«Io mi sono salvato perché ero il più piccolo. Avevo 4 anni e dormivo qui, in camera da letto, con mamma e papà, insieme con la più piccola tra le mie sorelle, Antonella, che di anni ne aveva nove. I nostri genitori ci hanno trascinato di peso verso la porta e giù per le scale. Le due sorelle più grandi, Silvia di 18 anni e Lucia di 14, dormivano là, nel tinello, e si sono calate dal balcone».
Silvia è caduta, si è rotta due vertebre e tre costole, ma si è salvata. Virgilio, il più grande — avrebbe compiuto 22 anni ad agosto — e Stefano, che ne aveva compiuti dieci a febbraio, dormivano laggiù in fondo, nella cameretta. Sono morti bruciati vivi. E non hanno mai avuto giustizia. Prima sono state vittime di una vergognosa campagna di bugie e mistificazioni orchestrata dalla sinistra. Poi sono stati strumentalizzati dalla destra per far sopravvivere una liturgia ideologica. Io mi batto perché i loro assassini paghino. E perché la loro memoria resti viva senza bisogno di essere mitizzata o usata».
Giampaolo Mattei è un grand’uomo. E non solo perché è alto, grosso, mite. Perché è riuscito a crescere senza odio, nonostante la sua famiglia sia stata vittima di una delle vicende più turpi della storia repubblicana. Nel pavimento della sede della sua associazione, in una viuzza di periferia in riva al Tevere, ha riprodotto la pianta della casa di Primavalle, incendiata con la benzina la notte del 16 aprile 1973, quarant’anni fa, da almeno tre militanti di Potere operaio: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Ma la mistificazione comincia già sui quotidiani del giorno dopo, che il superstite dei fratelli Mattei ha ritagliato ed esporrà nella mostra sugli anni di piombo a Roma, che sta contribuendo a organizzare. Ci saranno anche le foto dei suoi fratelli. Virgilio ragazzo, che sorride accanto alla sua fidanzata Rosalba. Stefano bambino, nudo sul lettone.
«Non ci sarà la foto di Virgilio affacciato alla finestra, già sfigurato dal fuoco. Lo so che è considerata il simbolo della tragedia. Ma è una foto che per la mia famiglia non esiste: abbiamo conservato le pagine dei vari giornali, e hanno tutte un buco in mezzo. Le mie sorelle ogni volta ritagliavano la foto e la gettavano via, per impedire che nostra madre la vedesse. Quando l’immagine appariva ai telegiornali, uno di noi si alzava e si metteva tra la mamma e il video. Un giorno l’Msi romano tappezzò la città con quella foto. Mio padre chiamò un dirigente per lamentarsi: i manifesti furono tolti. È l’unica volta che l’ho sentito parlare del rogo in cui morirono i suoi figli. Se n’è andato dodici anni fa, senza aggiungere altro».
«Guardi, questi sono i titoli dei quotidiani del giorno dopo. Lotta continua: “La provocazione fascista oltre ogni limite arriva al punto di uccidere i suoi stessi figli”. Il Manifesto: “È un delitto nazista”. L’inchiesta coinvolse Diana Perrone, figlia di uno dei proprietari del Messaggero, che fece una campagna innocentista, culminata con il titolo a tutta pagina: “Assolti! La vergognosa montatura fascista è crollata…”. Gli intellettuali di sinistra si mobilitarono. Franca Rame scrisse a Lollo: “Ho provato dolore e umiliazione nel vedere gente che mente senza rispetto nemmeno dei propri morti…”. Le vittime erano diventate carnefici. Quando Clavo e Grillo furono fermati in Svezia, Alberto Moravia lanciò un appello perché fossero accolti come esuli politici e non venissero estradati. Umberto Terracini li difese. Riccardo Lombardi scrisse: “Caro compagno Lollo, voglio incoraggiarti a resistere alla persecuzione…”».
In Appello i tre furono condannati per omicidio preterintenzionale, ma in contumacia. Solo nel 2003, a reato prescritto, Lollo confessò tutto in un’intervista al Corriere della Sera, poi confermata a Porta a Porta, chiamando in causa altri tre militanti. «Mi risulta che ora la Procura abbia riaperto l’inchiesta. Spero ancora che si arrivi a punire i responsabili. Nessuno tocchi Caino, d’accordo. Ma ad Abele chi pensa? Lollo oggi è un uomo libero, forse sta in Brasile. Clavo e Grillo fuggirono in Nicaragua, non hanno fatto neppure un giorno di carcere. Non li odio, ma ho dentro tanta rabbia. Quante menzogne, quante prese in giro. Guardi questo libro, non firmato: “Incendio a porte chiuse”. Montarono la tesi della faida tra missini. Tirarono fuori persino presunte amanti di mio padre, per istillare il dubbio della vendetta passionale…».
«È vero che il clima all’interno del Msi era pesante: mio padre stava con Almirante, talora lo scortava, era contro Ordine nuovo e i rautiani. Ma il pericolo veniva dagli estremisti di sinistra. La sezione di cui mio padre era segretario era intitolata a Giarabub, l’oasi del deserto libico dove gli italiani avevano resistito agli inglesi. Anche papà aveva fatto la guerra, gli americani lo presero prigioniero ad Anzio e lo tennero due anni nel Fascist criminal camp di Hereford, in Texas, con Alberto Burri, Gaetano Tumiati, Giuseppe Berto. In un quartiere rosso come Primavalle, la sezione del Msi era il bersaglio. Il clima dei mesi precedenti al rogo era terribile: quasi ogni giorno una molotov, un’aggressione. Ma pareva impossibile che si arrivasse a uccidere».
«Almirante per noi era una persona di famiglia. Ai suoi comizi veniva sempre il momento in cui citava i fratelli Mattei. I militanti ci baciavano e ci abbracciavano. Io volevo saperne di più, di notte fingevo di dormire e scendevo in cantina a leggere i ritagli, quelli con il buco al posto della foto. Donna Assunta venne al mio matrimonio. Ma poco per volta siamo stati dimenticati. Fini, Gasparri, i capi della destra romana non si sono mai fatti vivi. Da quando è diventato sindaco sento Alemanno. Anche la Meloni ci ha aiutati. Veltroni ha avuto coraggio, è venuto a trovare mia madre senza telecamere, ci ha fatto incontrare i familiari dei morti di sinistra, ho abbracciato la mamma di Valerio Verbano, il padre di Walter Rossi. I militanti di estrema destra non me l’hanno perdonato. Ho ricevuto insulti, minacce. Ma io non voglio che i miei fratelli diventino pretesto per manifestazioni di revanscismo fascista e scontri con i centri sociali. I miei fratelli voglio ricordarmeli vivi. Quando nel 2008 ho scritto un libro, “La notte brucia ancora”, sulla copertina ho messo una loro foto al mare, in costume da bagno, felici. Mi piacerebbe tanto ritrovare Rosalba, la fidanzata di Virgilio, perché mi parli un po’ di lui. So che era romanista perché sulle bare misero il tricolore e il gagliardetto giallorosso, che però si sono polverizzati quando abbiamo tolto i miei fratelli dal loculo per seppellirli nella cappella che papà aveva preso al Verano. Con le famiglie delle altre vittime non è una pacificazione; io non ho litigato con nessuno. Preferisco parlare di condivisione. Mettiamo in comune la rabbia e il dolore, la difesa della verità e della memoria».
(fonte: www.corriere.it)
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