La carriera politica di Gianfranco Fini, a quanto si dice, sembra giunta al capolinea. È una buona notizia per la politica italiana? Probabilmente sì, anche se la portata di tale evento viene largamente esagerata. Certo, un uomo dal cinismo cosmico e dalle qualità mediocri lascerà il Palazzo. Che però continua a essere pieno di personaggi dalle identiche caratteristiche. Insomma, che la politica sia una cosa più bella e più nobile senza Fini è tutto da stabilire. C’è però almeno un altro aspetto di questa autorottamazione che va salutato con felicità e che porterà a un progresso effettivo: con Gianfranco Fini si eclisseranno anche gli alibi che tutto un mondo ha utilizzato fino ad oggi.
Si può – e a ragione – dire tutto il male possibile dell’ex presidente della Camera. Quello che invece è disonesto è il voler far credere che quest’uomo sia spuntato quasi dal nulla, che abbia responsabilità esclusivamente individuali, che abbia fatto e disfatto senza la correità di un intero ambiente politico. Una riflessione seria sulla parabola finiana dovrebbe al contrario portare tutta la destra postfascista a ripensare se stessa, a rileggere criticamente la propria storia, a processare culturalmente tuta una classe dirigente. Insomma, l’esatto contrario di quanto è accaduto finora. Si è preferito invece catalizzare tutti i mali di un’area, metterli in un vaso di Pandora con le cravatte sgargianti e andarsene poi in giro fischiettando con l’aria di chi passa lì per caso. Ora che il vaso si è rotto, i mali tornano in superficie. Chissà che qualcuno non decida di affrontarli, anziché tentare di nasconderli sotto al tappeto.
Mettere in questione Fini, per esempio, dovrebbe significare anche toccare un tabù della destra, l’almirantismo. Contestualizzando, per carità, quel che c’è da contestualizzare, ma senza dimenticare che il frutto riflette sempre l’albero. E Fini è un genuino frutto di Almirante. Processare Fini significa rileggere la storia dell’Msi e le dinamiche del passaggio ad An che il 99,9% degli attuali difensori della memoria e dell’identità condivise, avallò e accettò. Fini è stato il loro capo, non il mio. Un capo, peraltro, che disponeva di un consenso plebiscitario e che ebbe a che fare con un contraddittorio pressoché nullo. Insomma, nella storia della destra italiana Fini sta incastrato come un barattolo in quelle pile enormi che si trovano di tanto in tanto nei supermercati: non puoi estrarlo senza far cadere tutto il mucchio. In questi ultimi anni ci hanno fatto credere che tutti i problemi della destra fossero racchiusi dietro la perenne abbronzatura di quest’uomo. Ci hanno indicato il traditore grande per far dimenticare i piccoli tradimenti quotidiani di tutti gli altri. Hanno azzerato ogni riflessione dicendoci che bastava colpire il bersaglio più facile.
Ora, però, il parafulmine è caduto. Tempesta, scatenati.
Si può – e a ragione – dire tutto il male possibile dell’ex presidente della Camera. Quello che invece è disonesto è il voler far credere che quest’uomo sia spuntato quasi dal nulla, che abbia responsabilità esclusivamente individuali, che abbia fatto e disfatto senza la correità di un intero ambiente politico. Una riflessione seria sulla parabola finiana dovrebbe al contrario portare tutta la destra postfascista a ripensare se stessa, a rileggere criticamente la propria storia, a processare culturalmente tuta una classe dirigente. Insomma, l’esatto contrario di quanto è accaduto finora. Si è preferito invece catalizzare tutti i mali di un’area, metterli in un vaso di Pandora con le cravatte sgargianti e andarsene poi in giro fischiettando con l’aria di chi passa lì per caso. Ora che il vaso si è rotto, i mali tornano in superficie. Chissà che qualcuno non decida di affrontarli, anziché tentare di nasconderli sotto al tappeto.
Mettere in questione Fini, per esempio, dovrebbe significare anche toccare un tabù della destra, l’almirantismo. Contestualizzando, per carità, quel che c’è da contestualizzare, ma senza dimenticare che il frutto riflette sempre l’albero. E Fini è un genuino frutto di Almirante. Processare Fini significa rileggere la storia dell’Msi e le dinamiche del passaggio ad An che il 99,9% degli attuali difensori della memoria e dell’identità condivise, avallò e accettò. Fini è stato il loro capo, non il mio. Un capo, peraltro, che disponeva di un consenso plebiscitario e che ebbe a che fare con un contraddittorio pressoché nullo. Insomma, nella storia della destra italiana Fini sta incastrato come un barattolo in quelle pile enormi che si trovano di tanto in tanto nei supermercati: non puoi estrarlo senza far cadere tutto il mucchio. In questi ultimi anni ci hanno fatto credere che tutti i problemi della destra fossero racchiusi dietro la perenne abbronzatura di quest’uomo. Ci hanno indicato il traditore grande per far dimenticare i piccoli tradimenti quotidiani di tutti gli altri. Hanno azzerato ogni riflessione dicendoci che bastava colpire il bersaglio più facile.
Ora, però, il parafulmine è caduto. Tempesta, scatenati.
(di Adriano Scianca)
Nessun commento:
Posta un commento