Sì, La Grande Guerra compie cinquant’anni. Uno dei film più noti della commedia all’italiana sceneggiato da Age, Scarpelli, Luciano Vincenzoni e Mario Monicelli che ne fu anche il regista, ha già mezzo secolo di vita. Più o meno come la bambola Barbie e la rivoluzione cubana. E della prima e della seconda questo film sembra aver rubato quel qualcosa che tanto somiglia al perenne bisogno di far parlare di se stesso. Come si trattasse di un evento che ha segnato nell’immaginario la storia recente della nostra vita e che ci accompagna dai tempi in cui l’Italia era una nazione piena di indefinibile speranza e di ottimismo. Proprio così. Si trattò di una pellicola che per molti versi sorprese pure gli stessi autori (fu Leone d’oro alla XX Mostra del cinema di Venezia ex aequo con Il Generale della Rovere, tratto da un romanzo di Indro Montanelli e girato da Roberto Rossellini, e candidato all’Oscar pochi mesi dopo) e che fu apprezzata ma anche criticata ancor prima che uscisse nelle sale. Il perché è ovvio ed è presto detto. Si trattava di una commedia, dunque apparentemente di una presa in giro del nostro ’15- 18, vale a dire di un evento complessivamente sacro, e che più che sacro era stato negli anni Venti e Trenta quando la Grande Guerra era stata vista come un presupposto per l’instaurazione di un nuovo corso ideale, militare e politico. Adesso però gli artefici del progetto affidavano le parti di protagonisti a due tipi strampalati (Oreste Jacovacci e Giovanni Busacca interpretati da Alberto Sordi e Vittorio Gassman), che rappresentavano il non plus ultra dell’italianità individualista e furbarola quella appunto che l’italica commedia amava da tempo prendere di petto con ispirata cattiveria. Da un lato il sacro e dall’altro il profano. Da una parte i fucili e dall’altra la capacità secolare di tirare a campare, nonostante tutto e malgrado le difficoltà. Da un lato ancora le fondamenta luminose della nazione – il suo esercito e la sue vittorie decisive – dall’altro l’abilità scannata degli italiani pronti a scansare pericoli e fatiche quando ciò è possibile, a trasformare il lutto in farsa e a svignarsela allo scrosciare del minimo, anzi impercettibile, pericolo. Sembravano, anzi erano, due mondi pienamente incompatibili. La commedia inoltre era resa più cattiva dal fatto che i protagonisti fossero un milanese e un romano, cioè due comuni rappresentati dell’intera Penisola, dal Nord padano al Sud mediterraneo, l’uno (il milanese) furbo, vagamente bakuniniano, e risoluto, l’altro (il romano), furbo e fifone. In una parola sola: affatto italiani. L’ambientazione, poi, era fra le più scomode: le trincee della Grande Guerra, il periodo grossomodo fra Caporetto e Vittorio Veneto. E tanto bastava. A rivederla adesso però la pellicola, a riascoltare le registrazioni delle interviste rilasciate dai protagonisti dentro e fuori scena e soprattutto a rileggere quel libro che uscì ancora nel ’59 curato da Franco Calderoni per i tipi della Cappelli editrice, dal titolo La Grande Guerra e uscito anche per documentare le polemiche che scoppiarono già nei primi mesi del ’59 al solo annuncio dell’inizio delle riprese, l’impressione che ne viene fuori è un’altra, perché il difetto su cui poter discutere non è tanto il valore dei nostri soldati, quanto tutto ciò che si era costruito attorno all’ennesimo italico “ismo”. Insomma quel film di cinquanta anni anni fa era nato per sostituire alla retorica dei grandi uomini “senza macchia e senza paura” (retorica da anni Trenta), quella più mite e neo-realista degli eroi – forse pure antieroi – per caso (tipica dell’italico dopoguerra e anche, intendiamoci, di una certa sinistra). Nel frattempo – è appena il caso di dirlo – una intera generazione di italiani, con tutti i suoi gusti, i suoi disgusti, i suoi valori, i suoi antivalori e le tante sue esperienze, era passata sotto i ponti della nuova democrazia e si cominciavano a vedere le differenze. Ma procediamo con ordine. In quegli anni ’50, in Italia come altrove, nessuno avrebbe mai messo in discussione il probabile successo di un film sulla guerra… Il produttore Dino De Laurentiiis aveva così cominciato a fiutare un affare d’oro appena dietro l’angolo di casa, e aveva finito per parlarne a Mario Monicelli – fra i registi più rappresentativi e di successo del periodo – che peraltro (vedi il caso) sulla prima guerra mondiale aveva già letto una sceneggiatura scritta di Luciano Vincenzoni dal titolo “Due eroi?”. Vincenzoni era quel che si diceva un appassionato conoscitore della letteratura di guerra, il suo libro cult era Viaggio al termine della notte di Céline, ed era stato a sua volta folgorato dal point of view kubrickiano nella pellicola Orizzonti di gloria. Così dunque si era formato il trio vincente che avrebbe provveduto a metter in piedi lo scheletro del film (anche se, in realtà, ai tre molto presto si sarebbero aggiunti come nuovi sceneggiatori Age e Scarpelli). A costituire le fonti letterarie sarebbero state invece le opere di Emilio Lussu (Un anno sull’altipiano), Carlo Salsa (Trincee), Bacchelli (La città degli amanti) e poi ancora di De Amicis, Comisso, Barbusse e altri ancora fino a Guy de Maupassant. Giungiamo così all’inizio del 1959, al sorgere del dibattito. Il produttore Dino De Laurentiis diffonde subito la notizia sulla nascita del progetto Grande Guerra, un film tragicomico con due big come Alberto Sordi e Vittorio Gassman, ma immediatamente scoppiano polemiche a non finire che nessuno poteva attendersi. Sulla stampa (in particolare su tre quotidiani nazionali: La Stampa di Torino, Il Mattino di Napoli e Il Giorno), senza avere in mano alcunché di certo intenta un processo alle intenzioni su un qualcosa (un film appunto) che non esiste ancora. Il problema? La trama potrebbe offendere l’esercito italiano e la patria intera… ancora per molti versi due veri e propri tabù… Ma il produttore non ci sta, anzi. Replica, scrive, spiega, difende la sua creatura allo stato nascente… e soprattutto contrattacca. Fra botte, risposte, proteste degli stati maggiori dell’esercito e interventi sulla stampa, trascorre un mese intero, fino a quando, febbraio 1959, il dibattito si istituzionalizza. Il Msi, preccupato da alcune voci che circolano sui giornali, presenta un’interrogazione parlamentare. Si vuol sapere insomma se il presidente del consiglio e il ministro della Difesa «non intendano assicurare il Parlamento che ogni partecipazione e impiego delle forze armate italiane in film di produzione italiana, o non, sarà accordato soltanto qualora tale partecipazione e impiego abbia il fine di esaltare il valore della nazione – così come avviene in tutti i paesi per i film ivi prodotti… se, in base a tale principio non intendano dare assicurazione al Parlamento che nel film La Grande Guerra, della ditta De Laurentiis, di prossima lavorazione, la partecipazione delle forze armate, sarà accordata solo se trattasi di film che glorifica il soldato italiano e il prestigio nazionale…». E così via discutendo. Basta così? No perché chi di politica ferisce di politica perisce…. Ed è a questo punto che il combattivo produttore chiede un colloquio proprio con l’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti. Passano i giorni, è ormai primavera inoltrata quando il futuro “Belzebù” degli anni Settanta, il quale – avendo letto attentamente tutta la sceneggiatura – non trova il film per nulla scandaloso, e si pronuncia in modo del tutto positivo. Il lavoro, dunque, può andare avanti e la polemica è opportuno che, com’è nata, d’improvviso muoia. Punto e a capo.Spenti i fuochi delle inutili, roventi polemiche, è abbastanza semplice trarre una morale sia da questa storia sia dalla pellicola che resta – nonostante qualche momento un po’ morto e l’andatura un po’ episodica – davvero un gran bel prodotto sia da un punto di vista squisitamente tecnico che da un punto di vista narrativo. Quel film, La Grande Guerra, era semplicemente la storia di due eroi all’italiana che vengono fatti prigionieri dal nemico austriaco ma riescono a morire – senz’altro a modo loro e realisticamente – da veri eori, malgrado la paura. La loro morte sarà infatti indispensabile affinché il nostro esercito prosegua nella lotta contro il nemico. In fondo i soldati interpretati da Sordi e Gassman, benché furbastri, sono due veri eroi perché predestinati fin dall’inizio all’utile sacrificio. A quello più importante. Il punto nodale del film va dunque ricercato altrove e non nella negazione dell’eroismo né nella sottovalutazione delle forse armate come si temeva in quella fine di anni Cinquanta. Nel copione c’è infatti una battuta molto bella recitata dal soldato Alberto Sordi, al momento di prendere in braccio un bambino: «Beato lui che è del 1916 così non farà mai guerre…». Ecco in questa affermazione che come sappiamo si rivelerà falsa si può trovare buona parte della verità del film di Vincenzoni e Monicelli. Una pellicola che non si fa beffe né della patria né della guerra, né degli eroi, ma forse solo di una cultura che aveva fatto della prima, della seconda e dei terzi un oggetto di culto; l’altra faccia, per molti aspetti nobile, di molte generazioni indotte ad adorare se stesse e i figli migliori attraverso i propri simboli, attraverso le gesta eclatanti e gli annunci verbosi. In due parole: in qualche modo si facevano i conti con il fascismo. D’altronde, a pochi mesi dagli anni ’60 i tempi stavano mutando. C’era stata la restituzione del corpo del Duce a Predappio, da lì a qualche mese i missini avrebbero sostenuto un governo. E poteva provare a voltare pagine e raccontare una vera storia condivisa come quella della Grande Guerra. Ed è forse giusto dire che anche l’eclettica commedia monicelliana – quella del piangi-e-ridi – ci stava aiutando a riflettere. Alla fine della storia, Giovanni Busacca fa all’ufficiale austriaco: «E alora... senti un po’, visto che parli cusì... mi te disi proprio un bel gnènt!! Hai capito?!? Facia de merda!!! ». E il romano Oreste Jacovacci: «Aoh, ma questi qua sparano davvero...». E il film si conclude con la vittoria dell’esercito italiano e con il grottesco commento di un sergente che dice: «E quei due fannulloni se la saranno scampata anche stavolta...». È davvero l’eroismo arcitaliano, disincantato, scanzonato ma maledettamente autentico.
Di Marco Iacona (Il Secolo d'Italia)
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