venerdì 2 ottobre 2009

La destra si appiattisce per entrare nel salotto

Piacere a sinistra. Un tic inspiegabile della “nuova destra”. Di quella che ama le citazioni sui giornali progressisti; le adulazioni degli intellettuali ex-comunisti; gli inviti nei salotti dove solitamente si parla assai male del berlusconismo. Che brama accomodarsi nelle prime file ai convegni in cui si le si dà atto di aver negato se stessa e, dunque, sostanzialmente, di non esistere più. Una destra così, purtroppo, esiste e non lotta; si fa scudo di un’evoluzione che è sinonimo di abdicazione e sbiadisce in un dialogo con la sinistra che sarebbe meglio chiamare resa incondizionata.

Paradossale tutto ciò se si considera che proprio l’area progressista culturalmente è in disarmo, non produce idee, è piegata nella sua disperazione solipsistica e si nutre di sovvenzioni statali, quando va bene, per dimostrare di essere in vita con film mediocri, romanzetti dal corto respiro ruotanti attorno all’ombelico di autori scarsamente dotati, ospitate in rassegne pagate dagli enti pubblici di artisti dall’incerto presente e dall’oscuro passato. E si potrebbe seguitare. Anche per dire che assessori compiacenti offrono a lorsignori tutto il sostegno di cui abbisognano, dimenticando i contenuti e si producono nello spettacolarizzare eventi risibili.

Gli amministratori

Da amministratori “di destra” ci si sarebbe atteso qualcosa di più. Per esempio la ricerca di nuove leve intellettuali nelle cui mani mettere progetti di innovazione non legati a stereotipi culturali imbolsiti e rimasticati; sarebbe stato lecito aspettarsi l’apertura alle nuove frontiere dell’arte e della letteratura non soltanto europea ed americana; qualcuno ha ostato sperare feconde contaminazioni che mettessero in evidenza la centralità delle questioni religiose, identitarie, sovraniste, nazionali. Niente di tutto questo è capitato sotto i nostri occhi che, ad un certo punto, abbiamo preferito chiudere per non vedere. Ma non abbiamo potuto non sentire. Per esempio gli alti lai di registi in disarmo che reclamano ancora palcoscenici e schermi ottenendoli; le autocelebrazioni di scrittori che s’impancano a maestri del pensiero e vengono presi in considerazione da assessori e ministri; le invettive di saggisti rimasti ancorati a vecchie dispute sociologiche, filosofiche, antropologiche. A tutto questo mondo che esprime un pensiero unico fondato sul nulla, esemplificazione di un terrificante nichilismo intellettuale, ambienti sedicenti di destra regalano uno spazio che non meritano, soltanto per guadagnarsi qualche benemerenza ai loro occhi, come ha osservato Francesco Borgonovo ieri su queste colonne, rilevandone la sudditanza psicologica. Che cosa accade? Semplice. L’Italia profonda, quella che esprime valori “basici”, identità radicate, una percezione “tradizionalista” della realtà, che sostanzia la sua esistenza in un “comunitarismo” elementare, perfino inconsapevole, non è rappresentata culturalmente, mentre è maggioritaria politicamente. Una discrasia che crea, o meglio rinnova, la frattura profonda tra due Italie. E, naturalmente, riproduce un’egemonia soffice più che della cultura di sinistra o ad essa legata, di una cultura sottilmente nichilista le cui manifestazioni eloquenti sono il relativismo e l’appiattimento sulla modernità intesa come consumismo sfrenato, irrilevanza della dignità e della centralità della persona, violenza del linguaggio e dei gesti.

Una “rivoluzione culturale” di segno conservatore non può partire dalle istituzioni, ma queste dovrebbero sostenerla nell’unico modo possibile: darsi una linea di condotta tale da favorire il pluralismo delle idee e la circolazione di un pensiero critico capace di mettere in discussione le idee portanti della modernità appunto, come l’egualitarismo, il progressismo, il darwinismo sociale, il “socialismo morbido”, l’indifferentismo morale, il disordine spirituale. I meccani costruiti dall’industria culturale sono, nel loro insieme, la proiezione dell’incubo orwelliano della Fattoria degli animali: una concezione raggelante della vita e del mondo nella quale, nostro malgrado, siamo immersi e senza la prospettiva di uscirne a breve.

Tradizione rinnovata

Ci siamo chiesti tante volte negli ultimi decenni, sperimentando coniugazioni spesso ardite della modernità e con la tradizione, se una nuova civiltà poteva sorgere senza privarsi dei principi dell’antica. Guardandoci alle spalle continuiamo a crederlo, angosciati da un paradosso che ci opprime: come mai, se tutto questo è vero ed è possibile proiettarlo anche nella dimensione politica, è stata abbandonata dalla destra quell’armatura culturale conservatrice che avrebbe dovuto non soltanto preservarla, ma anche consentirle incursioni vittoriose nel campo avverso?

Restiamo appesi a questo interrogativo, mentre talvolta ci accade di “scoprire”che tra gli “infedeli”vagano come fantasmi adottati autori, pensatori, artisti che non hanno più patria e vengono esibiti, talvolta eccentricamente, come trofei per testimoniare apertura mentale e sapienza nel discernere in ciò che era proibito da quel che si può portare. La destra se lo beve questo salottiero anticonformismo, dimenticandolo sulle poltrone al momento di offrire la prossima rassegna a chi ha civettato con il sinistrismo più impresentabile fino al giorno prima, fino a quando non ha avuto l’accortezza di mettere sugli scaffali più alti della libreria i classici del marxismo e le opere complete di Lenin, Stalin e Kim Il Sung

(di Gennaro Malgieri)

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