lunedì 19 aprile 2010

Fini resterà, la destra è già partita


Se conosco Fini, non farà lo strappo definitivo. Non ha l’ardire né gli arditi per farlo. La platea del suo pubblico ormai lo detesta, le tribune e i palchi del teatro concorrente invece lo applaudono, ma seguono un’altra trama. Non seguirò le tifoserie, il miniclub di Fini, il maxiclub di Berlusconi o il fanclub di Bossi. Proverò a mettermi nei panni di coloro che provengono dalla destra e ora si trovano a disagio, tra due fuochi. Non parlo dunque dei convinti seguaci di Berlusconi e nemmeno dei seguaci di Bossi; mi riferisco a quei milioni d’italiani che votavano Alleanza nazionale e che si riconoscevano nella destra cattolica o laica, liberale o conservatrice, nazionale e sociale.

Questa gente non rimprovera a Fini di opporsi oggi a Bossi e alla Lega, ma al contrario, di non aver opposto a Bossi e alla Lega nessun argine di tipo nazionale e statale, sociale e culturale, lungo tutti questi anni. Quando Bossi chiedeva la svolta federalista, inveiva contro l’Italia, Roma e il Sud, Fini dormiva o nicchiava. Quando Bossi chiedeva più poteri alle Regioni, Fini non insorgeva nel nome dello Stato italiano unitario e della sua tradizione risorgimentale, crociana e gentiliana. Quando Bossi chiedeva di non festeggiare l’Unità d’Italia, Fini e i suoi non reagivano. Quando Bossi firmava le leggi sull’immigrazione, Fini cofirmava le medesime leggi. Da anni manca un contrappeso al ruolo di Bossi che legittimamente difende le tesi leghiste. Svegliarsi oggi dopo aver smantellato la destra nazionale e il partito che recava già nel suo nome la ragione sociale italiana, è quantomeno tardivo, ipocrita, pretestuoso. Serve solo a intralciare il governo Berlusconi e a dare una mano all’opposizione.

Ma non basta. Questa gente di destra non rimprovera a Fini di disobbedire a Berlusconi, di voler mantenere la sua autonomia e di non volersi adeguare al leader. Tutt’altro. Il popolo di destra gli rimprovera al contrario di non aver mai rappresentato il suo elettorato, la sua storia, la sua sensibilità, i suoi valori. Quando Fini segue a turno i radicali in alcune battaglie sulla vita e sulla laicità, poi la sinistra in favore dell’immigrazione, poi ancora Napolitano in difesa del patriottismo della Costituzione anziché il patriottismo della nazione o dell’antifascismo come valore politico attuale; e quando si dà alla difesa del parlamentarismo, mentre il suo popolo da sempre, lui compreso, chiede l’elezione diretta del leader, Fini non abbandona Berlusconi ma il suo elettorato, la sua storia, la sua classe dirigente, le sue battaglie del giorno prima.

Questa gente di destra poi non rimprovera a Fini di incarnare una destra nuova, moderna ed europea, ma il contrario, di fuoruscire da ogni destra possibile e presente: non c’è nulla della sua linea che ricordi il neogollismo di Sarkozy, la tradizione cattolico-popolare della Merkel e di Aznar, la rivoluzione conservatrice e sociale di Cameron. Le sue posizioni sono estranee non solo alle destre italiane e alla loro cultura, ma anche alle post-destre europee.

E ancora. Questa gente di destra non rimprovera a Fini di aspirare ad essere l’erede di Berlusconi ma il contrario, di aver disertato il bipolarismo facendosi trasversale, di aver minato il centrodestra e di aver lavorato contro la sua stessa successione a Berlusconi. È passato dalla successione alla secessione; ma quella individuale, non territoriale.

Insomma, questo popolo di destra, o come preferite chiamarlo, non chiede a Fini di continuare ad essere la sogliola che è stato per anni, appiattito sul Cavaliere, quando An pareva la fotocopia di Forza Italia e noi glielo dicevamo in tutte le maniere, salvo sentire oggi Fini ripetere le stesse parole che rivolgevamo a lui: attenzione, dice con quell’aria di maestrino, se il Pdl diventa la fotocopia della Lega, la gente poi vota l’originale. Anche in questa argomentazione, Fini ha usato il copia e incolla e ha trasferito la fotocopia sbiadita che è stato lui per anni al rapporto di Berlusconi con Bossi. Questa gente chiede a Fini di dare sostanza, contenuto, prospettive ad una destra di governo e non di lavorare contro il governo Berlusconi.
Per anni la destra di Fini ha avuto la grande possibilità di arricchire il centrodestra valorizzando la sua originalità: se Berlusconi era il patron dell’emittenza privata, Fini poteva diventare il principale referente del servizio pubblico televisivo e della necessità di una sua rifondazione. Se Berlusconi era il leader delle partite Iva, Fini poteva essere nel Pdl il leader di riferimento del settore pubblico e della scuola. Se Berlusconi con Tremonti esprimeva la linea economica del centrodestra, al partito di Fini toccava il compito di rappresentare il senso dello Stato, la riforma dell’università e della pubblica istruzione, la tutela dei beni culturali e degli interessi nazionali, della lingua e dell’identità italiana, la difesa della ricerca scientifica e della meritocrazia. Invece, il nulla. Era quello lo spazio naturale per una destra, sguarnito, non occupato né dal pragmatico Berlusconi né dal ruspante Bossi. Era quello lo spazio politico per rimarcare la differenza, per non subire l’egemonia della Lega, per rivendicare l’autonomia da Berlusconi; ma un’autonomia costruttiva, una differenza integrativa, non giocando allo sfascio e remando contro. E invece, la destra non si è vista in tutti questi anni e nessuno dei signori che oggi fa il tifo per Fini, dagli spalti sinistri di un’altra tifoseria, ha mai richiamato questa lacuna. Ma adesso conviene loro tifare per Fini, è l’unica speranza per intralciare il governo Berlusconi.

Non festeggio se Fini va via e non credo che accadrà. Dico solo che se oggi la destra conta quanto il due di coppe, la colpa non è di Bossi e di Berlusconi, ma dell’assenza di un vero leader della destra, capace di contenuti e strategia. Ma Fini un leader non era, lo ripeto da tempo, era solo uno speaker. Andava bene per l’epoca dei comizi e delle battute in tv, non per l’epoca del governo e delle riforme.

(di Marcello Veneziani)Giustifica

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