Antonio Pennacchi se ne sta sdraiato sul lettuccio della sua camera-studio. A fianco c’è il suo bastone da passeggio, fuori della porta una sedia a rotelle. Gli fa male la schiena, compressione delle vertebre, è già stato operato, non lo si può rioperare, deve aspettare e sperare che il dolore se ne vada così come è venuto. Fare l’invalido, però, un po’ gli piace e così ci gioca. «Compa’, so’ andato co’ quella sedia a fa’ una presentazione, roteavo il bastone davanti a me e urlavo come un matto: “Largo, largo, che so’ ’nvalido...” E tutti a compatimme: “Poretto, chissà come soffre...”. Però compativano di più mi’ moje: “Poretta, chissà come fa a sopportallo...”. Resta il fatto, compa’, che fatico a stare in piedi...».
Ai Pennacchi qui al Giornale siamo abituati. Suo fratello Gianni era una nostra firma e quando mesi fa la sorte se l’è portato via ci siamo sentiti orfani. Era bravo, era allegro e anche lui era matto e quando lo dico a Antonio lui si commuove. «Era l’altra metà di me. Quanto ce siamo menati... “Aho, se menano i Pennacchi”, gridavano i vicini e correvano tutti. Mica pe’ dividece, pe’ guardà... Non sai quanto me manca». Il fasciocomunista è la storia romanzata della loro giovinezza.
Pennacchi sta a Borgo Carso, il Canale Mussolini davanti casa, Borgo Piave e Borgo Podgora a fianco, Littoria, cioè Latina, in lontananza. È l’Agro Pontino e alla sua storia lui ha dedicato la sua vita. «Canale Mussolini è un romanzo che mi porto dietro da cinquant’anni, adesso ne ho sessanta, fa’ ’n po’ te. È che io già in seconda elementare volevo riscrivere i libri di testo, non mi piacevano, figurate un po’... Insomma, l’ho rimuginato una vita, si doveva chiamare Il podere, poi un giorno alle bancarelle dei libri usati di piazza Esedra, a Roma, vidi un romanzo con quel titolo: era di Federigo Tozzi. Compa’, se fosse stato ancora vivo l’avrei ammazzato... Comunque, fino all’età di trentasei anni, mi sono sottratto a questo calice, perché la scrittura per me non è un diletto. A me piace leggere, scrivere è fatica. Nella nostra tradizione letteraria, la scrittura era il mestiere dei chierici, e io nun so’ chierico... Io mi sono fatto scrittore perché c’erano storie che andavano raccontate. C’ho tante di quelle storie dentro che le devo caccià via pe’ quanto so’ invadenti».
Quando gli dico che qualcuno parla di lui come di un romanziere naïf, Pennacchi butta per aria la coperta giallorossa della Roma con cui si è avvoltolato come una mummia e cerca di darmi una bastonata. «Compa’, io nun so’ naïf, ho studiato, mi sono persino laureato, tardi, a quarant’anni, ma con una tesi su Benedetto Croce... Certo, in famiglia la mia generazione è la prima a essere andata all’università, vengo da una tradizione di servi della gleba, contadini mezzadri, operai... Semmai, sono un autodidatta, formatosi in un’epoca in cui si leggevano gli scrittori del passato, i morti, insomma... Oggi si leggono solo i vivi, ci si è convinti che il tempo abbia modificato l’esistenza... Oggi si fanno i corsi di scrittura creativa, e invece io li farei di letteratura creativa... Diceva Orazio che i versi devono dormire nove anni, maturare dentro di te, insomma. Uno dice: “Ma che cazzo ne sa Orazio?”. “Ma che cazzo ne sai te”, dico io... L’università mi è servita per imparare delle regole, darmi degli elementi di paragone, indicarmi anche dei percorsi, farmi capire le ridondanze, ma la mia differenza rispetto agli altri è l’estrazione, io vengo dalla fame, è questo che mi fa diverso. Naïf un cazzo! Uno è storicamente determinato, io faccio ciò che sono costruito a fare, il talento è solo la precondizione».
Pennacchi ha passato una vita in fabbrica, la Fulgorcavi di Borgo Piave. Il suo primo romanzo, Mammut, viene da lì. «L’ho scritto perché fosse comprensibile a chi lavorava con me, anche se sapevo che non l’avrebbe mai letto. Per chi scrivo io? Il presente, compa’, non esiste, l’universo è curvo e io non scrivo per i contemporanei: non che vendere mi faccia schifo, ma scrivo per i posteri, pensando che ci sono storie che vanno raccontate e se non le racconto vanno perse. Quante guerre di Troia ci sono state, prima che qualcuno ci si mettesse d’impegno a ricordare almeno quella... Anzi, più che per i posteri io scrivo per i morti... E per quelli che non possono scrivere. Avevo un compagno di fabbrica, analfabeta, ma cacacazzi, Francesco Celentano si chiamava: era uno che a Socrate gli faceva un culo così, anzi sono sicuro che Socrate fosse come Francesco, uno che rompeva il cazzo a tutti, parlava, discuteva, spiegava... Anche il mio barbiere Gastone è così, peccato che sia interista... Ecco, io sono il Platone di Francesco-Socrate...».
Canale Mussolini è un romanzone (Mondadori, pagg. 450, euro 20), un poema epico che ha per protagonisti la stirpe dei Peruzzi, lo zio Pericle, i figli Temistocle, Treves e Turati, il nipote Paride, e poi l’Armida, la zia Bìssola, la zia Modigliana... È una storia di «cispadani-polentoni», i contadini emiliani, veneti e friulani che da nord emigrano a sud, un vero e proprio esodo, e di «marocchini-marocàssi», i laziali che assistono all’invasione e la vivono come un esproprio e una sopraffazione, li odiano e tifano perché la malaria trionfi. È una storia corale, raccontata con senso del mito e ironia, un po’ Il mulino del Po di Bacchelli, un po’ Il placido Don di Sholokhov, un po’ il Grande Sertão di Guimarães Rosa. È anche un libro di storia patria, di quelle che si raccontano intorno al fuoco del camino e tutto assume un tono di leggenda, ma niente però è falso, perché chi l’ha scritta conosce bene le fonti, non bara e non edulcora. È un racconto di poveri, dove le passioni e gli istinti la vincono sui ragionamenti, la vita è fatica, il numero è potenza perché vuol dire braccia in più e sopravvivenza, ci si ama e ci si odia senza secondi fini, consapevoli che solo la guerra civile ha una sua «umanità», perché si sa chi si ammazza. È un romanzo nazional-popolare, perché parte dal presupposto che soltanto capendo «come eravamo» possiamo veramente capire se ciò che siamo divenuti lo è stato per eccesso o per difetto, per rivendicazione o per dimenticanza. È a suo modo anche un romanzo pudico, dove il sesso ha una sua casta nudità e l’io narrante svela solo alla fine un’identità che la nascita aveva condannato e l’amore per gli altri poi riscatterà.
È insomma storia e memoria, azione e compassione, rispetto degli umili, nessuna compiacenza per i potenti. Un romanzo italiano: «Compa’, scrivi che è meglio di Guerra e pace. Perché Tolstoj era bravo, ma non c’aveva la pietas...».
(di Stenio Solinas)
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