domenica 5 giugno 2011

L’importanza di essere democristiano



Il posto delle fragole di Ettore Bernabei, novantanni a maggio, quercia del 1921 indisponibile a perdere le foglie, è una casa in campagna al confine tra il Lazio e l’Abruzzo. È qui, in faccia all’A24, con il vento che accarezza l’erba e il conforto di Eschilo e Bernard Shaw, che Bernabei medita sulla resurrezione di Cristo e ricorda tutte le volte che, da direttore generale della Rai, venne messo in croce. Arrivò nel 1961, rimase fino al ’ 74. Innovazioni, censure, polemiche, lottizzazioni, lampi di pedagogica televisione. Tognazzi che faceva il verso a Gronchi, Carosello, le tribune politiche di Jader Jacobelli e Canzonissima. Il boom, il ’68 e piazza Fontana. Le tintarelle di luna e i drammi al sole.

Bernabei era ed è democristiano, anche se la Dc: “Era decotta già due decenni fa e nessuno saprà riproporne l’esperimento». Ha conosciuto e consigliato pontefici e cardinali, presidenti del Consiglio e capi di Stato, indirizzando carriere e frenandone altre. Ha vestito e continua a indossare il saio da ieratico, ascoltatissimo profeta dei piani alti, anche se assicura: «Per me il potere non è mai stato quello che Kissinger definiva l’afrodisiaco supremo». Riflette su ogni parola, quando cerca la concentrazione chiude gli occhi azzurri dietro la montatura degli occhiali e non di rado alza la voce e diventa porpora in corrispondenza di un concetto. Ha inventato dal nulla e affidato ai figli Matilde e Luca la Lux, produzione tv specializzata in plot graditi al Vaticano. Ha messo al mondo otto figli con la stessa moglie con la quale convive felicemente da più di 65 anni. Legge dieci giornali al giorno, prega e a tavola gareggia con Pantagruel. «In qualità, però». Porcini, bistecche, vino rosso. Poi si alza e cammina senza percepibili aggravi: «Sente che arietta rigenerante qui?».

La Rai non è più la stessa di Bernabei, dicono.

«Forse, ma io credo che la nostalgia sia il più inutile tra i sentimenti. Passano i decenni, cambiano le piattaforme, aumenta la scelta. Solo il ruolo di direttore generale è rimasto lo stesso di allora ».

Ovvero?

«L’orso del luna park da abbattere».

Cosa pensa della Rai diretta da Mauro Masi?

«Niente di particolare. Quella di Stato sopravanza la concorrenza privata, ma complessivamente ritengo la tv un prodotto della globalizzazione usato negli ultimi 25 anni per distrarre la gente dalle grandi manovre della finanza speculativa».

Assolve completamente il dg attuale?

«Non sono un giudice e non sono arrivato a novant’anni per apparire presuntuoso».

Masi però si è fatto notare.

«Se proprio desidera un po’ di frizione, le dirò che al suo posto, io la telefonata in diretta a Santoro non l’avrei fatta. Esistono questioni che si possono risolvere con il dialogo, senza che le orecchie indiscrete si contino a milioni».

Al chiuso delle stanze ne dipanò molte?

«Alla Rai sono rimasto per 13 anni. Mi hanno lasciato andar via nel ’74, nonostante fin dal ’71 chiedessi di lasciarla».

Rottura traumatica?

«I responsabili mi accontentarono per fare una bella figura dopo la sconfitta De sul referendum divorzista che segnò l’indebolimento di Fanfani. Ad assumere l’incarico, nonostante i miei dubbi, mi aveva proiettato proprio Amintore nel 1961 ».

Per Fanfani, la consultazione fu un duro colpo.

«Ma Casaroli, il segretario di Stato vaticano, mi consolò: “Mai avrei pensato che quattro donne su dieci non volessero cambiar marito a nessun costo”».

Ricordi all’ombra del cavallo di viale Mazzini?

«Lieti. Ero sotto attacco tutti i giorni, per un pezzo di Paese incarnavo il male, ma nella lotta cercavo di rimanere in piedi».

Come era considerato in azienda?

«Un terribile rompiscatole. (La parola è diversa, ndr.). Controllavo bilanci, copioni e scalette. Vigilavo sulla qualità. Un mio diritto e soprattutto un mio assoluto dovere nei confronti degli abbonati».

Quello che non doveva passare non passava.

«Ne è così sicuro? Voi giovani vi ispirate al manicheismo. Il bene, il male. Il buio, la luce. La realtà è più complessa, tiene conto di molti fattori. Sa cosa mi disse l’ex segretario della Cgil, Luciano Lama?».

Cosa le disse?

«Che le piazzate televisive a sfondo sociale, per la sua area di riferimento, erano pericolosissime: “Sentendo urlare in televisione, qualcuno potrebbe farsi venire il dubbio che vent’anni di battaglie sindacali non siano servite a niente”. Capisce?»

Però Dario Fo lo censuraste.

«Lo rifarei. Forse capitò anche con altri, ma lo sketch di Canzonissima del ’62, con il padrone felice per la morte di un suo operaio era indecente. Polizia ed edili si affrontavano davvero a colpi di sampietrini e Fo voleva a tutti i costi fare notizia. La tv ha doveri, responsabilità. Può e deve essere una guida, mai un cattivo esempio».

Nella sua Rai nuotavano contraddizioni. Il rigore alternato alle gemelle Kessler.

«Cosa vuole? Io vengo da una scuola austera, ma lo sgambettare delle Kessler in calzamaglia era elegante e non volgare».

Cosa campeggia ora al posto delle Kessler?

«Un panorama di sesso e violenza. Un osceno salto all’indietro, magari mi sbaglio».

Ancora convinto che il voto ai diciottenni rappresenti una follia?

«Su certe questioni non si cambia idea. Valutando poi che oggi ci si sposa a 35 anni e non a 24, non recedo di un millimetro».

Il peggiore direttore generale della Rai?

«Non glielo dico».

Il migliore?

«Dovrei dire Agnes e Pasquarelli, ma non lo farò. Sono amici, non sarebbe serio».

In arrivo, per sostituire Masi, sembrerebbe in prima fila Lorenza Lei. Una laica che si è avvicinata ai cattolici. Sarebbe il primo direttore generale donna della storia della Rai.

«Sono abbastanza convinto della diseguaglianza tra uomo e donna e non ritengo la discriminante sessista una medaglia in sé per sé. Ma Lorenza Lei appartiene a un nucleo di altissima professionalità che ancora pulsa in Rai. Farà bene».

Lei criticò aspramente il Grande fratello.

«Spazzatura pura, ma oggi, rispetto alla mia epoca, la differenza la fa il telecomando. Messaggi subliminali a parte, se lo spettacolo disgusta, si può sempre cambiare agevolmente canale. Il digitale ha mutato il contesto per sempre».

A viale Mazzini si fatica?

«Le giornate valgono per due. Dopo pochi mesi, mi feci una promessa: “A sessantanni, qualunque cosa accada, andrò in pensione”. Non è avvenuto, ma non tutte le aspirazioni si possono realizzare».

Durante la sua reggenza da direttore generale della Rai provarono ad allontanarla spesso.

«Forlani disse: “Se trovate qualcuno che curi meglio di Bernabei gli interessi della Dc, caccio Ettore in meno di 24 ore”».

Cosa accadde?

«Non lo trovarono. Però dipingermi soltanto come un uomo di parte sarebbe riduttivo. Cercavo un punto di interesse comune, mi avvalevo dei collaboratori laici, ascoltavo anche il Pci. Non dimentichi che alla Rai assunsi Biagi, Ronchey, Levi, Barbato e Furio Colombo».

La tv degli anni Sessanta alfabetizzò il Paese. L’obiettivo era educare milioni di Italiani?

«In parte, ma io il pubblico l’ho sempre rispettato. Non ho mai considerato né definito gli spettatori “teste di cazzo” come qualcuno, capziosamente suggerì. Però le rammento un princìpio basilare».

Prego.

«La tv è come l’atomica. Bisogna saper maneggiare il mezzo. Il problema non è tutelare un partito, ma proteggere dalla comunicazione deviata uomini e donne che davanti allo schermo si affacciano vergini».

La sua Rai era nota per le raccomandazioni.

«Ma io sono un fautore delle segnalazioni. (Alza il tono, sorride, batte i pugni sul tavolo ndr.). Senza quelle non avrei mai scoperto Fabiano Fabiani o Renzo Arbore. Ne arrivavano 20 mila l’anno. Per smistarle, esisteva un apposito ufficio con 6 impiegati».

Come funzionava?

«Superata la commissione esaminatrice, mi consultavo con il mio braccio destro, Gennarini. Gli chiedevo chi stessimo imbarcando e lui, secco: “Tranquillo direttore, è un democristiano”. Allora ribattevo: “Ma è credente? Perché che sia democristiano conta relativamente, l’importante è che il candidato creda in Dio”».

Quali erano le proporzioni spartitorie?

«Eque. Ragionevoli. Realiste. Tre posti alla Dc, due al resto del mondo».

Ricorda lamentele particolari?

«Ogni tanto, si manifestava la politica. Telefonava Rumor: “Sai Ettore, bisognerebbe essere più cauti a proposito di...”».

Arrivarono a Intercettarla. Vennero pubblicati giudizi non proprio benevoli su Zaccagnini.

«Ma ero già all’Italstat, dove arrivai in una holding che produceva 450 miliardi l’anno e la lasciai che ne fatturava 6 mila».

Le intercettazioni, dicevamo.

«Giorgio Dell’Arti calcolava che a Roma, nel ’76, trafficassero indisturbate 15 mila spie. È una cifra per difetto, credo. Portieri d’albergo e camerieri erano, in gran parte, informatori della questura. Tutti ascoltavano tutto. Da questo punto di vista, in quarant’anni, è cambiato poco».

Siamo il Paese dei dossier.

«E dei servizi con la S maiuscola. Nel ’59, da direttore del “Popolo”, ci cascai anche io. Ci diedero una informativa con la firma di Pajetta. Riguardava le armi che dopo la Liberazione i comunisti si erano rifiutati di consegnare agli alleati. La firma sì rivelò falsa. Dovetti chiedergli scusa».

La dietrologia comunque non le dispiace.

«Spesso converge con la verità. Pensi al povero Aldo Moro. Io credo ai solerti 007 che hanno ubicato il suo barbaro omicidio tra le mura di Palazzo Caetani».

Lei Moro lo conosceva bene.

«Benissimo. Lui e la sua calligrafia. Le lettere dalla prigionia, ad esempio, non sono scritte dalla sua mano. Se si vuole intuire qualcosa della recente parabola italiana, bisogna partire dal sogno energetico di Enrico Mattei».

Perché proprio Mattei?

«Il suo progetto, l’autosufficienza a basso costo per l’Italia, irritò le grandi potenze. Disturbavamo. Da allora, il progetto di de-stabilizzazione del Paese non conobbe soste. Lo sapevano in Vaticano e ne tenevano conto in Piazza del Gesù».

Tra il tramonto dei Sessanta e i Settanta l’Italia fu scossa da tragedie. Anni di caos.
«Stragi, bombe, terrorismo. I brigatisti rossi erano omuncoli di rara modestia. Mai avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico e ideologico della loro mattanza».

Quindi?

«Erano eterodiretti. Qualcuno ha calcolato che l’operazione costò in termini economici tra covi, armi e coperture, più della guerra del Vietnam».

Se le dico lobby cosa le viene in mente?

«Il clan dei sardi è stato, in Italia, l’unico vero gruppo di potere degli ultimi 50 anni. Politica, massoneria, matrimoni in chiesa, parentele, trasversalità. Berlinguer, Siglienti, Segni, Cossiga. Ricorda le picconate?».

Certo.

«Chi le scriveva per lui, sapeva quali messaggi trasmettere. Tra le righe, si sostenevano cose enormi, ma non c’era un solo passaggio che lo avrebbe potuto trascinare all’impeachment. Il Cossiga scosso dal caso Moro e messo a terra dalla vicenda Donat Cattin-Prima Linea, seppe poi adeguatamente risorgere».

Divenne presidente della Repubblica.

«All’unanimità. Dovrebbe far riflettere».

Lei parla di lobbisti, ma qualcuno potrebbe farle notare che fa parte dell’Opus Dei.

«In assoluta coscienza posso testimoniare che l’Opus Dei non è una lobby di mutuo soccorso. Ci ritroviamo frequentemente in chiesa per esercizi spirituali. Ci rasserena».

Torniamo a lei. Negli anni Ottanta la processarono per i fondi neri dell’Iri.

«E poi mi assolsero. Puntavano alla Dc. Era una Tangentopoli anticipata di dieci anni. Lo dissi al partito e anche a Craxi. Bettino non ci credette, pensò a una oscura manovra della Fiat».

È vero che prega per Berlusconi?

«Prego per molte persone».

È vero o no?

«È vero. Prego perché possa avere la grazia di perdonare i suoi persecutori e conquistare il rispetto dei suoi avversari».

Chi sono i poteri forti, oggi, in Italia? (Lunga pausa, ndr.).

«Non lo so, so però che in certi ambienti si respira l’esigenza di ristabilire nuovi equilibri nel Mediterraneo. Sono partiti dalle coste meridionali e arriveranno in breve a quelle settentrionali. Quando decidono di cambiare cavallo o mutare il quadro generale, sanno agire».

Chi sono queste persone?

«Gruppi di influenza transnazionale, diciamo cosi».

Cambiamo argomento. Ha paura della morte?

«Paura no, ci penso spesso però. E ogni sera, mi dichiaro pronto ad andare».

Lei parla con Dio, Moretti Indaga sul tormenti di un pontefice. Ha visto “Habemus Papam”?

«Ancora no, però vidi il “Caimano”. Certi film, anche se postulano il contrario, sembrano girati per eternizzare Berlusconi».

A proposito: come vorrebbe essere ricordato?

«Come un uomo che provò a dare una mano a quelli rimasti più indietro e in certi casi a offrire un consiglio ritenuto utile a chi marciava in testa al corteo».

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