Chi è il nemico da battere alle prossime
elezioni? A leggere i principali giornali, i più eminenti osservatori e i
partiti che sostengono la sinistra o l'esperienza del governo Monti, il
nemico ha più volti ma un nome solo: il populismo. Nella formula viene
riassunto un tema culturale, una tendenza politica e una tentazione
antipolitica.
Populista è per i mass media, per i tecnici e
per i partiti tradizionali, il movimento di Beppe Grillo; populista è
la destra antimontiana; populista è la Lega; e populista soprattutto è
Berlusconi. Ma nella connotazione populista rientra per taluni anche il
populismo giudiziario di Ingroia, de Magistris e Di Pietro, la tv di
Santoro, fino a sfiorare la sinistra radicale di Vendola. Il populismo
eccede dalla politica e si affaccia nella cultura, nell'arte, nei media e
in tutto quanto odora di postmoderno, poststorico e postindustriale. I
populismi del passato potevano essere conservatori o rivoluzionari,
nazionalisti o radicali, o meglio sintesi d'ambedue come fu il
giustizialismo di Perón. Geostoricamente il populismo nasce a Est, in
Russia e finisce a Ovest, nell'America del nord e soprattutto latina: in
sintesi, da Herzen a Chávez.
I populismi del presente hanno preso altre
vie mediatiche e altri connotati di riferimento, a volte evocando quelli
canonici: populismi liberali e liberisti, localisti e ambientalisti,
commerciali e antipolitici. Il populismo principale oggi in Italia si
biforca tra una versione indignata e protestataria, che è in prevalenza
quella grillesca, e un'altra ex-governativa, semi-liberale e
para-taumaturgica, che è quella berlusconiana.
È possibile dare una lettura culturale del
processo in atto? Il filo conduttore dei populismi politici è chiaro e
perentorio: nessun riordino finanziario (presunto) della finanza
pubblica vale la disperazione della gente. Il referendum in ballo, per i
populisti, è tra due opposte priorità: la fedeltà contabile all'Europa
delle banche e dei poteri o la vita reale dei popoli e dei singoli
cittadini. In molti diranno, seguendo il populismo: preferisco vivere.
Il populismo è una scommessa di vitalità nella decadenza, salta le
mediazioni, i filtri, le distinzioni tra alta e bassa cultura, si
presenta scevro da storicismi e da consolidate grammatiche del potere.
Il populismo diventa così una categoria riassuntiva di tutto ciò che ha
come canone di riferimento prioritario il consenso popolare, la
comunicazione diretta del messaggio, la semplificazione impulsiva del
linguaggio e dei gesti simbolici, l'efficacia emozionale dell'appello
rivolto alla gente, non mediato da rapporti, culture e soggetti
istituzionali. Il sottinteso della denuncia contro il populismo montante
è che la democrazia liberale regge invece sul perimetro di regole e
procedure da osservare, di deleghe istituzionali da rispettare,
altrimenti si scivola fuori dalla modernità matura, fuori dalla
democrazia parlamentare e rappresentativa attraverso i partiti, e
naturalmente fuori dall'Unione europea.
Dal punto di vista populista, la priorità
da affrontare è la perdita di sovranità e di benessere dei popoli, il
crescente disagio dei cittadini nel presente e la tirannia del potere
vigente, attraverso il fisco, le leggi, le dominazioni di sette, lobbies
o gruppi egemonici; la vessazione, la persecuzione o la riduzione di
spazi di libertà. Di conseguenza il nemico da battere è la casta che
detiene il potere e lo esercita nell'interesse di pochi e di interessi
privati, inerenti ad apparati burocratici, tecnocratici, gruppi
finanziari o nomenklature di partito. Da una parte i cittadini inermi,
spaesati e maltrattati che non sopportano i governi tecnocratici e
detestano la partitocrazia; dall'altra le oligarchie tecno-finanziarie,
partitico-istituzionali e mediatico-culturali, gli apparati: è la
vecchia saldatura tra sinistra e poteri che contano, anche se fino al
voto saranno antagonisti e competitori. Ma dopo, sia i numeri che i
numerosi mediatori li costringeranno a collaborare per fronteggiare «il
pericolo populista».
È giusto chiamare populisti coloro che ambiscono a rappresentare i
primi: ne hanno i tratti, il linguaggio, la demagogia, a volte la
rozzezza. Ma è altrettanto legittimo chiamare oligarchie i poteri, anzi
le caste che vi si oppongono. È giusto osservare che il populismo di
solito subordina la verità delle cose all'arte di persuadere e a
compiacere i popoli; a patto di osservare che le oligarchie subordinano
anch'esse la verità delle cose alla ragion di partito, di lobby, di
casta. La verità soccombe in ambo i casi, alla preminenza della ricerca
del consenso o alla salvaguardia dell'establishment.
Per i populisti le oligarchie comprimono i popoli per adeguarli a uno
standard contabile, giudiziario o ideologico loro estraneo. Certo,
sarebbero auspicabili versioni migliori e non scorciatoie sbrigative. Ai
populismi elettorali sarebbero di gran lunga preferibili forze sobrie e
radicate nella tradizione civile e religiosa, dotate di un forte senso
dello Stato e della storia, dei meriti e delle responsabilità, magari
conservatrici quanto ai principi e innovatrici quanto agli assetti;
capaci non solo di mobilitare le folle intorno a un capo e in una
campagna elettorale, ma di avere anche adeguate classi dirigenti,
affidabili e credibili, con programmi di governo capaci poi di
realizzare. Ma quelle forze allo stato attuale non si vedono o affiorano
solo a tratti, sommerse nel calderone dei populismi. Allora bisogna
regolarsi di conseguenza. L'alternativa per chi critica le oligarchie e
dissente dalle attuali agende di governo, ma non si riconosce nei
populismi correnti è ritirarsi dalla competizione, non partecipare, e
coltivare una solitaria o elitaria anarchia, del tutto impolitica. Da
Ernst Jünger che predicava «il passaggio al bosco» per il Ribelle,
all'Apolitia di Evola come condotta aurea e aristocratica dell'Autarca,
fino alla Congregazione degli Apoti di Prezzolini, c'è una vasta
letteratura del dissenso radicale che non volendo identificarsi con i
populismi e gli estremismi induce a ritirarsi nell'ombra o nella
penombra, comunque lontano dalla lotta.
Ma nell'agone politico oggi, piaccia o non piaccia, ci sono due campi
magnetici in competizione, e sono realmente alternativi: populisti e
oligarchie. Ci sono più versioni dei due poli d'attrazione, ma non c'è
un terzo polo, se non fuori dalla competizione.
(di Marcello Veneziani)
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