Sorella latina o puttana dell’Eurorepubblica? Entrambe. Amiamo la Francia senza aver ancora deciso se farlo grazie ai francesi o loro malgrado. Dal barbaro Brenno che ci obbligò a riscattare la Patria – “non con l’oro ma con il ferro” – al Sarkozy che fa il bullo con noi indossando una maschera comica smisurata per la sua complessione, c’è di mezzo l’inventario d’ogni luogo comune fiorito tra Roma e Parigi (o Lutetia Parisiorum, sobborgo di fondazione romana). Ma a chi giova avvelenare la Senna? La verità è che la parte migliore dell’Italia, dal tardo impero in poi, soffre a vedersi rifratta nella mancata promessa della grandeur francese. Quanta somiglianza di caratteri. E quanta nobiltà di sangue narbonese spesa per arrestare le invasioni ostrogote. I Galli ci piacquero quando imitavano i Romani, come ammise uno dei migliori, Claudio Rutilio Namaziano da Tolosa, rivolgendosi all’Urbe nel Quinto secolo dell’èra volgare: “Desti una patria ai popoli / dispersi in cento luoghi: / furon ventura ai barbari / le tue vittorie e i gioghi; / ché del tuo diritto ai sudditi / mentre il consorzio appresti, / di tutto il mondo una città facesti”.
Diverso è quando i francesi vogliono piacere troppo a se stessi, sovente a spese dell’Italia. Dall’usurpazione di Carlo Magno che s’incoronò imperatore senza controllare che quattro piazzeforti, fino a Napoleone Bonaparte, dono genuinamente italico sfiorito nel narcisismo parigino, si rincorrono delusioni condivise, aborti clandestini di uno sforzo che sarebbe culminato nella Grande guerra. Lo sforzo di fecondare assieme l’Europa. Amiamo la Francia anche perché ci è stata madrina rivoluzionaria o la detestiamo piuttosto come la gran Bottegaia che si è venduta Venezia a Campoformio? Proprio lei, cui l’Italia ha prestato i simboli dell’auctoritas e della legge, lei poi fucilatrice della Repubblica romana di Garibaldi. Eppure in quelle sorti già quasi antiche ci si scontrava fra titani, sovrani, cavalieri e arditi. Il y avait de l’honneur.
Ma nella Francia che si perde sotto ai tacchi di Sarko, dietro la guapperia di uno che per irridere Berlusconi si fa uguale alla sua peggiore controfigura da Bagaglino, oggi riconosciamo il dolore di Vittorio Alfieri verso i cugini degeneri di Francia: “Sempre insolenti / Coi Re impotenti / Sempre ridenti / Coi re battenti. / Talor valenti; / Sangue-beventi, / Regi stromenti”. In questi versi del “Misogallo” (1799-1814) abita pure la nostra gretta contemporaneità: la scostumatezza anti italiana a mezzo conferenza stampa; la complicità ridanciana offerta alla potente di turno, frau Merkel, già bersaglio di lividi motteggi privati all’Eliseo (“dice di stare a dieta e poi fa sempre il bis col formaggio”); il valore irrefutabile di uno stato grande e muscoloso come le sue vacche di Normandia; la sua inclinazione a incanaglire quando si presenti un tornaconto immediato (ne sanno qualcosa l’anima nera di Muammar Gheddafi e quelli che gli hanno bevuto il sangue accanto agli addestratori parigini). Infine c’è il destino, che nel caso dei francesi si chiama Restaurazione perfino quando loro ci si gettano in forma preterintenzionale. Quella viennese ieri, quella bancocentrica oggi.
Nel cattivo spettacolo dell’attuale regnante di Francia indoviniamo, forse, la nostra ciclica debolezza, ma sopra tutto l’incapacità sua di farsene una ragione e non un belletto settecentesco con cui pittarsi la faccia per intrattenere il pubblico internazionale. Più o meno lo stesso pubblico che presto o tardi presenterà a lui, Sarkozy, non più un candido peluche per onorare sua figlia Giulia ma il conto salato dell’otre di orgoglio dal quale è posseduto e inebriato. Quel momento scenderà come la notte, ma noi ci coglierà sobri.
(di Alessandro Giuli)
Diverso è quando i francesi vogliono piacere troppo a se stessi, sovente a spese dell’Italia. Dall’usurpazione di Carlo Magno che s’incoronò imperatore senza controllare che quattro piazzeforti, fino a Napoleone Bonaparte, dono genuinamente italico sfiorito nel narcisismo parigino, si rincorrono delusioni condivise, aborti clandestini di uno sforzo che sarebbe culminato nella Grande guerra. Lo sforzo di fecondare assieme l’Europa. Amiamo la Francia anche perché ci è stata madrina rivoluzionaria o la detestiamo piuttosto come la gran Bottegaia che si è venduta Venezia a Campoformio? Proprio lei, cui l’Italia ha prestato i simboli dell’auctoritas e della legge, lei poi fucilatrice della Repubblica romana di Garibaldi. Eppure in quelle sorti già quasi antiche ci si scontrava fra titani, sovrani, cavalieri e arditi. Il y avait de l’honneur.
Ma nella Francia che si perde sotto ai tacchi di Sarko, dietro la guapperia di uno che per irridere Berlusconi si fa uguale alla sua peggiore controfigura da Bagaglino, oggi riconosciamo il dolore di Vittorio Alfieri verso i cugini degeneri di Francia: “Sempre insolenti / Coi Re impotenti / Sempre ridenti / Coi re battenti. / Talor valenti; / Sangue-beventi, / Regi stromenti”. In questi versi del “Misogallo” (1799-1814) abita pure la nostra gretta contemporaneità: la scostumatezza anti italiana a mezzo conferenza stampa; la complicità ridanciana offerta alla potente di turno, frau Merkel, già bersaglio di lividi motteggi privati all’Eliseo (“dice di stare a dieta e poi fa sempre il bis col formaggio”); il valore irrefutabile di uno stato grande e muscoloso come le sue vacche di Normandia; la sua inclinazione a incanaglire quando si presenti un tornaconto immediato (ne sanno qualcosa l’anima nera di Muammar Gheddafi e quelli che gli hanno bevuto il sangue accanto agli addestratori parigini). Infine c’è il destino, che nel caso dei francesi si chiama Restaurazione perfino quando loro ci si gettano in forma preterintenzionale. Quella viennese ieri, quella bancocentrica oggi.
Nel cattivo spettacolo dell’attuale regnante di Francia indoviniamo, forse, la nostra ciclica debolezza, ma sopra tutto l’incapacità sua di farsene una ragione e non un belletto settecentesco con cui pittarsi la faccia per intrattenere il pubblico internazionale. Più o meno lo stesso pubblico che presto o tardi presenterà a lui, Sarkozy, non più un candido peluche per onorare sua figlia Giulia ma il conto salato dell’otre di orgoglio dal quale è posseduto e inebriato. Quel momento scenderà come la notte, ma noi ci coglierà sobri.
(di Alessandro Giuli)
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