diceva dovessero succedersi nella storia sino alla fine della chiesa (e del mondo?), a Benedetto XVI sarebbe spettato l’epiteto di De pace olivae. Non è forse l’olivo il simbolo della pace? E non sarà che papa Ratzinger, andandosene «per il bene della chiesa», se ne sia in realtà andato pro bono pacis, sentendo di non poter più reggere ai conflitti interni alla gerarchia e alla stessa comunità dei credenti: conflitti dei quali egli, a torto o a ragione, si è sentito almeno in parte responsabile, o per aver contribuito a farli maturare o per non riuscire a gestirli?

E adesso, quo vadis, romana ecclesia? Chi sarà il prossimo ad ascendere al soglio del principe degli apostoli? Ratzinger s’immergerà probabilmente nel silenzio, come alcuni anni or sono scelse di fare Carlo Maria Martini, che in molti avrebbero voluto veder papa al suo posto. Continuerà senza dubbio a studiare e a pregare, scriverà magari altri libri, ma forse tornerà ai suoi prediletti conforti, il pianoforte e i gatti. E su chi all’interno del Sacro Collegio gli succederà, dopo un conclave che possiamo aspettarci abbastanza a breve e al quale evidentemente il cardinal Ratzinger non parteciperà, impazza la ridda delle scommesse.

Ci si affida anche alle tradizioni, alle leggende. Come quella che i cognomi dei pontefici si alternino tra quelli con e quelli senza la lettera "r": il che escluderebbe automaticamente, ad esempio, Bertone, il quale è però favorito da due altre circostanze profetico-leggendarie: la prima ch’egli è il camerlengo pontificio (i camerlenghi sono molto favoriti, come futuri papi); la seconda che egli si chiama di primo nome Tarcisio ma di secondo Pietro e ch’è nato in un paese piemontese di nome Romano.

Ora, la Profezia di Malachia nomina come papa successore di De pace olivae un Petrus romanus, e aggiunge che sarà l’ultimo della storia della chiesa. In che senso? In quello che da allora in poi tale istituzione muterà il suo assetto direzionale e non saranno più eletti papi, o in quello che sarà la chiesa stessa a scomparire, o in quello che finirà il mondo?

Ma le profezie riguardano il futuro. Pensiamo al presente. Era parecchio tempo, per la verità, che tra gli addetti ai lavori, i vaticanisti, circolava la dicerìa dell’intenzione del papa di tirarsi da parte. L’abbiamo sottovalutata tutti, anche perché di vere e proprie dimissioni, nella lunga storia del papato, non se ne sono in fondo mai avute. Anche qui, la ridda delle ipotesi è vertiginosa.

Le ragioni gravi di salute - alcuni hanno parlato di problemi oculistici massicci, altri hanno addirittura evocato lo spettro di un diagnosticato Alzheimer - sono state escluse dall’abilissimo responsabile della sala stampa vaticana, padre Lombardi, che è maestro nell’eludere con affabile eleganza le domande compromettenti ma che è di solito molto affidabile: e che ha esplicitamente detto che nessun processo morboso in atto o in vista è stato causa delle decisioni del Santo Padre.

Ma allora, che ruolo hanno le ragioni fisiche nel terzetto di motivi che il papa stesso ha indicato nel suo breve scritto in tedesco che ha fatto seguito alla dichiarazione, pronunziata in latino alla fine del concistoro del mattino dell’11?

Egli ha alluso con sobrietà ma anche con precisione a ragioni fisiche, psichiche e spirituali: in quest’ordine, omettendo però di dirci se stava enumerandole dalle più gravi alle più leggere o viceversa.

Ora, è abbastanza normale che un ultraottantenne accusi qualche acciacco e che senta vivo il desiderio di ritirarsi e di godersi un po’ di riposo. Ma che questa sacrosanta necessità fisica si accompagni a uno stress "psichico" e addirittura "spirituale", quindi - più che a una somma di tensioni e di preoccupazioni - a un vero e proprio turbamento, fa pensare. Il concistoro, cioè la solenne riunione con i cardinali, alla fine del quale si è avuto l’annunzio del papa, lascia quasi ipotizzare che la sua decisione, magari a lungo meditata e maturata, sia arrivata in tempi così inattesi in seguito a un qualche evento all’interno dei lavori della mattinata.

Si discuteva sulla canonizzazione dei "martiri di Otranto", cioè delle vittime di una scorreria turca nel salentino del 1480. Che l’evento abbia provocato fra i cardinali una discussione sull’opportunità o meno di richiamare un episodio che mette di nuovo in luce la lotta tra cristiani e musulmani, con tutti i risvolti attualistici del problema, e che ciò sia stato causa di un nuovo e più duro emergere delle tensioni interne alla chiesa, delle lacerazioni che ormai attraversano la comunità dei fedeli non meno della gerarchia?

O che abbiano qualche ragione gli osservatori statunitensi che hanno interpretato il gesto di papa Ratzinger come un risultato delle difficoltà economiche e finanziarie che ultimamente hanno sfiorato la stessa cattedra di Pietro? Ma anche quei problemi hanno un risvolto ben più profondo, in termini addirittura di concezione del cristianesimo.

Che cosa intendeva dire Paolo VI quando alluse al «fumo di Satana» insinuatosi all’interno della Chiesa? Che rapporto può esserci, ormai, proprio nella compagine dei cattolici - e parlo da cattolico anch’io - tra i soliti ignoti o seminoti che hanno potuto favorire la resistibile ascesa di un Gotti Tedeschi da una parte e gli Enzo Bianchi o gli Andrea Gallo dall’altra? Tra i prelati che benedicono le lobbies multinazionali e i loro business e quelli che stanno dalla parte degli "ultimi", ora che secondo i calcoli più recenti il 90% della popolazione mondiale vivacchia gestendo appena il 10% delle risorse del mondo, e che quindi gli "ultimi" rasentano i 6 miliardi di persone mentre la ricchezza è concentrata nelle mani di poche centinaia tra famiglie e gruppi? Come si può fare tranquillamente il "mestiere di papa", mentre la sofferenza dei poveri arriva davvero a lambire il trono di Dio e grida sul serio vendetta al Suo cospetto?

Accanto al presente, è il passato ad aiutarci: a patto di leggerlo correttamente. Lasciamo perdere il caso di Celestino V, un mistico eremita ignaro delle cose del mondo eletto nel 1294 in quanto considerato docile strumento nelle mani di chi lo avrebbe diretto e ritiratosi dopo cinque mesi per manifeste debolezza e incapacità: sia o no lui - non è mai stato provato con certezza - che Dante indica senza nominarlo come «colui che fece per viltade il gran rifiuto», nulla lo può avvicinare al colto, avveduto, prudente e competentissimo Joseph Ratzinger, che conosceva alla perfezione i meccanismi curiali e che per anni ha retto la chiesa anche prima di esser papa, discretamente nascosto dietro la mole gigantesca di quel Giovanni Paolo II che regnava eccome, ma non governava per nulla.

E lasciamo da parte anche i divertenti casi del fosco e ferreo XI secolo, Benedetto IX che più che dar le dimissioni vendette letteralmente l’ufficio pontificale, per parecchie libbre d’oro, a Gregorio VI suo pupillo che lo acquistò, e che a causa di ciò fu poi deposto per simonia. Ma forse ci aiuta il paragone con il Quattrocento, e più in particolare con il quinquennio 1409-1414, quando lo scandalo dello scisma e della chiesa divisa tra obbedienza romana e obbedienza avignonese causò la deposizione, uno dopo l’altro, di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) e la convocazione del concilio di Costanza.

Forse è proprio questo, il problema del concilio e quindi della direzione monarchica o collegiale della chiesa, quel che nel Quattrocento fu messo a tacere dopo il 1449 e lo scioglimento del concilio di Basilea, ma che con forza tornò a venir discusso con il vaticano II.

Può darsi che, nelle tensioni vigenti oggi all’interno della chiesa, la questione conciliare sia tornata a riproporsi: e con essa i temi della direzione collegiale, del celibato del clero, del sacerdozio femminile, soprattutto della "chiesa dei poveri".

Dopo l’orgia di bestialità con le quali neocons e teocons, cristianisti libertarians e "atei devoti" ci hanno ammorbato negli ultimi lustri, può darsi che la discussione sul senso da dare al tema dell’Avvento del regno dei cieli all’inizio del III millennio si sia riproposta con forza, e il tempo delle scelte si stia avvicinando. Che un teologo e giurista ultraottantenne non se la sia sentita di esser lui ad affrontare e gestire l’insorgere di queste antiche eppur sempre nuove problematiche, sarebbe più che comprensibile.

(di Franco Cardini - fonte: www.ilmanifesto.it)