Aggirarsi tra i templi di Paestum non vuol dire fare del banale turismo. Significa toccare con gli occhi un capolavoro di antropologia culturale romana. L’identificazione tra Roma e l’Italia fu totale nel momento in cui la Repubblica, rompendo i ristretti confini originari, chiamò tutte le stirpi italiche a partecipare da protagoniste al disegno imperiale. A Paestum si capiscono bene le dinamiche che portarono i Romani a fondersi di nuovo prima con i Latini e poi con tutti gli Italici. Ma perché di nuovo? Perché queste genti non erano relitti etnici tra loro estranei e disposti a casaccio lungo la nostra penisola, ma agglomerati umani eredi in linea retta delle migrazioni indoeuropee. Rivoli di un unico fiume, che in ondate successive e fino al 1200 a.C., avevano popolato l’Europa meridionale.
A Paestum si è avuto l’incontro tra i Greci, quelli provenienti da Sibari che nel VI secolo fondarono la città dandole il nome di Posidonia, i Lucani, stirpe sannita che si impadronì di Paestum alla fine del V secolo chiamandola Paistom, e i Romani, che, dopo una guerra vittoriosa, occuparono la città un secolo dopo, la popolarono di migliaia di coloni, ne fecero un porto importante e la elevarono allo status di colonia latina, dotata di speciali diritti. Tra questi diritti, uno dei più rilevanti era quello che concerneva la libertà di contrarre legittimo matrimonio con donne romane: cosa sino ad allora proibita a chiunque non fosse di sangue latino.
Paestum, che è stata dunque prima greca, poi lucana e infine romana, è un esempio di come i sostrati razziali protostorici - ceppi villanoviani indigeni, contraddistinti dall’uso delle urne cinerarie - si fusero diluendosi facilmente nelle popolazioni dominanti calate da nord, soprattutto gruppi di guerrieri sanniti, oppure con genti osche, apule, picene e persino etrusche, che erano stanziate sul litorale tirrenico nella zona di Cuma. E, alla fine, con i Latini insediati nel Cilento come coloni e con gli stessi Romani. Questo ricompattamento etnico della diaspora indoeuropea sul nostro suolo è visibile con estrema chiarezza proprio a Paestum, tanto nella conformazione sociale, innestata su aristocrazie guerriere popolari, quanto nel pantheon religioso, che contava, accanto a figure maschili sovrane - l’Apollo greco, riconfermato nella fase lucana e in quella romana - anche figure femminili di straordinario significato. Il tutto, all’insegna della continuità e mai della rottura, a testimonianza del fatto che si trattava di popoli consanguinei.
A Paestum abbiamo, in questo senso, esempi eloquenti. A cominciare dalla statua marmorea di Hera, risalente alla fine del V secolo e proveniente dall’Heraion, edificio sacro eretto sulla sinistra del Sele a poca distanza dall’area urbana di Paestum. Rappresenta la dea assisa in trono in postura ieratica, recante in mano il melograno (simbolo di fertilità) e oggetti votivi (gioielli, profumi, vasi nuziali), che rimandano al ruolo sociale femminile di custode della stirpe, in quanto genitrice e padrona delle ricchezze domestiche. Si ha, in questo caso, il tratteggio di una femminilità pienamente nordica e regale - simile all’Atena o alla Minerva classiche -, molto lontana da quelle grossolane celebrazioni della fertilità femminile (vulve gigantesche, ventri spropositati) che erano tipiche della società indigena neolitica, di tipo “pelasgico”, legata alla Grande Madre. Questa Hera ci parla di un primordiale che non è solo bios, ma anche legge, non è natura cieca, ma ordine.
Un altro reperto emerso dal grande sito archeologico di Paestum è una tomba, detta “dello sciamano”, contenente i resti di uno strano personaggio il cui corredo funerario consiste solo di quattro fibule a chiudere la veste, secondo l’uso delle sepolture femminili. La figura silenica scolpita in bassorilievo sul coperchio tombale ci conferma trattarsi di un individuo di ruolo sacerdotale, uno sciamano appunto, personaggio dionisiaco del tutto congruo all’ambiente indoeuropeo e per nulla in contrasto con società gerarchiche e guerriere, come a volte si sostiene. Questo ci mostra, una volta di più, che i valori della femminilità legati alla catena ereditaria e quelli della gerarchia guerriera convivevano a medesimo titolo, come aspetti della società legata all’eroe e alla madre. Mosaici pavimentali con motivi geometrici a svastica, rinvenuti in case di Paestum, piatti con iscrizioni dionisiache, statuette di Hera Ilizia partoriente, si affiancano a stele dedicatorie a Giove (in greco, ma anche in osco) e a documenti virili, come i fregi d’armi o la bellissima corazza anatomica rinvenuta in una tomba a camera. Questo ci testimonia la convivenza a Paestum, sotto l’egida di Hera - divinità associata alla Venere Troiana, progenitrice di tutti i Latini -, di valori marziali e sciamanico-visionari, nella tipica associazione indoeuropea tra maschile e femminile.
Ma la caratteristica sociale di Paestum, sancita dalla legislazione romana, fu quella di essere città “plebea”. Il che non significa schiavile, ma popolare. Come si sa, a Roma esisteva anche un’aristocrazia plebea, e il termine non rimanda a condizioni di subalternità di classe, ma piuttosto a differenziazione di rango. Paestum romana fu “plebea” in quanto comunitaria e non oligarchica, una società retta dal blocco storico costituito dalla nobilitas nata dalla fusione dei vertici della plebe latina con le antiche aristocrazie dominatrici nella fase lucana. Ne è prova la statua bronzea del Marsia ritrovata nel Foro di Paestum: si tratta di un simbolo della libertas, copia dell’originale eretto a Roma nei pressi del Fico Ruminale, con ai piedi i ceppi infranti, a indicare l’evento storico dell’ottenimento, nel 351 a.C., del rango di censore da parte del primo plebeo romano, Marcio Rutilio. Evento che aprì le porte del consolato ai plebei e che fu antefatto della legge del 90 a.C., che estendeva la cittadinanza agli alleati latini di Roma, e infine a quella di Augusto, che la allargò all’intero popolo italico, dalle Alpi alla Sicilia. Il laboratorio etnico di Paestum consiste dunque nell’aver amalgamato stirpi italiche sul primo tronco ellenico locale e nell’aver fatto emergere un nuovo tipo d’élite comunitaria. Questa situazione, che riflette quella delle “guerre sociali” romane, permette di parlare di una gerarchia popolare. Una selezione dei migliori, tratti dall’intero bacino comunitario, costituito da un insieme di etnie italiche sorelle: Etruschi, Lucani, Osci, Latini, Romani.
A Paestum si è avuto l’incontro tra i Greci, quelli provenienti da Sibari che nel VI secolo fondarono la città dandole il nome di Posidonia, i Lucani, stirpe sannita che si impadronì di Paestum alla fine del V secolo chiamandola Paistom, e i Romani, che, dopo una guerra vittoriosa, occuparono la città un secolo dopo, la popolarono di migliaia di coloni, ne fecero un porto importante e la elevarono allo status di colonia latina, dotata di speciali diritti. Tra questi diritti, uno dei più rilevanti era quello che concerneva la libertà di contrarre legittimo matrimonio con donne romane: cosa sino ad allora proibita a chiunque non fosse di sangue latino.
Paestum, che è stata dunque prima greca, poi lucana e infine romana, è un esempio di come i sostrati razziali protostorici - ceppi villanoviani indigeni, contraddistinti dall’uso delle urne cinerarie - si fusero diluendosi facilmente nelle popolazioni dominanti calate da nord, soprattutto gruppi di guerrieri sanniti, oppure con genti osche, apule, picene e persino etrusche, che erano stanziate sul litorale tirrenico nella zona di Cuma. E, alla fine, con i Latini insediati nel Cilento come coloni e con gli stessi Romani. Questo ricompattamento etnico della diaspora indoeuropea sul nostro suolo è visibile con estrema chiarezza proprio a Paestum, tanto nella conformazione sociale, innestata su aristocrazie guerriere popolari, quanto nel pantheon religioso, che contava, accanto a figure maschili sovrane - l’Apollo greco, riconfermato nella fase lucana e in quella romana - anche figure femminili di straordinario significato. Il tutto, all’insegna della continuità e mai della rottura, a testimonianza del fatto che si trattava di popoli consanguinei.
A Paestum abbiamo, in questo senso, esempi eloquenti. A cominciare dalla statua marmorea di Hera, risalente alla fine del V secolo e proveniente dall’Heraion, edificio sacro eretto sulla sinistra del Sele a poca distanza dall’area urbana di Paestum. Rappresenta la dea assisa in trono in postura ieratica, recante in mano il melograno (simbolo di fertilità) e oggetti votivi (gioielli, profumi, vasi nuziali), che rimandano al ruolo sociale femminile di custode della stirpe, in quanto genitrice e padrona delle ricchezze domestiche. Si ha, in questo caso, il tratteggio di una femminilità pienamente nordica e regale - simile all’Atena o alla Minerva classiche -, molto lontana da quelle grossolane celebrazioni della fertilità femminile (vulve gigantesche, ventri spropositati) che erano tipiche della società indigena neolitica, di tipo “pelasgico”, legata alla Grande Madre. Questa Hera ci parla di un primordiale che non è solo bios, ma anche legge, non è natura cieca, ma ordine.
Un altro reperto emerso dal grande sito archeologico di Paestum è una tomba, detta “dello sciamano”, contenente i resti di uno strano personaggio il cui corredo funerario consiste solo di quattro fibule a chiudere la veste, secondo l’uso delle sepolture femminili. La figura silenica scolpita in bassorilievo sul coperchio tombale ci conferma trattarsi di un individuo di ruolo sacerdotale, uno sciamano appunto, personaggio dionisiaco del tutto congruo all’ambiente indoeuropeo e per nulla in contrasto con società gerarchiche e guerriere, come a volte si sostiene. Questo ci mostra, una volta di più, che i valori della femminilità legati alla catena ereditaria e quelli della gerarchia guerriera convivevano a medesimo titolo, come aspetti della società legata all’eroe e alla madre. Mosaici pavimentali con motivi geometrici a svastica, rinvenuti in case di Paestum, piatti con iscrizioni dionisiache, statuette di Hera Ilizia partoriente, si affiancano a stele dedicatorie a Giove (in greco, ma anche in osco) e a documenti virili, come i fregi d’armi o la bellissima corazza anatomica rinvenuta in una tomba a camera. Questo ci testimonia la convivenza a Paestum, sotto l’egida di Hera - divinità associata alla Venere Troiana, progenitrice di tutti i Latini -, di valori marziali e sciamanico-visionari, nella tipica associazione indoeuropea tra maschile e femminile.
Ma la caratteristica sociale di Paestum, sancita dalla legislazione romana, fu quella di essere città “plebea”. Il che non significa schiavile, ma popolare. Come si sa, a Roma esisteva anche un’aristocrazia plebea, e il termine non rimanda a condizioni di subalternità di classe, ma piuttosto a differenziazione di rango. Paestum romana fu “plebea” in quanto comunitaria e non oligarchica, una società retta dal blocco storico costituito dalla nobilitas nata dalla fusione dei vertici della plebe latina con le antiche aristocrazie dominatrici nella fase lucana. Ne è prova la statua bronzea del Marsia ritrovata nel Foro di Paestum: si tratta di un simbolo della libertas, copia dell’originale eretto a Roma nei pressi del Fico Ruminale, con ai piedi i ceppi infranti, a indicare l’evento storico dell’ottenimento, nel 351 a.C., del rango di censore da parte del primo plebeo romano, Marcio Rutilio. Evento che aprì le porte del consolato ai plebei e che fu antefatto della legge del 90 a.C., che estendeva la cittadinanza agli alleati latini di Roma, e infine a quella di Augusto, che la allargò all’intero popolo italico, dalle Alpi alla Sicilia. Il laboratorio etnico di Paestum consiste dunque nell’aver amalgamato stirpi italiche sul primo tronco ellenico locale e nell’aver fatto emergere un nuovo tipo d’élite comunitaria. Questa situazione, che riflette quella delle “guerre sociali” romane, permette di parlare di una gerarchia popolare. Una selezione dei migliori, tratti dall’intero bacino comunitario, costituito da un insieme di etnie italiche sorelle: Etruschi, Lucani, Osci, Latini, Romani.
Simboli di questo equilibrio sono il cittadino libero rappresentato dal Marsia e la Mater Matuta venerata nel “Tempio italico” quale divinità dell’eredità di sangue legata al primo mattino, cioè alle radici originarie. A Paestum noi guardiamo con emozione le imponenti rovine dei templi di Cerere e di Nettuno, percorriamo il Foro, ammiriamo l’anfiteatro, le porte, le fontane, i santuari, gli splendidi affreschi tombali. Ma non dimentichiamo che tutto questo fu creato da uomini in carne ed ossa, in ogni epoca risoluti a difendere la loro tradizione, la loro cultura e la loro identità di stirpe.
di Luca Leonello Rimbotti (http://www.mirorenzaglia.org/)
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