venerdì 16 aprile 2010

Noi di Salò nel campo di prigionia


Un sorriso, sì, gli sarebbe scappato: a mezza bocca, sornione, come sempre. Perché uno con tanta avversione per la retorica da affidare il suo primo vero outing da vecchio ragazzo della Repubblica Sociale a un’intervista intitolata «Non rinnego né Salò né Sanremo», beh, magari si sarebbe pure commosso, ma di sicuro non ce l’avrebbe fatta a restare proprio serio davanti all’onda anomala di blogger di ultradestra che salutano adesso «il camerata Raimondo», gli dedicano post con croci celtiche e fasci littori corredati da pensieri come «Vianello presente! Onore alla tua coerenza» e da versi di Mario Castellacci, l’autore di «Le donne non ci vogliono più bene», l’inno romantico e guascone dei giovani repubblichini.

È rimasta seminascosta come un fiume carsico, ed infine è tornata su, quell’intervista del 1998 a Lo Stato di Marcello Veneziani, in sintonia ma anche in polemica coi tempi, perché già Violante aveva avviato il ripensamento della sinistra postcomunista sui ragazzi che scelsero «la parte sbagliata» dopo l’8 settembre ’43, e già Fini dopo Fiuggi aveva approfondito a sua volta la revisione della destra su quegli anni: «I giovani che sono andati a Salò dovrebbero essere più rispettati se non altro per i loro ideali ispiratori. Chi è andato su sapeva di finire male. Non va abiurato», disse allora Raimondo, al culmine della sua quarta o quinta giovinezza, dopo gli anni ruggenti di «Un due tre» con Ugo Tognazzi (altro camerata ragazzino, Brigata Nera di Cremona) e tre decenni consecutivi di trionfi tv, ancora in cima alla popolarità grazie a «Casa Vianello», l’eterna sit-com con l’amata Sandra. «Sapevo che c’era questa storia, mandai un redattore, lui ne fu contento, non ebbe alcuna ritrosia a parlarne», ricorda adesso Veneziani.

Dodici anni dopo, questo Paese spaesato ha fame di icone pop. Dal post di «DeEuropaeaStirpe»: «Raimondo Vianello, bersagliere volontario della Rsi: aderì per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre, con un piede già sulla macchina carica di roba, lo chiamò per dirgli a bassa voce come fosse una confidenza: "Vianello, si salvi chi può!" Onore a te, camerata, riposa in pace». Sembra di rileggere «A cercar la bella morte», le pagine di Carlo Mazzantini che, sedicenne, vede volare giù dalle finestre del suo palazzo i busti del duce dopo il 25 luglio, si volta sconcertato verso il padre che gli fa segno di starsene buono e aspettare che passi la buriana, matura la decisione di combattere «per l’onore della patria» che lo porterà al nord. Mirko Tremaglia, l’ultimo di quei ragazzi ancora in Parlamento, racconta: «Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi». Un lampo: «Gli americani che comandavano il campo ci tenevano alla fame. E per punirci ci mettevano nella "fossa dei fachiri", piena di pietre aguzze, a piedi nudi». Poi un sorriso, perché il tempo non è passato invano e ha levigato il ricordo di quelle pietre: «Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente». Si dura fatica a calare un mito televisivo dell’Italia postbellica dentro quella tragedia collettiva che stava concludendo la sua parabola nei fascist criminal camp narrati da Roberto Mieville, mito letterario dei giovani missini anni Sessanta e Settanta.

Anche Albertazzi raccontò a un giornale la sua storia: «E certo mi danneggiò enormemente nel cinema, un certo cinema era tutto comunista». Diversa la strada di Vianello: «Raimondo era d’istinto quello che si diceva un attore brillante, se uno pensa alla scena di Tarzan o all’indimenticabile Un due tre"...». Nel piccolo universo blogger della destra nostalgica e a tratti persino ingenua, l’«attor brillante » ritrova infine il giovane bersagliere. «Non ha mai rinnegato» (Vovò). «Soldato che mai ha ritrattato la propria appartenenza » (Johnny). «Chiari, Tognazzi ed ora lui: dopo la Rsi la tv, ed ora continueranno anche da lassù» (eja-Gio). «Portava con sé l’umanità e la simpatia di tanti giovani fascisti che nell’Italia dopo il 1945 dovettero lavorare duro e mandare giù rospi incredibili per andare avanti» (Quinto Fabio Massimo). Ci sono percorsi dove la piccola storia popolare incontra la Storia con la maiuscola. Dieci anni fa, uno studioso di sinistra famoso come Roberto Vivarelli, pubblicando il libro di memorie «La fine di una stagione», confessò: «Sono stato un fascista repubblicano a 13 anni e non me ne pento» (dove l’assenza di pentimento era sottolineata anche da quel repubblicano in luogo dello spregiativo repubblichino). Mazzantini, commentando quella confessione, si rammaricò che non fosse avvenuta prima, quando «certi giudizi storici potevano ancora essere modificati». Poi aggiunse: «Se oggi mi venisse riproposta la scelta, alla luce di tutto ciò che ho imparato, sceglierei ciò che scelse la maggioranza degli italiani e fu sintetizzato da una scritta apparsa a Trastevere: nun volemo né tedeschi né americani fatece piagne da soli». Vianello, rimarginate le cicatrici di Coltano, aveva scelto di farci sorridere.

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