Prepariamoci a votare un’altra volta entro l’anno o, al massimo, nei primi mesi del prossimo. Non ci ha dato di volta il cervello. È l’ipotesi che ragionevolmente si profila sulla base dei sondaggi di opinione e delle analisi degli osservatori. Lo spettro dell’ingovernabilità, infatti, si allunga sull’esito della consultazione elettorale e precipita nell’umore più nero i partiti. Tutto dipende dal risultato nelle cosiddette regioni in bilico.
Dato per acquisito il Veneto al centrodestra, restano la Lombardia e la Sicilia a determinare la maggioranza al Senato. Basta che una delle due, più probabilmente la prima, venga conquistata dal centrodestra ed il gioco è fatto. C’è anche chi ritiene pericolante per Bersani la Campania, ma non credo: la composizione delle liste berlusconiane è stata talmente demenziale da aver regalato in anticipo la vittoria a Pd e a Sel nonostante il disturbo di Ingroia. Adattiamoci, dunque, all’idea che a Palazzo Madama il centrosinistra non avrà la maggioranza e, pertanto, Berlusconi, entrato in campagna elettorale già battuto, potrà cantare vittoria come se avesse ottenuto la maggioranza assoluta.
Se le urne dovessero sancire l’ingovernabilità, è chiaro che la responsabilità ricadrebbe sulla classe politica che in cinque anni, prendendo in giro i cittadini, non ha voluto riformare la legge elettorale varata nel 2005 dal centrodestra, in particolare per impulso di Casini e del suo partito che trovarono nel leghista Calderoli un efficientissimo esecutore. Allora l’obiettivo, certamente non voluto, ma prevedibile, previsto e denunciato fu di impedire un chiaro esito del responso delle urne e rendere problematica la costruzione di maggioranze omogenee in entrambi i rami del Parlamento.
I risultati del 2008 sembrarono tuttavia smentire ciò che si era già verificato due anni prima, quando vinse per pochi voti la coalizione guidata da Romano Prodi, che ottenne soltanto tre seggi in più al Senato. Poi la scissione del gruppo di Fini palesò tutta la fragilità di un sistema che poteva essere sconvolto, per le ragioni più varie, proprio in virtù di una normativa che non lo metteva al riparo dal trasformismo. Una storia che si può ripetere, sia pure in altre forme rispetto ai possibili cambi di casacche che abbiamo visto nel passato.
Dato per acquisito il Veneto al centrodestra, restano la Lombardia e la Sicilia a determinare la maggioranza al Senato. Basta che una delle due, più probabilmente la prima, venga conquistata dal centrodestra ed il gioco è fatto. C’è anche chi ritiene pericolante per Bersani la Campania, ma non credo: la composizione delle liste berlusconiane è stata talmente demenziale da aver regalato in anticipo la vittoria a Pd e a Sel nonostante il disturbo di Ingroia. Adattiamoci, dunque, all’idea che a Palazzo Madama il centrosinistra non avrà la maggioranza e, pertanto, Berlusconi, entrato in campagna elettorale già battuto, potrà cantare vittoria come se avesse ottenuto la maggioranza assoluta.
Se le urne dovessero sancire l’ingovernabilità, è chiaro che la responsabilità ricadrebbe sulla classe politica che in cinque anni, prendendo in giro i cittadini, non ha voluto riformare la legge elettorale varata nel 2005 dal centrodestra, in particolare per impulso di Casini e del suo partito che trovarono nel leghista Calderoli un efficientissimo esecutore. Allora l’obiettivo, certamente non voluto, ma prevedibile, previsto e denunciato fu di impedire un chiaro esito del responso delle urne e rendere problematica la costruzione di maggioranze omogenee in entrambi i rami del Parlamento.
I risultati del 2008 sembrarono tuttavia smentire ciò che si era già verificato due anni prima, quando vinse per pochi voti la coalizione guidata da Romano Prodi, che ottenne soltanto tre seggi in più al Senato. Poi la scissione del gruppo di Fini palesò tutta la fragilità di un sistema che poteva essere sconvolto, per le ragioni più varie, proprio in virtù di una normativa che non lo metteva al riparo dal trasformismo. Una storia che si può ripetere, sia pure in altre forme rispetto ai possibili cambi di casacche che abbiamo visto nel passato.
Può accadere, infatti, che due formazioni concorrenti non essendo autosufficienti al Senato (alla Camera il problema non si pone perché il premio viene attribuito su base nazionale e non regionale) decidano di allearsi al fine di costituire una maggioranza che il voto non ha sancito.
Se, come come tutto lascia prevedere al momento sulla base dei sondaggi, Pd e alleati non avranno la maggioranza al Senato, la governabilità, per quanto traballante, potrebbe essere assicurata solamente (e brevemente) da un patto tra Bersani e Monti. I quali, pur invocandone l’inevitabilità, smentirebbero la loro alterità, per dar vita ad un pasticcio indigesto ai rispettivi elettorati.
Che il legame tra sinistra e centristi, a prescindere dalle forme che assumerà, sia nell’ordine delle cose, si evince dall’atteggiamento che hanno assunto nel confrontarsi: da avversari che sanno di doversi incontrare, nonostante le fibrillazioni degli ultimi giorni dovute alle polemiche scaturite dallo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Certo, resta la preconcetta ostilità di Vendola e della Cgil nei riguardi del Professore, ampiamente ricambiata, ma Pd e Monti una qualche forma di composizione dovranno ingegnarsi a trovarla se non vogliono che la legislatura duri meno di un anno, con buona pace di Fini e di Casini che inevitabilmente faranno da stampelle alla sinistra. Non è detto che il progetto riesca. Ma non essendovi la possibilità di formare maggioranze alternative - la soglia è di 158 senatori – non resterebbe che tornare al voto.
E allora? Più perniciosa delle elezioni a breve scadenza sarebbe soltanto un’altra “grande coalizione”. Dal novembre 2011 molta acqua, per lo più inquinata, è passata sotto i ponti della politica italiana e non v’è emergenza che tenga in grado di rimettere su un teatrino di quart’ordine. Consapevoli della catastrofe politica che si prospetta, è fatale che gli investitori si tengano alla larga dall’Italia, che l’Unione europea riprenda a guardarci con diffidenza, che il Fondo monetario internazionale paventi effetti disastrosi derivanti da una recessione fuori controllo aggravata da una crisi politica senza sbocchi.
Si tornerà, dunque, alle elezioni? Sarebbe la sola cosa da fare. Ma con una seria legge elettorale. Impossibile? Qualcuno dovrà pure farla. Magari, forzando la Costituzione, addirittura per decreto. Lo stato di necessità impone l’eccezionalità. Non c’è altra soluzione. A meno che non si voglia ripetere in farsa la tragedia di Weimar con la prospettiva di un comico o di un demagogo a Palazzo Chigi, in attesa che la rivolta popolare divampi.
Se, come come tutto lascia prevedere al momento sulla base dei sondaggi, Pd e alleati non avranno la maggioranza al Senato, la governabilità, per quanto traballante, potrebbe essere assicurata solamente (e brevemente) da un patto tra Bersani e Monti. I quali, pur invocandone l’inevitabilità, smentirebbero la loro alterità, per dar vita ad un pasticcio indigesto ai rispettivi elettorati.
Che il legame tra sinistra e centristi, a prescindere dalle forme che assumerà, sia nell’ordine delle cose, si evince dall’atteggiamento che hanno assunto nel confrontarsi: da avversari che sanno di doversi incontrare, nonostante le fibrillazioni degli ultimi giorni dovute alle polemiche scaturite dallo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Certo, resta la preconcetta ostilità di Vendola e della Cgil nei riguardi del Professore, ampiamente ricambiata, ma Pd e Monti una qualche forma di composizione dovranno ingegnarsi a trovarla se non vogliono che la legislatura duri meno di un anno, con buona pace di Fini e di Casini che inevitabilmente faranno da stampelle alla sinistra. Non è detto che il progetto riesca. Ma non essendovi la possibilità di formare maggioranze alternative - la soglia è di 158 senatori – non resterebbe che tornare al voto.
E allora? Più perniciosa delle elezioni a breve scadenza sarebbe soltanto un’altra “grande coalizione”. Dal novembre 2011 molta acqua, per lo più inquinata, è passata sotto i ponti della politica italiana e non v’è emergenza che tenga in grado di rimettere su un teatrino di quart’ordine. Consapevoli della catastrofe politica che si prospetta, è fatale che gli investitori si tengano alla larga dall’Italia, che l’Unione europea riprenda a guardarci con diffidenza, che il Fondo monetario internazionale paventi effetti disastrosi derivanti da una recessione fuori controllo aggravata da una crisi politica senza sbocchi.
Si tornerà, dunque, alle elezioni? Sarebbe la sola cosa da fare. Ma con una seria legge elettorale. Impossibile? Qualcuno dovrà pure farla. Magari, forzando la Costituzione, addirittura per decreto. Lo stato di necessità impone l’eccezionalità. Non c’è altra soluzione. A meno che non si voglia ripetere in farsa la tragedia di Weimar con la prospettiva di un comico o di un demagogo a Palazzo Chigi, in attesa che la rivolta popolare divampi.
(di Gennaro Malgieri)
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