sabato 28 gennaio 2012

Quei "compagni" alla corte di Goebbels


È un libro strano e bello L’albero del mondo di Mauro Mazza (Fazi, pagg. 158, euro 16). Saggio e romanzo, è una riflessione storica sulla generazione che, per chi come l’autore e chi scrive ha superato i cinquant’anni, fu quella dei padri, e tuttavia anche un esame di coscienza per la propria, da quei padri segnata, certo, e però alla ricerca di una propria via individuale che nel rispetto e, se il caso, nel disprezzo per ciò che è stato, permetta una volta per tutte l’uscita dal tunnel delle ideologie novecentesche che così duramente segnarono quel secolo.

Il sottotitolo recita Weimar, ottobre 1942, ovvero l’autunno del disincanto per molti degli intellettuali fascisti chiamati a discutere nella cittadina tedesca sullo stato della cultura e dell’Europa, ovvero sul proprio «domani», vincitori o vinti. Dopo le conquiste sfolgoranti dei primi anni, la guerra aveva preso un’altra piega: erano scesi in campo gli Usa, la Wehrmacht si era trovata bloccata a Stalingrado, l’Italia si era rivelata l’anello di latta di un patto d’acciaio non più tale. Che fare? Come comportarsi? A chi credere? Fra gli scrittori italiani presenti a Weimar, Mazza focalizza l’interesse sulla «promessa» Giaime Pintor, germanista di valore a dispetto della giovane età (era poco più che ventenne), e sul più «anziano» Elio Vttorini, trentenne, romanziere, polemista, traduttore.

Gli altri, i Falqui, i Baldini, i Cecchi, appartengono in fondo, per gusti, abitudini, temperamenti, stili di vita, al vecchio mondo liberale che vent’anni prima il fascismo aveva politicamente spazzato via. Sono professori, studiosi di tutto rispetto, ma tutti più o meno conservatori, più o meno reazionari, più o meno codini, più o meno apolitici. Stanno sì con il Regime, ma l’impressione è che starebbero con qualsiasi regime purché venisse loro concesso di zappare il proprio orticello letterario non dando fastidio a nessuno.

Pintor e Vittorini sono generazionalmente un’altra cosa e Mazza lo racconta bene, con un intelligente uso di pubblico e privato: sentimenti e delusioni sentimentali, dichiarazioni di principio e infatuazioni letterarie. Sono nati con il fascismo e nel fascismo e se Elio, allora ragazzino, ha sognato nel ’22 di sfilare con le camicie nere, l’adolescente Giaime si è arruolato per combattere quella Seconda guerra mondiale che in patria viene presentata come uno scontro di civiltà, nazioni giovani contro nazioni vecchie, il sangue contro l’oro...

Quando un giorno ci si deciderà a fare sul serio la storia intellettuale del Ventennio, un capitolo spetterà a chi diede al fascismo molto più di quanto in cambio ricevette, e che dal fascismo si distaccò non tanto nel nome di un generico o convinto dissenso ideologico, ma più semplicemente perché si accorse che il vero «fascismo» era il loro e non quello di un regime codificatosi in una recita dove la gerarchia era una posa, la fantasia un’illusione, l’anticonformismo una colpa.

I Malaparte, i Longanesi, i Berto Ricci, i giovanissimi dei tempi della marcia su Roma come i teorici della cosiddetta «seconda ondata» rivoluzionaria, a lungo si ostinarono a pensare che i loro sforzi intellettuali, libri, riviste, convegni, polemiche, potessero contribuire a fare dell’intuizione di un singolo individuo un patrimonio nazionale. Gli rimase invece fra le mani il combinato disposto di un sistema che sempre meno tollerava la discussione, che sempre più premiava l’acquiescenza, di una dottrina che per codificarsi annullava qualsiasi eresia feconda e si accontentava di una sterile ripetizione.

La guerra si incaricò di mostrare fino a che punto una ventennale costruzione fosse stata rosa dal suo interno, lasciandola apparentemente intatta, ma in realtà priva di senso e significato. Prima e più di tutto, il loro distacco e poi il rifiuto furono il frutto di una delusione. Un anno dopo Weimar, Pintor saltò su una mina mentre faceva da ufficiale di collegamento per conto degli Alleati. Quanto a Vittorini, entrerà nella Resistenza, scriverà il suo più brutto romanzo, Uomini e no, e nel dopoguerra andrà a sbattere contro l’ortodossia comunista. «Credeva fossimo liberali, e invece, guarda un po’, eravamo solo comunisti» ironizzerà Togliatti...
Nel libro Mazza racconta il momento dell’incertezza, quando non si crede più, ma non si sa ancora in cos’altro credere e se sia ancora possibile credere... «Nulla è più difficile che crescere» fa dire al Pintor traduttore di L’infanzia del cuore di René Podbielski.

Occorre di nuovo «aderire alle cose», come il fascista francese Drieu La Rochelle, un altro dei relatori di Weimar, ama ripetere. Bisogna dare un senso, non limitarsi ad accettare ciò che viene. Mescolando testi, diari, lettere, articoli, forzando la cronologia, prestando ai suoi protagonisti pensieri e considerazioni plausibili perché frutto delle riflessioni di un autore che quel clima e quel modo di essere conosce bene, Mazza traccia le coordinate di un mondo in declino, fra dubbi, tormenti e illusioni, il cuore dell’Europa un attimo prima della resa dei conti.

Una citazione di Goebbels, «noi passeremo alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi o come i più grandi criminali», spiega meglio di un libro di storia Hitler, i Campi, il Bunker e una Germania rasa al suolo. Le stesse speculazioni sulla scomparsa di Ettore Majorana, rivale di Fermi affascinato dalla «necessità storica» del nazismo, che Mazza racconta con felicità espressiva unita al talento del cronista di razza, rimandano a un’epoca fluida, dove non c’è il senno di poi a spiegare le ragioni e i torti, il bene e il male.

Lavorando sui destini intrecciati di due fra i più brillanti intellettuali italiani dell’epoca e del più implacabile ministro del Reich, Mazza compie una ricognizione che va dritta al problema: il rapporto fra la cultura e il potere politico, l’idealismo e il realismo che si contrappongono, la sudditanza della prima nel suo allearsi con la seconda, il compito e il ruolo stesso dello scrittore.

A un Goebbels che chiede una letteratura d’evasione «per le donne sole in casa e per i soldati al fronte», Vittorini replicherà che «una pagina può illuminare il senso di un’epoca» e che il non scriverla, ovvero l’accettare quell’invito, fa diventare «complici di questa immane catastrofe»... Anni dopo, a un Togliatti che chiede una letteratura marxisticamente impegnata, replicherà che non ci sta «a suonare il piffero per la rivoluzione». Fra impegno e disimpegno resta lo spazio accidentato, fragile e ambiguo della libertà di pensiero, ma non sempre basta la letteratura per salvarsi l’anima.

(di Stenio Solinas)

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