Adesso che quest’ultimo volume esce per la prima volta nel nostro Paese (l’editore è Guanda, pagg. 288, euro 20, la traduzione, come sempre esemplare, è di Alessandra Iadicicco), il trittico jüngeriano è finalmente disponibile nella sua interezza e si presta ad alcune considerazioni. La prima, in parte accennata, ha a che fare con quello che si potrebbe definire il «destino tedesco» del suo autore. «Che io stia dalla parte dei vinti è incontestabile. Non si può - né si vuole - rovistare nella propria patria. Fa parte del nostro destino, del compito che ci viene assegnato. In Spitteler, di cui sto leggendo Prometeo ed Epimeteo, ho trovato un passo interessante: “E nessuno che non sia scandalizzato della propria specie, ha l’aria di essere uno qualsiasi visto dall’altra parte”».
È questa consapevolezza, e questa assunzione di responsabilità, che gli permette di vedere i vincitori senza lo specchio deformante di chi, illudendosi di farne parte, li giustifica a prescindere, sempre e comunque incarnazione del Bene. «È in pieno svolgimento l’espulsione dei tedeschi dai Sudeti. Si sente parlare di stragi efferate. La notizia è arrivata dall’emittente di Londra, della quale negli ultimi anni ho più di una volta condiviso lo sdegno per gli orrori consumati dalla nostra parte. Che cosa pensare però del compiacimento che, con tutta evidenza, trapelava dalla comunicazione di queste nuove nefandezze? Mentre la voce di questi grassi consumatori di breakfast mi straziava il cuore, vedevo la miseria senza nome sulle strade di confine. L’umanità faziosa è più spregevole della barbarie». E ancora: «La tesi della colpa collettiva ha due diramazioni che corrono l’una accanto all’altra. Il vinto può dirsi: devo sopportare per mio fratello e la sua colpa. Per il vincitore essa costituisce il preliminare pratico prima del saccheggio indifferenziato. Passata quella soglia, può emergere un interrogativo pericoloso: il fratello aveva poi proprio così torto? Simili pensieri mi sono venuti in mente leggendo l’appello di un piromane assassino di nome Ehrenburg all’Armata rossa, nel quale si dice che non si dovrebbe risparmiare neanche il figlio nel ventre della madre, e si promette ai membri dell’Armata la donna tedesca come bottino». Infine: «Alle vittime degli anni scorsi, per quanto orribili possano essere le carceri in cui si sono spente, almeno si è pensato con compassione e affetto dall’altra parte del pianeta. Gli innumerevoli senza nome che oggi subiscono la stessa sorte non hanno nemmeno un difensore. Il loro rantolo mortale rimane in tremenda solitudine. E là dove, a dispetto di tutte le censure, la loro sofferenza trapela appena, ecco che suscita un diabolico sentimento di soddisfazione».
Vinto, Jünger lo era doppiamente. Era stato fra quelli che, all’indomani della Grande guerra, avevano intellettualmente seminato e arato il campo tedesco nel nome della riscossa sociale e nazionale contro il punitivo trattato di Versailles, contro l’imbelle e corrotta repubblica di Weimar. Solo che il raccolto l’aveva incamerato Hitler... «Il mio giudizio è passato da “quell’uomo ha ragione” a “quell’uomo è ridicolo” a “quell’uomo è inquietante”. Senza dubbio ne avevo sottovalutato il talento. La sua scatenante forza dinamica, il suo istinto per le formule, le semplificazioni, che assecondavano la tendenza dell’epoca delle masse e delle macchine, erano straordinari, specie se si pensa alla sua provenienza. In tal senso i suoi oppositori avevano parecchio da imparare da lui. Le preoccupazioni tradizionalistiche, estetiche, morali inducevano a sottovalutare il fenomeno, come pure il mero intelletto».
Non era stata solo sottovalutazione intellettuale. Il disincantato cantore delle «tempeste d’acciaio» della prima guerra mondiale, il teorico della «mobilitazione totale» e del «milite del lavoro», l’operaio-guerriero dell’età della tecnica, si era visto superato dal proprio tempo. «Osservando i reperti della Rivoluzione francese al musée Carnevalet, per esempio la ghigliottina fatta di ossa umane, si avverte sempre un certo brivido, come nel gabinetto degli orrori. Oggi ci sono atti che trattano l’omicidio come una faccenda amministrativa: gli schedari, le fotografie, i flash. Allora anche il male viene colto dallo svanimento, è reso meccanico e sminuito. I malvagi hanno perso la faccia, fisiognomicamente sono a un livello molto inferiore di un Danton, di un Robespierre, perfino di un Marat. Si vedono volti da funzionari, come quello di Himmler». È stato sì in grado di teorizzare «un potere assoluto», ma rimane spiazzato dal fatto che chi lo conquista «al tempo stesso e al di là di questo non crede di poter rinunciare alle risorse criminali e inizia a lavorare nel buio». Sa benissimo, con Eraclito, che «le lingue dei demagoghi sono affilate come coltelli squartatoi», ma al mondo come una gigantesca macelleria non era arrivato.
Il «destino tedesco» di Jünger sta anche nel ritenersi l’ultima risposta a una «tendenza mondiale orientata a sinistra, come una corrente del golfo, da 150 anni», una corrente rivoluzionaria universale in cui la destra è stata sempre in subordine e la Germania in fondo l’ultimo anello della catena a cedere. La «guerra civile mondiale» ha fatto il resto, e ciascuno, più o meno consciamente, sapeva che il vincitore non avrebbe fatto prigionieri. Da qui l’eccedere nella difesa come nell’offesa. Ma altresì significa «soffrire di un tempo che mi è estraneo, senza però pretendere il diritto di essere escluso da questo soffrire». È un’immagine che riprende da una lettera di Saint-Exupéry, scrittore francese e suo avversario in guerra. Non c’è contraddizione, e del resto una sera a colloquio con Picasso nella Parigi occupata si era sentito dire: «Noi due, qui seduti come stiamo, potremmo trattare e concludere la pace questo pomeriggio. La sera gli uomini potrebbero accendere le luci». L’idea di un’«amicizia cavalleresca» è sempre stata sua, così come la consapevolezza «di una legge secondo la quale debbono cadere proprio coloro che per nobili principi volevano raggiungere l’amicizia fra i popoli, mentre i volgari affaristi la fanno franca».
Nel chiuso del suo studio, Jünger difende «una patria spirituale, una residenza per lo spirito. La poesia domina l’universo in modo molto più profondo e durevole di qualsiasi sapere e di qualsiasi politica. I poeti donano i grandi rifugi, i veri alberghi. Ecco perché, laddove essi manchino, crescono deserti spaventosi». Lo soccorre l’idea che le nostre azioni possiedano una conclusione nell’assoluto, al di là della loro riuscita o del loro fallimento. Sono come frecce scoccate con l’arco della vita, ma, essendo tese anche dalla forza dell’amore, puntano a un proprio obiettivo nell’invisibile. C’è sempre un secondo destinatario cui sono indirizzate... «Un’offerta si è compiuta, anche se nessuno la leggerà. Perché intimamente è cosa fatta». È una fragile eppure potente consolazione, piccola-grande luce nell’insensato cammino della storia.
(di Stenio Solinas)
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