Se in Italia c’è un potere forte che non patisce l’usura degli anni di crisi, questo è il Gruppo Espresso-Repubblica. Con tutta la sua geometrica potenza di fuoco ideologico, con tutto il suo peso lobbistico-industriale, come del resto ci ricorda anche la versione europea del Wall Street Journal, quando paragona l’influente vitalità dei gruppi d’interesse editoriale italiani (Rcs compresa) alle fatiche del tecno-govergiulno Monti nel rimanere aggrappato alla ruota del consenso popolare.
La salute di Rep. è misurabile attraverso due circostanze illuminanti. Anzitutto il suo coraggio nel predisporsi allo sbarco semi politico nel cuore della così detta società civile con diritto di voto, quella convocata per domenica prossima a Bologna dopo un paziente lavorìo di mobilitazione da club settecentesco armato di tecnologie avanzate. Ma l’obiettivo principale non è tanto la contabilità elettorale, è la forza di condizionamento esplicito della classe dirigente e la capacità di rendere l’interlocutore subalterno al proprio linguaggio. La domanda, dunque, non è: quante divisioni ha Repubblica, ma fin dove può spingersi la sua strategia. Un potere forte è tale quando osa, e può osare quando la catena di comando è salda e dotata di visione. Di là dalle pulviscolari differenze di tratto o di tono tra l’editore Carlo De Benedetti, il Fondatore Eugenio Scalfari e il direttore Ezio Mauro, lo stato maggiore del Gruppo ha saputo ben oliare il suo cingolato. L’esperimento virtuoso dell’antiberlusconismo ha consentito a Rep. di codificare un paradigma redditizio di presenza nel discorso pubblico (il fenomeno Palasharp di Libertà e Giustizia, con Zagrebelsky e soci al seguito), mentre nelle retrovie si tentava poco fruttuosamente di modellare il Pd a propria immagine e somiglianza. Caduto il Cav., non era detto che CDB e i suoi riuscissero a proiettarsi senza sbandare nell’evo di mezzo tecnocratico.
Ma Rep. ha scelto subito di farsi giornale-partito della zizzania, con l’obiettivo di abbassare il tasso grancoalizionista della strana maggioranza tricolore Pd-Pdl-Terzo polo e ipotecare così un futuro governo deberlusconizzato, tecno-gauchista e con venature bancarie (Scalfari è pur sempre un vecchio corteggiatore della Dc anti craxiana di Ciriaco De Mita). Il difetto dell’operazione è in re ipsa: in democrazia i voti contano più dei lettori, il Pd ne ha ancora più di Repubblica e se non vuole suicidarsi dovrà tenersi alla larga dal disegno partigiano di CDB (è quel che sembra pensare il presidente Napolitano, ed è quel che trapela dalle colonne della sempre più insofferente Unità). Il successo nell’operazione, edicole a parte, sta nel ruolo di comprimario un po’ complessato inflitto al diretto concorrente: il Corriere della Sera, vale a dire l’organo editoriale che del governo Monti è stato allevatore e che della sua navigazione doveva essere, nelle premesse, la stella polare.
Ecco il secondo sintomo che fa di Repubblica il vero potere in campo. La neutralità professorale salita al governo avrebbe dovuto incoronare il trionfo del “terzismo” corrierista, che è anche il secondo nome del fragile equilibrio vigente in un patto di sindacato (Rcs) composito e sempre più litigioso. Risultato: fatta eccezione per una singolare dialettica fra bocconiani (Francesco Giavazzi che punge Monti su sviluppo e delega fiscale e Monti che ironizza sulle disillusioni dei poteri forti), il Corriere di Ferruccio de Bortoli sembra frastornato e remissivo. Perfino il più paludato Sole 24 Ore ha saputo rappresentare meglio, se non altro in modo aggressivo, le istanze corporative di Confindustria minacciate dalla riforma Fornero. Il Corsera, invece, alle corporazioni ha rivolto domenica scorsa un editoriale del suo direttore (“I leggendari poteri forti”) che sembrava il lamento di un amante nostalgico. E inascoltato: nelle stesse ore i suoi beniamini al governo si premuravano di giustificare il loro operato, con smisurata riverenza, proprio davanti al potentissimo tribunale di Rep.
La salute di Rep. è misurabile attraverso due circostanze illuminanti. Anzitutto il suo coraggio nel predisporsi allo sbarco semi politico nel cuore della così detta società civile con diritto di voto, quella convocata per domenica prossima a Bologna dopo un paziente lavorìo di mobilitazione da club settecentesco armato di tecnologie avanzate. Ma l’obiettivo principale non è tanto la contabilità elettorale, è la forza di condizionamento esplicito della classe dirigente e la capacità di rendere l’interlocutore subalterno al proprio linguaggio. La domanda, dunque, non è: quante divisioni ha Repubblica, ma fin dove può spingersi la sua strategia. Un potere forte è tale quando osa, e può osare quando la catena di comando è salda e dotata di visione. Di là dalle pulviscolari differenze di tratto o di tono tra l’editore Carlo De Benedetti, il Fondatore Eugenio Scalfari e il direttore Ezio Mauro, lo stato maggiore del Gruppo ha saputo ben oliare il suo cingolato. L’esperimento virtuoso dell’antiberlusconismo ha consentito a Rep. di codificare un paradigma redditizio di presenza nel discorso pubblico (il fenomeno Palasharp di Libertà e Giustizia, con Zagrebelsky e soci al seguito), mentre nelle retrovie si tentava poco fruttuosamente di modellare il Pd a propria immagine e somiglianza. Caduto il Cav., non era detto che CDB e i suoi riuscissero a proiettarsi senza sbandare nell’evo di mezzo tecnocratico.
Ma Rep. ha scelto subito di farsi giornale-partito della zizzania, con l’obiettivo di abbassare il tasso grancoalizionista della strana maggioranza tricolore Pd-Pdl-Terzo polo e ipotecare così un futuro governo deberlusconizzato, tecno-gauchista e con venature bancarie (Scalfari è pur sempre un vecchio corteggiatore della Dc anti craxiana di Ciriaco De Mita). Il difetto dell’operazione è in re ipsa: in democrazia i voti contano più dei lettori, il Pd ne ha ancora più di Repubblica e se non vuole suicidarsi dovrà tenersi alla larga dal disegno partigiano di CDB (è quel che sembra pensare il presidente Napolitano, ed è quel che trapela dalle colonne della sempre più insofferente Unità). Il successo nell’operazione, edicole a parte, sta nel ruolo di comprimario un po’ complessato inflitto al diretto concorrente: il Corriere della Sera, vale a dire l’organo editoriale che del governo Monti è stato allevatore e che della sua navigazione doveva essere, nelle premesse, la stella polare.
Ecco il secondo sintomo che fa di Repubblica il vero potere in campo. La neutralità professorale salita al governo avrebbe dovuto incoronare il trionfo del “terzismo” corrierista, che è anche il secondo nome del fragile equilibrio vigente in un patto di sindacato (Rcs) composito e sempre più litigioso. Risultato: fatta eccezione per una singolare dialettica fra bocconiani (Francesco Giavazzi che punge Monti su sviluppo e delega fiscale e Monti che ironizza sulle disillusioni dei poteri forti), il Corriere di Ferruccio de Bortoli sembra frastornato e remissivo. Perfino il più paludato Sole 24 Ore ha saputo rappresentare meglio, se non altro in modo aggressivo, le istanze corporative di Confindustria minacciate dalla riforma Fornero. Il Corsera, invece, alle corporazioni ha rivolto domenica scorsa un editoriale del suo direttore (“I leggendari poteri forti”) che sembrava il lamento di un amante nostalgico. E inascoltato: nelle stesse ore i suoi beniamini al governo si premuravano di giustificare il loro operato, con smisurata riverenza, proprio davanti al potentissimo tribunale di Rep.
(di Alessandro Giuli)
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