Il giorno in cui il governo iraniano mi ha convocato negli uffici di polizia della Valiase Avenue e dopo un’amabile e un po’ ripetitiva conversazione-interrogatorio sulle ragioni della mia presenza mi ha fatto capire che quest’ultima non era più gradita e mi ha imbarcato sul primo aereo utile, sono andato in un museo che si chiama Covo dello spionaggio americano. È all’interno dell’edificio lungo e basso di mattoni rossi che ospita il quartier generale dei Guardiani della Rivoluzione, ed è aperto solo nelle ricorrenze patriottiche, quale appunto il Trentennale della fondazione della Repubblica islamica. All’ingresso c’è una statua della Libertà con le sbarre di una prigione al posto del cuore, e dentro è un susseguirsi di sale-giochi per grandi. Ci sono i manichini di cera degli agenti della Cia intenti in una riunione «diplomatica», il modellino in metallo del lanciamissili Vincennes che nel 1988 tirò giù un aereo di linea iraniano, 290 le vittime civili, radio-ricetrasmittenti, apparecchiature elettroniche per registrare, macchine per cifrare e decodificare i messaggi, la stanza dei documenti falsi, i resti dei dossier segretissimi triturati dallo speciale congegno addetto a questo compito, tazebao con slogan antiamericani, ancora manichini nelle vesti di martiri e kamikaze islamici.
Il giovane pasdaran, studente in medicina, che mi accompagnava spiegava tutto con dovizia di particolari, ma io ero un po’ sulle spine: il passaporto giaceva sequestrato negli uffici della polizia, all’ingresso del museo avevano fatto un fotocopia della mia fotocopia ed erano rimasti perplessi quando gli avevo spiegato che no, l’originale non era in albergo, ma appunto su una scrivania nella Valiase Avenue per problemi di visto... C’erano stati conciliaboli, telefonate e, insomma, ogni volta che mi veniva aperta la porta di qualche stanza segreta blindata, mi aspettavo sempre che qualcuno mi ci chiudesse dentro all’improvviso... «E il Museo dei Martiri dov’è ?» ho chiesto a un certo punto. Lo studente mi ha sorriso tutto contento e mi ha preso per il braccio: «È dall’altro lato della strada, proprio all’angolo. L’accompagno». Tornati all’aperto e riguadagnata l’uscita, mi sono fermato un momento a guardare i muri esterni dello stabile coperti di altri murales patriottici, altre statue della Libertà con questa volta la morte dipinta sul volto, altri slogan e c’era una feroce ironia della Storia nel pensare che questo è tutto ciò che resta di quella che fu un tempo l’ambasciata degli Stati Uniti...
Il Covo dello spionaggio americano, lo Shohada, ovvero il Museo dei Martiri che lo fronteggia di sbieco con le sue teche piene di uniformi, lettere, oggetti personali e facsimili in plastica degli arti persi in guerra, il mio visto turistico ritenuto una congiura politica, sono un buon compendio di questi primi trent’anni della Rivoluzione islamica, ma anche di ciò che la precedette: i Cinquanta del governo nazionalista di Mossadeq, che voleva nazionalizzare il petrolio, e del colpo di Stato con cui la Cia, proprio da quelle stanze descritte prima, lo fece fuori; l’americanismo spinto della scià, che arrivò a estendere l’immunità diplomatica a tutti i 50mila membri della comunità statunitense presente allora in Iran; l’ossessione per i complotti anti-iraniani dentro e fuori il Paese che trasforma ogni critica in tradimento... Eppure, è difficile non scambiare un giovane iraniano per un occidentale, gli stessi jeans, le stesse scarpe, le medesime T-shirt, e Los Angeles è stata ribattezzata Teherangeles per il numero di espatriati che ospita, la città è piena di antenne con cui si prende la Cnn, la Bbc, la Nitv, National Iranian Televison, appunto, la Melli, tv vicina all’ex premier Rafsanjani, di internet e di film americani ed europei in dvd. Per quanto nei giorni del Trentennale le città si siano riempite di bandiere, striscioni, manifesti e manifestazioni, essi non ce la fanno a eguagliare per numero le insegne pubblicitarie e i cartelloni che rimandano a marchi di moda, di auto, brand di lusso e di consumo... Il messaggio conciliatorio del neo-presidente Obama («aprite il vostro pugno e troverete una mano tesa») e il «Welcome» con cui il presidente Ahmadinejad ha replicato, sia pure accompagnato dai rituali distinguo sulla necessità di scuse per il pregresso atteggiamento Usa, indicano che, forse, qualcosa sta cambiando, più in sintonia con l’opinione media di un popolo straordinariamente giovane che vuole trovare la propria strada verso la modernità.
«Il problema sono i mullah» mi aveva detto Hasan, mia guida e interprete a Isfahan. Hasan è curdo, ha sposato una curda che fa la dentista ad Amsterdam, ha un figlio, vive sei mesi in Iran e sei mesi in Olanda. «Questa non è la mia patria, e del resto noi curdi una patria non ce l’abbiamo, però è il mio Paese, e non me la sento di andare via definitivamente» dice. I curdi non velano le donne e non sono strettamente osservanti sui divieti. «È whisky di contrabbando, viene dalla Turchia» mi ha detto dopo cena a casa sua offrendomelo con orgoglio. Il sapore era terribile, ma dopo una settimana senza alcol avrei bevuto anche la brillantina Linetti... «Mullah e bazarì alleati, è per questo che non funziona nulla. Si spartiscono il potere e il commercio e difendono le loro posizioni» mi ha detto ancora. «Non c’è capitalismo moderno, non si investe e si sfruttano le rendite del petrolio. Se vuoi capire l’Iran devi girare per i bazar e devi andare a Qom».
Da Teheran Qom dista un paio d’ore, da Isfahan tre volte tanto. In Iran ci sono 250 ayatollah e circa 200mila mullah, e arrivando a Qom la prima impressione è che siano tutti lì. Cinquecento moschee, le massime scuole teologiche del Paese, misticismo, fervore religioso, fede militante, chador neri delle donne e turbanti bianchi degli studenti delle madrase, un continuo pellegrinaggio alla Hazzat-E Masumeh, la moschea dall’aggraziata cupola d’oro della splendente Fatima, sorella dell’ottavo Imam Reza... Se il mullah è il clero sciita (la differenza con i sunniti sta anche in questo, nell’esistenza cioè di un apparato ecclesiastico), Qom è il Vaticano, un Vaticano senza Papa, ed è qui in fondo la chiave di volta dell’intera costruzione politica di Khomeini, la sua forza e la sua debolezza. In pratica, egli mise in piedi una costituzione «a modello carismatico», secondo la definizione del sociologo Renzo Guolo, autore del miglior libro in materia, La via dell’Imam (Laterza ed.). In essa, il suo carisma, appunto, codificato nel ruolo di Guida, ovvero di autorità assoluta, permetteva il coesistere di una doppia legittimità istituzionale: quella del presidente della Repubblica e del Parlamento, eletti dal popolo; quella del Consiglio dei Guardiani, di nomina religiosa ed esercitante una funzione di supervisione dell’attività politica, e dell’Assemblea degli Esperti, sorta di Concilio incaricato di scegliere la guida qualora quest’ultima manchi del carisma sufficiente per essere accettata dal popolo. Prima di morire Khomeini designò il suo successore, l’attuale Guida Khamenei, ma nel farlo non adottò un criterio religioso, non scelse cioè il «perfetto» teologo, ma promosse invece il proprio delfino politico. Ciò ha, di fatto, politicizzato il clero, ma ha anche alimentato la resistenza di quella parte più squisitamente religiosa, quietista, favorevole a una reale separazione dei poteri. Il risultato è da vent’anni a questa parte una continua frizione-scontro e un continuo rimescolarsi delle parti in causa.
Al bazar di Isfahan, una sera, vado a vedere un incontro di Zurkhané, letteralmente «casa della forza». Ne parla già Ferdousi nel Libro dei re, è di origine pre-islamica, incarna lo sport nazionale. In realtà è un rito, una sorta di arte di vivere... Nella sala, sormontata da un cupola, c’è una piccola arena ottagonale, intorno nicchie e balconate per il pubblico. Un arbitro dentro una specie di chiosco decorato di fiori di plastica, bandiere, ritratti dell’Imam Alì, ritma gli esercizi con un tamburo, li accompagna recitando versi, fa suonare la campana che ne decreta l’inizio e la fine. La gerarchia dei lottatori, T-shirt variamente ricamata, pantaloncini corti, piedi nudi, è in funzione della loro esperienza e delle loro qualità: il novizio, il debuttante, il pahalevan, ovvero il campione. Prima degli incontri veri e propri, gli atleti maneggiano al ritmo del tamburo pesi da 40 chili che sembrano mazze da baseball, danno prova di atletismo ginnico: flessioni, contorsioni, figure... Applausi, canti, preghiere accompagnano le esibizioni e il danzare frenetico dei dervisci atleti al centro del ring. Alla fine ci sono gli incontri di lotta veri e propri in cui si deve mettere l’avversario spalle a terra. «È un wrestling religioso» dico al mio accompagnatore. «Il wrestling americano da noi è popolarissimo» mi risponde. «Solo che loro mimano soltanto la forza, noi anche la fede. La differenza è tutta qui». Non solo nello zurkhané...
(di Stenio Solinas)
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