sabato 7 febbraio 2009

L'intervista: Ala Marinetti

La secondogenita di «Filippo Tommaso» Marinetti si chiama Ala, un nome dedicato all’amore che il padre del Futurismo nutriva per il volo e la libertà. La signora vive ancora a Roma, a un passo dal Pantheon, la città che quando era ragazzina cullò gli anni d’oro della famiglia composta dalla madre, la pittrice Benedetta «Beny» Cappa, e le due sorelle dai nomi altrettanto futuristi, Vittoria e Luce. Era la fine degli anni ’20, e la grande casa affacciata su piazza Adriana era la mecca di artisti, scrittori e intellettuali che pendevano dalle labbra dell’«uomo nuovo» del Novecento. Ma il ritratto che emerge vivo dalla memoria della bambina che faceva capolino nel grande salone sempre affollato, stride con l’immagine focosa e un po’ provocatoria del rivoluzionario che inneggiava alla distruzione dei musei e glorificava la guerra come «sola igiene del mondo».
Che padre era Tommaso Marinetti?
«Affettuosissimo e permissivo come tutti i padri non più giovani, sempre allegro e con la battuta pronta. Mio padre aveva 45 anni quando conobbe mia madre, che ne aveva 22. Dopo otto anni ebbero mia sorella Vittoria e poi me. Quando morì avevo solo 15 anni, ma ho dei ricordi bellissimi».
Me ne dica uno.
«Forse sembrerà strano, ma era un padre presente che ci ha trasmesso le regole e l’amore per la vita. Adorava il mare e tutti insieme trascorrevamo lunghi periodi a Capri. Suonava benissimo il piano e a volte mi accompagnava quando provavo dei passi di danza. Poi mi diceva delle cose che mi sono rimaste scolpite: “Sii sempre corretta con gli altri e coerente con ciò che pensi e provi”». Con sua madre andava d’accordo?
«Erano una cosa sola. Lei era una donna bellissima e lui ne era inutilmente geloso. Era molto libera spiritualmente, scriveva e dipingeva, ma era completamente devota a lui. Ricordo che certe notti mio padre aveva delle illuminazioni poetiche. Lei si svegliava e prendeva appunti».
Lui le parlava del Futurismo?
«Allora non era come oggi e i bambini giocavano nelle loro stanze. Ma ricordo bene di come mio padre spronava gli artisti che, quasi sempre all’ora di pranzo, gli chiedevano udienza e gli mostravano le tele. Lui adorava la pittura».
Oggi, nel centenario del Futurismo, tutti li celebrano.
«Oggi sì, ma allora quegli artisti facevano la fame nera e quasi tutti sono morti poveri. Boccioni e Carrà pranzavano con un uovo. I Futuristi nacquero perché c’era un mecenate, mio padre, che consumò quasi tutte le fortune di famiglia per farli esistere. Comprava gli stessi quadri quattro o cinque volte. A volte mia madre gli chiedeva: che cosa lascerai alle nostre figlie? Lui rispondeva: il mio nome».
Mussolini si faceva vedere a casa?
«Beh sì, erano amici. Il duce aveva un grande rispetto per mio padre che aveva spesso il coraggio di dirgli in faccia il suo disaccordo».
Su quali argomenti, in particolare?
«Ad esempio sulle leggi razziali. Lui aveva un grande rispetto per le idee altrui e la nostra casa ha ospitato anche liberali e antifascisti. Quando nel ’43 lasciammo Roma per l’Hotel Excelsior di Bellagio, i miei “nascosero” nella nostra casa di piazza Adriana i Mieli, una famiglia di setaioli israeliti. E grazie a loro, al nostro ritorno a Roma, ritrovammo intatta tutta la collezione di arte futurista. Papà purtroppo non era più con noi».
C’è qualche opera a cui è rimasta affettivamente legata?
«A quei tempi si partoriva in casa, ed io sono nata sotto il Footballer di Boccioni. Dunque...».
A Mussolini quei quadri piacevano?
«Il duce, per sua fortuna, subì la forte influenza di Margherita Sarfatti che lo dirozzò culturalmente. Così iniziò a interessarsi all’avanguardia e in quel periodo furono organizzate mostre pubbliche e la Fiera del libro. Hitler, invece, la considerava arte degenerata e non amava mio padre. Che infatti organizzò mostre in Russia e in Inghilterra, ma mai in Germania».

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