lunedì 8 marzo 2010

Fini va via e il Pdl va in pezzi

È stato saggio il presidente della Repubblica nel firmare il decreto che riporta alla normalità la competizione delle regionali. Ha evitato una situazione pericolosa per il paese. Adesso Giorgio Napolitano dovrà osservare con cura le reazioni dell’opposizione. Sono molto irritate, perché pensavano di aver già vinto a tavolino in Lazio e in Lombardia. Antonio Di Pietro si distingue per la follia verbale: chiede la messa sotto accusa del presidente e ci chiama alle armi, però in modo democratico. Mi ricorda un dirigente comunista che, prima del 18 aprile 1948, strillava: «Faremo la rivoluzione, ma nell’ordine e nella legalità!».

È certo però che l’ultima fase della campagna risulterà molto avvelenata dagli errori marchiani del Pdl e dalla rissa sul decreto interpretativo. Ma a decidere saranno gli elettori, chiamati a votare in assoluta libertà. A vantaggio di chi? Nessuno può saperlo. Ci saranno italiani di centro-sinistra che non si asterranno, come avevano deciso di fare, e andranno a votare per protesta contro il decreto. E anche italiani di centro-destra che, per rabbia contro il pasticcio bestiale causato dagli incapaci della propria parte politica, rifiuteranno di recarsi al seggio.

Il tutto renderà ancora più incerto l’esito elettorale. C’è un solo leader che attenderà con indifferenza il risultato del voto. È Gianfranco Fini. Per lui la strada è già segnata: lasciare il Pdl nella fase successiva alle regionali e fondare un proprio movimento o un mini-partito. Il presidente della Camera non ha alternative. Se il Pdl vince, lui verrà mangiato vivo dal Cavaliere che gli farà pagare il conto di una guerriglia senza tregua. Se il Pdl perde, Fini sarà spinto comunque ad andarsene per non essere travolto dal crollo del partito fondato anche da lui.

Questo mi suggerisce l’osservazione distaccata di quel che vediamo in questa tormentata vigilia del voto. Il Cavaliere ha vinto il braccio di ferro per sistemare le crepe apertesi in Lombardia e nel Lazio. Ma l’intero edificio del Pdl sta comunque traballando. Il partito che doveva garantirgli ancora tre anni di governo tranquillo è profondamente mutato rispetto al marzo 2009, data della nascita. Di alcuni cambiamenti ho già scritto più volte sul Riformista: un leader sempre più anziano e debole, l’emergere improvviso delle correnti, l’esplosione di una giungla di clan locali e personali tanto rozzi e bellicosi da far rimpiangere le fazioni della vecchia Democrazia cristiana.

Oggi il crack burocratico delle liste in due regioni chiave ha messo in luce un ultimo dato allarmante. Il Pdl è peggio che un partito di plastica: è una costruzione quasi inesistente che, per di più, poggia sul vuoto. Mi rammenta un’azienda con un bel marchio, una pubblicità senza risparmio, molti possibili clienti, ma priva di tutto ciò che conta davvero. Ossia un prodotto convincente (il lavoro del governo), una squadra concorde di dirigenti, un complesso di funzionari e impiegati affidabili. Ecco il vuoto che mina la vita del Pdl.

Lo scrivo con rammarico, pur non essendo un elettore del centro-destra. Come cittadino di un’Italia già alle prese con troppi guai, mi auguravo che il vincitore delle ultime elezioni politiche fosse in grado di guidare al meglio la baracca nazionale. Qualche ministro, e cito per tutti Giulio Tremonti, si è dimostrato all’altezza del compito. Ma nel complesso il governo ha fatto flop. E temo che di qui al 2013, ammesso che il blocco guidato da Berlusconi riesca ad arrivarci indenne, le cose non potranno migliorare.

A questo punto, sarebbe bene per tutti che Fini varcasse il suo Rubicone e lasciasse il Pdl. Ha l’età giusta per farlo, 58 anni contro i 74 di Berlusconi. Possiede un plotone di parlamentari. Ha soldi a sufficienza per vivere fuori casa e non continuare a fare il bamboccione che si attarda a restare in famiglia. Del resto, come ci ha spiegato lui stesso, la famiglia di papà Silvio non gli piace più. La medesima solfa ce la ripetono ogni giorno i media finiani. Con una disinvoltura anche culturale che è piacevole leggere, ma alimenta un equivoco che rischia di diventare ridicolo.

Il Secolo d’Italia ci scodella di continuo una rivoluzione intellettuale conturbante. La nuova destra di Fini ha ormai un Pantheon zeppo di antenati che la storia dice attestati su altre sponde. Le ultime scoperte sono Mario Pannunzio, il fondatore del Mondo, ed Ennio Flaiano. Ma il catalogo è ben più ampio e un giorno bisognerà farlo. A dimostrazione che il revisionismo interessato non ha confini.

Ma sul giornale diretto da Flavia Perina si legge anche dell’altro. Giovedì 4 marzo mi ha colpito un editoriale di Enzo Raisi, parlamentare del Pdl e, credo, amministratore del quotidiano. È un manifesto schietto del finismo allo stato attuale. Ossia ancora nella fase di chi spera di rifondare il partito del Cavaliere. E per questo fa appello alle «intelligenze silenziose» del Pdl, perché «comincino a farsi sentire e a isolare l’estremismo dei cosiddetti falchi» provenienti da Forza Italia.

Questa linea mi sembra volutamente arretrata rispetto a quanto sta per accadere. Penso che, dopo le elezioni, Fini andrà via e il Pdl andrà in pezzi. Tanto che il Cavaliere dovrà per forza rimettere le mani dentro il partito. Per tentare un’altra delle rivoluzioni che, sino a oggi, gli sono riuscite. Avrà la forza di farlo? Gli auguro di sì. Anche Berlusconi dovrebbe aver capito che non si vive di solo leader. E un giorno, forse, dovrà ringraziare Fini per avergli aperto gli occhi.

(di Giampaolo Pansa)

Nessun commento:

Posta un commento