A leggere il paginone con cui l’altro ieri La Repubblica ha sancito il divorzio fra la Sinistra e il Popolo, mi è venuta in mente una vecchia vignetta di (...) (...) Guareschi. Vi si vedeva un energumeno, un coltellaccio fra le mani, la terza narice fumante, il fazzoletto rosso al collo, che inseguiva fra i tavoli operaie e contadine bene in carne, mentre la banda suonava Bandiera rossa e tutti salutavano con il pugno chiuso. «Contr’ordine compagni - diceva la didascalia che accompagnava il disegno -. La frase pubblicata sull’Unità: “In occasione della Festa delle mondine democratiche del Vercellese, il compagno Paciotti aprirà le panze” è da intendersi “aprirà le danze”»... E dunque, contr’ordine compagni: Avanti popolo è da intendersi Indietro tutta, El pueblo unido jamas sera vencido è solo un jingle pubblicitario, la «canzone popolare», quella di Ivano Fossati che si «andava alzando» sui congressi del Pci ormai Pds-Ds-Ulivo-Pd e più ne hai e più ne metti, sta per «canzone sentimentale» (si sa, i partiti, come i figli, «so’ piezze ’e core»), il «popolo comunista» di berlingueriana memoria era uno scherzo, «l’unità popolare» della sinistra elettorale una boutade, l’articolo 1 della Costituzione un ignobile sopruso. Quanto al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, una massa di avvinazzati...
Non c’è bisogno di una cattedra in Scienze della Politica per sapere che popolo, populismo, popolare sono concetti ambigui e da prendere con le molle. Solo che dalle parti del Progresso non se n’erano mai accorti, forti com’erano della convinzione che il Popolo fosse il loro, popolari i loro leader e populisti, ovvero la feccia che voleva corrompere quello e questi, tutti gli altri. È stata una lenta deriva che poi si è trasformata in una via di mezzo fra la rotta e l’assedio, man mano che si perdevano voti e ci si accorgeva di essere minoranza, man mano che la mitica «gggente» e la mitica «piazza» delle dirette televisive infuocate e «de sinistra» mostrava la corda e, santo cielo, si scopriva che c’erano altra «gente» e altre piazze, naturalmente mefitiche, che non la pensavano allo stesso modo e, come definirle, populace, plebe minus habens, italioti?
Cominciò tutto sul finire degli anni Settanta, quando il Pci varò il compromesso storico e si illuse di essere arrivato al capolinea del potere. C’erano gli intellettuali, ovvero la classe politica, e c’era il popolo, ovvero la classe operaia, la classe lavoratrice, il grande partito di massa, di lotta e di governo. Ci si chiamava «compagni» e il popolo andava guidato e titillato, era una forza che non sempre praticava il politicamente corretto. Ancora qualche anno dopo, quando ci fu il primo storico incontro fra metalmeccanici e comunità gay a Bologna, un operaio nerboruto esordì così: «Sono d’accordo con il compagno busone che ha parlato prima»... In due vignette (come si vede, partire da Guareschi non è poi male) si riassume il senso di un processo: la prima è quella celebre di Forattini che proprio sulla Repubblica disegna un Berlinguer che in vestaglia, e seduto in poltrona, beve il suo tè mentre i metalmeccanici sfilano sotto le sue finestre. Lì c’è ancora il popolo, e il sarcasmo colpisce chi si è imborghesito e crede di poterne fare a meno. La seconda, dieci anni dopo o giù di lì, è di Staino e appare su Tango, inserto dell’Unità. C’è il nuovo segretario del Pci Natta che balla nudo al suono della musica di Craxi e De Mita. Il popolo è assente e il cazzeggio ha preso il posto dell’analisi politica.
Non c’è bisogno di una cattedra in Scienze della Politica per sapere che popolo, populismo, popolare sono concetti ambigui e da prendere con le molle. Solo che dalle parti del Progresso non se n’erano mai accorti, forti com’erano della convinzione che il Popolo fosse il loro, popolari i loro leader e populisti, ovvero la feccia che voleva corrompere quello e questi, tutti gli altri. È stata una lenta deriva che poi si è trasformata in una via di mezzo fra la rotta e l’assedio, man mano che si perdevano voti e ci si accorgeva di essere minoranza, man mano che la mitica «gggente» e la mitica «piazza» delle dirette televisive infuocate e «de sinistra» mostrava la corda e, santo cielo, si scopriva che c’erano altra «gente» e altre piazze, naturalmente mefitiche, che non la pensavano allo stesso modo e, come definirle, populace, plebe minus habens, italioti?
Cominciò tutto sul finire degli anni Settanta, quando il Pci varò il compromesso storico e si illuse di essere arrivato al capolinea del potere. C’erano gli intellettuali, ovvero la classe politica, e c’era il popolo, ovvero la classe operaia, la classe lavoratrice, il grande partito di massa, di lotta e di governo. Ci si chiamava «compagni» e il popolo andava guidato e titillato, era una forza che non sempre praticava il politicamente corretto. Ancora qualche anno dopo, quando ci fu il primo storico incontro fra metalmeccanici e comunità gay a Bologna, un operaio nerboruto esordì così: «Sono d’accordo con il compagno busone che ha parlato prima»... In due vignette (come si vede, partire da Guareschi non è poi male) si riassume il senso di un processo: la prima è quella celebre di Forattini che proprio sulla Repubblica disegna un Berlinguer che in vestaglia, e seduto in poltrona, beve il suo tè mentre i metalmeccanici sfilano sotto le sue finestre. Lì c’è ancora il popolo, e il sarcasmo colpisce chi si è imborghesito e crede di poterne fare a meno. La seconda, dieci anni dopo o giù di lì, è di Staino e appare su Tango, inserto dell’Unità. C’è il nuovo segretario del Pci Natta che balla nudo al suono della musica di Craxi e De Mita. Il popolo è assente e il cazzeggio ha preso il posto dell’analisi politica.
Quello che è venuto dopo, insomma, era già scritto, il mutare dello scenario sociale, economico, politico, e il continuare a far finta che non fosse successo niente, nuovi partiti che sorgevano, vecchie impalcature di governo che crollavano, e la «classe dei colti» che si illudeva di comprendere il proprio tempo. Non ci si accorse, per esempio, che la classe operaia andava tramontando e neppure che il sogno del proletariato era in fondo quello di divenire borghese, come Prezzolini aveva capito già mezzo secolo prima quando, invitato da Gramsci a parlare nelle fabbriche occupate di Torino, aveva accusato gli operai di mancare proprio di orgoglio di classe, la tuta nei giorni di lavoro e l’abito della festa, come borghesucci qualsiasi, alla domenica... Prezzolini, già, ma chi era, cosa voleva, chi lo leggeva? Un oscuro scrittore reazionario e filo-fascista, un anziano teppista delle lettere...
Chiusi nelle loro confortevoli abitazioni, retribuiti con contratti a tempo indeterminato, nelle aziende di Stato, nell’amministrazione pubblica e negli uffici-studi, nelle case editrici e nelle università e, se andava male, nelle scuole ma con annesso distacco sindacale, guardavano quel popolo che si sfaldava e, sbadigliando, lo invitavano a resistere. Certo, gli alloggi popolari erano una vergogna, ma non era forse all’opera una classe di architetti che fra il Corviale di Roma, le Vele di Napoli, lo Zen di Palermo aveva assicurato al popolo una dimensione abitativa rivoluzionaria? Certo, c’erano i campi nomadi, la microcriminalità, lo spaccio di droga, ma il popolo non doveva essere egoista, capire che la devianza è una malattia sociale, drogarsi un disagio esistenziale e poi, l’antica civiltà dei gitani, il fascino dei carrozzoni e degli «zingari felici», soggetti deboli, da difendere, non da offendere, stare con gli umili, insomma, con gli umiliati e offesi.
Lo dicevano dalle loro comodità dei centri storici, buona musica nello stereo, l’ultima guida dello slow food dove si diceva che in fondo «la vita è sugna», nel senso del grasso di maiale... Avevano imparato anche loro a bere del buon vino (più tardi sarebbero approdati ai vigneti, «poche bottiglie, solo per gli amici, una passione, non una speculazione», così come intanto scoprivano la comodità delle scarpe di cuoio fatte a mano), d’inverno la casetta «minimal» in montagna, la barca a veleggiare per il Mediterraneo d’estate, perché «il turismo di massa, che orrore», e insomma, e dunque, che il popolo affollasse i tram, le metropolitane e i treni dei pendolari e non li seccasse più di tanto, perché loro dovevano pensare, dare la linea, esplorare le contraddizioni del capitalismo, in attesa di farle esplodere... Quando la televisione cominciò a riempirsi di spazzatura e il cinema di pierini scoreggioni, restarono entusiasti. Ma sì, che si divertisse anche il popolo, la magia del trash, il cult e lo stracult di Giovannona coscialunga, anche Veltroni era d’accordo.
Sempre di più la sinistra politica e intellettuale è divenuta una riserva indiana, attaccata ai propri privilegi, alla difesa del proprio status quo. Si attestava a Capalbio, si voleva ecologica, ma si scopriva infastidita per la raccolta differenziata, lasciava intere regioni sprofondare nella monnezza, ma si appassionava al buco dell’ozono, spostava sempre il problema «altrove», trovava sempre che c’erano «altre priorità», altri «ma anche» con cui tenere insieme tutto e il suo contrario. Più perdeva consenso e più scuoteva la testa infastidita, questo popolo che non si faceva più guidare e per di più sudava, questo popolo che non si accontentava, non praticava la solidarietà, aveva paura dello straniero, loro che il filippino ce l’avevano in casa, perché la serva era roba da padroni, ma il collaboratore domestico multiuso, come insegna l’illuminato patron del Premio Grinzane, dà un’idea della lungimiranza del progresso.
Chiusi nelle loro confortevoli abitazioni, retribuiti con contratti a tempo indeterminato, nelle aziende di Stato, nell’amministrazione pubblica e negli uffici-studi, nelle case editrici e nelle università e, se andava male, nelle scuole ma con annesso distacco sindacale, guardavano quel popolo che si sfaldava e, sbadigliando, lo invitavano a resistere. Certo, gli alloggi popolari erano una vergogna, ma non era forse all’opera una classe di architetti che fra il Corviale di Roma, le Vele di Napoli, lo Zen di Palermo aveva assicurato al popolo una dimensione abitativa rivoluzionaria? Certo, c’erano i campi nomadi, la microcriminalità, lo spaccio di droga, ma il popolo non doveva essere egoista, capire che la devianza è una malattia sociale, drogarsi un disagio esistenziale e poi, l’antica civiltà dei gitani, il fascino dei carrozzoni e degli «zingari felici», soggetti deboli, da difendere, non da offendere, stare con gli umili, insomma, con gli umiliati e offesi.
Lo dicevano dalle loro comodità dei centri storici, buona musica nello stereo, l’ultima guida dello slow food dove si diceva che in fondo «la vita è sugna», nel senso del grasso di maiale... Avevano imparato anche loro a bere del buon vino (più tardi sarebbero approdati ai vigneti, «poche bottiglie, solo per gli amici, una passione, non una speculazione», così come intanto scoprivano la comodità delle scarpe di cuoio fatte a mano), d’inverno la casetta «minimal» in montagna, la barca a veleggiare per il Mediterraneo d’estate, perché «il turismo di massa, che orrore», e insomma, e dunque, che il popolo affollasse i tram, le metropolitane e i treni dei pendolari e non li seccasse più di tanto, perché loro dovevano pensare, dare la linea, esplorare le contraddizioni del capitalismo, in attesa di farle esplodere... Quando la televisione cominciò a riempirsi di spazzatura e il cinema di pierini scoreggioni, restarono entusiasti. Ma sì, che si divertisse anche il popolo, la magia del trash, il cult e lo stracult di Giovannona coscialunga, anche Veltroni era d’accordo.
Sempre di più la sinistra politica e intellettuale è divenuta una riserva indiana, attaccata ai propri privilegi, alla difesa del proprio status quo. Si attestava a Capalbio, si voleva ecologica, ma si scopriva infastidita per la raccolta differenziata, lasciava intere regioni sprofondare nella monnezza, ma si appassionava al buco dell’ozono, spostava sempre il problema «altrove», trovava sempre che c’erano «altre priorità», altri «ma anche» con cui tenere insieme tutto e il suo contrario. Più perdeva consenso e più scuoteva la testa infastidita, questo popolo che non si faceva più guidare e per di più sudava, questo popolo che non si accontentava, non praticava la solidarietà, aveva paura dello straniero, loro che il filippino ce l’avevano in casa, perché la serva era roba da padroni, ma il collaboratore domestico multiuso, come insegna l’illuminato patron del Premio Grinzane, dà un’idea della lungimiranza del progresso.
E poi, alla fine, come si permetteva questo popolo di votare e far vincere qualcun altro? Loro che erano abituati a stare al potere anche quando erano all’opposizione, e a stare all’opposizione anche quando erano al potere, loro che ogni due per tre si dimettevano da qualche cosa, dall’Italia, dalla Sinistra stessa, dalle Istituzioni, mai dalla poltrona... Alla fine si è chiuso il cerchio. Il Popolo è tornato bue. Ma alla sinistra politica e intellettuale ormai restano soltanto le corna.
di Stenio Solinas
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