Pende sul capo dei ventenni degli anni Settanta l’accusa di fallimento politico e culturale, se non di bancarotta. Hanno avuto il potere, hanno avuto in dote i cinque talenti della parabola, e non sono riusciti a restituire nemmeno il capitale, si dice. E’ davvero così? Se è così, quali fattori hanno impedito a quella generazione di trasformare le grandi speranze in fatti?
Lo storico Marco Tarchi, sessant’anni appena compiuti e negli anni Ottanta ideologo della “nuova destra”, dice che “le sconfitte non equivalgono sempre e comunque a fallimenti. In economia, si può essere costretti a ridimensionare le proprie aspettative di fronte a una concorrenza che per capacità o dovizia di mezzi riesce a far meglio – e dunque, di fatto, si è battuti su un terreno cruciale – ma non per questo si parla di fallimento. Parola adoperata invece quando, per insipienza o per il concorso di fattori infausti, l’impresa che si guidava va a gambe levate, dilapidando capitali monetari e di fiducia. La bancarotta e la liquidazione che ne conseguono sono ben più di un semplice insuccesso. Si può usare lo stesso metro di distinzione in politica? Direi di sì. La generazione di cui stiamo parlando certamente non ha centrato tutti gli obiettivi che si prefiggeva, ma sarebbe ingeneroso ignorare i risultati conseguiti su un piano che le stava a cuore, quello dello sconvolgimento della mentalità corrente, del costume diffuso. Piaccia o non piaccia, le dobbiamo molti cambiamenti nei modelli di comportamento adottati nelle relazioni interpersonali, nella morale sessuale, nella considerazione della dimensione religiosa, nel rapporto psicologico con l’autorità nei campi più vari e specialmente nell’ambito della famiglia e della scuola, e così via. Uno degli slogan che più avevano contrassegnato quell’esperienza – il “vietato vietare” – ha fatto molta strada nella società. Così come l’idea che si possano rivendicare diritti senza farli corrispondere a doveri. Certo, l’egualitarismo non si è realizzato; ma ha attecchito l’idea che sarebbe un principio giusto. Studenti e operai non si sono uniti nella lotta e la dittatura del proletariato è rimasta lettera morta; ma molte delle parole d’ordine divulgate dalla sinistra estrema hanno conquistato un alone di legittimità prima sconosciuto. Insomma, quando Fabio Mussi accolla a sé e ai coetanei un sostanziale fallimento, dà mostra di concedere troppo all’utopia e a una visione romantica delle dinamiche politiche e sociali. Se si adottasse la sua prospettiva, quali generazioni sarebbero escluse dal marchio del fallimento? Viviamo in un paese in cui, di volta in volta, si sono denunciati e deplorati l’incompiutezza dell’unificazione, le contraddizioni del Risorgimento, l’“inutile strage” della Prima guerra mondiale, la vittoria mutilata, l’inerzia di fronte al fascismo, la Resistenza tradita, il mancato sviluppo del Mezzogiorno, il clientelismo, il familismo, la corruzione politica e amministrativa, il bipolarismo imperfetto, le mancate riforme di struttura, il dissesto idrogeologico e chi più ne ha più ne metta… Chi si può salvare, in questo cahier de doléances? Ragionare per coorti d’età non aiuta a capire a chi davvero si debbano accollare i traguardi mancati dell’Italia”.
Quei traguardi mancati, da destra e da sinistra, trovano la loro radice in una “postura”, rispetto al mondo e all’idea di futuro, che paradossalmente prescinde dalle ideologie, come se appartenesse “ontologicamente” a questa generazione?
“Penso invece che bisogna distinguere nettamente, in questo caso, i due campi. Pur non essendo riuscita sinora a prendere saldamente le redini del governo, la sinistra ha disseminato di idee progressiste la società civile, riuscendo a mettere a frutto la lezione gramsciana sull’egemonia. La destra, viceversa, ha fatto sostanziosi passi indietro su questo terreno, anche se l’agglomerato creato da Berlusconi è riuscito a garantirsi un periodo piuttosto lungo di guida politica del paese. Gli stereotipi che alimentano il modo di pensare dell’italiano medio non sono più, oggi, orientati in senso tendenzialmente conservatore, come accadeva sino agli anni Sessanta. La destra, pagando il deficit di legittimità che le derivava dall’essere associata all’esperienza fascista come protagonista, come complice o come spettatrice passiva, è stata costretta sulla difensiva e non ha saputo operare una controffensiva culturale efficace. Si è accontentata di raccogliere i residui dividendi elettorali del moderatismo anticomunista democristiano, condendoli con spruzzate di retorica liberale. Quando ha avuto la possibilità di usufruire dei benefici della lottizzazione e della rendita di posizione nei circuiti comunicativi – in televisione, in radio e in altri settori in cui, stando al governo, avrebbe potuto esercitare influenza e crearsi spazi di espressione – ha mostrato tutta la sua inconsistenza. Ma, anche in questo caso, non mi sembra che il dato generazionale abbia pesato. In Forza Italia i nati negli anni Cinquanta, nel complesso, non hanno mai avuto un peso più marcato dei più anziani o di una cerchia di esponenti più giovani di loro di un decennio o più. Diverso è il caso di Alleanza nazionale, dove quello spicchio generazionale ha guidato prima la ‘svolta di Fiuggi’ e poi il partito, con risultati che sarebbe azzardato definire brillanti. Ma ad affidare a Fini e ai suoi il vecchio Msi era stato l’ultrasettantenne Almirante. Non c’era stata nessuna rottamazione, se non quella causata dalla malattia e poi dalla morte del leader storico. E non mi pare che le generazioni più giovani in An si siano distinte per indipendenza intellettuale e intraprendenza politica. Sono cresciute sotto l’ala protettiva del Capo e dei suoi colonnelli, obbedendo e seguendo con la speranza a volte corrisposta di trarne i dovuti vantaggi. Di un’ontologia generazionale non scorgo traccia alcuna”.
Tarchi aggiunge che enfatizzare l’idea di una generazione troppo nutrita (e illusa) dei miti della giovinezza come nessuna generazione in precedenza non fa andare lontano. Anche se “sotto questo profilo, la generazione dei nati negli anni Cinquanta presenta effettivamente tratti specifici. Ma non esagererei nel sottolinearne l’originalità, perché il culto della gioventù e della sua energia ha furoreggiato anche all’indomani del Primo conflitto mondiale, trovando i suoi culmini nel fascismo e nel bolscevismo. Uno dei più acuti studiosi dei due fenomeni, il politologo spagnolo Juan Linz, ha dimostrato nei suoi scritti che le classi dirigenti di quelle due famiglie politiche erano, in media, più giovani di due decenni rispetto alle élite dei partiti rivali, e ha visto nel mito della giovinezza uno dei poli di attrazione più efficaci della propaganda fascista. Quei giovani sono però stati falcidiati, a centinaia di migliaia, sui campi di battaglia di tutta Europa tra il 1939 e il 1945 e non hanno avuto tempo e modo di misurare i successi e/o i fallimenti che avrebbero potuto incontrare in un percorso di vita “normale”. I nati nel primo decennio del Dopoguerra si sono trovati in tutt’altra condizione. Sebbene abbiano dovuto attraversare la prova degli anni di piombo – che loro stessi hanno messo in atto – hanno goduto del privilegio di sognare in proprio le rivoluzioni in cui credevano e di tentare di realizzarle in prima persona. Ovviamente, su di loro è ricaduto poi l’onere degli insuccessi subiti. Per quanto mi riguarda, di rado mi è capitato di rimpiangere il destino che la data di nascita mi ha riservato, e conservo, delle tante avventure dei venti e dei trent’anni, un ricordo complessivamente positivo. L’eredità famigliare e le scelte adolescenziali mi avevano abituato a considerare la sconfitta come una prospettiva tutt’altro che disonorevole. Quel che contava era battersi e farlo con il massimo di coerenza possibile. Credo di non aver mai derogato da quei presupposti, il che mi ha aiutato a digerire le tante delusioni che l’ambiente politico e umano che mi ero scelto mi ha riservato. Tra il vinto e il fallito, ai miei occhi, è sempre esistito un ampio margine di separazione. Un abisso, sarebbe meglio dire. Certo, come e forse più di tanti miei coetanei, l’aver raggiunto la soglia dei sessant’anni ha costituito una sorta di trauma psicologico – troppo recente (questione di pochi giorni) per poter valutarne appieno l’impatto o giudicare più o meno agevole il superamento –, nel senso che mi ha insinuato la sensazione di non potermi sottrarre a una serie di bilanci. Resta il fatto che la mente e lo spirito danno chiari segnali di non volersi piegare a quell’invecchiamento a cui il fisico non può far altro che piegarsi gradualmente.
Cosa uscirà da questo conflitto, non so. Né saprei dire se si tratterà di un esito generazionale o puramente soggettivo. Per fortuna, la professione che svolgo rimanda almeno di dieci anni l’età della pensione. E il dissenso profondo che provo verso la mentalità che domina l’epoca in cui mi trovo a vivere mi aiuta a non innalzare bandiera bianca. I cani sciolti possono permettersi un certo distacco dalle diatribe generazionali così care a chi se ne serve per mantenere o conquistarsi un posto al sole”.
(di Nicoletta Tiliacos)
Nessun commento:
Posta un commento