Com’è la morte vista con gli occhi di un bambino? Del video sul delitto di camorra mi è rimasta impressa la curiosità del bambino in braccio a suo padre davanti al corpo ucciso. Era l’unico che guardava quel corpo in terra. Era forse l’unica traccia di umanità in quel filmato. Mi sono messo nei suoi occhi e ho provato a ricordare cosa fosse la morte con gli occhi estranei di un bambino, quando non c’era la morte pagliaccia di Halloween.
Tra le crudeltà del mondo passato ce n’era una più crudele di tutte: mandare i bambini dell’orfanotrofio ad accompagnare i morti ai funerali sontuosi. Assegnavano quei bambini in sorte alla morte, quasi che la perdita precoce dei genitori non fosse un dolore da alleviare ma una specie d’iscrizione in tenera età al circolo funebre e ai loro macabri rituali. Avevano perduto pure l’elementare diritto di bambini a spaventarsi della morte. Che sadismo costringerli a seguire feretri di sconosciuti e pregare per loro in virtù d’un vampirismo religioso; la convinzione magica che la preghiera di anime innocenti, pur forzata e svogliata, giovasse in modo speciale all’anima del morto privilegiato. Un’ingiustizia di classe più atroce di ogni sfruttamento minorile. I bambini poveri avevano almeno una madre, un padre e il calore di una casa, si perdevano tante cose concesse ai benestanti, ma le essenziali no; tutto poi è prezioso nella povertà, il rozzo giocattolo costruito con le proprie mani, il pane e pomodoro, le scarpe del fratello grande passate al piccolo. L’orfano viveva la stessa povertà, però privato di una famiglia e di una casa, e costretto ad una precoce dimestichezza con la morte, nel nome di quella tragica familiarità che gli aveva assegnato la sorte. La pietas verso il morto si nutriva di crudeltà verso quei bambini. Ma ingiusta era pure verso i morti poveri che non potevano permettersi il biglietto per il paradiso, con messe solenni in suffragio e preghiere corali d’infanzia.
Da bambino fui educato a rimuovere la morte, i suoi segni e i suoi riti. I bambini non vanno ai funerali, stanno lontani dalla morte. Sicché vedevo i morti e i loro congiunti come un’etnia distinta da noi vivi; consideravo i neri segni del lutto come l’appartenenza ad un’altra razza, di coloro che nascono con la morte impressa e sono suoi familiari. Nelle preghiere della sera, all’Ave Maria omettevo perfino adesso e nell’ora della nostra morte amen, sostituendo con ora e sempre, amen. Tra le prime esperienze indirette della morte ricordo un 30 agosto di tanti anni fa, la morte della madre di un amico che abitava al piano sotto il nostro. Ricordo quel pomeriggio con la salma in linea d’aria a tre metri da me, sotto la stanza in cui ero disteso a letto alla controra; non riuscivo a giocare, la realtà risucchiava l’immaginazione, vivevo un raccolto e muto orrore guardando il pavimento: mi dicevo, se fosse di vetro, se ci fosse una botola o una feritoia, mi troverei nella stanza della morta. Temevo le mosche come messaggere e reduci di quella dolorosa vicinanza, perché immaginavo che si fossero posate sul corpo della morta o sui volti tumefatti di lacrime dei suoi famigliari. Quella fisica prossimità con la morte mi sgomentava, come l’irruzione di un mistero tremendo tra le pareti domestiche, sotto il pavimento. Camminavo sopra la morte, fingendo noncuranza solo grazie a pochi centimetri d’ipocrisia fatta di cemento e mattoni. Fu un giorno doloroso, fino a che sentii scendere tra le scale la bara, intrasentii qualche pianto e intravidi il carro funebre sotto il portone di casa mia; un portone listato, con un panno funebre di quelli che vedevo nelle case dei morti, ed un tavolino per raccogliere firme di cui non capivo il senso, come l’affiliazione alla confraternita del dolore. Capii di averla scampata, provvisoriamente fortunato ad avere i genitori in vita, ma non esente dalla mortalità; capii che non c’erano due razze diverse d’uomini, quelli del lutto e quelli della vita, ma la cosa a turno ci riguarda tutti.
Poco dopo varcai per la prima volta con la mia classe il cimitero, dove incontrai un compagno di scuola che aveva perso sua madre e faceva quasi gli onori di casa. Lopolito Pasquale mi parve un bambino diventato d’un colpo adulto; portava le cicatrici del dolore nello sguardo e aveva una dimestichezza con i loculi, scherzava con le tombe e faceva un gioco macabro: avvicinava i suoi occhi ai tuoi fino al toccarsi delle fronti e ai due lati faceva buio con le mani: così, diceva, ti faccio conoscere la Morte. Alla luce del sole, io cercavo di trovare nelle sue pupille tracce del suo mistero doloroso, come se avesse una retina estroversa in cui si fossero impresse le immagini del suo lutto. Da un verso lo consideravo un segnato, un contaminato, quasi un «maledetto» dalla sorte; ma dall’altro lo invidiavo, perché aveva attraversato il tunnel della morte, era vaccinato, aveva superato la prova e il guado, come in una precoce prova iniziatica. In quella visita collettiva mi tenni lontano dal gentilizio di famiglia, quasi a rimarcare la mia estraneità alla città dolente, come la chiamava dantescamente mia madre.
Non avevo avuto esperienza famigliare della morte, i miei nonni erano morti prima della mia nascita. Quando uscii dal camposanto avvertii la dolce carezza della vita, amai il viavai, i traffici e i negozi, i rumori e perfino le sguaiate frasi dei ragazzi di strada; andai a giocare al pallone, divorai le castagne arrostite e fui felice di sentire a casa il consueto intreccio di voci, piatti e posate, e quell’animazione di una tavola composta da due genitori quattro fratelli e due zie vacantine. Un bambino smette di giocare quando capisce che la morte riguarda tutti, lui compreso. La morte fa diventare adulti e avvicina vecchi e bambini, come quando s’incrociano allo spettacolo i primi entranti e gli ultimi uscenti. Perché la morte, oltre che solitaria, è anche teatrale, come sanno le grandi civiltà che inscenarono cerimonie di morte. E a teatro riduce infine la vita, come sanno le grandi e le infime filosofie. Ma nei paesi in preda alla camorra la morte è solo la carcassa di uno scarafaggio che un attimo prima aveva sembianze e movenze umane.
(di Marcello Veneziani)
Nessun commento:
Posta un commento