domenica 31 marzo 2013

Re per diritto divino


La domanda “chi è il Papa?” sorge spontanea ogni qual volta è eletto un nuovo Pontefice, soprattutto quando il suo nome o la sua storia personale sono ignoti al grande pubblico. Tale non fu il caso del cardinale Joseph Ratzinger, romano di adozione, dopo tanti anni passati come prefetto della congregazione per la Fede, ma tale fu il caso di Karol Wojtyla, venuto da Cracovia, e lo è oggi di Jorge Mario Bergoglio, giunto da una diocesi ancora più lontana, ai confini del mondo, come egli stesso ha detto il giorno della sua elezione.

E’ comprensibile che nei primi giorni e settimane successivi all’elezione si cerchi di scandagliare il passato prossimo o remoto del nuovo Pontefice, di conoscerne le idee, le tendenze, le abitudini, per dedurre dalle parole e dai gesti del passato il programma del nuovo pontificato. Il volume El jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio (Vergara, Buenos Aires 2010, a cura di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti), delinea già il volto di un papabile, e merita di essere conosciuto. Meno nota è la reazione indignata che a quel volume ha dedicato uno studioso argentino di orientamento tradizionale, Antonio Caponnetto (La Iglesia traicionada, Editorial Santiago Apostol, Buenos Aires 2010). Né si potrà capire chi è il nuovo Pontefice, senza conoscere il giudizio che di lui dà il padre Juan Carlos Scannone, un gesuita, discepolo di Karl Rahner, che lo ha avuto come allievo e che ascrive l’arcivescovo di Buenos Aires alla “scuola argentina” della teologia della liberazione (la Croix, 18 marzo 2013).

L’“opzione preferenziale dei poveri” del card. Bergoglio si radica in particolare nell’insegnamento di Lucio Gera e Rafael Tello, gli esponenti di una “teologia del popolo”, caratterizzata dalla sostituzione della prassi della povertà alla ideologia della rivoluzione armata. Carlos Pagni, analizzando, sulla Nación del 21 marzo il “Método Bergoglio para gobernar”, spiega la ragione teologica per cui la “periferia” occupa il posto centrale nel paesaggio ideologico dell’arcivescovo Bergoglio. I poveri per lui non sono una realtà sociologica da aiutare, ma un soggetto teologico da cui apprendere: “Questa attitudine pedagogica ha una radice religiosa: la relazione del popolo con Dio sarebbe più genuina perché manca di contaminazioni materiali”. Anche Maurizio Crippa sul Foglio del 23 marzo (La povertà è un segno teologico, non sociologia) sottolinea questo aspetto, ricordandone le remote ascendenze: “La posta in palio è sempre trasformare la chiesa nel popolo dei poveri in cammino, meglio se autoconvocato: dai Poveri di Lione, detti poi valdesi, a tutte le correnti ortodosse o ereticali che attraversano il Medioevo, gli Umiliati e Fra’ Dolcino, con deviazioni che arrivano fino a Tolstoj, e su su in un percorso di spoliazione e rigenerazione che ritorna identico dalle ‘Cinque piaghe della santa chiesa’ di Antonio Rosmini – la quinta è proprio ‘La servitù dei beni ecclesiastici’ – alle teologie della chiesa povera conciliari”.

Si tratta di temi che sarebbe utile approfondire. Ma in fondo non è questo il punto. La vita di un uomo, anche di un Papa, non si misura con i gesti del passato, cambia ogni giorno e ogni giorno può essere azzerata da svolte, maturazioni, direzioni di cammino nuove e impreviste.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.

Il primo colpo di questa flagellazione è stato la rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI, un evento canonicamente legittimo, ma dall’impatto storico devastante. “Un Papa che si dimette – ha osservato Massimo Franco – è già un avvenimento epocale, nella storia moderna. Ma un Pontefice che lo fa nel pieno delle proprie facoltà mentali, indicando come motivazione semplicemente la fragilità che deriva dall’età, spezza una tradizione plurisecolare” (“La crisi dell’impero vaticano”, Mondadori, Milano 2013, p. 9).

Un secondo colpo all’istituzione è stata la scelta, da parte di Benedetto XVI, di autodefinirsi “Papa emerito”, conservando il nome e la veste pontificia e continuando a vivere in Vaticano. Canonisti autorevoli, come Carlo Fantappiè, hanno rilevato la novità del gesto, sottolineando come “la rinuncia di Benedetto XVI ha posto gravi problemi sulla costituzione della chiesa, sulla natura del primato del Papa nonché sull’ambito ed estensione dei suoi poteri dopo la cessazione dell’ufficio” (Papato, sede vacante e “Papa emerito”. Equivoci da evitare, in chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350457).
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?

Uno studioso di Storia del cristianesimo, Roberto Rusconi, ha descritto da parte sua lo scenario dell’enciclica incompiuta di Joseph Ratzinger sulla fede, dopo quelle già promulgate sulla carità e la speranza. “L’enciclica non terminata, – osserva Rusconi – potrebbe essere in seguito pubblicata alla stregua di qualsiasi altro testo di Joseph Ratzinger, il quale durante il pontificato ha ripetutamente sostenuto che i propri ultimi volumi in nessun modo dovessero essere ritenuti espressione diretta del suo magistero pontificio” (Roberto Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 143-144). Se ciò dovesse accadere, il risultato sarebbe quello di minare alla base l’autorevolezza non solo dei precedenti documenti promulgati da Benedetto XVI, ma anche quelli emanati dal successivo Pontefice, perché si dissolverebbe la percezione di ciò che è atto magisteriale e ciò che non lo è, frantumando quel concetto di infallibilità, di cui tanto a sproposito spesso si parla.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.

Queste tesi sono state riproposte, sul piano teologico, in un recente libro che il decano degli ecclesiologi italiani Severino Dianich ha dedicato al ministero del Papa (Per una teologia del papato, Cinisello Balsamo, San Paolo 2010). Il centro del discorso è il passaggio da una visione giuridica della chiesa, basata sul criterio di giurisdizione, a una concezione sacramentale, basata sull’idea di comunione. Il nodo del problema risale alla discussione che si ebbe in concilio sulla interpretazione del n. 22 della Lumen Gentium e sulla Nota praevia che a questo documento seguì durante quella che i progressisti definirono la “settimana nera” del Vaticano II. I rapporti tra il Papa e i vescovi, dopo il Vaticano II, secondo Dianich, non possono più essere improntati alla delega e alla subordinazione. Il Papa non governa “dall’alto” la chiesa, ma la guida nell’ordine della comunione. Il suo potere di giurisdizione verrebbe infatti dal sacramento e, sotto l’aspetto sacramentale, il Papa non è superiore ai vescovi. Egli, prima di essere pastore della chiesa universale, è vescovo di Roma, e il primato che sulla chiesa universale esercita non è di governo ma di amore, proprio perché, ontologicamente, come vescovo, il Papa è sullo stesso piano degli altri vescovi. Per questo Dianich vorrebbe attribuire maggior potere al collegio episcopale attribuendo a esso la possibilità di legiferare autorevolmente. Il Papa dovrebbe esercitare il suo primato in maniera nuova, associando al suo potere organi deliberativi o consultivi, quali possono essere conferenze episcopali, sinodi, o comunque organismi permanenti, che lo coadiuvano nel governo della chiesa. Si tratterebbe di un primato di “onore” o di “amore”, ma non di governo e di giurisdizione della chiesa.

Queste tesi però sono, in primo luogo, storicamente false. La storia del papato non è infatti la storia di forme storiche diverse e tra loro confliggenti, ma l’evoluzione omogenea di un principio di suprema giurisdizione presente nelle parole di Gesù Cristo che a san Pietro e a lui solo disse: Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia chiesa (Mt. 16, 14-18). Quando san Clemente (92-98 o 100), terzo successore di Pietro come vescovo di Roma, agli inizi dell’impero di Nerva (circa il 97), intervenne per ristabilire l’unità nella chiesa di Corinto, sconvolta da una violenta discordia, si richiamò al principio di successione stabilito da Cristo e dagli apostoli, esigendo obbedienza e minacciando persino sanzioni qualora le sue disposizioni non venissero eseguite (Lettera Propter subitas ai Corinzi, in Denz-H, nn. 101-102). Il tono autorevole della lettera e la venerazione con cui essa fu accolta sono una prova chiara del Primato del vescovo di Roma alla fine del primo secolo.

Circa dieci anni dopo, sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il viaggio da Antiochia a Roma, dove fu martirizzato, scrisse una lettera ai romani in cui riconosce alla chiesa di Roma una posizione di preminenza sull’intera chiesa universale, affermando: “Voi avete istruito gli altri ed io desidero che restino ferme quelle cose che voi prescriveste col vostro insegnamento” (Epistula ad Romanos, 3, 1). La sua affermazione, tanto spesso citata a sproposito, secondo cui la chiesa di Roma “presiede all’agape”, va intesa nel suo retto senso. L’“agape”, non è generica “carità”, ma è, per Ignazio, la chiesa universale (che egli per primo chiama cattolica), unita dal vincolo dell’amore.
 Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.

Il munus specifico del Sommo Pontefice non consiste nel suo potere di ordine, che egli ha in comune con tutti gli altri vescovi del mondo, ma nel suo potere di giurisdizione, che lo distingue da ogni altro vescovo, perché solo nel suo caso questo potere è pieno ed assoluto ed è fonte del potere degli altri vescovi. Il potere di Magistero fa parte del primato di giurisdizione e l’infallibilità costituisce l’espressione più alta e perfetta del Primato pontificio, una sovranità ancor più necessaria di quella delle società temporali.

Il potere di giurisdizione è eminentemente potere di governo. Il Papa è tale perché governa la chiesa esercitando una giurisdizione dottrinale e disciplinare che non può delegare: non esiste infatti una differenza tra il potere di governo e il suo esercizio, quasi immaginando la possibilità di un governo la cui caratteristica sia quella di non governare. L’essenza del papato ha in questo senso caratteristiche immutabili: è un governo assoluto, che non può essere delegato ad altri, né in tutto né in parte. Il papato è una monarchia assoluta in cui il Sommo Pontefice regna e governa e non può essere trasformato in una monarchia costituzionale, in cui il sovrano regna ma non governa. Un cambiamento di tale governo non toccherebbe la forma storica, ma l’essenza divina del papato.
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri

L’autorità e la forza degli Stati nazionali e delle democrazie rappresentative si sbriciola e il vuoto è occupato da lobby ideologiche e finanziarie, visibili e occulte. La chiesa cattolica dovrà modellarsi su questo processo di polverizzazione, autodemolendosi? Di fronte al relativismo, la chiesa dovrà accantonare l’infallibilità, come chiede il pastore valdese Paolo Ricca (il Foglio, 19 marzo 2013), per presentarsi al mondo debole e rinunciataria o non piuttosto servirsi di questo carisma, che essa sola possiede, per contrapporre la sua sovranità religiosa e morale alle macerie della modernità? L’alternativa è drammatica, ma ineludibile.

Quel che è certo è che la domanda “chi è oggi il Papa?”, prima che ai mass media va rivolta alla teologia, alla storia e al diritto canonico della chiesa. Essi ci rispondono che, dietro le persone di Benedetto XVI e di Francesco, esiste un trono pontificio istituito da Cristo stesso. Papa san Leone Magno, che può essere considerato il teologo più completo del papato nel primo millennio, spiegò con chiarezza il significato della successione petrina, riassumendola nella formula: “Indegno erede di san Pietro”. Il Papa diveniva l’erede di san Pietro per quanto riguardava il suo status giuridico e i suoi poteri oggettivi ma non per quanto riguardava il suo status personale e i suoi meriti soggettivi. La distinzione tra l’ufficio e il detentore dell’ufficio, tra la persona pubblica del Papa e la sua persona privata è fondamentale nella storia del papato.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.

(di Roberto de Mattei)

giovedì 28 marzo 2013

Buttafuoco: "Battiato? Intossicato da politica ma la sinistra è ipocrita"


Buttafuoco lei è conterraneo, amico ed estimatore di Battiato. Che cosa è saltato in testa al Maestro?

“Io gli avevo persino fatto un appello affettuoso: bisogna tenersi alla larga dalla vicende siciliane. Specificatamente dalle vicende della politica in Sicilia. Non è affare adatto a un artista. L'unica cosa che si può fare in Sicilia è la villeggiatura. È impossibile pensare di realizzare alcunché, specialmente nell'ambito della produzione culturale e dell'arte. Poi lui è uno che conduce una vita di solitudine, di meditazione. È un artista”.

Con la frase sulle troie in Parlamento ha scatenato un putiferio. Per una volta è riuscito a mettere tutti d'accordo: le critiche sono state trasversali.

“La cosa che mi fa riflettere è proprio la reazione. Bisogna analizzare il riflesso pavloviano. Lui non ha fatto altro che dire quello che una legislatura prima disse Paolo Guzzanti con il libro “Mignottocrazia”, ma non ci furono le reazioni che ci sono state adesso. Io ricordo applausi a scena aperta da sinistra”.

Quindi se avesse insultato solo le donne di destra...

“Sono sicuro che se alla sua frase avesse aggiunto “di destra” non ci sarebbe stata una levata di scudi. Sicuramente non avrebbe parlato il Presidente Boldrini, sicuramente Crocetta non lo avrebbe espulso e l'opinione pubblica così avvertita, così sensibile, non avrebbe mosso ciglio. Ed è per questo che la reazione mi sorprende”.

Reazione che non c'è stata quando ha detto che chi è di destra non appartiene al genere umano...

“Appunto. La sua dichiarazione più grave non è stata manco presa in considerazione. Grave soprattutto perché detta da lui che sicuramente ha frequentazioni non di sinistra. Io mi aspettavo che si muovesse qualcosa in quel mondo vasto del moderatume italiano”.

Ma nessuno ha fiatato

“Nessuna reazione. Neppure il Corriere della Sera, che è il giornale dei moderati italiani”

Per quale motivo?

“Perché il moderato italiano non fa altro che strizzare l'occhio alla sinistra e sotto sotto si augura sempre che il proprio figlio abbia una sana e solida carriera di sinistra. Si augura sempre che sia protetto e coccolato dalle ben più corazzate armate del potere che stanno sempre a sinistra”.


Rimane una questione: ma perché il taciturno Battiato ha alzato così i toni?

“Secondo me Franco si è intossicato con la politica, per questo bisogna starne lontani. È inevitabile che la politica ti avveleni. A maggior ragione in quel posto che è la Sicilia, che è la fogna del potere”

Voi siete amici. Ci prova lei a spiegare a Battiato che la destra fa parte del genere umano?

“Ma lo sa bene pure lui. E' uno che conosce perfettamente autori e tradizioni della destra. Certo, una cosa è la Tradizione e una cosa è il berlusconismo. Suvvia, René Guénon non c'entra nulla con il bungabunga. Però un certo dionisismo deve abituare a sollevarsi da certe questioni. Ripeto: lui è rimasto intossicato”.

Papa Bergoglio e la retorica dell'umiltà


Ahi.Ahi.Ahi. La settimana, che era cominciata sotto buoni auspici, per l'elezione del nuovo Papa, è subito precipitata. Il Pontefice non aveva quasi fatto in tempo a essere elevato al soglio di Pietro che è cominciata la sarabanda dell' 'umiltà'. «I primi gesti umili del Papa» titolava il giorno dopo a tutta pagina il Corriere della Sera, seguito sullo stesso tono da tutti i quotidiani, dalle Tv, dai talk show, da Twitter, dai social network. «Papa Francesco va a pagare, di persona, il conto dell'albergo dove aveva risieduto da cardinale durante il Conclave», «ha respinto, con un gesto, la berlina papale ed è salito su un pulmino insieme agli altri cardinali», «al momento della vestizione, dopo l'elezione, quando il cerimoniere Guido Martini gli porgeva la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino l'ha respinta, come ha respinto la croce d'oro dei Papi, affermando che continuerà a portare la sua, di ferro», «nella cappella Sistina dove dovrebbe pronunciare, come da tradizione, un'allocuzione scritta, in latino, parla invece a braccio in italiano», «poi resta in piedi anzichè sedersi sulla 'sedia del Papa'», «a cena con i cardinali va a cercarsi una sedia qualsiasi».

Scriveva Alberto Savinio in un prezioso e prevvegente libretto del 1943, 'Sorte dell'Europa': «Non c'è soltanto la retorica della 'grandezza', che è quella di cui si servi' preferibilmente il fascismo, c'è la retorica della 'piccolezza', la retorica della 'bontà', la retorica della 'modestia', che non sono meno pericolose di quella». L'umiltà, come la carità, non si ostenta. E io ho il sospetto che chi troppo grandemente si umilia manchi proprio di umiltà. Del resto, a ripensarci bene, anche la scelta del nome, Francesco, è un atto di superbia mascherato da segnale di umiltà. Perchè nella cosmogonia della Chiesa il fraticello di Assisi sta dietro solo a Cristo e per questo nessuno, prima di Jorge Mario Bergoglio, aveva osato assumerne il nome.

Puo' anche darsi che gli atteggiamenti di Papa Bergoglio siano spontanei o che, più probabilmente, vogliano essere un segnale per il mondo dei credenti, ma se si potesse dare un consiglio a un Pontefice, gli direi di guardarsi dalla retorica dei media che rischia di renderli grotteschi. Ai tempi di Pertini vigeva, alimentata dal narcisismo del personaggio, la retorica della «modestia, del Presidente che si comporta come tutti gli altri». E i giornali, nella loro ansia di servilismo e di lascivia laudatoria, invece di porre un freno a questa patologia senile la incoraggiavano. Un cronista del Corriere d'Informazione, mandato all'aereoporto Forlanini per seguire l'arrivo di Pertini, scrisse: «L'aereo del Presidente atterra proprio come tutti gli altri». Spero che con la retorica dell' 'umiltà' non si arrivi, con Papa Francesco, a questi climax di cretineria piaggiatoria. Lo spero per il Papa e per tutti noi, credenti e non.

(di Massimo Fini)

giovedì 21 marzo 2013

Nel cuore avventuroso di Ernst Jünger, il visionario razionale



E poi c'è una scrittura che non si è mai privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale corposità aneddotica.

Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora \. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge del tutto al di fuori della scuola \».

All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono la conseguenza».

Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare all'origine materna della vita».

Utilizza infatti lo strumento letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.

Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.

Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi, né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma questi scambi restano tra i punti più alti della produzione intellettuale del Novecento.
Intanto si è messo a studiare i coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il secondogenito Alexander che si era tolto la vita.

E poi c'è una scrittura che non si è mai privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale corposità aneddotica.

Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora \. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge del tutto al di fuori della scuola \».

All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono la conseguenza».

Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare all'origine materna della vita».

Utilizza infatti lo strumento letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.

Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.

Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi, né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma questi scambi restano tra i punti più alti della produzione intellettuale del Novecento.

Intanto si è messo a studiare i coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il secondogenito Alexander che si era tolto la vita.

(di Luigi Iannone)

martedì 19 marzo 2013

Il massacro dei Lumi


La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica. Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo dif­ficile da maneggiare. La parola «Vandea» fino a pochi anni fa era sinonimo di cat­tolico reazionario. Sono i «chouans», gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivolu­zione, servi dei nobili, sanguinari.

Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizio­ne, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di ri­conoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluziona­rie di Robespierre nei confronti degli abi­tanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio», in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religio­se contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne infami» repubblicane compi­rono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.

«Se approvasse la proposta sul genoci­dio, la Repubblica accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzio­ne francese, Jean-Clément Martin: «I cri­mini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani non furono ster­minati in quanto tali, ma sono stati vitti­me di una guerra civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non pote­va ammettere che il popolo si ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea dove­va scomparire».


La tesi del genocidio è stata portata avanti da Reynald Secher, uno dei mag­giori storici delle guerre vandeane, secon­do il quale «quelle rappresaglie non cor­rispondono agli atti orribili, ma inevitabi­li, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guer­ra, ma proprio a massacri premeditati, or­ganizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la vo­lontà cosciente e proclamata di distrugge­re una regione ben definita e di stermina­re tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE Edizioni, 1989).

La Vandea oggi è mito e tabù, tanto che il massacro alla chiesa di Petit Luc a Ro­che sur Yon viene accostato a quello na­zista di Oradour nel 1944. Il leader della gauche militante Jean-Luc Mélenchon ha protestato vivacemente per un program­ma televisivo andato in onda su France 3, dove Robespierre viene chiamato «il boia della Vandea» (le bourreau de la Vendée). Anche il settimanale Nouvel Obs attacca il documentario di Frank Ferrand, in cui le armate giacobine vengono accostate al­le Einsatzgruppen naziste. I preti che insorgono in Vandea erano chiamati «corvi neri». Scortate da gendarmi mal vestiti, con la coccarda tricolore sui cappellacci, le carrette della Rivoluzione erano cari­che di questi preti refrattari detti «insermentés», quelli che non hanno giurato, che hanno mantenuto fedeltà all’autorità del Pontefice, cancellata per decreto. Georges Jacques Danton avrebbe voluto fare un mazzetto di tutti i preti refrattari su cui si riusciva a mettere le mani, im­barcarli a Marsiglia e scaricarli da qual­che parte sulle coste dello stato della chiesa, come una trentina di anni prima Sebastiào José de Carvalho y Melo, mar­chese di Pombal, illuminato primo mini­stro dell’illuminato re Giuseppe I, aveva tentato di fare con i gesuiti espulsi dal Portogallo.

Tutti i libri in latino, fossero pure i «Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, fini­rono nel fuoco. I preti nella trappola di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo carne putrida, merluzzo anda­to a male, malsane fave di palude. L’acqua era infetta. A chi ne chiedeva di più, i fi­dati seguaci della Dea Ragione risponde­vano di servirsi pure, mostrando a dito l’o­ceano. Vi furono presto casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di sacerdoti. I guardiani ab­bandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in mare o seppelliti nella pa­lude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre ancora respirava.

In Vandea la guerra non ebbe un cen­tro, ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto, uomo o donna che fosse, là per la Repub­blica si trovava un «soldato nemico». Nes­suna delle regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la «prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea le ar­mi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei miracoli, fu la rivolta di tut­to un popolo, in cui le congiure erano na­scoste dietro l’altare di ogni borgo conta­dino. I sacerdoti officiarono nelle bru­ghiere e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia so­no state le classi superiori ad avere spin­to il popolo, nella Vandea cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.

A dispetto di certa storiografia, i contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di questa fedeltà van­deana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.

Il generale vandeano era un venditore ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi a ca­po di questa guerra santa. Guida una fol­la armata di falci, bastoni e pochi fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la vittoria dei lo­ro mariti e figli. Da ogni angolo della re­gione si leva un augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani conquistano le città e poi le ab­bandonano. La facoltà di dissolversi e ri­comporsi è la loro forza e la loro debolez­za. Guidati dal santo di Anjou attraversa­no a decine di migliaia la Loira per libe­rare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans» realisti della Bre­tagna.

Papa Karol Wojtyla ha beatificato, du­rante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese. Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandea­ni caduti nell’impari lotta contro le arma­te illuministe, Giovanni Paolo II sottoli­neò la loro testimonianza di fede, ma tra­scurò, se non addirittura condannò, il sen­so politico della controrivoluzione. For­zando un po’ la storia, il Papa affermò che anche i vandeani «desideravano sincera­mente il necessario rinnovamento della società», circoscrisse alla difesa della li­bertà religiosa la loro ribellione, non tac­que i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati nell’asprezza della lotta (san­guinose furono le rappresaglie vandeane contro i rivoluzionari).

Anche nella chiesa cattolica ci sono opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa andrebbe guarda­ta con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e, tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso l’arcivescovo di Bolo­gna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante esaltazione di una na­zione o di una razza, o di un egoismo ma­scherato da civile comprensione».

La Vandea come preludio di Auschwitz, del Ruanda, del Gulag. Lo storico della Rivoluzione francese Jules Michelet par­la così dei vandeani: «Ci imbattiamo in un popolo sì stranamente cieco e sì bizzarra­mente sviato che si arma contro la Rivolu­zione, sua madre. Scoppia nell’ovest la guerra empia dei preti». Anche un figlio dei Lumi come Andrè Glucksmann ha de­finito la Vandea «la prima Glasnost dopo giorni del Terrore».

È la rivelazione del male compiuto da Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli storici non amano i parago­ni con l’Olocausto. Ma della Vandea par­lano come di un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guer­ra di Vandea come una guerra della bor­ghesia centralizzatrice delle città contro il popolo contadino.

Varrà la pena di ricordare che i van­deani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così si leg­ge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede». I van­deani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.

Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire. Si assegna un nuovo no­me alla Vandea chiamandola «diparti­mento Vendicato», per esprimere appun­to questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da «cat­tivi francesi».

Quello della Vandea è il primo genoci­dio della storia ideologica del mondo con­temporaneo. Le Colonne infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono la regione con fero­ce acribia cartesiana. Fucilazioni, anne­gamenti, falò di parrocchie zeppe di civi­li, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee malthusiane in una Francia attana­gliata dalla fame per colpa della stessa ri­voluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e realizzarono l’annientamento di un gruppo umano reli­giosamente identificabile. Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si decise la distruzio­ne del territorio, degli abitati, delle fore­ste e dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti, prima le donne («solchi riproduttori») poi i bam­bini. Leggi in vigore fino alla caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.

Si usò in Vandea il termine «race»: un vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopé die), produsse lì subito l’idea di una «ra­ce maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».

Quanti furono i morti? Un vandeano su tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu? «Qual­siasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne un memoriale dedica­to ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola località dalle truppe re­pubblicane del generale Cordelier. In po­che ore, fra il 28 febbraio e il primo mar­zo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni.

«Il XX secolo ha notevolmente ottenebra­to l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».

Nonostante le esecuzioni sommarie di Angers, nonostante le «noyades», gli an­negamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremi­la tra preti «refrattari», la resistenza del­la Vandea non venne domata. Per vince­re i vandeani, caduto il Comitato di salu­te pubblica, la Rivoluzione pensò di ricor­rere a «la douceur», alla dolcezza. Si con­sigliò ai soldati dalla casacca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso cimitero.

Al termine della guerra, il generale francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubbli­ca: «Non c’è più nessuna Vandea. Secon­do gli ordini che mi avete dato, ho massa­crato i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pro­nunciate negli anni del Terrore dal cele­bre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane randagio che nessuno osa fer­mare».

(di Giulio Meotti - fonte: www.ilfoglio.it)

lunedì 4 marzo 2013

Malgieri: ricominceremo un cammino momentaneamente interrotto


In questa tornata elettorale, non figuri nelle liste del «Pdl». Ritieni anche tu, come tanti altri esponenti di ex «An», di essere stato macellato in via dell’Umiltà dove, tra gli altri, erano di casa i tuoi vecchi amici di cordata, Altero Matteoli e Maurizio Gasparri?

«Mi sono salvato dalla rottamazione soltanto perché cinque anni fa, all’apertura della campagna elettorale, annunciai che questa sarebbe stata la mia ultima legislatura. Un po’ per stanchezza, ma ancor di più perché prevedevo la deriva del PdL, partito improvvisato e sostanzialmente monarchico, nel quale la destra avrebbe avuto sempre minore spazio e peso. Non era e non è stato il mio partito anche se, lealmente credo, mi sono comportato nei confronti del gruppo parlamentare al quale ho aderito con correttezza, tanto da segnalare esplicitamente i miei tanti voti in dissenso. In questi ultimi anni ho fatto presente più volte la necessità di prendere atto del fallimento del partito unico berlusconiano, nato in maniera rocambolesca a dir poco, e tornare all’idea di una federazione di soggetti autonomi ma legati da uno stesso progetto. Non sono stato ascoltato.

E così la destra si è dissolta. Matteoli e Gasparri, penso che abbiano creduto in buona fede alla possibilità di trasformazione del PdL, non rendendosi conto, e me ne rammarico, che avendo Berlusconi una visione proprietaria della politica non avrebbe lasciato spazio al dissenso, alla discussione, al confronto ed alla progettualità politica. Ho creduto profondamente, prima di tanti altri, scrivendone e discutendone, nel partito unico come punto d’approdo di un bipolarismo maturo. Ma la strada per arrivarci doveva essere diversa. Era innanzitutto necessario verificare le affinità culturali tra soggetti che concorrevano a formarlo, elaborare una nuova identità senza buttare a mare quelle idee nelle quali ci si era riconosciuto. Insomma, un’operazione di aggregazione e non di annessione come è stato. Perciò il PdL è fallito e la destra con esso ed in esso è sparita, si è annullata».

Se hai avuto sentore della tua esclusione, come mai non hai aderito a «Fratelli d’Italia» o a «La Destra», dove specialmente nella prima hanno trovato ospitalità tanti ex «camerati»? Sia Ignazio La Russa, sia Francesco Storace, hanno affermato che la loro è la nuova casa della destra, dopo la liquefazione di Alleanza Nazionale. Condividi questa loro opinione?

«Precisato che non sono stato escluso e che per cinque anni ho esercitato, soprattutto scrivendone sui giornali, il mio diritto di critica nei confronti del declinante berlusconismo, che Fini non ha saputo cogliere nella sua complessità e capitalizzarne la crisi per rinnovare la destra piuttosto che allontanarsi da essa, nessun altro micro-movimento mi ha mai interpellato. E se fosse accaduto avrei declinato cortesemente l’invito, non soltanto dal punto di vista dell’impegno elettorale che non mi interessa più avendo già trascorso troppi anni in Parlamento, ma soprattutto perché non vedo prospettive nelle formazioni improvvisate come “Fratelli d’Italia” la cui incongruenza, lasciamelo dire, è abnorme.

Ma come, prendono le distanze da Berlusconi, ne criticano gli atteggiamenti politici, gli imputano il sabotaggio delle primarie e del rinnovamento, gli si scagliano contro sulla questione del voto utile e poi si riconoscono nella coalizione da lui capeggiata? E per di più si devono sorbire gli appelli del Cavaliere in favore del voto utile che per lui sarebbe al PdL o al Pd. Valli a capire. “La Destra” segue dinamiche che non ho ben compreso, pur stimando la battaglia in favore della sovranità.

Va dato atto a Storace di essere stato coerente nel corso della sua traversata del deserto. Quanto alle dinamiche cui mi riferisco, resta da capire il grado di intensità di “destrismo” che anima le diverse componenti. Se si riuscirà un giorno ad uscire dalla logica delle sommatorie e ad organizzare una vera discussione politica sulla costruzione di un movimento unitario, abbandonando idiosincrasie e diffidenze sedimentatesi purtroppo per responsabilità del correntismo che ha fatto cortocircuitare la destra italiana, credo che si potrà dare vita ad un soggetto che definire di destra è limitativo. Lo definirei piuttosto “conservatore sociale”, fondato sui princìpi della centralità della persona, della ricostruzione della comunità nazionale, dello Stato. Gli elementi dovrebbero essere quelli della sussidiarietà concretizzata in una Big Society, dell’autorità, della libertà, della difesa delle culture e delle identità, della costruzione di un’Europa dei popoli, delle nazioni, degli Stati. La differenza come discrimine, l’antiegualitarismo come presupposto per il riconoscimento della meritocrazia e strumento per agire contro il conformismo, l’omologazione culturale, il pensiero unico, il comunitarismo quale obiettivo morale a sostegno della coesione nazionale. E su tutto, la riconquista ragione della sovranità, presupposto per l’indipendenza, l’autonomia, l’auto determinazione dei popoli».

A tuo parere perché Silvio Berlusconi ha operato, nei confronti degli ex «An», una «pulizia etnica», così come è stata definita dalla stragrande maggioranza dei commentatori politici? Numerosi parlamentari uscenti ex «An», infatti, hanno occupato infelici posizioni nelle liste. Giorgia Meloni, ex ministro del governo Berlusconi, ha detto di non provare alcun pentimento per la sua uscita dal «Pdl» e per avere costituito «Fratelli d’Italia». Infatti, nonostante l’esclusione di alcuni cosiddetti impresentabili a Camera e Senato hanno ugualmente trovato posto altri impresentabili.

«Non mi soffermerei sui nomi. Sono garantista fino alla prova del contrario. E non mi interessa appellare in alcuna maniera persone discusse e discutibili. Berlusconi ed i suoi oligarchi hanno scientificamente asfaltato la destra perché non più funzionale ai loro progetti. Numerosi parlamentari onesti, preparati, leali, brillanti non hanno trovato posto in lista per fare spazio ad altri fedelissimi del Cavaliere. Nessuno li ha difesi. Non ho ben capito che cosa hanno ottenuto alcuni degli ex colonnelli di An rimasti nel Pdl: mi sembra molto poco. L’operazione “Fratelli d’Italia” è frutto di un accordo parziale, peraltro a tempo abbondantemente scaduto, a tutela presunta di un gruppo di amici legati da vincoli correntizi, più l’inserimento di Crosetto e Cossiga. Stimabilissime persone, ma che non credo siano portatori di istanze compatibili con quelle della Meloni, per esempio. Tutto comunque ci può stare purché abbia un progetto. Auguro pertanto ai promotori di tenere vive le idee della destra anche se mi risulta difficile comprendere le differenze da Storace e da quanti sono rimasti nel Pdl. Mi chiedo poi per quale motivo La Russa non abbia spaziato tra le diverse componenti di An per ottenere un maggior seguito sia elettorale che politico? L’operazione mi appare francamente confusa. Poteva essere una buona occasione se si fosse concretizzata per tempo e fuori dall’area di influenza berlusconiana che oggettivamente la penalizza. Un polo di destra, per esempio, pure limitato al tempo elettorale, non sarebbe stato inutile. Avrebbe attratto molti delusi e forse una buona percentuale l’avrebbe ottenuta. Temo che la lista Meloni-La Russa si dissolverà dopo le elezioni, sempre che non si muova nella direzione di una ricomposizione...».

Onestamente, il declino della classe dirigente di destra (ex «Msi», ex «An») non può essere imputato a Silvio Berlusconi, a Denis Verdini o a Angelino Alfano. Troppo comodo. Il declino è iniziato nel febbraio 2008, quando è stata decisa improvvidamente la fusione di Alleanza Nazionale con Forza Italia. In quel momento la chiave della casa dei «postfascisti» è stata consegnata nelle mani di Berlusconi. Questa decisione, bada bene, non è stata presa solo da Gianfranco Fini (che si è sempre ritenuto, a torto, di essere più furbo ed intelligente del Cavaliere), ma da tutta la classe dirigente «postfascista», orfana purtroppo di Giuseppe Tatarella, scomparso prematuramente. Anche in questo caso, i vari La Russa (uno dei più entusiasti dell’unione), Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, Adolfo Urso, Gianni Alemanno, ritenevano di essere più abili dei dirigenti del «partito di plastica» e, con l’andare del tempo, di dominare all’interno del nuovo soggetto politico.

« Come ho detto c’è stata una sottovalutazione del peso di Berlusconi e una sopravvalutazione da parte dei colonnelli i quali ritenevano, non senza ragione di conquistare il partito dall’interno. Inutile piangere sul latte versato. La verità è che non si è affermata una prospettiva politico-culturale. Il correntismo, male endemico di An, ha messo piombo nelle ali di una destra possibile all’interno di una aggregazione tanto composita quanto fragile. Fini non è stato in grado di animare culturalmente un mondo che improvvisamente si è sentito orfano. Pochi hanno tentato di innestare idee in un corpo ormai moribondo. Paradossalmente, finita la destra, è tramontato anche il sogno berlusconiano di cambiare il Paese che certo non è migliore di vent’anni fa».

È indubbio che nel prossimo Parlamento, mancherà un soggetto unitario di destra. All’esterno, è stata distrutta una comunità politica che era riuscita a sopravvivere anche negli anni di piombo. Quali le prospettive? Può riemergere un soggetto politico che possa definirsi di destra? E quale tipo di destra?

«Ricominciare. Non resta altro da fare. E non con risibili operazioni aritmetiche, ma immaginando un soggetto nuovo che interpreti i valori della destra incistati con quelli della nazione. Un soggetto cui ognuno potrà dare il proprio contributo, ma dimenticando le vecchie e dannose correnti, riscoprendo la dignità di una storia che è stata tragica e nobile nella sua essenzialità. La destra può offrire il suo apporto alla rivoluzione morale e culturale degli italiani che precede il riformismo istituzionale e politico. Sarà inevitabile che si ritrovi, non per testimoniare una sopravvivenza che non serve a nessuno, ma per continuare a nutrire progetti ambiziosi abbastanza da ricreare entusiasmo in chi l’ha perduto. Ci credo fermamente. E, per quanto mi sarà possibile, insieme con tanti amici che vivono questi stessi sentimenti, ricominceremo un cammino che soltanto momentaneamente si è interrotto.

Il tempo, grande scultore, dirà se l’utopia può diventare storia. Nel 1946 se lo chiese una pattuglia di giovani malmessi e disorientati. Ecco, a qualcuno bisogna pure ispirarsi. E non è detto che la modernità sia la vernice indelebile che cancella ogni cosa. I movimenti che hanno un’anima possono eclissarsi per un breve o per un tempo lungo. Ma non muoiono nelle coscienze dei popoli. La “destra diffusa” esiste, non c’è ragione per cui non debba diventare un soggetto politico unitario e riconoscibile».

(fonte: www.totalita.it)

Quella spia fascio comunista a servizio (stampa) del Pci


Quando Bersani ha annunciato lo scouting per traghettare i parlamentari grillini a sostenere la sinistra, aveva un precedente illustre. Un altro leader della sinistra, Togliatti, aveva teorizzato e compiuto la stessa strategia nei confronti dei fascisti.

Non sto parlando del cosìddetto entrismo, ovvero la strategia di infiltrarsi nelle organizzazioni fasciste, né del suo appello ai fratelli in camicia nera del '36 e poi del ruolo avuto da Togliatti nell'estate del '39 per conto del Comintern per convincere i compagni francesi e italiani sulla validità del Patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin. Parlo della giovane repubblica italiana, la democrazia antifascista, anche se le linee di quella strategia erano già state tracciate da Togliatti al tempo del fascismo. Ho tra le mani una sorprendente testimonianza di Lando Dell'Amico, personaggio strano, «spione» e avventuriero del giornalismo e delle idee. Di lui me ne parlò la prima volta Enrico Landolfi, socialista venuto dalla sinistra neofascista, poi convertito al Psi e infine a Bertinotti. Di Dell'Amico nel suo ruolo di cerniera tra comunisti e neofascisti ne parlai pure con Giano Accame e perfino, una volta con Augusto del Noce.

Ma di lui e del suo ruolo di traghettatore tra il Msi e il Pci ne hanno scritto anche personaggi importanti del Pci, come Ugo Pecchioli ed Emanuele Macaluso, storici come Paolo Buchignani in Fascisti rossi e giornalisti come Piergiorgio Murgia in Ritorneremo, più vari autori che si sono occupati di spionaggio, da De Lutiis a Gianni Cipriani. Dell'Amico ebbe una precoce esperienza nella Repubblica sociale e nel dopoguerra fu caporedattore di un giornale di frontiera tra il rosso e il nero, Il pensiero nazionale, diretto da Stanis Ruinas. Il giornale di sinistra fascista, scrive Dell'Amico, fu finanziato dal Pci. Scavalcando Ruinas, idealista refrattario, Dell'Amico era stato chiamato alle Botteghe Oscure - racconta ne La leggenda del giornalista-spia, che esce ora da Koiné (pp.375, E.18) - da Giancarlo Pajetta, responsabile di stampa e propaganda del Pci, con l'imprimatur di Togliatti- per «una capillare azione di avvicinamento in funzione antiNato della base giovanile neofascista», e per lavorare a fianco di due giovani dirigenti comunisti, Ugo Pecchioli ed Enrico Berlinguer, che poi accuserà Dell'Amico di «fascistizzare il partito». Lo scoutismo di Bersani allora fu chiamato da Togliatti Operazione Caronte: il «dimonio» in questione era proprio Dell'Amico che avrebbe dovuto traghettare i neofascisti all'altra riva comunista. Il linguaggio muta non solo perché mutano i tempi: Togliatti era uomo di lettere, Bersani uomo di coop. Dell'Amico, 26 anni, diventò «consulente di Pajetta» per la propaganda in ambito neofascista. Della sua opera di Caron Dimonio, Dell'Amico scrisse su Il Mondo di Pannunzio e addirittura su Le Figaro, grazie a due padrini d'eccezione: Ignazio Silone e Raymond Aron.

Erano gli anni in cui Togliatti apriva ai fascisti e ai sindacalisti venuti dal fascismo. Dopo aver amnistiato i fascisti da Guardasigilli, Togliatti fece scrivere Malaparte sull'Unità con lo pseudonimo di Gianni Strozzi e poi apertamente, fino a mandarlo come inviato in Cina. Di particolare interesse è il colloquio che Dell'Amico ebbe con Togliatti alla presenza di Pajetta. È riportato un virgolettato togliattiano sorprendente, non so quanto attendibile. Togliatti dice che si oppose all'ossessione persecutoria verso i neofascisti di Mario Berlinguer e Piero Calamandrei, poi consegna a Dell'Amico un fascicolo che documenta le sue aperture ai giovani venuti dal fascismo, elogia Mussolini giornalista, incoraggia il dialogo che Dell'Amico ha avviato tra i comunisti e il giovane Pino Rauti. Anche Ingrao, venuto dal fascismo e approdato al Pci, apre ai neofascisti sul settimanale dei giovani comunisti, Pattuglia. Togliatti rassicura il neofascista Lando: «Stai tranquillo, con noi si diventa tutti intelligenti». E sulla premiata ditta Riciclaggi del Pci, Togliatti paragona la sorte di Gentile e Volpe che non furono mai razzisti, difesero anzi ebrei e antifascisti, e furono poi, l'uno ammazzato col plauso del Pci e l'altro epurato dalla cattedra; e Delio Cantimori che era stato a suo dire filonazista, dissentendo da Gentile che non volle pubblicare le sue voci antisemite sull'Enciclopedia italiana; ma fu redento dal nazismo e dal razzismo e salvato da Togliatti per «la sua adesione religiosa al Pci». Peraltro fu proprio Cantimori, neofita del Pci a censurare le opere di Nietzsche «protofascista» presso Einaudi... Un allievo di Cantimori fu Renzo de Felice. Di lui Dell'Amico racconta che fu allontanato dalla Fgci dal segretario Berlinguer per «gravissima deviazione ideologica» perché in un articolo censurato dal Pci, accusò Hitler di aver tradito Stalin in quell'alleanza a suo dire necessaria per sconfiggere «l'America capitalista e imperialista».

De Felice fu presentato a Dell'Amico da Pecchioli e militò nel suo movimento giovanile dei partigiani della pace. De Felice, racconta Dell'Amico, fu arrestato nel '52 per aver lanciato volantini su un corteo e fu scarcerato poche ore dopo, grazie a lui e a un poliziotto che poi sarebbe diventato famoso, Federico Umberto D'Amato. Dell'Amico racconta che molti anni dopo, lo storico ormai affermato si ritrovò a cena all'Hilton con lui e D'Amato «per una rimpatriata e per un sia pur tardivo ringraziamento». Nel '52 Pajetta aveva emanato una circolare riservata alle federazioni per conquistare al Pci «la gioventù monarchica e fascista». Nel frattempo Dell'Amico si era infiltrato nel Msi. Almirante, con cui ebbe poi un aspro carteggio, lo nominò primo segretario del raggruppamento studenti e lavoratori. Poi Dell'Amico ruppe col Pci, pubblicò Il mestiere di comunista, e vagò tra giornalismo, servizi segreti, partiti e poteri. Nel suo libro-confessione racconta i suoi rapporti con Enrico Mattei e i petrolieri, con Fanfani in funzione anti-Pacciardi, con Saragat e De Lorenzo, i golpe e le stragi, l'Intelligence e Gelli, il ruolo della sua agenzia di stampa Repubblica. Un personaggio che ha attraverso la storia della repubblica italiana, i suoi retroscena e le sue fogne.

Pubblicando ora con la prefazione di suo figlio Ugo questo libro-documento, in cui non mancano inesattezze, Dell'Amico cerca un filo conduttore al suo ruolo di Caron Dimonio nel suo lungo viaggio attraverso il neofascismo, il comunismo, la socialdemocrazia, i petroli, i poteri e i misteri della repubblica italiana. E ci offre uno spaccato delle viscere italiane, dove il cibo dell'ideologia in parte nutriva la politica, in parte finiva negli escrementi della storia.

(di Marcello Veneziani)

Austerità, Italian Style


Due mesi fa, quando Mario Monti si è dimesso da primo ministro italiano, "The Economist" disse che "La prossima campagna elettorale sarà, prima di tutto, una prova della maturità e del realismo degli elettori italiani". L'azione matura e realistica, presumibilmente, sarebbe stata quella di far tornare Monti - che è stato sostanzialmente imposto all'Italia dai suoi creditori -, questa volta con un vero mandato democratico.

Beh, non sembra la visione corretta. Sembra che il partito di Monti si posizioni al quarto posto, non solo dietro all'aspirante comico Silvio Berlusconi, ma anche dopo un comico vero, Beppe Grillo, la cui mancanza di una piattaforma coerente non gli ha impedito di diventare il capo di una forza politica potente.

È una prospettiva incredibile, che ha scatenato molti commenti sulla cultura politica italiana. Ma senza cercare di difendere la politica del bunga bunga, vorrei porre un'ovvia domanda: che cos'è, esattamente, ciò che attualmente viene fatto passare per maturo realismo in Italia o in Europa?

Per il signor Monti, il proconsole installato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale su un'economia già in difficoltà, in effetti, ciò che definisce la rispettabilità nei circoli politici europei era la volontà di perseguire l'austerità senza limiti. Questo andrebbe bene se le politiche di austerità avessero effettivamente funzionato, ma non è così. E più che sembrare maturi o realistici, i sostenitori dell'austerità sembrano sempre più petulanti e deliranti.

Basti considerare come avrebbero dovuto essere le cose a questo punto. Quando l'Europa si è infatuata per le politiche di austerità, gli alti funzionari hanno respinto le preoccupazioni per cui il taglio della spesa e l'aumento delle tasse nelle economie depresse avrebbero potuto peggiorare le cose. Al contrario hanno insistito, e tali politiche effettivamente hanno aumentato la fiducia di queste economie.

Ma la fiducia è durata poco. Le nazioni che hanno imposto l'austerità hanno subito profonde crisi economiche: più dura era l'austerità, più profonda era la crisi. In effetti, questo rapporto è stato così forte che il Fondo monetario internazionale, in un suggestivo mea culpa, ha ammesso di aver sottovalutato i danni che l'austerità avrebbe potuto infliggere.

Nel frattempo, l'austerity non ha neppure raggiunto l'obiettivo minimo di riduzione dell'onere del debito. Al contrario, i paesi che hanno perseguito l'austerità hanno visto il rapporto tra debito pubblico e PIL aumentare, perché la contrazione nelle loro economie ha superato qualsiasi riduzione del tasso di indebitamento. E visto che le politiche di austerità non sono state compensate da politiche di crescita, l'economia europea nel suo complesso - che non si è mai ripresa dalla crisi del 2008-2009 - è tornata in recessione, con tassi di disoccupazione sempre più alti.

L'unica buona notizia è che i mercati obbligazionari si sono calmati, soprattutto grazie alla volontà dichiarata della Banca centrale europea di intervenire e di comprare debito pubblico in caso di necessità. Di conseguenza, il crollo finanziario che avrebbe potuto distruggere l'euro è stato evitato. Ma è una magra consolazione per i milioni di europei che hanno perso il lavoro e che oggi vedono di fronte a loro delle scarse prospettive.

Detto ciò, ci si sarebbe aspettato un esame e di coscienza da parte dei funzionari europei, accompagnato da alcuni suggerimenti di flessibilità. Al contrario, però, gli alti funzionari sono diventati ancora più insistenti sul fatto che l'austerità è il vero sentiero da seguire.

Così nel gennaio 2011 Olli Rehn, vice presidente della Commissione europea, ha elogiato i programmi di austerità della Grecia, Spagna e Portogallo e ha previsto che il programma greco, in particolare, avrebbe prodotto "una crescita duratura". Da allora la disoccupazione è salita in tutti e tre i paesi. Eppure, nel dicembre 2012, il signor Rehn ha pubblicato un editoriale intitolato: "L'Europa deve mantenere la rotta dell'austerità".

E la risposta del signor Rehn agli studi che dimostrano che gli effetti negativi dell'austerity sono molto peggiori del previsto è stato quello di inviare una lettera ai ministri delle Finanze e al FMI dichiarando che tali studi erano dannosi, poiché minacciavano di erodere la fiducia. Il che mi riporta in Italia, una nazione alla quale è stata imposta l'austerità e che per questo ha visto la sua economia crollare rapidamente.

Gli osservatori esterni sono terrorizzati dalle elezioni italiane, ed è giusto così: anche se l'incubo di un ritorno di Berlusconi al potere non si materializzasse, una dimostrazione di forza da parte di Berlusconi, o di Grillo, o di entrambi destabilizzerebbe non solo l'Italia ma tutta l'Europa.

Ma ricordate, l'Italia non è unica nel suo genere: i politici poco raccomandabili sono in aumento in tutta l'Europa meridionale. E la ragione per cui questo accade è che i funzionari europei non ammettono che le politiche che sono state imposte ai debitori sono un fallimento disastroso. Se questo non cambia, le elezioni italiane saranno solo un assaggio della pericolosa radicalizzazione che verrà.

(di Paul Krugman - fonte: www.nytimes.com)

Riaperte indagini strage Acca Larentia


Le indagini sul caso “Acca Larentia” ripartono. La Procura di Roma e la Digos hanno raccolto vecchi reperti e intendono analizzarli alla luce delle nuove tecniche per dare finalmente un nome ai responsabili della strage. Il 7 gennaio 1978 venivano uccisi Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, 19 e 18 anni, attivisti del Fronte della gioventù. Un altro militante, Stefano Recchioni, 19 anni, avrebbe perso la vita alcune ore più tardi, freddato da un carabiniere negli scontri con le forze dell’ordine che seguirono i due delitti.

Secondo quanto riporta il Messaggero, i nuovi esami sui volantini e sul nastro di rivendicazione sono partiti in gran segreto due mesi fa. Il pm Erminio Amelio, titolare del fascicolo sull’omicidio di Valerio Verbano, giovane attivista di segno opposto ucciso nell’80, dopo avere sentito come testimoni decine di vecchi militanti ha deciso di ripartire con questa nuova inchiesta. La Digos sta lavorando sui due volantini che hanno rivendicato la strage.