Sono passati solo pochi anni, eppure nessuno si ricorda più delle azzardate profezie di Francis Fukuyama, un professore di Harvard che nel 1992 predisse addirittura la “fine della storia”. Allo stesso modo, ci si è rapidamente scordati di un altro politologo statunitense, Samuel Huntington, che poco più di dieci anni fa teorizzava lo “scontro delle civiltà”, fortunatamente sbagliando pronostico.
Due o tre lustri sono stati dunque sufficienti a liquidare senza rimpianti gli ultimi tentativi di cogliere un senso della storia che andasse al di là del semplice resoconto dei fatti per approdare alla visione di un più ampio orizzonte.
Ecco perché fa un certo effetto assistere all’ennesima riedizione di un classico come Il tramonto dell’Occidente (traduzione di J. Evola riveduta da Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone e Furio Jesi, Longanesi, 2008, pagg. 1520 + LXIV, euro 50,00) di Oswald Spengler (1880-1936). A novant’anni dalla sua pubblicazione, infatti, questo capolavoro mantiene intatta la sua straordinaria freschezza e inaspettata attualità; non sono bastate due guerre mondiali e lo sterminato dopoguerra per rendere superato quello che viene salutato come un “classico”, oltre che come un best-seller, a partire dal momento della sua pubblicazione.
Tutt’altro che pessimista, come venne erroneamente giudicata, l’opera più celebre del filosofo tedesco era stata concepita in vista di una allora non improbabile vittoria tedesca, e, come recita il sottotitolo, ambiva a tracciare i Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, indagando il significato della storia universale. Il tramonto dell’Occidente – anche se in Italia è sempre apparso in un volume unico – si divide in due parti: nella prima, intitolata “Forma e Realtà”, vengono introdotti tutti gli elementi della sua concezione del mondo e della storia, mentre la seconda, “Prospettive della storia universale”, non è solo, come il titolo lascerebbe supporre, un’appendice esemplificativa, ma offre originali osservazioni anche in chiave etnologica, derivate in parte dall’amicizia con quel grandissimo studioso che fu Leo Frobenius.
I maestri riconosciuti da Spengler sono, comunque, Goethe e Nietzsche, accanto a Eraclito, cui Spengler dedicò la propria tesi di laurea e che indubbiamente informa il suo stile, scintillante ed ermetico allo stesso tempo. Scrisse a questo proposito Thomas Mann: «Il tramonto rivela una potenza, una forza di volontà straordinaria: pieno di dottrina, ricco di scorci storici, costituisce un romanzo intellettuale del più alto interesse», che peraltro non gli impedì di mettere repentinamente il libro da parte, «per non essere costretto ad ammirare ciò che fa male e ciò che uccide».
Già, perché Spengler fu a torto ritenuto un precursore di Hitler, nonostante il fatto che il suo pensiero, evidentemente, fosse troppo complesso per essere ridotto a una qualsiasi ideologia politica. Del resto, lo stesso Cancelliere, impegnato a costruire il Reich millenario, aveva dichiarato di non essere affatto un seguace di Spengler e ovviamente di non credere al “Tramonto dell’Occidente”.
Nelle linee essenziali, la sua visione del mondo può essere ridotta all’idea che la storia non è lineare ma ciclica, e le civiltà sono paragonabili a organismi viventi, ossia vivono un ciclo di nascita, sviluppo e morte, stadi che si riflettono in ogni manifestazione, dalla politica all’architettura, dalle lettere alla matematica, dalla religione alla musica. La prima distinzione fatta dal filosofo è sulla diversità tra mondo meccanico, dominato dal principio della causalità, e il mondo organico, a cui appartengono appunto le civiltà umane, segnato da un imprevedibile destino. Ogni cultura ha una fase iniziale di crescita, lo slancio creatore chiamato Civiltà (Kultur) che inevitabilmente, arrivata al termine, diventa Civilizzazione (Zivilisation), cioè l’organizzazione materiale in cui declina ogni ideale eroico e ogni profonda spiritualità. La nostra epoca è proprio questa, e la consapevolezza di vivere in una fase di decadenza può essere utile a non crearsi false illusioni per vivere consapevolmente il nostro destino, sapendo che a ogni tramonto non può che seguire un’altra aurora.
Quanto resta di attuale, oggi, delle scintillanti teorie di Spengler, che amava descrivere la sua opera «una filosofia contro i professori di filosofia»? Per Stefano Zecchi, cui si deve molta della recente fortuna di Spengler in Italia, e che, oltre alla cura della prima edizione parziale dei frammenti autobiografici Eis Eautòn, ha introdotto le ultime due edizioni italiane del Tramonto dell’Occidente, «la concezione della storia di Spengler deve essere innanzitutto interpretata come una strenua e appassionata difesa dell’azione creativa dell’uomo, della necessità dell’agire nell’epoca in cui si sono spartite il mondo due ideologie apparentemente nemiche, quella trionfalistica del progresso e quella del nichilismo e dell’inarrestabile decadenza».
Oswald Spengler, per Marcello Veneziani, curatore qualche anno fa di una stimolante antologia di Scritti e pensieri edita da SugarCo, è soprattutto «un profeta che può aver mancato le sue profezie, ma ha allo stesso tempo saputo intuire, presagire e interpretare lo spirito dell’epoca e il clima di un secolo particolare, attraversato dalle convulsioni e dalle fibrillazioni che accompagnano il tramonto di un’epoca. Resta infine la sua idea classica di destino, e dell’impossibilità di sottrarsi all’ineluttabile, restando fedeli a se stessi come nell’esempio citato da Spengler ne L’uomo e la tecnica, della sentinella di Pompei che morì con l’eruzione del Vesuvio perché nessuno l’aveva sciolto dal compito assegnatogli».
Franco Cardini ha invece ricordato recentemente la tragica plausibilità di Spengler, visionario lungimirante e soprattutto “cattivo maestro”, bollato come irrazionalista e antiscientifico, le cui pagine, però, risultano oggi insospettabilmente attuali e fruttuose; secondo il professore fiorentino, oggi, «mentre sorgono nuove sintesi tra la “civiltà occidentale” e altre forme di cultura, s’impone una rimeditazione delle opere del grande inattuale».
Secondo Giano Accame, Spengler «continua a esser letto proprio perché l’attualità cresce. Il tramonto dell’Occidente è reso ancor più evidente dal risorgere dell’Oriente, della Cina e dell’India, nuove grandi potenze, mentre cala vistosamente il prestigio del dollaro statunitense. La previsione del cesarismo come correttivo al potere del denaro si è realizzata in gran parte d’Europa nella prima metà del Novecento ed è poi fallita nel 1945. Ma il fallimento di quel tipo di soluzione non ha certo eliminato il problema, che continua anzi ad aggravarsi, come io stesso ho cercato di dimostrare in un libro, Il potere del denaro svuota le democrazie (edito da Settimo Sigillo). La “guerra del sangue contro l’oro” ha appena chiuso a suo tempo un primo capitolo, come ha lucidamente compreso Ezra Pound».
(fonte: http://www.wuz.it/)
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