Nel 1998, Mario Monti, in un suo breve libro, Intervista sull'Italia in Europa (Laterza), auspicava una sostanziale dissoluzione degli Stati nazionali a vantaggio di un superstato europeo. Il pamphlet era dato alle stampe nei mesi cruciali della fase di avvio per l'approdo all'euro e il professore, commissario a Bruxelles, tratteggiava le sue idee sull'Europa, non certo il continente dei popoli, sedimentato in una cultura millenaria comune, bensì una sovrastruttura tecnocratica che doveva mirare alla gestione economica del mercato. Tra Maastricht e i primi anni del Duemila l'idea neoilluminista di un'Europa a direzione centralista e tecnocratica è stata egemone nei giornali, nelle università, nei luoghi dove si è formata l'alleanza tra salotti giacobini e poteri forti. Cosa non solo teorizzata ma avvenuta nei fatti quando agli Stati nazionali è stato sottratto il governo dell'economia, tratto distintivo della sovranità accanto all'esercizio della forza militare. Europa forza gentile fu il titolo di un altro libro, a firma di Tommaso Padoa-Schioppa, che uscì in occasione del varo dell'euro e che vedeva in Bruxelles una forza buona chiamata a domare il senso di nazionalità. Nondimeno, un anno prima di diventare Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano pubblicò Altiero Spinelli e l'Europa (il Mulino) dove si auspicava il «mettere insieme delle sovranità, delle funzioni, dei poteri, per esercitarli a livello sovranazionale», contro le «forme di nazionalità esasperata».
Alla prova dei fatti l'Europa così concepita si è dimostrata un fallimento, non solo perché ha prodotto una spaventosa crisi economica, non ciclica ma epocale, ma soprattutto perché - come ha scritto Giorgio Israel - sta «sgretolando le culture nazionali che dovevano essere i mattoni costitutivi dell'identità culturale del continente». In altre parole, quella pluralità nazionale che per secoli è stata la ricchezza dell'Occidente, parte essenziale della civiltà europea, è stata distrutta dal burosauro tecnocratico.
Se è vero, come ricorda, Federico Chabod, nel suo classico L'idea di nazione, che dire senso di «nazionalità, significa dire senso di individualità storica», il sedimento storico non può essere generato in laboratorio. Per secoli la forza dell'Occidente è stata la libertà degli individui, consacrata dalle costruzioni giuridiche e soprattutto da un potere riconoscibile ed emendabile. Il potere delle tecnocrazie, invece, appare indistinto e lontano. Scruton salda in un binomio indissolubile nazione e democrazia: «Le democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale». E aggiunge che «dovunque l'esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire». Lo storico polacco Ernst Kantorowicz fa risalire a Federico II l'origine dell'unità giuridica e culturale dell'Occidente attraverso la nozione di Europa imperialis, una res pubblica universae christianitatis, dove il potere non è tirannia ma è chiamato a rappresentare la communitas, un popolo unito dalla storia. Un ruolo che valse a Federico II il riconoscimento postumo di Nietzsche che lo definì: «Il primo europeo di mio gusto». Lo jus publicum europeaum, ben descritto da Carl Schmitt nel Nomos della terra, come «diritto interstatale», che delimita «l'ordinamento spaziale della respublica cristiana medievale», non ha avuto, dunque, quella modernizzazione evolutiva che necessitava come base della costruzione europea. L'Europa dei tecnocrati ha evidentemente tradito i postulati culturali della possibile unità europea, negando quello che Scruton definisce il «dono principale delle giurisdizioni nazionali».
E non si esagera nel ritenere che l'Europa giacobina dei poteri forti sia antidemocratica, priva di radicamento popolare. L'Unione di oggi, quella di Bruxelles è un dato solo formale che ha distrutto le virtù delle nazionalità ed è priva di «quell'anima» dei popoli teorizzata da Charles Péguy o del Volksgeist caro e Herder e Fichte. E non gode neanche di un fondamento plebiscitario: in Italia non c'è mai stato un referendum sull'Europa, mentre le consultazioni popolari di Francia e Olanda hanno bocciato la Costituzione europea.
Per secoli lo Stato nazionale, grazie al suo radicamento culturale, si è dimostrato un modello di prosperità economica e di democrazia. E occorre domandarsi quanto della crisi dell'Occidente sia da imputare all'abbandono delle strutture nazionali. Il peggio ammoniva Gustave Flaubert è quando la bêtise (la stupidità) di un certo universalismo si allea con la canaille, che per mantenere i propri privilegi economici, mira a sovvertire le gerarchie della storia.
(di Gennaro Sangiuliano)
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