Tecnica del colpo di Stato, di Curzio Malaparte, uscì in Francia nel 1931. Un anno dopo, in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, Trotski si sentirà in dovere di contraddire pubblicamente il suo autore; vent’anni più tardi Ernesto Che Guevara porterà quel libro con sé durante l’avventura castrista e la successiva conquista del potere a Cuba.
Nel 1947, dal fondo della sua «prigione» danese, Louis-Ferdinand Céline risponde fra l’altro così all’offerta d’aiuto dello scrittore pratese: «Qui Kaputt è sulla bocca di tutti. Dell’élite che legge voglio dire, quella timorata di Dio per esempio, ma per la Danimarca è un trionfo. Ancora grazie, fraternamente». Blaise Cendrars, il romanziere monco e vagabondo idolo di tutte le avanguardie, andrà oltre: «Kaputt è un capolavoro, geniale e disgustoso. Anch’io credo che la civiltà sia fottuta. Per questo bisogna dire quello che abbiamo nel cuore. Altri parleranno dello stomaco». Sulla stessa lunghezza d’onda sarà l’anarco-pacifista Henry Miller: «Voi avete realmente compreso il significato recondito di queste guerre mondiali che sono appena all’inizio». Negli anni Ottanta del Novecento, in un saggio apparso su Vanity Fair, Bruce Chatwin accuserà Malaparte di snobismo, il che detto da lui suona involontariamente comico; più intelligentemente, agli inizi del nuovo millennio, Milan Kundera definirà l’autore di La pelle «un poeta, non uno scrittore impegnato. Con le sue parole fa male a se stesso e agli altri, chi parla è un uomo che soffre».
Se nell’arco di una vita, e post mortem, uno scrittore continua a far discutere e a far riflettere fuori dal suo Paese d’origine, vuol dire che la sua dimensione è internazionale e come tale va trattata. Nello scrivere questa monumentale e bellissima biografia, che non a caso esce in Francia (Malaparte. Vies et lègendes), ricca di annotazioni psicologiche e che senza fare sconti di sorta restituisce in pieno il carattere del biografato, Maurizio Serra fa giustizia di quel provincialismo culturale che tanto vessò Malaparte in vita e in patria. Il libro, una miniera di inediti (la lettera di risposta di Céline sopra citata, così come quella di Henry Miller, per dirne soltanto due), lo riconsegna dunque alla dimensione che è sempre stata sua: Prospettive, la rivista da lui fondata negli anni Trenta, presentava traduzioni di García Lorca, Eluard, Yeats, Eliot, Rafael Alberti, Antonio Machado, Gottfried Benn; Kaputt e La pelle sono le più impressionanti descrizioni della Finis Europae che siano mai state scritte; in Deux chapeaux de paille d’Italie, pubblicato sempre in Francia nel 1948, si prevedeva il compromesso storico fra democristiani e comunisti con trent’anni d’anticipo...
Questo spiega perché nel libro di Serra ci sia più spazio per Jünger, Malraux, Koestler, Hemingway (senza dimenticare Byron e Chateaubriand) che per Longanesi, Maccari, Montanelli, perché Alberto Moravia, che pure si giovò del suo aiuto e della sua influenza, abbia in seguito sempre cercato di favorirne l’oblio, perché all’interno dello stesso fascismo Malaparte abbia fatto vita a sé, inclassificabile e perciò sostanzialmente ingovernabile. Degli scrittori suoi contemporanei, quello che più gli somiglia, non è del resto un italiano, ma un francese, Pierre Drieu La Rochelle.
La rivolta dei santi maledetti sta alla Comédie de Charleroi, L’Europa vivente è l’altra faccia di Socialisme fasciste. Il tema della decadenza che ossessionerà Drieu per tutta la sua opera è quello che Malaparte, dalla Pelle a Mamma marcia farà proprio: il decomporsi di una civiltà e l’impossibilità di porvi un freno, l’aver sognato un ritorno a valori antichi, elementari, come antidoto, il doverne constatare il fallimento, il prendere atto della fine di un mondo. Malaparte scrittore europeo: era ora.
(di Stenio Solinas)
Nel 1947, dal fondo della sua «prigione» danese, Louis-Ferdinand Céline risponde fra l’altro così all’offerta d’aiuto dello scrittore pratese: «Qui Kaputt è sulla bocca di tutti. Dell’élite che legge voglio dire, quella timorata di Dio per esempio, ma per la Danimarca è un trionfo. Ancora grazie, fraternamente». Blaise Cendrars, il romanziere monco e vagabondo idolo di tutte le avanguardie, andrà oltre: «Kaputt è un capolavoro, geniale e disgustoso. Anch’io credo che la civiltà sia fottuta. Per questo bisogna dire quello che abbiamo nel cuore. Altri parleranno dello stomaco». Sulla stessa lunghezza d’onda sarà l’anarco-pacifista Henry Miller: «Voi avete realmente compreso il significato recondito di queste guerre mondiali che sono appena all’inizio». Negli anni Ottanta del Novecento, in un saggio apparso su Vanity Fair, Bruce Chatwin accuserà Malaparte di snobismo, il che detto da lui suona involontariamente comico; più intelligentemente, agli inizi del nuovo millennio, Milan Kundera definirà l’autore di La pelle «un poeta, non uno scrittore impegnato. Con le sue parole fa male a se stesso e agli altri, chi parla è un uomo che soffre».
Se nell’arco di una vita, e post mortem, uno scrittore continua a far discutere e a far riflettere fuori dal suo Paese d’origine, vuol dire che la sua dimensione è internazionale e come tale va trattata. Nello scrivere questa monumentale e bellissima biografia, che non a caso esce in Francia (Malaparte. Vies et lègendes), ricca di annotazioni psicologiche e che senza fare sconti di sorta restituisce in pieno il carattere del biografato, Maurizio Serra fa giustizia di quel provincialismo culturale che tanto vessò Malaparte in vita e in patria. Il libro, una miniera di inediti (la lettera di risposta di Céline sopra citata, così come quella di Henry Miller, per dirne soltanto due), lo riconsegna dunque alla dimensione che è sempre stata sua: Prospettive, la rivista da lui fondata negli anni Trenta, presentava traduzioni di García Lorca, Eluard, Yeats, Eliot, Rafael Alberti, Antonio Machado, Gottfried Benn; Kaputt e La pelle sono le più impressionanti descrizioni della Finis Europae che siano mai state scritte; in Deux chapeaux de paille d’Italie, pubblicato sempre in Francia nel 1948, si prevedeva il compromesso storico fra democristiani e comunisti con trent’anni d’anticipo...
Questo spiega perché nel libro di Serra ci sia più spazio per Jünger, Malraux, Koestler, Hemingway (senza dimenticare Byron e Chateaubriand) che per Longanesi, Maccari, Montanelli, perché Alberto Moravia, che pure si giovò del suo aiuto e della sua influenza, abbia in seguito sempre cercato di favorirne l’oblio, perché all’interno dello stesso fascismo Malaparte abbia fatto vita a sé, inclassificabile e perciò sostanzialmente ingovernabile. Degli scrittori suoi contemporanei, quello che più gli somiglia, non è del resto un italiano, ma un francese, Pierre Drieu La Rochelle.
La rivolta dei santi maledetti sta alla Comédie de Charleroi, L’Europa vivente è l’altra faccia di Socialisme fasciste. Il tema della decadenza che ossessionerà Drieu per tutta la sua opera è quello che Malaparte, dalla Pelle a Mamma marcia farà proprio: il decomporsi di una civiltà e l’impossibilità di porvi un freno, l’aver sognato un ritorno a valori antichi, elementari, come antidoto, il doverne constatare il fallimento, il prendere atto della fine di un mondo. Malaparte scrittore europeo: era ora.
(di Stenio Solinas)
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