Non se ne abbia a male Michele Serra ma è fin troppo ovvio che una mascotte dei parà, un cane da impegnare perfino nei funerali solenni nell’Italia di oggi, possa avere per nome Rommel. Fu Erwin Rommel, la “Volpe del Deserto”, a scolpire sulla pietra di El Alamein la sentenza che il Signore dei Mondi bacia con la sabbia, il vento e il silenzio di ogni alba sul deserto d’Iskandria: “Se il soldato tedesco ha stupito il mondo, il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco”.
A sbalordire il comandante germanico c’erano i paracadutisti italiani che scendevano dal cielo nel rabbuffo del piumaggio. E piovevano a grappoli i ragazzi di Bir El Gobi. E come Folgore dal cielo, i soldati della guerra perduta, planavano sul mare di polvere riscattando a mani nude la vergogna di un re in fuga e il tradimento della pregiata Marina (e Dio stramaledica i traditori). Daniele Lembo, che ha scritto per “Latina Oggi” il più bel pezzo sui sei caduti di Kabul, mi ha raccontato di aver incontrato ai funerali un paracadutista di ottantacinque anni. Un ragazzo imprigionato nel corpo di un vecchio, il parà. Un bellissimo giovane raggiante di rughe e capelli bianchi, splendido con la sua divisa coloniale, ancora integra, e con il basco in testa: “Nella Grande guerra”, gli ha detto il venerando guerriero, “si faceva il corpo a corpo. Io, nel deserto, il corpo a corpo non l’ho mai fatto. Quelli venivano avanti con i carri armati e io saltavo fuori da quella buca con la bottiglia di benzina”. Questa è la Folgore. Il coraggio contro l’acciaio. Bisogna capire il vecchio. Ma c’è da capire anche Lembo. Suo padre, per arrotondare il bilancio familiare, teneva la contabilità del cinema, al paese. Nel suo compenso era compreso l’ingresso libero in sala per i figli. Avrà avuto otto anni Lembo quando, eccezionalmente per una località di provincia, Minori, ebbe modo di vedere una pellicola di prima visione: “La battaglia di El Alamein”. La storia di due fratelli, un maresciallo dei bersaglieri e un tenente dei paracadutisti, immersi nella sabbia del deserto coi loro reparti. La scena finale del film mostrava i parà della Folgore nella veste di “cacciatori di carri”. Lembo s’innamorò dei “folgorini” guardandoli saltare fuori dalle buche, armati di bottiglie incendiarie, per dare l’assalto ai carri armati inglesi.
Coraggio contro acciaio, appunto. Fra le sabbie non c’è più il deserto perché ormai ci sono i morti. L’epigrafe del cimitero ad El Alamein è bellissima: “Sono qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore, fior fiore di un popolo e di un Esercito in armi. Caduti per un’idea, senza rimpianto, onorati nel ricordo dallo stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa fortuna, il cammino dell’onore e della gloria. Viandante arrestati e riverisci. Dio degli Eserciti, accogli gli spiriti di quesi ragazzi in quell’angolo di cielo che riserbi ai martiri ed agli Eroi”.
Entrato alle sedici in sala, ora della prima proiezione, Daniele rivide la pellicola fino all’ultima replica di mezzanotte. Oggi, in tutta Italia, un bambino che conosca questa pagina di storia non si trova. La sabbia che ci riempie la testa non è benigna come quella nel deserto di Alessandria e bisogna capire quella preside di una scuola di Roma che non ha voluto fare osservare il silenzio ai suoi scolari – “Piuttosto lo si faccia per i morti nel lavoro”. E bisogna capire pure quel prete in Lombardia che i sei caduti di Kabul li ha sputati – “maschioni mercenari fascistoidi”. L’Italia non esiste più e la Brigata Paracadutisti Folgore, tale è il nome esatto, è un’unità di fanteria leggera d’assalto che si descrive nel basco e basta. Il basco amaranto, uguale in tutto il mondo, è il segno di un’aristocrazia militare che affratella i nemici provenienti da ogni terra, sia essa la più remota. Il parà non conosce l’odio e quella preside e quel prete forse dovrebbero visitare la sede dell’Associazione dei Paracadutisti d’Italia, a Trieste, dove i vecchi soldati custodiscono nelle bacheche – quali cimeli, in ricordo dei gemellaggi – i brevetti scambiati coi loro camerati di ogni esercito: americani, inglesi, francesi, ungheresi, turchi, australiani, russi e tedeschi. Di volta in volta nemici o alleati. Hanno perfino i brevetti dei badogliani, quelli della “Nembo”. E in quella sede si venerano, accanto alle Medaglie d’Oro della Grande Guerra, anche le sacrissime bende del Sol Levante. Quelle dei guerrieri aviotrasportati nipponici. Ho usato la parola “camerata”, chiedo scusa, e se l’Italia non fosse quell’espressione geografica cui s’è ridotta ad essere, farebbe ridere il grande sforzo linguistico dell’eufemistico “commilitone”, invece c’è da piangere le lacrime del ridicolo, non proprio il massimo. Ed è una fortuna che resti una tromba a gridare il Silenzio per i caduti.
Il destino del parà è beffardo, e Salvatore Sottile, che fu paracadutista scelto in quel di Siena, a scanso di retorica, l’epopea parà la spiega al modo guascone: “Il parà è il più vulnerabile in azione, cade se deve cadere, sbriga la propria missione, ci mette sacrificio, dovere e lealtà e torna nei ranghi. Sicuramente non è quello che se ne va incontro agli applausi con la bandiera in trionfo”. I parà del 1978 – quando quelli morti oggi a Kabul non erano nati – si raccoglievano alla spicciolata. Alla visita medica un caporale entrava negli stanzoni della leva e chiedeva: “Chi viene nei paracadusti?”. Uno pronto ad alzare il culo dalla comoda branda della naja si trovava. E fare il parà negli anni ’70 era un modo per certificarsi peggiore gioventù, maschioneria fascistoide per come ancora oggi dice il famoso prete. Ovviamente una stupidaggine, questa: “Il dieci per cento dei Diavoli Neri”, ricorda oggi Sottile, “quelli della 15a compagnia, venivano da Lotta Continua. Per non dire dai Sorci Verdi. Tutti di estrema sinistra”. Fare il parà era anche il modo migliore per imparare qualcosa, anche mangiare due primi, due secondi, due porzioni di dolce e di frutta e però dimagrire di dodici chili tanto era grande il mazzo da fare. Fare il parà era quel sapere fare l’amore con l’MG, la mitragliatrice leggera, l’arma da portarsi nel lancio per buttarsi giù e vedere la terra venire incontro e non il contrario. Fare il parà è fare il lancio: il primo è una liberazione, il secondo è più ragionato, gli altri diventano un’orgia di concentrazione e di misura. Fare il parà ieri ma anche oggi e anche domani significa prendersi tutto quello che gli altri rifiutano: la cattiveria, la sfortuna, la morte (la preghiera del legionario: “Mon Dieu, donne moi ce qui reste…”). Se ci fosse l’Italia ci sarebbe un’Edith Piaf per i parà del tricolore, “Non je ne regrette rien” è il loro blasone preso a prestito dai cattivi, sfortunati e morti ammazzati legionari, ma come ci si presta e ci si scambia il basco tra i paracadusti di ogni dove. Ogni volta che sfilano i parà, dunque, ognuno ricordi questa canzone anche per loro. E’ la canzone che Tomaso Staiti di Cuddia, paracadutista, vuole che venga cantata al suo funerale. Essere parà significa avere un dio diverso e mentre gli altri se ne vanno con la bandiera in trionfo, i parà che possono anche chiedere e ottenere il permesso dal loro capitano di fare H24 per tenere in assedio la discoteca Pussycat zeppa di studentesse di Verona, i parà che per allegria possono – come fanno sempre – saltare dal secondo piano della caserma per ogni cambio di materasso, sono gli unici a sapere che il Col Moschin non è precisamente un colonnello che di cognome fa Moschin, ma il venerato Nono Reggimento d’Assalto, intitolato alla presa del Col(le) Moschin durante la I guerra mondiale. Quello degli incursori.
La peste del parà è la retorica, l’unico impasto che gli compete è la poesia. L’atto del lancio è poetico e Sergio Claudio Perroni, fustigatore di poetastri, già parà in quel di Livorno, interrogato, risponde. “Di poetico, ricordo:
-l’allora capitano Roberto Martinelli (poi generale comandante della Forza Multinazionale nel Sinai), che a ogni lancio si augurava che il paracadute incontrasse una corrente capace di tenerlo «in aria per sempre»;
- l’inno Baschi rossi e fregi d’oro, all’epoca cantato di nascosto in quanto vietato per sospetta apologia del fascismo («Siamo arditi, paracadutisti, e dal cielo ci lanciamo…»). Ma più poetico ancora era Paracadutista tu: “Pa-raca-dutista tu / che scendi di lassù so-prà l’infè-rno / Tu, conquisti ciò che vuoi / a fianco degli ero-i, che so-no ete-rni.”)
- i lanci dalla torre del sergente Toma, unico che in piazza d’armi sapesse lanciarsi «a x» dall’altezza massima, cioè diciotto metri (la «x» era la figura acrobatica più artistica e più pericolosa);
- l’allora tenente Marco Bertolini (oggi vicecomandante delle forze di coalizione a Kabul), che, per contare i sei secondi prima di verificare l’apertura del paracadute principale, anziché il conteggio di prammatica («1001, 1002 … 1006») ci suggeriva di recitare il mantra «sesso selvaggio a sassuolo» (anzi, essendo lui di Parma: «scescio scelvaggio a sciasciuolo»). Può sembrare prosaico, ma a metterlo in atto, appena schizzati fuori dall’aereo e ignari per quei secondi se il paracadute si sarebbe aperto o no, era poeticissimo;
- i parà schierati lungo il perimetro della piazza d’armi della caserma Vannucci a Livorno, per l’ultimo saluto a due commilitoni saltati in aria durante un’esercitazione: il silenzio glaciale rotto via via dal singolo schiocco delle mani sulle gambe di ogni parà che scattava sull’attenti al passaggio dei feretri;
- le meravigliose figlie del colonnello Malorgio”.
Nel poetico si annida anche il fattuale. E perciò il Perroni fattualizza: “Non è vero che la Folgore fosse una sentina di camerati. La domanda per parà la facevano molti ragazzi che, non potendo o non volendo schivare la leva, anziché passare quei dodici mesi a morir di noia in qualche casermaccia stantia preferivano farsi un po’ di sano mazzo con attività fisiche e sportive; non è vero che ci si menasse continuamente con la popolazione rossa di Livorno (o di Pisa, quand’eravamo alla SMIPAR, la scuola di paracadutismo, per prendere l’abilitazione al lancio): loro se ne fottevano di noi, noi ce ne fottevamo di loro o, al massimo, cercavamo – perlopiù invano – di fottergli le donne; molti paracadutisti, anche tra gli ufficiali di complemento, erano entrati nella Folgore solo perché si buscava paga più alta rispetto a quella degli altri corpi: c’erano in più l’«indennità di lancio» e l’«indennità di mensa» (quest’ultima era una specie di risarcimento in cibo per le energie profuse in tanta attività fisica; pagato mensilmente in quote alimentari di roba nutriente tipo parmigiano, cioccolata fondente, ecc.). Indennità che, per i raffermati, potevi mantenere solo facendo un numero minimo di lanci all’anno: ragion per cui in certi periodi vedevi i maresciallazzi panzoni e poltroni che diventavano improvvisamente operativi e andavano a far su e giù lanciandosi dall’elicottero per mettersi in pari con la quota minima”.
Ancora un po’ di poesia: “Un po’ della poesia del ‘basco rosso’ se ne andò, almeno per noi, quando fu consentito di portarlo a tutti i militari della Folgore, non solo ai paracadutisti: ossia anche ad autieri e altri soldati che non avevano mai messo piede su un aereo né mai se n’erano lanciati. Quando scoppiò lo scandalo degli Hercules, ossia i C-130 Lockheed, nella Folgore serpeggiò il terrore che sospendessero le consegne dei tanto sospirati C-130 costringendoci a continuare a lanciarci da quelle che davvero erano ‘bare volanti’, ossia i C-119: aerei che spesso ci mettevano tre o quattro tentativi prima di riuscire a decollare col loro carico di parà da lanciare”.A
ltro che maschioni mercenari fascistoidi per come dice il bravo prete (Dio stramaledica i buoni propositi). Non c’è stipendio in grado di convincere una persona a saltare dall’aereo, perché nessuno ha la sicurezza che il fiore bianco, quel paracadute, con tutto il scescio scelvaggio a sciasciuolo, si aprirà. E poi: quando ci sia arruola in un reparto di assalto, prima o poi quell’assalto si farà.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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