Se risulta tortuoso stare al governo avendo una posizione critica in tempo di democrazia, si può immaginare come poté essere difficile (e drammatico) esserlo in un regime autoritario. Eppure Giuseppe Bottai, “l’apostolo del fascismo”, ci riuscì. Figura inquieta e assolutamente contestualizzata nel clima del suo tempo, fece di questa frase una condotta di vita: «Voglio stare nel fascismo non solo con i piedi ma anche con la testa». Questo modo di agire e di intendere la fedeltà alla figura di Mussolini fece di Bottai fin da subito un personaggio scomodo e disorga nico verso una classe dirigente acquiescente alle tendenze più retrive del regime. Espulso dal partito nel 1924 per i rapporti tesi con il “ras” Farinacci, cercò sempre di adeguarsi e al tempo stesso di indirizzare le linee programmatiche di uno Stato che, superata la fase della rivoluzione, rischiava a suo avviso una sostanziale stagnazione conservatrice. E questo Bottai lo attuò in tutti i ruoli che ricoprì nel regime. Ma dove nasce questo spirito “contro” del giovane Bottai? Dal rapporto dialettico fra la istituzione e la dinamica delle proprie idee. È il background culturale e la formazione sul “campo” che determinano, prima di tutto, l’attitudine alla costruzione: attratto precocemente dal futurismo e richiamato dal valore della trincea della Prima guerra mondiale, Bottai fu fascista delle prima ora. In nome di questo spirito – ha scritto lo storico Giordano Bruno Guerri – «per oltre vent’anni si batté perché nel partito e nel partito fossero possibili dibattito e dialettica interna». Proprio per questo, e nonostante la rozzezza di molti gerarchi, il ruolo critico di Bottai all’interno del regime fascista si esplicò in vari campi: da quello del lavoro a quello del ruolo dell’istruzione e dell’organizzazione della cultura. Come ha spiegato Guerri «Bottai fu un “teorico dell’agire sociale”, che provò a trasformare un regime, di cui percepiva i limiti e le debolezze umane, ma non quelle strutturali». Obiettivo del politico, infatti, fu di riuscire a creare un sistema che riuscisse a sopravvivere al mito del “capo”: per questo motivo la sua opera fu rivolta soprattutto ai giovani, in quanto li considerava un antidoto alla deriva formale e burocratizzata di una classe dirigente che stava invecchiando. E tutto questo nasce fin dai primi momenti dell’esperienza del regime: il suo bisogno di “fronda”, quindi, non nasce da un istinto irrazionale alla ribellione, ma dalla necessità storica di riempire un “vuoto” che nel regime a suo avviso doveva essere riempito. Pena la scomparsa della funzione originaria. La sua era un’aspirazione che si poneva nell’idea della possibilità di un “partito degli intellettuali”. E, se dal punto dal punto di vista politico ci riuscì fino a un certo punto, Questo si realizzò di sicuro dal punto di vista culturale, grazie all’instancabile attività di divulgatore e di mecenate. Indagò, quindi sulle tendenze d’avanguardia internazionali, con vari affacci sul dibattito inglese, russo o americano, con l’obiettivo di portare in Italia le nuove correnti intellettuali in modo da crearvi un inedito cantiere per le idee e la stessa politica. E per rimarcare la sua distanza dalle posizioni “ufficiali” del regime su Critica fascista, una delle tante riviste da lui animate, Bottai diede spazio a Intellettuali dalle più diverse sensibilità, anche ad esempio a don Romolo Murri e a giovani come Guido Carli, Vittorio Zincone. Bottai fu sempre aperto al dialogo con i giovani intellettuali in odor di “fronda” – da Leo Longanesi a Mino Maccari fino a Berto Ricci – offrì loro attraverso le pagine delle sue riviste uno spazio di espressione e di dibattito. Come poté coesistere questa individualità “illuminata” con un regime? Probabilmente con la consapevolezza, da parte dello stesso capo del fascismo, che un’eventuale prosecuzione dell’esperienza governativa – nella sua forma evoluta – sarebbe dovuta passare per le intuizioni “democratiche” di quel fascista “atipico”.
Antonio Rapisarda (Il Secolo d'Italia)
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