Il fascismo è morto e sepolto, condannato dalla storia e dall’anagrafe, ma lascia a volte saporiti frutti letterari. Ho davanti a me due libri di due autori che sono forse le ultime tracce del miglior neofascismo letterario. Parlo di un vivo e di un morto, e spero che Piero Buscaroli, facile all’ira, non consideri un supplizio etrusco legare lui e il suo libro, Dalla parte dei vinti, a Giano Accame, morto giusto il 15 aprile di un anno fa, e al suo libro postumo, La morte dei fascisti. Sono usciti entrambi in questi giorni: il testo di Accame è edito da Mursia, quello di Buscaroli da Mondadori. Sono due libri pervasi di pathos storico e letterario. Due libri impolitici, percorsi dalla nobiltà della sconfitta. Buscaroli estende il suo sguardo al Novecento e alla saga della sua famiglia. Accame, invece, esula dalla storia per entrare, com’era sua consuetudine, nell’estetica e nell’ideologia del fascismo, nel culto della bella morte, nella letteratura, nel pensiero e nella poesia civile che lo accompagnò.
Piero Buscaroli è un grande scrittore di musica e di storia, e conosce come pochi la storia della musica e la tragica musicalità della storia. Non solo per dandysmo si definisce «un superstite della repubblica sociale in territorio nemico» ma non aveva l’età per aderire alla Rsi. Oggi ne ha ottanta, ma ne aveva quindici quando cadde il fascismo. Non per civetteria disse a Montanelli che era diventato fascista «non per Mussolini ma nonostante Mussolini». Qui racconta il suo tormentato rapporto con Indro e con Il Giornale, di cui fu firma sotto falso nome. Perché lui, come Prezzolini e Del Noce, fu proscritto, e lo ricorda in queste pagine: ma rispetto agli altri due che fascisti non erano, lui sul Giornale almeno poté scrivere con lo pseudonimo di Piero Santerno. Di Buscaroli sono memorabili i suoi scritti e le sue biografie. Ma memorabile è pure il suo carattere scontroso, i suoi litigi e le sue polemiche, con Montanelli stesso e Giovanni Volpe, Almirante e Dino Grandi, suo cugino Massimo Cacciari e Paolo Mieli. Facile alla querela, si narra che Buscaroli avesse un velivolo che aveva battezzato Querelino, frutto dei proventi delle sue vittorie giudiziarie. Litigò anche con me, per ragioni di cui assoluta è la mia innocenza: ma non riesco a volergli male e tanto meno a parlar male di lui, che considero uno dei rari grandi rimasti. Buscaroli fu scoperto da Longanesi e fu una firma storica del mitico Borghese, soprattutto in politica estera. Diresse anche Il Roma di Lauro; ma dirigere un giornale, a Napoli per giunta, sarà stato per lui e per chi era con lui, un vero supplizio. Come fu terribile la sua campagna elettorale politicamente scorretta alle europee del ’94. Questo suo libro è bello ma diseguale, pieno di guerra, carteggi e autobiografia. Le pagine migliori sono per me quelle dedicate a Longanesi e a Ezra Pound.
A Pound dedica pagine diverse ma altrettanto belle anche Giano Accame. Quando Francesco Martucci mi ha donato la sua Morte dei fascisti, vi confesso che ho avuto un tuffo al cuore. Per anni Giano, che mi affiancò in tante avventure editoriali, me ne aveva parlato, ma il libro annunciato con l’editore Enzo Cipriano non era mai uscito. Mi ero convinto che fosse un testo implicito, un canto del cigno di quelli che ti accompagnano invisibili per l’ultima stagione della vita, di quelli che si scrivono dentro ma non si tirano mai fuori, perché rispecchiano la propria anima e la propria storia. Quando morì, lo stesso 15 aprile in cui morirono Giovanni Gentile e Giovanni Volpe, mi persuasi che se lo fosse portato nella tomba, quasi a epigrafe del suo cammino. E invece ora il parto postumo. È il libro di un fascista anomalo che dialogava con la sinistra, che sognava un ’68 nazional-rivoluzionario e una nuova repubblica, il socialismo tricolore e le alleanze trasversali. Lui che da fascista si era innamorato di Pacciardi l’antifascista e d’Israele, poi di Craxi e dei ragazzi di Cl, pur restando legato alla destra sociale. Storico dell’economia, amava Pound e le sue teorie sull’usura che gli permisero di conciliare l’economia alla poesia tramite l’epica del fascismo letterario. Aveva due anni più di Buscaroli ma gli bastarono per indossare solo per un giorno la divisa della Rsi. Era orgoglioso di aver partecipato in extremis alla nobiltà della sconfitta, quell’universo dei vinti e delle rovine di cui Buscaroli canta l’elogio. Ricordo Buscaroli come un vulcano in eruzione, emiliano sanguigno, anello di congiunzione tra d’Annunzio e Sgarbi. Giano, invece, da ligure, era parsimonioso anche di parole ed effusioni, scorreva come un fiume sotterraneo, sornione, timido e gentile. Un’aria svagata e un po’ assente, l’inquietudine intellettuale dissimulata nella flemma e un radicalismo foderato nella felpa del moderato. E poi la sua ribellione all’automobile: un giorno gettò la patente nel Tevere e da allora non guidò più. Buscaroli fece di peggio, fu investito dalla sua stessa auto senza freno a mano, e lo trasse in salvo proprio l’editore Volpe, vicino di casa, con cui aveva litigato.
Accame e Buscaroli scrissero entrambi sul Borghese, fuoruscirono presto dall’Msi, fondarono la rivista il Reazionario che era un pugno nell’occhio già nel titolo, anche se nessuno dei due può considerarsi propriamente un reazionario. Erano due neofascisti, ma intelligenti, colti e impolitici. Come altri neofascisti che rimasero tali a babbo morto: è il caso di Enzo Erra tra i giornalisti-scrittori. O di giornalisti purosangue come Giovannini, Gianna Preda, Pisanò, Bolzoni. Tra i giovani in politica, l’unico che avesse qualcosa del neofascismo colto era Marzio Tremaglia, che fu il miglior assessore regionale alla cultura, come mi disse una volta Veltroni da ministro dei Beni culturali (di Marzio si ricordano domenica prossima a Milano i dieci anni della sua morte precoce). Il neofascismo in politica fu una sterile utopia, nutrita di fedeltà e rancore; ma sublimato in arte e letteratura poteva tradursi nel sogno epico e nostalgico di un romanticismo fascista, come scrisse Paul Serant. Se la qualità e la verità contassero qualcosa, Accame e Buscaroli sarebbero oggi considerati tra i frutti migliori del giornalismo intellettuale espresso nell’Italia repubblicana. Ma si sedettero dalla parte del torto e le loro opere ne scontano ancora le conseguenze.
Piero Buscaroli è un grande scrittore di musica e di storia, e conosce come pochi la storia della musica e la tragica musicalità della storia. Non solo per dandysmo si definisce «un superstite della repubblica sociale in territorio nemico» ma non aveva l’età per aderire alla Rsi. Oggi ne ha ottanta, ma ne aveva quindici quando cadde il fascismo. Non per civetteria disse a Montanelli che era diventato fascista «non per Mussolini ma nonostante Mussolini». Qui racconta il suo tormentato rapporto con Indro e con Il Giornale, di cui fu firma sotto falso nome. Perché lui, come Prezzolini e Del Noce, fu proscritto, e lo ricorda in queste pagine: ma rispetto agli altri due che fascisti non erano, lui sul Giornale almeno poté scrivere con lo pseudonimo di Piero Santerno. Di Buscaroli sono memorabili i suoi scritti e le sue biografie. Ma memorabile è pure il suo carattere scontroso, i suoi litigi e le sue polemiche, con Montanelli stesso e Giovanni Volpe, Almirante e Dino Grandi, suo cugino Massimo Cacciari e Paolo Mieli. Facile alla querela, si narra che Buscaroli avesse un velivolo che aveva battezzato Querelino, frutto dei proventi delle sue vittorie giudiziarie. Litigò anche con me, per ragioni di cui assoluta è la mia innocenza: ma non riesco a volergli male e tanto meno a parlar male di lui, che considero uno dei rari grandi rimasti. Buscaroli fu scoperto da Longanesi e fu una firma storica del mitico Borghese, soprattutto in politica estera. Diresse anche Il Roma di Lauro; ma dirigere un giornale, a Napoli per giunta, sarà stato per lui e per chi era con lui, un vero supplizio. Come fu terribile la sua campagna elettorale politicamente scorretta alle europee del ’94. Questo suo libro è bello ma diseguale, pieno di guerra, carteggi e autobiografia. Le pagine migliori sono per me quelle dedicate a Longanesi e a Ezra Pound.
A Pound dedica pagine diverse ma altrettanto belle anche Giano Accame. Quando Francesco Martucci mi ha donato la sua Morte dei fascisti, vi confesso che ho avuto un tuffo al cuore. Per anni Giano, che mi affiancò in tante avventure editoriali, me ne aveva parlato, ma il libro annunciato con l’editore Enzo Cipriano non era mai uscito. Mi ero convinto che fosse un testo implicito, un canto del cigno di quelli che ti accompagnano invisibili per l’ultima stagione della vita, di quelli che si scrivono dentro ma non si tirano mai fuori, perché rispecchiano la propria anima e la propria storia. Quando morì, lo stesso 15 aprile in cui morirono Giovanni Gentile e Giovanni Volpe, mi persuasi che se lo fosse portato nella tomba, quasi a epigrafe del suo cammino. E invece ora il parto postumo. È il libro di un fascista anomalo che dialogava con la sinistra, che sognava un ’68 nazional-rivoluzionario e una nuova repubblica, il socialismo tricolore e le alleanze trasversali. Lui che da fascista si era innamorato di Pacciardi l’antifascista e d’Israele, poi di Craxi e dei ragazzi di Cl, pur restando legato alla destra sociale. Storico dell’economia, amava Pound e le sue teorie sull’usura che gli permisero di conciliare l’economia alla poesia tramite l’epica del fascismo letterario. Aveva due anni più di Buscaroli ma gli bastarono per indossare solo per un giorno la divisa della Rsi. Era orgoglioso di aver partecipato in extremis alla nobiltà della sconfitta, quell’universo dei vinti e delle rovine di cui Buscaroli canta l’elogio. Ricordo Buscaroli come un vulcano in eruzione, emiliano sanguigno, anello di congiunzione tra d’Annunzio e Sgarbi. Giano, invece, da ligure, era parsimonioso anche di parole ed effusioni, scorreva come un fiume sotterraneo, sornione, timido e gentile. Un’aria svagata e un po’ assente, l’inquietudine intellettuale dissimulata nella flemma e un radicalismo foderato nella felpa del moderato. E poi la sua ribellione all’automobile: un giorno gettò la patente nel Tevere e da allora non guidò più. Buscaroli fece di peggio, fu investito dalla sua stessa auto senza freno a mano, e lo trasse in salvo proprio l’editore Volpe, vicino di casa, con cui aveva litigato.
Accame e Buscaroli scrissero entrambi sul Borghese, fuoruscirono presto dall’Msi, fondarono la rivista il Reazionario che era un pugno nell’occhio già nel titolo, anche se nessuno dei due può considerarsi propriamente un reazionario. Erano due neofascisti, ma intelligenti, colti e impolitici. Come altri neofascisti che rimasero tali a babbo morto: è il caso di Enzo Erra tra i giornalisti-scrittori. O di giornalisti purosangue come Giovannini, Gianna Preda, Pisanò, Bolzoni. Tra i giovani in politica, l’unico che avesse qualcosa del neofascismo colto era Marzio Tremaglia, che fu il miglior assessore regionale alla cultura, come mi disse una volta Veltroni da ministro dei Beni culturali (di Marzio si ricordano domenica prossima a Milano i dieci anni della sua morte precoce). Il neofascismo in politica fu una sterile utopia, nutrita di fedeltà e rancore; ma sublimato in arte e letteratura poteva tradursi nel sogno epico e nostalgico di un romanticismo fascista, come scrisse Paul Serant. Se la qualità e la verità contassero qualcosa, Accame e Buscaroli sarebbero oggi considerati tra i frutti migliori del giornalismo intellettuale espresso nell’Italia repubblicana. Ma si sedettero dalla parte del torto e le loro opere ne scontano ancora le conseguenze.
(di Marcello Veneziani)
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