Di solito non guardo Annozero. Michele Santoro è bravo, ma la sua trasmissione mi annoia. Nonostante la varietà degli ospiti, è troppo faziosa, si capisce sempre da che parte tira. E la parte è una sola: Silvio Berlusconi è come il colera, o ci ammazza lui o lo ammazziamo noi, in senso figurato s’intende. È la stessa solfa che sento suonare da tanti media. La conosco a memoria e mi ha stancato. Per questo, quando sta per cominciare il talk show di Michele, cambio canale.
Giovedì ho fatto un’eccezione. Sapevo che ad Annozero ci sarebbe stato un faccia a faccia fra due big: Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia, e Pierluigi Bersani, il leader del Partito democratico. Me lo sono goduto dal primo minuto all’ultimo. Ed è stato come assistere a una partita di calcio. Conclusa con un risultato netto: la vittoria per tre a zero di Tremonti su Bersani.
Perché Tremonti ha vinto? Prima di tutto, perché giocava in casa. Nel senso che il campo di gioco era quello che lui conosce meglio: la crisi economica e finanziaria, con la manovra decisa dal governo.
In materia Bersani non è uno sprovveduto, lo so bene. Ma il segretario del Pd ha dei problemi a muoversi su quel terreno. E tra un istante ne parlerò. Pure Tremonti ha dei vincoli politici, però è stato bravo a fingere di non averne.
In questo modo, il ministro dell’Economia ha saputo parlare con chiarezza. E mi ha fatto capire quattro cose essenziali, le uniche che il governo può fare e, soprattutto, deve fare. La prima è tentare di ridurre il nostro colossale debito pubblico. Poi salvare i depositi degli italiani nelle banche. Quindi difendere il valore dell’euro. E infine sostenere la cassa integrazione. Oggi come oggi, non è possibile fare altro.
Ho capito di meno quanto diceva Bersani. Non ho pregiudizi contro di lui. E meno che mai quelli acidi che gli ha scagliato addosso Carlo De Benedetti. Però il leader democratico non ha esposto la propria ricetta anticrisi con la stessa chiarezza di Tremonti. Ha parlato di sviluppo, di giovani senza lavoro, di tagli inutili fatti dal governo con l’accetta, di ceti deboli che non possono essere i soli a pagare. L’unica proposta che non ha osato esprimere in modo netto è l’aumento delle tasse per i redditi forti o ritenuti tali. Ma si capiva che a questo stava pensando.
La debolezza di Bersani è emersa quando ha rinfacciato a Tremonti, volendo rivolgersi soprattutto a Berlusconi, di aver strillato che tutto andava bene, che l’Italia non rischiava nulla, che bisognava dormire sonni tranquilli. Certo, è andata così. E il Cavaliere ha fatto la figura del cioccolataio. Ma ricordarlo a che cosa serve? E ha poco senso dire, come fa il Pd al centro-destra: riconoscete di aver avuto torto, di essere stati imprudenti, di aver venduto lucciole per lanterne, soltanto allora potremo metterci al tavolo con voi e trovare una via d’uscita dalla guerra fredda tra i due blocchi.
Tuttavia un’attenuante Bersani ce l’ha. Ha perso anche perché guida una squadra che, dal punto di vista della chiarezza progettuale, sembra la vecchia armata Brancaleone. Non abitando più a Roma, seguo le vicende della sinistra leggendo una dozzina di quotidiani. Il risultato è sconvolgente. Chi comanda nel Pd? Certo, Bersani è il segretario, ma a circondarlo c’è un gruppo dirigente pronto a scannarlo. Sto pensando a signori e signore come Veltroni, Franceschini, Marino, Bindi e il loro seguito. Un club che sta distruggendo il proprio partito. C’è da sperare che almeno D’Alema riesca a difendere il parroco e la parrocchia.
Anche a proposito della crisi, le ricette del Pd sono tante, forse troppe. Leggiamo opinioni radicalmente diverse. Ho l’impressione che Bersani non ne possa più di questa sarabanda. Quando Giulio, sornione, gli ha ricordato i nomi di due o tre democratici che non la pensano come lui, Pierluigi si è lasciato sfuggire un gesto di stizza, esclamando: “Lascia perdere, non nominarmi Tizio o Caio!”.
Come se non bastasse, Bersani è costretto ogni giorno ad alzare un muro sul fianco della sinistra radicale. L’implacabile Di Pietro va di continuo all’assalto del Pd, pur seguitando a proclamare la propria lealtà. Gli strali degli opinion maker anti-Caimano ormai si rivolgono anche contro Pierluigi. Persino i vignettisti se la prendono con lui. Venerdì 4 giugno, sul Fatto quotidiano, un grande disegnatore come Riccardo Mannelli lo ha fucilato con un ritratto al curaro. La faccia di Bersani era accompagnata da una didascalia che lo ribattezzava “Cacasonno”, ossia un leader che fa soltanto dormire. “E che parla anche a nome di Bertoldo e Bertoldino”.
Ma il dramma vero di Bersani è ancora un altro. Riguarda l’intera sinistra italiana, nelle sue diverse fazioni. E forse l’intera sinistra europea. La terribile bufera che ci avvolge l’ha paralizzata. La destra, nelle forme del centro-destra, tenta di arginare il caos, alza delle dighe, propone rimedi da lacrime e sangue. Anche se nessuno è in grado di dire quanto le difese serviranno. Però la destra si muove. Mentre la sinistra sta ferma, balbetta, propone vecchie ricette impossibili da applicare.
Ma per tornare al vincitore dello scontro ad Annozero, anche Tremonti un problema ce l’ha. Si chiama Berlusconi. Il Cavaliere odia le lacrime e il sangue. Vuole ottimismo, consumi, gioia di vivere, più libertà personali. Se potesse, farebbe a pezzi la manovra di Giulio. Adesso sembrano d’accordo su una grande riforma liberale, una deregulation destinata alle piccole imprese. Spero molto che non sia aria fritta.
(di
Giampaolo Pansa)
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