domenica 24 giugno 2012

Nella mano di Bonucci che censura Balotelli c’è l’essenza dei bulli buoni


Lo Spiegel ha torto marcio, quando si augura che l’ormai nota istantanea di Leonardo Bonucci e Mario Balotelli non diventi il dagherrotipo-padre degli Europei, la foto sigillo di quella che solo ai teutonici (e ai loro pallidi seguaci anche italiani) può apparire come una brutta sceneggiata di rancori mal sopiti e scomposti. La verità è all’opposto: il gesto di Bonucci era, sì, un modo per proteggere da se stesso l’ombroso Balotelli dopo il suo gol all’Irlanda, era al contempo l’affermazione nitida del principio d’autorità. Autorità solidale e sfacciata, corporale, quasi amorevole nella sua gagliardìa. Diremmo perfino legionaria, “fiumana”, se il richiamo al comandante D’Annunzio non rischiasse una immeritata diluizione nel cratere di miserie omosolidali e omofobiche rovesciato sui calciatori italiani negli ultimi giorni.

Non conta soltanto il fatto anagrafico – Bonucci è di tre anni più grande, come ha fatto ben notare Fabrizio Roncone sul Corriere di ieri – né si può risolvere la questione con l’anzianità della militanza in Nazionale. C’è dell’altro, e questo altro interpella sia l’efficacia volontaristica di Bonucci, che non è mai passato per “buono” (ha fama di scommettitore accarezzato da inchieste) ma si è messo al servizio di un obiettivo giusto; sia l’inattesa capacità di sottomissione da parte del purosangue Balotelli: uno che, se abbiamo decifrato a dovere il tipo, le mani in faccia non se le farebbe mettere nemmeno da una delle sue sgallettate in vena di smancerie. Invece è successo, e l’allenatore Cesare Prandelli ha così già trovato una risposta alla sua sollecitazione retorica – Balotelli deve accettare le critiche e capire che nessuno ce l’ha con lui –, l’ha trovata negli occhi fondi e stralunati con cui l’infantile gigante nero ha accettato di farsi silenziare per pochi lunghissimi secondi. E in mondovisione.

In fondo è una questione di gerarchia tribale, oltreché di convenienze: delle due teste matte all’opera nella circostanza, una ha avuto il naturale bisogno d’essere messa sotto tutela dalla compagna meno fragile. In quel frangente Bonucci rappresentava l’anima del gruppo (o del clan), si potrebbe dire secondo i canoni di un vecchio linguaggio ancorato all’etnologia, incarnava una sorta di Io totemico nel quale palpitavano tutti i vaffanculo strozzati nella gola dei colleghi in squadra, tutti gli scappellotti che Prandelli e il capitano Gigi Buffon hanno dovuto o voluto evitare di elargire all’indisciplinato Balotelli. Insomma tutte le rimozioni provocate dal timore di apparire in controtendenza rispetto al senso comune (cioè razzistelli e tendenzialmente discriminatori, secondo lo schematismo egemone) o di dover ingaggiare con Balotelli una zuffa spettacolare.

Lo Spiegel ha torto perché non c’è nulla di più umano di una pulsione sub umana tradita, esibita in pubblico ma contemporaneamente messa in sicurezza. La mano sinistra di Bonucci incollata alla bocca di Balotelli, il braccio destro a cingergli il collo in una posa a metà tra l’abbraccio e lo strangolamento, le labbra semiserrate a sussurrare minacce amichevoli: è l’essenza del miglior mondo pallonaro, il segnacolo di una passionalità popolare messa in scena da bulli buoni in cerca di gloria. Sappiamo fin troppo bene che i tedeschi prediligono la propria inespressività robotica. Ovvero che, essendo loro dei sognatori romantici (calco negativo dei poeti incompresi, Hölderlin a parte), quando si tratta di mediterranei rissosi pretendono per lo meno di godersi la nobiltà epica dei titani verseggiati da Omero. Ma il piè veloce Achille, Menelao possente nel grido di guerra e il magnanimo Ettore hanno smesso di gareggiare da molti secoli. E poi la collezione intera dello Spiegel non vale mezzo rigo di appunti manoscritti di uno Schliemann.

(di Alessandro Giuli)

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