Se l’uomo è ciò che mangia, come diceva Feuerbach, lo scrittore è ciò che legge, ovvero ciò di cui si nutre la sua mente. Al Festivaletteratura di Mantova mi hanno chiesto di parlare dei cibi mentali preferiti di Ennio Flaiano. Cioè della sua biblioteca. I libri di Flaiano sono presso la biblioteca cantonale di Lugano. Un’altra fuga di capitali intellettuali in Svizzera, come è già stato per l’Archivio Prezzolini e per altri autori italiani. Ma non si tratta di evasione, semmai di fato e disattenzione: il fato volle che Prezzolini si trasferisse a Lugano, disgustato dall’Italia. E il fato volle che Rosetta Flaiano si trasferisse alla morte di suo marito in Svizzera per curare sua figlia, che poco dopo morì. Così lasciò i libri a Lugano. Al fato, o al caso come avrebbero preferito dire i due scettici espatriati, si aggiunse poi la disattenzione dell’Italia che, nonostante qualche ammirevole tentativo, lasciò cadere fuori dai propri confini i loro archivi e i loro libri.
Chi pensa alle mastodontiche biblioteche, come a esempio quelle di Spadolini, di Pontiggia o di Firpo, resterà deluso. La biblioteca di Flaiano è più esigua e si concentra su un migliaio di libri. Libri letterari, in prevalenza, da cui emerge una forte prevalenza francese. Pochi filosofi, e nelle loro opere più letterarie, niente saggi storici, politici o d’arte. C’è Schopenhauer, c’è qualche Nietzsche ancora in edizione francese (non era partita l’opera di Colli-Montinari e Giametta) però manca Zarathustra; zero di Marx nonostante l’epoca pregna di marxismo, salvo il Manifesto del partito comunista con Engels; non c’è Heidegger, non c’è Gentile, non ci sono i filosofi della contestazione. C’è l’autobiografia di Evola, Il cammino del cinabro, qualche scritto letterario di Gramsci e di Croce. Ci sono i libri degli amici, Maccari, Longanesi, Fellini, Tonino Guerra, Giancarlo Fusco, Vincenzino Talarico con il suo Otto settembre, letterati in fuga. C’è traccia della sua matrice pescarese nella folta presenza di vocabolari di dialetto abruzzese. Suscita libidine l’Almanacco delle cocotte.
La distinzione giusta in una biblioteca, soprattutto di uno scrittore, dovrebbe essere tra libri voluti e libri subiti. Ovvero libri che tu hai cercato e libri che ti sono stati mandati, proprio come accade ai figli, voluti o nati per disguido; ma il destino dei libri come quello dei figli desta sorprese: ci si può pentire di un libro voluto e di un figlio desiderato e si può amare un libro subito o un figlio venuto per disattenzione. A volte le cose a sorpresa riescono meglio. Si nota la presenza di libri di più recenti edizioni giunti a Flaiano per grazia dell’autore o dell’editore; e si notano quelli di formazione. Mi sarebbe piaciuto capire anche la loro collocazione in biblioteca decisa da Flaiano: io per esempio divido i miei libri in quattro strati. Quelli ad altezza d’uomo sono i più consultati; quelli che devi prendere in punta di piedi sono i testi più nobili; quelli che sono in cima alla biblioteca sono evaporati per la loro inconsistenza fino alla volta, tanto sono inutili e vacui; e per legge inversa, di gravità, quelli che sono nelle file più basse, ad inferos, dove ci sono i cattivi maestri, i testi più beceri con le tesi più losche.
Ma la biblioteca più cospicua da cui attinse Flaiano fu quella più sfacciata e invisibile: fu la sua vita, le gente che incontrò e che trasfigurò nei suoi scritti, epigrammi e sceneggiature, i film che vide e che al suo tempo non poteva raccogliere in dvd. Fu soprattutto quella biblioteca a cielo aperto che è Roma. Anche lui andava la sera in via Veneto, ma descrisse non solo la gente e la mentalità di quei tavolini, ma anche i romaneschi coatti de borgata, la Roma eterna e caciarona, cazzara e vitellona; c’è Trastevere e c’è l’umanità delle periferie e dei ministeri, delle matrone e delle signorine, visti con gli occhi del moralista ironico. Flaiano descrisse gli italiani viaggiando contromano con vena grottesca e surreale. Dipinse la loro identità a rovescio, li fotografò nel loro simpatico stronzeggiare o nel loro cinico e furbo coglionare il prossimo. Notò che quella italiana non è una nazionalità, ma un professione, e che gli italiani non sono una razza, ma una collezione. Li osservava da vicino, Flaiano, e poi si rifugiava tra i suoi bei classici, in biblioteca, per cercare conferme del genere umano nella grande letteratura e nel passato remoto.
Oscillò tra due disincanti: quello conservatore di Longanesi e quello laico-liberale di Pannunzio. Su tutto alla fine prevalse in Flaiano un sentimento di noia: «La noia è la verità allo stato puro». Una volta guardando il numero di un autobus, il 92, Flaiano pensò e annotò: «Chissà se ci arriverò al ’92. Però che noia». Il fato lo imbarcò con forte anticipo sul ’72 con la bara, come dicono a Roma sdoppiando la erre, risparmiandogli la noia di vivere altri vent’anni.
P.S. Non so perché è toccato a me aprire le danze sulla biblioteca di Flaiano. Non fui suo amico per ragioni d’età, non sono un suo studioso e nemmeno un critico letterario. Azzardo una ragione occasionale: perché quando Flaiano arrivò a Roma andò ad abitare come me in viale delle Milizie. Diciamo che ho parlato di lui in veste condominiale, per ragioni di vicinato. O forse sono stato invitato da esperto di biblioteche perdute (ma poi ritrovate, per fortuna). Sono stato presentato come «suo estimatore» e questo è vero e mi basta. Ma molti giornali mi hanno tolto da ogni imbarazzo ignorando la mia presenza a Mantova come al festival della filosofia di Modena, il cui tema coincide col mio libro. Quando leggete la formula: «interverranno tra gli altri», sappiate, io sono il signor Traglialtri. Non è per montarsi la testa, ma non mi nominano mai invano, né per i miei libri né per premi, destre o convegni. Divertente, e un po’ meschino. A proposito, dimenticavo I miserabili di Victor Hugo. Non c’è nella biblioteca di Flaiano. Forse si nascondono nelle redazioni.
Chi pensa alle mastodontiche biblioteche, come a esempio quelle di Spadolini, di Pontiggia o di Firpo, resterà deluso. La biblioteca di Flaiano è più esigua e si concentra su un migliaio di libri. Libri letterari, in prevalenza, da cui emerge una forte prevalenza francese. Pochi filosofi, e nelle loro opere più letterarie, niente saggi storici, politici o d’arte. C’è Schopenhauer, c’è qualche Nietzsche ancora in edizione francese (non era partita l’opera di Colli-Montinari e Giametta) però manca Zarathustra; zero di Marx nonostante l’epoca pregna di marxismo, salvo il Manifesto del partito comunista con Engels; non c’è Heidegger, non c’è Gentile, non ci sono i filosofi della contestazione. C’è l’autobiografia di Evola, Il cammino del cinabro, qualche scritto letterario di Gramsci e di Croce. Ci sono i libri degli amici, Maccari, Longanesi, Fellini, Tonino Guerra, Giancarlo Fusco, Vincenzino Talarico con il suo Otto settembre, letterati in fuga. C’è traccia della sua matrice pescarese nella folta presenza di vocabolari di dialetto abruzzese. Suscita libidine l’Almanacco delle cocotte.
La distinzione giusta in una biblioteca, soprattutto di uno scrittore, dovrebbe essere tra libri voluti e libri subiti. Ovvero libri che tu hai cercato e libri che ti sono stati mandati, proprio come accade ai figli, voluti o nati per disguido; ma il destino dei libri come quello dei figli desta sorprese: ci si può pentire di un libro voluto e di un figlio desiderato e si può amare un libro subito o un figlio venuto per disattenzione. A volte le cose a sorpresa riescono meglio. Si nota la presenza di libri di più recenti edizioni giunti a Flaiano per grazia dell’autore o dell’editore; e si notano quelli di formazione. Mi sarebbe piaciuto capire anche la loro collocazione in biblioteca decisa da Flaiano: io per esempio divido i miei libri in quattro strati. Quelli ad altezza d’uomo sono i più consultati; quelli che devi prendere in punta di piedi sono i testi più nobili; quelli che sono in cima alla biblioteca sono evaporati per la loro inconsistenza fino alla volta, tanto sono inutili e vacui; e per legge inversa, di gravità, quelli che sono nelle file più basse, ad inferos, dove ci sono i cattivi maestri, i testi più beceri con le tesi più losche.
Ma la biblioteca più cospicua da cui attinse Flaiano fu quella più sfacciata e invisibile: fu la sua vita, le gente che incontrò e che trasfigurò nei suoi scritti, epigrammi e sceneggiature, i film che vide e che al suo tempo non poteva raccogliere in dvd. Fu soprattutto quella biblioteca a cielo aperto che è Roma. Anche lui andava la sera in via Veneto, ma descrisse non solo la gente e la mentalità di quei tavolini, ma anche i romaneschi coatti de borgata, la Roma eterna e caciarona, cazzara e vitellona; c’è Trastevere e c’è l’umanità delle periferie e dei ministeri, delle matrone e delle signorine, visti con gli occhi del moralista ironico. Flaiano descrisse gli italiani viaggiando contromano con vena grottesca e surreale. Dipinse la loro identità a rovescio, li fotografò nel loro simpatico stronzeggiare o nel loro cinico e furbo coglionare il prossimo. Notò che quella italiana non è una nazionalità, ma un professione, e che gli italiani non sono una razza, ma una collezione. Li osservava da vicino, Flaiano, e poi si rifugiava tra i suoi bei classici, in biblioteca, per cercare conferme del genere umano nella grande letteratura e nel passato remoto.
Oscillò tra due disincanti: quello conservatore di Longanesi e quello laico-liberale di Pannunzio. Su tutto alla fine prevalse in Flaiano un sentimento di noia: «La noia è la verità allo stato puro». Una volta guardando il numero di un autobus, il 92, Flaiano pensò e annotò: «Chissà se ci arriverò al ’92. Però che noia». Il fato lo imbarcò con forte anticipo sul ’72 con la bara, come dicono a Roma sdoppiando la erre, risparmiandogli la noia di vivere altri vent’anni.
P.S. Non so perché è toccato a me aprire le danze sulla biblioteca di Flaiano. Non fui suo amico per ragioni d’età, non sono un suo studioso e nemmeno un critico letterario. Azzardo una ragione occasionale: perché quando Flaiano arrivò a Roma andò ad abitare come me in viale delle Milizie. Diciamo che ho parlato di lui in veste condominiale, per ragioni di vicinato. O forse sono stato invitato da esperto di biblioteche perdute (ma poi ritrovate, per fortuna). Sono stato presentato come «suo estimatore» e questo è vero e mi basta. Ma molti giornali mi hanno tolto da ogni imbarazzo ignorando la mia presenza a Mantova come al festival della filosofia di Modena, il cui tema coincide col mio libro. Quando leggete la formula: «interverranno tra gli altri», sappiate, io sono il signor Traglialtri. Non è per montarsi la testa, ma non mi nominano mai invano, né per i miei libri né per premi, destre o convegni. Divertente, e un po’ meschino. A proposito, dimenticavo I miserabili di Victor Hugo. Non c’è nella biblioteca di Flaiano. Forse si nascondono nelle redazioni.
(di Marcello Veneziani)
Nessun commento:
Posta un commento