C'è un aspetto «miracoloso» della comunicazione? Oppure mostruoso, da monstrum? Giriamo le domande al professore Mario Perniola, autore di «Miracoli e traumi della comunicazione» e tra i vincitori della prima edizione del Premio Francesco De Sanctis (Sezione eni-immaginare il futuro) col saggio «Miracoli e traumi della comunicazione» e qualche anno fa di «Contro la comunicazione» (entrambi Einaudi). «Rifletto nel mio nuovo volume sugli ultimo 40 anni. Per comprendere quanto è avvenuto, le categorie tradizionali della modernità sembrano inadeguate: perciò introduco nozioni che come il "miracolo" e il "trauma" appartengono più all'orizzonte religioso e psicologico che a quello scientifico e politico. Mi riconosco meno nella categoria del "mostruoso", che implica l'opposizione con una "normalità" che è andata via via logorandosi: tra il normale e il patologico non c'è soluzione di continuità».
Ma che cosa dobbiamo temere? Una comunicazione livellatrice, antidemocratica? Un mondo nuovo ad egemonia mass-mediatica con la dittature del Grande Fratello ipertecnologico? E questa tecnologia è alleata alla politica?
La politica è sempre più subordinata non alla tecnologia, ma alla plutocrazia. Uno dei motivi, l'enorme crescita del capitale di origine criminale, il dissolvimento delle categorie politiche tradizionali, il crollo dell'istruzione, il collasso dell'educazione familiare, della scuola e dell'università. Ad ogni modo preferisco che la plutocrazia si mostri invece di nascondersi dietro figure di paglia secondo quello stile di governo, peraltro anche illuminato per quanto riguarda la protezione delle lettere e delle arti, inaugurato da Cosimo de Medici nella Firenze del '400. Quanto alla tecnologia, l'accumulazione primitiva di capitale intellettuale ottenuta mediante un lavoro non retribuito che avviene in Internet costituisce un fenomeno impressionante. Infine la reazione occidentale all'11 settembre sembra diretta più a limitare le libertà dei popoli dell'Occidente che a combattere efficacemente gli autori di quell'attentato.
I libri (destinati al rogo) sono un'arma di libertà?
Sono i prodotti culturali più durevoli che esistano; da ciò deriva il prestigio che hanno goduto e che godono, a giudicare dall'aumento vertiginoso del loro numero. Ciò spiega anche l'ostilità che hanno suscitato e suscitano in chi ha una pulsione di morte particolarmente forte. Tale spinta verso l'autodistruzione si manifesta spesso con un vitalismo spontaneistico e forsennato, come avvenuto nella generazione degli anni Sessanta, quella della contro-cultura e della contestazione. Ma un aspetto essenziale del collasso verso cui si avvia l'Occidente è l'oscurantismo e l'odio verso la cultura. Questo ha almeno tre differenti matrici: l'anti-intellettualismo religioso, rinato nella forma del fondamentalismo, l'egualitarismo assoluto propugnato dalle ali estreme del comunismo (pensi agli Khmer rossi) e lo spontaneismo pedagogico, che si sottrae ad ogni responsabilità educativa.
Se un'avanzata civiltà della comunicazione tende (inevitabilmente?) ad esiti illiberali, quali le strategie di difesa per gli individui e le comunità, o per ciò che ne resta?
Negli ultimi quarant'anni la parola "libertà" è stata soppiantata da "liberazione", così come si è confusa la critica all'autoritarismo con la negazione di ogni autorevolezza. Il risultato è stato catastrofico. Il punto di arrivo della "liberazione sessuale" è la classifica delle pornostar, della "teologia della liberazione" è il trionfo delle sette evangeliche e dell'esoterismo. Nella scienza è avvenuto lo stesso processo: si è passati dall'anarchismo metodologico al businness delle riviste scientifiche americane che si reggono sull'impact factor e su altri criteri basati sulla manipolazione del credito scientifico. Perciò penso che oggi le strategie di difesa si configurino come lotte sui principi e sui metodi di valutazione anziché come liberazione da ogni autorevolezza.
La lezione del suo Maestro (Pareyson) e i suoi pensatori di riferimento (Nietzsche, Heidegger, Bataille) cosa le suggeriscono nel "deserto che cresce"?
Questi quattro pensatori spesso accomunati. Ma dal punto di vista filosofico, hanno poco a che fare l'uno con l'altro. Il "pensiero tragico" di Pareyson affonda le radici in Jaspers e si sviluppa nella parte finale della sua vita come una sfida sia al clericalismo dogmatico sia ai suoi allievi "postmoderni" Eco e Vattimo. Per Nietzsche e Heidegger "il deserto" non può più crescere perché ritengono che già ai loro tempi la civiltà occidentale sia entrata nella fase finale. L'opera di Bataille, poi, è una radicalizzazione del momento negativo della dialettica hegeliana, cui viene tolta ogni possibilità di superamento. Tuttavia c'è un aspetto che li accomuna: non si facevano nessuna illusione sulle "sorti magnifiche e progressive" dell'umanità.
(di Mario Bernadi Guardi)
(di Mario Bernadi Guardi)
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