
L’idea era stata di Vito Laterza, e ottenne un enorme successo di vendite, inusitato per un volume del genere. L’intervistatore fu l’americano Michael Arthur Ledeen, allievo di George Mosse, in quel tempo giovane visiting professor alla «Sapienza» di Roma e poi diventato un leader dei neoconservatori statunitensi. De Felice, nella prima parte del libro, spiega la distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento; il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l’idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta». E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». È fondamentale anche l’individuazione dell’elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata».
Di più: De Felice sostenne, per la prima volta, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un’affermazione inaccettabile, e forse aveva ragione Ledeen quando, vent’anni dopo, spiegò l’origine politica di quella reazione furibonda: il predominio culturale del Pci stava cominciando a indebolirsi, e il partito si sentiva minacciato nella sua egemonia da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L’unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu un uomo coraggioso e onesto come Giorgio Amendola.
Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel ’74 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel ’76 da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano. Nonostante questa e altre aperture, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che - quasi vent’anni dopo - l’Msi si autodissolse a Fiuggi e che fra pochi giorni il suo erede, Alleanza Nazionale, si fonderà nel liberale Popolo delle Libertà.
di Giordano Bruno Guerri
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